Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2005 tenuta in occasione della conferenza stampa del Presidente Annibale Marini del 9 febbraio 2006 (*)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(*) a cura di M. Bellocci e P. Passaglia

N.B. Sono stati omessi i grafici.


 

Indice sommario

 

Introduzione

1.1. Il totale delle decisioni 1

1.2. Il rapporto tra decisioni ed atti di promuovimento. 4

1.3. La forma delle decisioni 6

1.4. La scelta del rito. 9

1.5. I tempi delle decisioni 11

1.6. Rinvio. 12

2. Un anno di attività. 13

Parte I

Profili processuali

Capitolo I

Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

1. Premessa. 15

2. I giudici a quibus e la legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale  15

3. Il nesso di pregiudizialità tra giudizio  a quo e  giudizio  di legittimità  costituzionale  16

4. L’ordinanza di rimessione. 17

5. La riproposizione delle questioni 19

6. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale. 19

7. Il parametro del giudizio. 20

8. La questione di legittimità costituzionale ed i poteri interpretativi dei giudici comuni 20

9. Il contraddittorio di fronte alla Corte. 22

10. La trattazione congiunta e la riunione delle cause. 24

11. Le decisioni della Corte. 25

11.1. Le decisioni interlocutorie. 26

11.2. Le decisioni processuali 26

11.3. Le decisioni di rigetto. 28

11.4. Le decisioni di accoglimento. 29

12. Sindacato di costituzionalità e discrezionalità legislativa. 31

Capitolo II

Il giudizio in via principale

1. Premessa. 33

2. Il ricorso. 33

2.1. La notifica, il deposito ed i termini per ricorrere. 33

2.2. I rapporti tra il ricorso e la delibera recante la determinazione all’impugnazione  34

2.3. I contenuti del ricorso. 35

3. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale. 38

4. Il parametro di costituzionalità. 38

5. L’interesse a ricorrere. 39

6. La riunione e la separazione delle cause. 40

7. Il contraddittorio di fronte alla Corte. 41

8. Le decisioni della Corte. 43

8.1. Le decisioni interlocutorie. 43

8.2. L’estinzione del giudizio. 44

8.3. Le decisioni processuali 44

8.4. Le decisioni di rigetto. 45

8.5. Le decisioni di accoglimento. 45

9. Il controllo degli statuti ordinari ai sensi dell’art. 123 della Costituzione. 47

Capitolo III

Il giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni

1. Premessa. 51

2. I soggetti del conflitto. 51

3. La deliberazione del ricorso. 51

4. Gli atti impugnati 52

5. I parametri del giudizio. 53

6. La materia del contendere ed il «tono costituzionale» del conflitto. 54

7. La riunione dei giudizi 56

8. Le decisioni della Corte. 56

8.1. Le decisioni interlocutorie. 56

8.2. L’estinzione del giudizio. 56

8.3. Le decisioni di inammissibilità. 57

8.4. Le decisioni di merito. 57

Capitolo IV

Il giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato

Sezione I

La fase dell’ammissibilità

1. Premessa. 58

2. I soggetti del conflitto. 58

3. I profili oggettivi 60

4. Il ricorso per conflitto. 62

5. Le decisioni della Corte. 62

Sezione II

La fase del merito

1. Premessa. 64

2. I soggetti del conflitto. 64

3. I profili oggettivi 65

4. Il ricorso per conflitto. 67

5. La riunione dei giudizi 70

6. Le decisioni della Corte. 70

Capitolo V

Il giudizio di ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo

1. Premessa. 72

2. Il contraddittorio di fronte alla Corte. 72

3. Le decisioni della Corte. 72

3.1. La decisione di inammissibilità. 72

3.2. Le decisioni di ammissibilità. 73

4. I rapporti tra giudizio di ammissibilità del referendum  e controllo di  costituzionalità  74

Parte II

Profili sostanziali

Capitolo I

Principî fondamentali

1. Il principio personalistico. 75

2. I principî di eguaglianza e di ragionevolezza. 76

2.1. Il principio di eguaglianza. 77

2.2. Il principio di ragionevolezza. 85

3. Il principio di laicità dello Stato. 90

4. La condizione giuridica dello straniero. 90

4.1. Il diritto all’unità familiare. 90

4.2. L’espulsione dello straniero. 91

4.3 La regolarizzazione del lavoratore extracomunitario. 93

4.4. Il diritto alla fruizione dei servizi pubblici 93

4.5. Questioni non decise nel merito. 94

Capitolo II

Diritti e doveri degli individui

Sezione I

I rapporti civili

1. La libertà personale. 96

2. La libertà di circolazione. 98

3. La libertà di manifestazione del pensiero. 98

4. I principî costituzionali in materia penale. 98

4.1. Il principio di offensività. 98

4.2. La discrezionalità del legislatore nella determinazione del trattamento sanzionatorio  99

4.3. I principî di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena  101

5. I principî costituzionali in materia processuale. 103

5.1 Il diritto di azione. 103

5.2. Il diritto di difesa. 103

5.3. La difesa dei non abbienti 105

5.4. La riparazione per l’ingiusta detenzione. 106

Sezione II

I rapporti etico-sociali

1. Il diritto alla salute. 107

2. La tutela della famiglia. 108

2.1. La tutela del minore e il principio di «responsabilità genitoriale». 108

2.2. La tutela del minore nella disciplina dell’adozione. 109

2.3. La tutela dei disabili all’interno della famiglia. 110

2.4. La tutela dell’incapace. 110

2.5. La tutela della famiglia di fatto. 111

Sezione III

I rapporti economici

1. La tutela del lavoro. 112

2. La previdenza. 117

3. L’autonomia privata e l’iniziativa economica. 121

3.1. I rapporti contrattuali 121

3.2. Gli esercizi commerciali 123

3.3. I rapporti societari 123

Sezione IV

I rapporti politici

1. Il diritto di voto. 125

2. Rinvio. 125

Sezione V

I doveri di solidarietà

1. Le prestazioni patrimoniali 127

1.1. La disciplina dei tributi 128

1.2. I benefici fiscali 132

1.3. Il condono fiscale. 134

2. La difesa della patria. 135

Sezione VI

La tutela dei diritti nella giurisdizione

1. Il procedimento civile. 136

1.1. Notificazioni 136

1.2. Introduzione del giudizio e competenza. 137

1.3. Imparzialità e terzietà del giudice. 138

1.4. Il procedimento di esecuzione forzata. 139

1.5. Il giudizio di cassazione. 140

1.6. Le controversie in materia di circolazione stradale. 140

1.7. Le controversie in materia di spese di giustizia. 142

1.8. Le procedure concorsuali 144

2. Il procedimento penale. 145

2.1. Il giusto processo. 145

2.2. Le indagini preliminari 147

2.3. La custodia cautelare. 150

2.4. Le intercettazioni telefoniche. 150

2.5. La prova testimoniale. 151

2.6. L’assenza e la contumacia dell’imputato. 151

2.7. I riti alternativi 152

2.8. Il procedimento di esecuzione. 153

2.9. Il procedimento davanti al giudice di pace. 153

3. Il contenzioso tributario. 155

Capitolo III

L’ordinamento della Repubblica

Sezione I

L’ordinamento dello Stato

1. Il Parlamento. 157

1.1. La disciplina dell’elettorato passivo dei parlamentari 157

1.2. L’insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari 157

1.3. Le immunità previste  dal  secondo comma dell’art. 68: le intercettazioni «indirette»  159

1.4. Esercizio della giurisdizione e svolgimento dei lavori parlamentari 161

2. La funzione normativa. 163

2.1. La riserva di legge. 163

2.2. Le leggi di interpretazione autentica e le (altre) leggi retroattive. 164

2.3. Il referendum abrogativo (rinvio) 166

2.4. La delegazione legislativa. 166

2.5. La decretazione d’urgenza. 173

2.6. La delegificazione. 174

2.7. Le fonti esterne (rinvio) 175

3. Il Presidente della Repubblica. 175

4. Il Governo. 175

5. La pubblica amministrazione. 175

5.1. Il principio di buon andamento. 175

5.2. Lo status dei funzionari pubblici 179

5.3. L’accesso ai pubblici uffici 180

5.4. L’amministrazione sanitaria. 182

6. La giurisdizione. 184

6.1. Il principio di indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale. 184

6.2. Rapporto fra giurisdizioni 184

Sezione II

Le autonomie territoriali

1. Premessa. 186

2. La legislazione regionale ed i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. 186

3. Il riparto di competenze legislative. 188

3.1. Le materie di competenza esclusiva dello Stato. 188

3.1.1. «Politica estera». 188

3.1.2. «Immigrazione». 189

3.1.3. «Difesa». 190

3.1.4. «Tutela della concorrenza». 192

3.1.5. «Sistema tributario e contabile dello Stato». 195

3.1.6. «Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali»  196

3.1.7. «Ordine pubblico e sicurezza». 198

3.1.8. «Giurisdizione e norme processuali». 198

3.1.9. «Ordinamento civile». 199

3.1.10. «Ordinamento penale». 205

3.1.11. «Determinazione  dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». 205

3.1.12. «Norme generali sull’istruzione». 205

3.1.13. L’operare congiunto delle competenze in materia di «ordinamento civile» e di «previdenza sociale». 208

3.1.14. «Coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale». 210

3.1.15. L’operare congiunto delle competenze in materia di «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» e di «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale». 211

3.1.16. «Tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema». 213

3.1.17. «Tutela […] dei beni culturali». 222

3.2. Le materie di competenza concorrente. 223

3.2.1. «Tutela e sicurezza del lavoro». 223

3.2.2. «Istruzione». 225

3.2.3. «Professioni». 228

3.2.4. «Tutela della salute». 230

3.2.5. «Governo del territorio». 233

3.2.6. «Valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali». 235

3.2.7. L’operare congiunto delle competenze in materia di «tutela della salute» e di «governo del territorio». 235

3.2.8. L’operare congiunto delle competenze in materia di «governo del territorio» e di «ordinamento della comunicazione». 239

3.3. Le materie di competenza residuale delle Regioni 240

3.3.1. «Formazione professionale». 240

3.3.2. «Artigianato». 241

3.3.3. «Trasporto pubblico locale». 242

3.3.4. «Comunità montane». 243

3.4. La «concorrenza di competenze». 245

3.5. Le «materie-valore». 250

3.6. Le materie attratte in sussidiarietà dallo Stato. 250

4. Il principio cooperativo. 271

5. Il potere estero delle Regioni 275

6. Le funzioni amministrative. 275

7. L’autonomia finanziaria. 278

7.1. La potestà normativa in tema di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». 278

7.2. La disciplina dei tributi 284

7.3. Gli interventi finanziari diretti dello Stato. 285

7.4. Il demanio regionale. 287

8. I poteri sostitutivi 287

9. I ricorsi decisi sulla base del Titolo V nel testo anteriore alla riforma del 2001. 288

10. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome. 296

 


Introduzione

1. Alcuni dati statistici

1.1. Il totale delle decisioni

Il totale delle decisioni (numerate) rese dalla Corte costituzionale nel 2005 è di 482, cui dovrebbero aggiungersi le ordinanze non numerate (quali, ad esempio, quelle che si pronunciano in merito all’ammissibilità di interventi di terzo).

Il valore si pone apprezzabilmente al di sopra delle 446 decisioni registrate nel 2004 (le 36 decisioni segnano un incremento pari all’8,07%), proseguendo nella tendenza alla crescita di decisioni riscontrata nel 2004, dopo la netta flessione del 2003 (lo scorso anno, il tasso di incremento era stato del 16,75%).

Questa tendenza ha fatto sì che il valore del 2005 si ponesse al di sopra della media degli ultimi dieci anni, che si attesta a 473,5 decisioni annue. Ad ulteriore testimonianza della mole di attività svolta, deve poi sottolinearsi che le 482 decisioni del 2005 sono inferiori, nel periodo a partire dal 1996, soltanto ai dati del 2000 e del 2002 (con, rispettivamente, 592 e 536 decisioni), mentre sono leggermente superiori a quelli del 1997, del 1998 e del 1999 (in tutti e tre gli anni le decisioni rese sono state 471) e considerevolmente superiori ai dati del 2001 (447 decisioni), del 2004 (446), del 1996 (437) e del 2003 (382).

 

Altro dato che merita di essere analizzato, al fine di cogliere alcune caratteristiche di fondo dell’attività della Corte, è quello relativo alla suddivisione delle pronunce per tipi di giudizio.

Le 482 sono così ripartite: 314 nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale; 101 nel giudizio in via principale (per la prima volta dal 1988 questo tipo di giudizio supera la quota simbolica delle cento decisioni in un anno); 16 nel giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni; 46 in quello per conflitto tra poteri dello Stato, di cui 23 ordinanze emesse in sede di giudizio di ammissibilità e 23 decisioni rese nella fase di merito; 5 in sede di ammissibilità di richieste di referendum abrogativo; non constano, quest’anno ordinanze di correzione di errori materiali.

Questi dati confermano la preponderanza numerica del giudizio in via incidentale, le cui decisioni coprono il 65,15% del totale; il giudizio in via principale occupa il 20,95%, mentre i due conflitti si assestano, rispettivamente, a quota 3,32% e 9,54% (dato, quest’ultimo, che costituisce la somma del 4,78% della fase di ammissibilità e del 4,78% della fase di merito); il giudizio di ammissibilità delle richieste referendarie copre, infine, l’1,04% del contenzioso.

Il giudizio in via incidentale conferma, dunque, la propria predominanza numerica, ma conferma anche, nella sostanza, i dati percentuali del 2003 e del 2004, quando le decisioni sul totale avevano rappresentato, rispettivamente, il 65,18% ed il 64,13%. Se è vero che, rispetto al 2004, si è avuto un pur leggero incremento (l’1,02%, pari a 28 decisioni in più), è anche vero che il 2004 aveva rappresentato, in termini percentuali, il minimo storico mai raggiunto. I dati dei venti anni precedenti al 2003, d’altra parte, sono rimasti assai lontani, in essi oscillando il giudizio in via incidentale tra il 75 ed il 90% del totale delle pronunce, ed attestandosi su una media dell’83,64% per il periodo 1983-2002 (quest’ultimo anno presenta un valore assai prossimo alla media: 84,14%).

Discorso analogo, ma inverso. è da farsi per il giudizio in via principale, il quale, ancorato, per il periodo 1983-2002, ad una media del 7,29% (il 2002 si è posto leggermente al di sotto, con una percentuale di 5,60), con un picco negativo di 2,76% (nel 1998) ed uno positivo di 11,14% (nel 1988), ha conosciuto un notevole incremento a partire dal 2003, giungendo al 14,92% e, nel 2004, addirittura al 21,75%. La lieve flessione in termini percentuali del 2005 (-0,80%), peraltro corrispondente ad un aumento del valore assoluto (101 decisioni contro le 97 del 2004), conferma un dato scarsamente immaginabile sino a pochi anni fa, conseguente, evidentemente, alla crescita del contenzioso derivante dal nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione.

Per quanto attiene al conflitto tra Stato e Regioni e tra Regioni, il dato del 2005 segna una flessione dello 0,94% (pari a 3 decisioni in meno) rispetto al 2004 (quando la percentuale sul totale era stata del 4,26), che già si poneva al di sotto del dato del 2003 (6,02%).

In una valutazione relativa agli ultimi dieci anni, peraltro, il valore del 2005 si pone, sì, al di sotto della media (pari al 4%), ma sostanzialmente in linea con essa: prova ne sia il fatto che, in tre degli ultimi dieci anni (1997, 2000 e 2002), il dato percentuale del conflitto intersoggettivo è stato inferiore a quello registrato nel 2005. Il grafico che segue illustra queste risultanze:

Per quanto attiene ai conflitti tra poteri dello Stato, il dato comprensivo delle decisioni rese nelle due fasi del giudizio evidenzia un leggero aumento (dello 0,35%) rispetto al 2004, quando le decisioni erano state 5 in meno e la percentuale sul totale del 9,19. La media del decennio 1996-2005, che si attesta al 7,26% del totale delle decisioni, si pone nettamente al di sotto del dato del 2005, superato, in questo periodo, soltanto dall’11,51% del 2003.

Disaggregando le decisioni della fase di ammissibilità da quelle della fase di merito, il 4,78% di queste ultime, nel 2005, è nettamente superiore al 2,47% del 2004 (con un incremento di ben 12 decisioni) ed al 2,09% del 2003, nonché alla media dell’ultimo decennio (2,50%).

La percentuale di decisioni rese in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo mal si presta ad una valutazione in termini di trend, stante l’estrema volatilità del dato per anno.

1.2. Il rapporto tra decisioni ed atti di promuovimento

Il dato piuttosto elevato del n. di decisioni rese nel 2005 cresce notevolmente quando si vada ad esaminare il n. di giudizi definiti, alla luce del quale sembra di poter dire che è in via di definitivo «smaltimento» quell’arretrato formatosi essenzialmente nel 2003, e che nel 2004 era stato solo in minima parte diminuito.

Le ordinanze di rimessione emesse dai giudici a quibus, che nel 2004 erano state 1.094 (nel 2003 erano state addirittura 1.196), sono scese drasticamente, nel 2005, a 596. Contemporaneamente, le cause sollevate in via incidentale decise sono rimaste pressoché stabili, passando dalle 1.174 del 2004 alle 1.149 del 2005. Il saldo tra i giudizi definiti e gli atti di promuovimento pervenuti è dunque passato dalla quota di 80 del 2004 a quella di 553 del 2005 (si noti che, nel 2003, le 435 cause decise avevano condotto ad un saldo di -761).

Il parziale smaltimento dell’arretrato è ben testimoniato dal raffronto tra le cause pendenti al 1° gennaio e quelle pendenti al 31 dicembre 2005: 1.113 contro 560.

Decisamente positivi sono anche i dati relativi al giudizio di legittimità costituzionale in via principale. A fronte delle 101 sopravvenienze, la Corte ha deciso integralmente 133 ricorsi, mentre su altri 3 ricorsi, decisi parzialmente nel 2004 (in conseguenza della prassi seguita di separare le cause: di essa si darà conto nella sedes materiae), nel 2005 si sono avute altre decisioni, ma essi restano tuttora pendenti per alcune delle questioni poste. Il saldo positivo di 32 (escludendo dunque i ricorsi decisi parzialmente) è chiaramente superiore al dato di -9 del 2004 (116 ricorsi pervenuti e 107 interamente definiti, che salivano a 115 considerando quelli definiti parzialmente) ed a quello di -10 del 2003 (a fronte di 98 ricorsi prevenuti, solo 88 erano stati decisi, peraltro alcuni soltanto parzialmente).

Anche in questo caso, il confronto tra le pendenze all’inizio ed alla fine del 2005 segna un dato inequivocabilmente positivo: 152 contro 120.

Indiscutibilmente positivi sono anche i dati relativi ai conflitti intersoggettivi, che hanno visto 15 ricorsi promossi e 22 ricorsi decisi, con un saldo positivo di 7 ricorsi: il dato del 2004 era pressoché identico, con 16 ricorsi promossi e 22 definiti (saldo positivo di 6), mentre nel 2003 il saldo tra decisioni e sopravvenienze era stato ancor più elevato (15 ricorsi promossi contro 36 ricorsi decisi). Se al 1° gennaio 2005 i conflitti pendenti risultavano 44, alla fine dell’anno il dato è dunque sceso a 37.

L’unico ambito nel quale non si è avuta una diminuzione di pendenze nel corso dell’anno è quello del conflitto tra poteri dello Stato.

Per quanto attiene alla fase dell’ammissibilità, le 23 ordinanze rese hanno pareggiato i 23 ricorsi depositati (nel 2004, invece, ai 20 ricorsi avevano corrisposto 30 ordinanze), con il che il n. di conflitti ancora da delibare è rimasto invariato, a quota 12, tra il 1° gennaio ed il 31 dicembre 2005.

In ordine alla fase di merito, i 24 conflitti definiti non hanno eguagliato le 25 sopravvenienze, segnando così l’unico saldo negativo, per quanto di assai modesta entità (-1): i 40 conflitti pendenti all’inizio del 2005 sono così divenuti, alla fine, 41. Nel 2004, i dati erano stati, peraltro, ben più negativi, se è vero che gli 11 ricorsi decisi erano rimasti ben al di sotto dei 17 ricorsi promossi, con un saldo di -6; nel 2003, addirittura, a fronte di 22 ricorsi promossi, erano stati solo 8 i ricorsi decisi, con un saldo di -14.

Le 5 decisioni pronunciate in sede di giudizio di ammissibilità delle richieste referendarie hanno, ovviamente, esaurito le pendenze presenti al 1° gennaio 2005. Al 31 dicembre 2005 non constano richieste di cui giudicare l’ammissibilità.

1.3. La forma delle decisioni

Delle 482 decisioni, le sentenze sono state 198 e le ordinanze 284, pari, rispettivamente, al 41,08% ed al 58,92%.

Il dato, che vede una crescita della percentuale delle sentenze rispetto al 2004 (in cui le 167 sentenze hanno rappresentato il 37,44% del totale delle decisioni), pare confermare un trend già riscontrato nel confronto tra il 2004 ed il 2003, che aveva visto una crescita anche più pronunciata (nel 2003, le 134 sentenze ha costituito il 35,08% del totale delle decisioni). Parrebbe, allora, di potersi argomentare una certa quale inversione di tendenza rispetto a quella che aveva dominato gli anni novanta ed i primi anni del secolo in corso. In particolare, negli anni 1994-2002, la percentuale di sentenze, dall’iniziale 58,01 (picco massimo degli ultimi due decenni), era costantemente scesa (riducendosi, in un solo anno, dal 51,38% del 1997 al 36,94% del 1998) sino al 25,19%. L’inversione di tendenza è ancora lontana dal riportare il saldo percentuale delle sentenze sui livelli propri di buona parte degli anni novanta (tra il 1991 ed il 1997, la percentuale ha oscillato tra il 49,71% ed il 58,01%), assestandosi su livelli assimilabili – ma leggermente più elevati – a quelli degli anni 1987-1990, largamente coincidenti con la fase c.d. dello «smaltimento dell’arretrato» (i cui valori sono risultati compresi tra il 40,50% del 1990 ed il 37,25% del 1989).

Al di là di queste considerazioni di ordine generale, una particolare attenzione meritano i dati del 2005 disaggregati per tipo di giudizio: nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, 80 sono state le sentenze e 234 le ordinanze (percentuali: 25,48 e 74,52); nel giudizio in via principale, 85 le sentenze e 16 le ordinanze (percentuali: 84,16 e 15,84); nel conflitto tra enti territoriali, 14 le sentenze e 2 le ordinanze (percentuali: 87,50 e 12,50); nel conflitto tra poteri dello Stato, con riguardo alla fase di merito, 14 sono state le sentenze e 9 le ordinanze (percentuali: 60,87 e 39,13).

Più che la comparazione diacronica in termini percentuali (invero scarsamente significativa, a tal riguardo, potendosi constatare, con poche eccezioni, una sostanziale omogeneità dei dati rispetto agli ultimi anni), ciò che rileva è soprattutto il rapporto tra i tipi di giudizio. Avendo come riferimento le decisioni adottate con la forma della sentenza, deve sottolinearsi che, alla stessa stregua del 2004, anche nel 2005 il giudizio nell’ambito del quale è stato reso il maggior n. di sentenze non è stato il giudizio in via incidentale (come era accaduto invariabilmente sino al 2003), bensì il giudizio in via principale (alle 81 sentenze del giudizio in via principale avevano corrisposto 63 sentenze nel giudizio in via incidentale; già nel 2003, comunque, la distanza tra i due tipi di giudizi di legittimità costituzionale si era fortemente assottigliata: 54 sentenze nell’incidentale contro 48 nel principale).

Peraltro, operando un raffronto tra i due ultimi anni, può notarsi come, a fronte di una crescita contenuta (nell’ordine di 4 unità) delle sentenze nel giudizio di legittimità costituzionale in via di azione, si è verificata una crescita cospicua (di 17 unità) di quelle rese nel giudizio in via incidentale.

In termini percentuali, le sentenze sono state rese nel 40,40% dei casi in sede di giudizio in via incidentale, contro il 42,93% del giudizio in via principale (nel 2004, le percentuali erano, rispettivamente, il 37,72 ed il 48,50); a completare il quadro, le sentenze nei conflitti si sono assestate sul 7,07% sia per quello tra enti territoriali che per quello tra poteri, mentre le sentenze in sede di giudizio sull’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativi coprono il 2,53% del totale.

Con riguardo alle ordinanze, il giudizio in via incidentale ha confermato la sua assoluta centralità, coprendo l’82,39% del totale (nel 2004, era al 79,93%), contro il 5,63% del giudizio in via principale (nel 2004, 5,73%), lo 0,70% del conflitto intersoggettivo (nel 2004, 1,79%), l’8,10% della fase di ammissibilità del conflitto interorganico (nel 2004, 10,75%), il 3,17% della fase di merito (nel 2004, 1,08%).

1.4. La scelta del rito

Nel corso del 2005, la Corte ha tenuto 36 adunanze, di cui 18 udienze pubbliche ed altrettante camere di consiglio (nel 2004, le adunanze erano state 38, di cui 18 udienze pubbliche; nel 2003, 39, di cui 17 udienze pubbliche).

Le decisioni adottate a seguito di udienza pubblica sono state 186, mentre quelle che hanno definito congiuntamente giudizi trattati in camera di consiglio 293, con percentuali pari, rispettivamente, al 38,59 ed al 60,79. A questo dato, debbono aggiungersi 3 decisioni (0,62%) che hanno definito giudizi in parte trattati in udienza pubblica ed in parte in camera di consiglio (sentenze nn. 437 e 444, ed ordinanza n. 418).

Il dato segna una apprezzabile crescita della percentuale di decisioni adottate dopo l’udienza pubblica rispetto al 2004 (quando le 446 pronunzie si erano ripartite tra le 167 adottate dopo una udienza pubblica e 279 dopo una camera di consiglio, con percentuali rispettive del 37,44 e del 62,56), che era, a sua volta, decisamente superiore a quello del 2003 (anno nel quale delle 382 pronunce, 126 erano seguite ad una udienza pubblica e 256 ad una camera di consiglio, con percentuali rispettive del 32,98 e del 67,02).

Pur senza poter instaurare un parallelismo perfetto, può constatarsi come buona parte delle decisioni adottate a seguito di udienza pubblica abbiano avuto la forma di sentenza: delle 186 decisioni, 145 sono infatti sentenze (77,96%), mentre 41 sono le ordinanze (22,04%). Correlativamente, le ordinanze sono state la grande maggioranza delle decisioni adottate a seguito di una camera di consiglio: 242 ordinanze (82,59%) contro 51 sentenze (17,41%).

Disaggregando i dati per tipi di giudizio, è agevole constatare come il procedimento in camera di consiglio abbia connotato fortemente il giudizio in via incidentale: delle 314 decisioni rese, 248 lo sono state in camera di consiglio, 63 in udienza pubblica e 3 a seguito di trattazione «mista» (percentuali: 78,98; 20,06; 0,96). Da notare, altresì, è che a seguito di camera di consiglio sono state rese decisioni in gran parte aventi la forma di ordinanza (202, pari all’81,45% del totale; le sentenze sono state 46, ossia il 18,55%), mentre a seguito di udienza pubblica si riscontra un sostanziale equilibrio (32 sentenze e 31 ordinanze, pari, rispettivamente, al 50,79% ed al 49,21%).

Nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale, l’udienza pubblica ha visto – secondo consuetudine – una netta preponderanza delle decisioni rese a seguito di udienza pubblica: 94, contro le 7 adottate a seguito di camera di consiglio (percentuali: 93,07 e 6,93). Dopo una camera di consiglio, si è invariabilmente avuta una ordinanza, mentre dopo una udienza pubblica si sono pronunciate le 85 sentenze (90,43%) e 9 ordinanze (9,57%).

Dati sostanzialmente analoghi a quelli del giudizio in via principale si rintracciano per il conflitto tra Stato e Regioni o tra Regioni, in ordine al quale 15 delle 16 decisioni sono state pronunciate a seguito di udienza pubblica (93,75%; l’unica decisione emessa a seguito di camera di consiglio copre il 6,25% del totale). Le 14 sentenze sono state tutte pronunciate a seguito di udienza pubblica (93,33%), così come una delle due ordinanze (6,67%).

Relativamente al conflitto tra poteri dello Stato, tralasciando la fase dell’ammissibilità (svolta in camera di consiglio), la corrispondenza cui si accennava tra sentenze ed udienza pubblica, da un lato, ed ordinanze e camera di consiglio, dall’altro, è totale: le 14 sentenze sono state rese a seguito di udienza pubblica, così come le 9 ordinanze sono state pronunciate a seguito di camera di consiglio.

Finalmente, le decisioni sull’ammissibilità di richieste di referendum si configurano come eccezioni necessitate alla regola tendenziale riscontrata: il rito – sia pure assai particolare, come si dirà – è il rito camerale, mentre la forma della pronuncia è quella della sentenza.

1.5. I tempi delle decisioni

Nell’ambito di un contenzioso che può dirsi relativamente ingente, i tempi di decisione che sono propri della Corte costituzionale risultano ragionevolmente brevi. Di seguito si forniscono alcuni dati relativi ai singoli giudizi, dai quali emerge, peraltro, una certa differenziazione in termini di rapidità.

Nel giudizio in via incidentale, la media dei giorni che sono intercorsi tra la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’ordinanza di rimessione e la data di trattazione in udienza pubblica o in camera di consiglio è di 291,91. Sulle 1.149 ordinanze di rimessione per le quali la Corte ha reso una pronuncia, sono state 12 quelle che hanno dovuto attendere oltre 1.000 giorni per essere trattate (il dato più elevato, di 1.323 giorni, riguarda l’ordinanza di rimessione che ha dato origine all’ordinanza n. 241), mentre in 18 casi il periodo intercorso è stato inferiore ai 50 giorni (in quattro casi si è raggiunto il periodo minimo di 35 giorni).

Nel giudizio in via principale, il dato cresce rispetto a quello del giudizio in via incidentale. Dalla data di pubblicazione dei ricorsi alla data di trattazione sono passati, infatti, 672,97 giorni, in media, con punte di quasi 3.000 giorni (2.946, per due dei ricorsi decisi con la sentenza n. 272). Se si eccettuano, tuttavia, i 22 ricorsi più risalenti, la cui trattazione era stata oggetto anche di plurimi rinvii, tutti gli altri si sono mantenuti entro i 1.000 giorni. Per contro, in 13 casi il lasso di tempo tra la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e la trattazione del ricorso è stato inferiore ai 200 giorni (il valore più basso, di 63 giorni, si è riscontrato per il ricorso deciso con l’ordinanza n. 103).

I tempi più lunghi si sono verificati nella trattazione dei conflitti tra Stato e Regioni e tra Regioni, con una media di 1.113 giorni dalla pubblicazione del ricorso alla sua trattazione. Su 22 ricorsi decisi, 13 sono stati trattati ad oltre 1.000 giorni dalla loro pubblicazione (il valore più alto è di 2.568, per uno dei ricorsi decisi con la sentenza n. 324) ed uno soltanto lo è stato entro i 200 (si tratta del ricorso deciso con l’ordinanza n. 217, trattato dopo 69 giorni dalla pubblicazione).

I dati migliorano sensibilmente avendo riguardo alla fase di merito del conflitto tra poteri dello Stato: il valore medio è stato, infatti, di 458,75 giorni dalla pubblicazione alla trattazione del ricorso. Il maggior ritardo è stato di 1.203 giorni (per il conflitto deciso con la sentenza n. 267), mentre in 3 casi non si è andati oltre i 49 giorni (su 24 ricorsi decisi, 9 sono stati trattati entro i 100 giorni dalla pubblicazione).

A completare i riferimenti sopra enucleati, è d’uopo rilevare che anche la scelta del rito ha inciso, sia pure in maniera non particolarmente significativa, sui tempi di decisione. In effetti, dalla trattazione in camera di consiglio al deposito della decisione sono trascorsi mediamente 54,26 giorni, con punte di 0 (per l’ordinanza n. 354) e di 206 (per la sentenza n. 63); dalla trattazione in udienza pubblica, invece, il dato medio è stato di 67,04 giorni, con punte di 10 (per la sentenza n. 284) e di 218 (in quattro casi).

1.6. Rinvio

In questa sede, ci si è limitati a fornire una panoramica di alcuni dei dati statistici che si ritengono più significativi. Per ulteriori dati e per approfondimenti, si rinvia al prospetto statistico in appendice alla presente relazione.


2. Un anno di attività

L’anno 2005 segna un momento importante nella vita della Corte costituzionale, che giunge al cinquantesimo anno di attività.

A caratterizzare la giurisprudenza della Corte non è stata, tuttavia, questa sola ricorrenza, il cui rilievo è peraltro indiscutibile. Sono, in effetti, molti gli aspetti che contribuiscono a rendere il 2005 un anno di particolare interesse.

Innanzitutto, la Corte si è profondamente rinnovata, nella sua composizione, a seguito della fine del mandato di ben cinque giudici.

Alla fine del mese di gennaio, a cessare dalle funzioni sono stati il Presidente, Prof. Valerio Onida, ed il vice Presidente, Prof. Carlo Mezzanotte, entrambi di nomina parlamentare. La loro non immediata sostituzione ha fatto sì che il collegio fosse integrato da soli tredici membri sino alla fine del mese di giugno, quando sono stati eletti dal Parlamento ed hanno prestato giuramento i due nuovi giudici, l’Avv. Luigi Mazzella ed il Prof. Gaetano Silvestri.

Il ritardo registratosi ha avuto inevitabili ripercussioni sul funzionamento della Corte, come è dimostrato, tra l’altro, dalla circostanza che il nuovo Presidente, in sostituzione del Prof. Onida, è stato eletto soltanto una volta decorso il termine di cui all’art. 7, secondo comma, del Regolamento generale della Corte Costituzionale (come sostituito con deliberazione della Corte costituzionale del 25 maggio 1999), ai sensi del quale, «nel caso in cui venga a scadenza il mandato di giudice del Presidente, la Corte deve essere convocata per una data compresa fra il giorno del giuramento del giudice che lo sostituisce e i dieci giorni successivi», ma «qualora la sostituzione non sia ancora intervenuta, la Corte deve essere convocata per una data non anteriore alla scadenza del termine di cui all’art. 5, secondo comma, della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2 [un mese dalla cessazione del mandato] e non successiva al decimo giorno dalla scadenza medesima».

Nelle more dell’elezione alla Presidenza del Prof. Piero Alberto Capotosti, avvenuta il 10 marzo, le funzioni presidenziali sono state svolte dall’Avv. Fernanda Contri, poi nominata, ai termini dell’art. 22-bis del Regolamento generale, vice Presidente, alla stessa stregua del Prof. Guido Neppi Modona, eletto dal collegio, su proposta del Presidente, secondo quanto dispone l’art. 23 del Regolamento generale. Il Presidente Capotosti ed i due vice Presidenti hanno terminato il loro mandato all’inizio del mese di novembre.

I tre giudici, tutti a suo tempo nominati dal Presidente della Repubblica, sono stati prontamente sostituiti dal Prof. Sabino Cassese, dalla Prof.ssa Maria Rita Saulle e dal Prof. Giuseppe Tesauro.

Alla carica di Presidente è stato eletto, il 10 novembre, il Prof. Annibale Marini, che ha designato come vice Presidente il Dott. Franco Bile. In applicazione dell’art. 23 del Regolamento generale, il collegio ha designato come vice Presidente anche il Prof. Giovanni Maria Flick.

I molteplici avvicendamenti e la conseguente pluralità di giudici che hanno esercitato le funzioni presidenziali hanno fatto sì che ben sei membri della Corte sottoscrivessero, come presidente del collegio, almeno una decisione: il Prof. Capotosti ne ha sottoscritte 215, l’Avv. Contri 144, il Prof. Marini 66, il Prof. Onida 48, il Prof. Mezzanotte 5 ed il Prof. Neppi Modona 4.

Con precipuo riguardo all’attività giurisdizionale, può rilevarsi che, secondo una tendenza ampiamente radicata, vi è stata una pressoché costante congruenza tra giudici relatori e giudici redattori delle decisioni, nel senso che sono stati meramente episodici i casi in cui si è riscontrata, a tal riguardo, una discrepanza. In particolare, nel corso del 2005, si sono avuti tre casi (stessa quantità del 2004): due relativi a decisioni (rispettivamente) di inammissibilità e di ammissibilità di richieste di referendum abrogativo (sentenze nn. 45 e 46) ed un terzo relativo al conflitto intersoggettivo sorto a seguito del decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti con il quale era stato nominato il Commissario dell’Autorità portuale di Livorno (sentenza n. 339).

Sempre con riferimento alla figura del giudice relatore e redattore, si segnala che la sentenza n. 451, concernente il conflitto interorganico instaurato dalla Camera dei deputati avverso atti giurisdizionali nei quali si era disconosciuto, negandogli validità, l’impedimento del deputato a partecipare all’udienza penale per concomitanti impegni parlamentari, è stata redatta da due giudici, entrambi designati come relatori (la sentenza ha deciso due conflitti dichiarati ammissibili con le ordinanze nn. 185 e 186 del 2005, redatte disgiuntamente dai due giudici).

Venendo ad alcune, brevissime, considerazioni di ordine più generale, dal quadro statistico che è stato tratteggiato nei paragrafi precedenti emergono alcuni dati che rendono l’attività svolta particolarmente interessante. Si è constatata la consistenza del contenzioso tra lo Stato e le Regioni manifestatosi in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale (assai più che in quella di conflitto intersoggettivo): l’avvenuta riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione ha continuato ad alimentare una conflittualità che, dalla fine del 2001, ha conosciuto, almeno sino al 2004, una crescita costante. Nel raffronto tra il 2005 ed il 2004 pare, peraltro, di potersi intravedere una certa quale stabilizzazione, che si è associata ad un qualche recupero, sul piano quantitativo, del giudizio in via incidentale.

La tendenziale conferma dei dati del 2004 (pur con la differenza appena ricordata) testimonia un forte radicamento della funzione arbitrale nell’ambito dei poteri che sono propri della Corte costituzionale. Nata principalmente come «garante dei diritti», essa ha visto accrescere il proprio ruolo nelle diverse direzioni prefigurate nella Costituzione (e nelle leggi costituzionali), al punto di rendere indefettibile un approccio teso a dare piena contezza della multiformità e della complessità delle competenze all’organo attribuite.

I dati quantitativi, su cui già ci si è soffermati, non possono comunque dare conto – se non in via di primissima approssimazione – dell’attività che la Corte costituzionale ha svolto durante l’ultimo anno.

Sono stati, infatti, molti i giudizi che hanno riguardato casi di particolare importanza sotto il profilo dell’incidenza su situazioni giuridiche soggettive e sotto quello più propriamente istituzionale, per tacere di quelle decisioni nelle quali la Corte ha affrontato problematiche giuridiche particolarmente delicate.

Non è questa la sede per redigere una elencazione che sarebbe inevitabilmente lacunosa e – proprio per questo – non scevra di una certa arbitrarietà. Nelle pagine della presente relazione, d’altra parte, il lettore potrà trovare – questo, almeno, è l’auspicio – ampi riscontri in ordine all’importanza ed all’interesse che riveste, nel suo complesso, la giurisprudenza costituzionale dell’anno 2005.


Parte I

Profili processuali

 

Capitolo I

Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

1. Premessa

Confermando pienamente la tradizione, il giudizio in via incidentale è stata, nel corso del 2005, la sede in cui la Corte ha reso il maggior n. di decisioni.

Con specifico riguardo ai profili processuali, sono piuttosto numerosi gli aspetti sui quali conviene in questa sede soffermarsi, essenzialmente per rimarcare la linea di continuità rispetto al passato.

2. I giudici a quibus e la legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale

Le 1.149 ordinanze di rimessione che hanno instaurato giudizi decisi nel 2005 sono state sollevate da un ampio spettro di autorità giudiziarie. Il maggior n. di ordinanze è stato sollevato dai tribunali ordinari (567, ossia il 49,35% del totale), seguiti dai giudici di pace (195, il 16,97%) e dai tribunali amministrativi regionali (146, il 12,71%). Piuttosto elevato è stato anche il n. di giudizi promossi dai giudici per le indagini preliminari (47, il 4,09%), dai magistrati di sorveglianza (47, il 4,09%) e dalle commissioni tributarie provinciali (46, il 4%). Oltre le dieci ordinanze si collocano anche la Corte dei conti (16, pari all’1,39% del totale), i tribunali di sorveglianza (15, l’1,31%), le corti d’appello (15, l’1,31%) e la Corte di cassazione (12, l’1,04%).

Tra le altre autorità rimettenti si segnalano, ex plurimis, le commissioni tributarie regionali (5 ordinanze), le commissioni tributarie di I grado (3) e la commissione tributaria centrale (2); nell’ambito della giurisdizione amministrativa, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (5), il Consiglio di Stato (3) ed i tribunali regionali di giustizia amministrativa (3); infine, sono state 8 le ordinanze promosse da giudici per l’udienza preliminare.

In alcuni casi, si sono riproposte alla Corte costituzionale questioni inerenti alla legittimazione dei giudici a quibus ad instaurare un procedimento in via incidentale.

Con l’ordinanza n. 298, la Corte ha avuto occasione di confermare, sia pure implicitamente, l’orientamento favorevole alla legittimazione degli arbitri a porsi come giudici a quibus: la questione è stata infatti dichiarata manifestamente inammissibile, ma in conseguenza di vizi che inficiavano la parte motiva dell’atto di rinvio.

L’astratta legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale è stata confermata, nella sentenza n. 345, anche per la Commissione dei ricorsi contro i provvedimenti dell’Ufficio italiano brevetti e marchi, attesa la sua natura di giudice speciale (riconosciuta a far tempo dalla sentenza n. 42 del 1958). Parimenti legittimato, «secondo la costante giurisprudenza», è stato ritenuto – con la sentenza n. 440 – il giudice tutelare.

Il difetto dei requisiti richiesti dagli articoli 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (secondo cui la valida rimessione della questione postula l’azione di un «giudice», nel corso di un «giudizio») è stato invece riscontrato in occasione della ordinanza n. 170. Nel corso di un procedimento per l’iscrizione di un periodico nel registro della stampa, il magistrato delegato dal Presidente del Tribunale di Milano aveva sollevato una questione che, in ossequio ad una precedente statuizione della Corte (sentenza n. 96 del 1976), è stata dichiarata manifestamente inammissibile, giacché la procedura nell’ambito della quale la questione si radicava «è esclusivamente volta alla verifica della regolarità dei documenti presentati», e dunque «il presidente o il magistrato da lui delegato è chiamato a svolgere “una semplice funzione di carattere formale attribuitagli per una finalità garantistica”, sì che l’intervento di un magistrato non può “da solo essere ritenuto idoneo ad alterare la struttura di un procedimento meramente amministrativo”». A tale conclusione non poteva essere d’ostacolo il rilievo secondo cui il procedimento per la registrazione del periodico riguarda l’esercizio di un diritto fondamentale, quale è la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 della Costituzione), «posto che tale diritto non può comunque rimanere privo di tutela giurisdizionale», nell’ambito dunque di un procedimento «nel corso del quale potrà sempre essere proposto incidente di costituzionalità».

3. Il nesso di pregiudizialità tra giudizio a quo e giudizio di legittimità costituzionale

Caratteristica fondamentale del giudizio in via incidentale è il rapporto di pregiudizialità che collega il processo di costituzionalità con il processo a quo: affinché una questione di legittimità costituzionale sia ammissibile, condizione imprescindibile è che essa sia «rilevante» ai fini della decisione del processo nel corso del quale la questione è stata sollevata.

Nel corso del 2005, si riscontrano varie decisioni nelle quali l’esame di merito è stato precluso dal difetto di rilevanza, ora derivante dalla «estraneità delle norme denunciate all’area decisionale del giudice rimettente» (così, espressamente, l’ordinanza n. 447), ora dal momento nel quale la questione era stata concretamente sollevata.

Nel primo senso, possono menzionarsi le fattispecie nelle quali la Corte ha constatato che il giudice a quo non avrebbe in alcun caso avuto modo di applicare la disposizione denunciata (ordinanze nn. 81, 148, 340, 341, 382, 434 e 436), donde la non incidenza della questione sull’esito del giudizio (sentenza n. 266 ed ordinanze nn. 153, 213, 292, 296, 429, nonché, scil., la precitata ordinanza n. 447). A questa categoria possono associarsi le declaratorie di irrilevanza motivate dalla erronea individuazione delle norme da censurare (in tal senso, ordinanza n. 376) e quelle derivanti dalla decadenza con effetti retroattivi della disposizione censurata (come nel caso di un decreto legge non convertito: ordinanza n. 443). Devesi peraltro evidenziare che, in linea generale, l’abrogazione o la modifica della disposizione, operando ex nunc, non esclude di per sé la rilevanza della questione, restando applicabile – in virtù della successione delle leggi nel tempo – la disposizione abrogata o modificata al processo a quo (così le sentenze nn. 283 e 466).

In relazione al momento nel quale la questione di legittimità è stata sollevata, la Corte ha ribadito l’inammissibilità delle questioni c.d. «premature», quelle cioè, in cui «la rilevanza […] appare meramente futura ed ipotetica», in quanto il giudice rimettente non è ancora nelle condizioni di fare applicazione della disposizione denunciata (ordinanza n. 375). Ad esiti analoghi si giunge con riferimento alle questioni «tardive», vale a dire promosse quando le disposizioni denunciate sono già state oggetto di applicazione (ordinanze nn. 55, 57, 208, 363, 370 e 377) ovvero quando la loro applicazione non è più possibile (ordinanze nn. 90, 97 e 443), perché il potere decisorio del giudice a quo si è ormai esaurito: è stato in proposito sottolineato che «la rilevanza di una questione di costituzionalità non può essere fatta comunque discendere dalla mera impossibilità, per il giudice rimettente, di sollevare la questione stessa in una fase anteriore; essendo necessaria, al contrario, una oggettiva incidenza del quesito sulle decisioni che detto giudice è ancora chiamato a prendere» (così, l’ordinanza n. 363).

Nell’operare il controllo circa la rilevanza della questione sottopostale, la Corte costituzionale si attiene, in linea generale, alle prospettazioni del giudice rimettente. Così, ad esempio, di fronte ad una eccezione argomentata sulla base di un asserito difetto di legittimazione attiva del ricorrente nel giudizio a quo, la Corte ha sottolineato che la valutazione di tale profilo «è esclusivamente riservata al giudice» (ordinanza n. 181). Questa impostazione non impedisce alla Corte di svolgere un vaglio relativo ad un eventuale difetto di giurisdizione o di competenza che infici in modo palese il giudizio principale: nel corso del 2005, la constatata carenza di giurisdizione del giudice rimettente ha precluso in tre occasioni l’esame del merito della questione (sentenza n. 345 ed ordinanza nn. 9 e 196; nella sentenza n. 144, invece, è stato evidenziato che, «pur in presenza di orientamenti difformi […], l’argomentazione svolta dal rimettente in ordine alla sussistenza della giurisdizione […] non appar[iva] implausibile»); analogamente, nell’ordinanza n. 82, a suffragio della dichiarazione di manifesta inammissibilità, si è precisato che «il difetto di competenza del giudice rimettente, ove sia manifesto, come tale rilevabile ictu oculi, comporta l’inammissibilità della questione sollevata per irrilevanza».

Un ultimo aspetto da menzionare è la conferma della autonomia che è propria della questione pregiudiziale di costituzionalità rispetto alle sorti del processo nell’ambito della quale è stata promossa: onde disattendere una eccezione di inammissibilità per irrilevanza sopravvenuta, nella sentenza n. 244 si è chiarito, in conformità ad una giurisprudenza consolidata, che «il giudizio di legittimità costituzionale […] una volta iniziato in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente non è suscettibile di essere influenzato da successive vicende di fatto concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato, come previsto dall’art. 22 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale».

4. L’ordinanza di rimessione

Affinché il giudizio di legittimità costituzionale sia validamente instaurato, è necessario che l’ordinanza di rimessione presenti i requisiti minimi di forma e, soprattutto, di contenuto.

Per quanto attiene alla forma, la Corte ha evitato di adottare un atteggiamento eccessivamente rigoristico: così, ad esempio, non si è ritenuta preclusiva dell’esame del merito la forma di «sentenza» adottata per sollevare la questione (sentenza n. 111); analogamente, nessuna conseguenza ha avuto la circostanza che il rimettente, anziché «sollevare» la questione, avesse «ribadito» la questione già sollevata nel medesimo giudizio (ordinanza n. 238).

Non ostativo all’ammissibilità delle questioni è stato implicitamente ritenuto l’eventuale ritardo con cui l’ordinanza di rimessione sia pervenuta alla cancelleria della Corte. Pur in un quadro generalmente improntato alla celerità della trasmissione delle ordinanze, nel corso del 2005 debbono comunque segnalarsi alcuni casi di lentezza: se le ordinanze nn. 197, 313 e 350 hanno deciso questioni giunte alla Corte circa un anno dopo l’emanazione dell’ordinanza di rinvio, e l’ordinanza n. 24 ha avuto origine da un’ordinanza pervenuta oltre due anni dopo, i casi più macroscopici sono quelli di cui alla sentenza n. 433, dove il ritardo registrato ha superato i sei anni, ed alla ordinanza n. 402, che ha risolto una questione sollevata venti anni prima del momento in cui la relativa ordinanza giungesse alla cancelleria del Palazzo della Consulta. Parzialmente diverso è il caso dell’ordinanza che ha sollevato la questione risolta con la sentenza n. 274: il giudice a quo, emanata nel 1997 una prima ordinanza, con una seconda, del 2003, ha rinnovato l’ordine di trasmissione degli atti, rimasto precedentemente ineseguito.

Con precipuo riferimento al contenuto dell’ordinanza di rimessione, sono numerose le decisioni con cui la Corte censura la carenza – assoluta o, in ogni caso, insuperabile – di descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo (ordinanze nn. 29, 90, 126, 155, 210, 226, 251, 288, 295, 297, 318, 364, 390, 396, 413, 434, 453, 472 e 476) o comunque il difetto riscontrato in ordine alla motivazione sulla rilevanza (sentenze nn. 66, 303 e 461, ed ordinanze nn. 3, 100, 140, 153, 183, 189, 195, 196, 207, 236, 237, 256, 328, 331, 340, 418, 482). Ad un esito analogo conducono i difetti riscontrabili in merito alla manifesta infondatezza (sentenza n. 147 ed ordinanze nn. 74, 197, 212, 266 e 382), a proposito della quale la sentenza n. 432 ha fornito un inquadramento di ordine generale, sottolineando che, «ai fini della sussistenza del presupposto di ammissibilità […], occorre che le “ragioni” del dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento ai singoli parametri di cui si assume la violazione, siano articolate in termini di sufficiente puntualizzazione e riconoscibilità all’interno del tessuto argomentativo in cui si articola la ordinanza di rimessione; senza alcuna esigenza, da un lato, di specifiche formule sacramentali, o, dall’altro lato, di particolari adempimenti “dimostrativi”, d’altra parte in sé incompatibili con lo specifico e circoscritto ambito entro il quale deve svolgersi lo scrutinio incidentale di “non manifesta infondatezza”».

Non mancano – sono anzi piuttosto frequenti – i casi in cui ad essere carente è la motivazione tanto in ordine alla rilevanza quanto in ordine alla non manifesta infondatezza (sentenza n. 21 ed ordinanze nn. 84, 86, 92, 123, 139, 141, 142, 166, 228, 254, 298, 312, 314, 316, 333, 381, 435 e 448), carenze che rendono talvolta le questioni addirittura «incomprensibili» (ordinanza n. 448) e che sono alla base di declaratorie di (solitamente manifesta) inammissibilità «per plurimi motivi» (così, testualmente, l’ordinanza n. 316).

Altra condizione indispensabile onde consentire alla Corte una decisione sulla questione sollevata è la precisa individuazione dei termini della questione medesima. A questo proposito, sono presenti decisioni che rilevano un difetto nella motivazione concernente uno o più parametri invocati (ordinanze nn. 23, 39, 86, 126, 311 e 414), talvolta soltanto enunciati (sentenze nn. 322 e 409, ed ordinanza n. 149), quando non indicati (ordinanza n. 166) o addirittura errati (ordinanze nn. 253 e 257). Del pari, sono da censurare l’errata identificazione dell’oggetto della questione – non di rado ridondante in una carenza di rilevanza (v. supra, par. precedente) – che rende impossibile lo scrutinio della Corte (sentenza n. 21 ed ordinanze nn. 153, 197, 376, 436 e 454), l’omessa impugnazione dell’oggetto reale della censura (ordinanza n. 400), la sua mancata individuazione (ordinanza n. 140) od il riferimento alle disposizioni denunciate soltanto nella parte motiva della ordinanza di rinvio e non anche nel dispositivo (sentenza n. 243 ed ordinanza n. 228), alla stessa stregua della genericità della questione sollevata (ordinanze nn. 23 e 328).

A precludere una decisione di merito è altresì il mancato esperimento, da parte del giudice a quo, di un tentativo teso a rintracciare una interpretazione della disposizione censurata che la renda conforme alla Costituzione. Non dissimile è, peraltro, l’esito dei giudizi nei quali l’attività interpretativa del giudice risulti viziata da erronei presupposti. Sulle problematiche connesse ai poteri interpretativi dei rimettenti, si rinvia, comunque, a quanto verrà detto infra, par. 8.

Ancora, è da considerarsi vizio insanabile la mancata presa in considerazione di modifiche legislative (ordinanze nn. 24 e 317) o di dichiarazioni di illegittimità costituzionale (sentenze nn. 27 e 468, ed ordinanza n. 313) intervenuti antecedentemente al promuovimento della questione.

Il vizio dell’ordinanza di rimessione può riguardare anche l’intervento che il giudice a quo richiede alla Corte costituzionale: prescindendo dai casi in cui il petitum non è sufficientemente precisato (ordinanze nn. 188 e 400), sono colpite da inammissibilità tutte quelle richieste volte ad ottenere dalla Corte una pronuncia «creativa», da adottarsi, cioè, attraverso l’utilizzo di poteri discrezionali di cui la Corte è priva (sentenze nn. 109 e 470, ed ordinanze nn. 260, 273 e 399), una sentenza additiva in malam partem in materia penale (ordinanza n. 187) o, infine, una pronuncia che, con l’accoglimento, avrebbe il risultato di creare una situazione di (manifesta) incostituzionalità (ordinanza n. 68).

Riconducibili ai vizi che inficiano la richiesta del giudice a quo – oltre a quelle connesse all’esercizio dei poteri interpretativi da parte della Corte, su cui v., nuovamente, infra, par. 8 – sono anche le formulazioni delle questioni nell’ambito delle quali il rimettente non assume una posizione netta in merito alla questione: ne deriva l’inammissibilità di questioni formulate in maniera contraddittoria (sentenze nn. 163 e 243, ed ordinanze nn. 58, 112 e 297), perplessa (ordinanza n. 246) o alternativa (ordinanze nn. 215 e 363). Pienamente ammissibili sono, di contro, le questioni poste in via subordinata rispetto ad altre (ad esempio, sentenze nn. 52, 53 e 174, ed ordinanze nn. 75 e 256).

Le inesattezze che vengano riscontrate in merito all’indicazione del petitum, o anche relativamente ad oggetti e parametri, non sempre conducono alla inammissibilità delle questioni: nei limiti in cui il tenore complessivo dell’ordinanza renda chiaro il significato della questione posta, è la Corte stessa ad operare una correzione, ciò che è avvenuto nella sentenza n. 471 e nell’ordinanza n. 342 (in ordine al petitum), nell’ordinanza n. 288 (per l’oggetto) e nell’ordinanza n. 318 (per il parametro).

La sanatoria del vizio è invece radicalmente esclusa nel caso di ordinanze motivate per relationem, vale a dire attraverso il riferimento ad altri atti, come scritti difensivi delle parti del giudizio principale (ordinanze nn. 92, 125, 312 e 423), sentenze parziali rese nel corso del giudizio medesimo (ordinanza n. 208) o precedenti ordinanze di rimessione, dello stesso o di altro giudice (ordinanze nn. 8, 22, 84, 141, 166 e 364): per costante giurisprudenza, infatti, «non possono avere ingresso nel giudizio incidentale di costituzionalità questioni motivate solo per relationem, dovendo il rimettente rendere esplicite le ragioni per le quali ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata, mediante una motivazione autosufficiente» (così, l’ordinanza n. 364).

 

5. La riproposizione delle questioni

Nel corso del 2005, la Corte costituzionale è stata chiamata in più di una occasione a giudicare su questioni che già erano state oggetto di un incidente di costituzionalità promosso nell’ambito del medesimo giudizio principale.

La comunanza dell’origine non implica, come noto, un legame di continuità tra i due giudizi di legittimità costituzionale proposti: seguendo un orientamento consolidato, la Corte lo ha ulteriormente ribadito, sottolineando che «l’ordinanza con la quale [il giudice a quo] ripropone la questione di costituzionalità introduce un nuovo giudizio di legittimità costituzionale e non costituisce una prosecuzione di quello concluso» (ordinanza n. 22).

La riproposizione, di per sé, non presenta, ovviamente, problemi di ammissibilità. È anzi da evidenziare come essa possa configurarsi come un esito fisiologico delle pronunce di restituzione degli atti ai giudici a quibus per un riesame della rilevanza della questione (ciò che postula, in caso di ritenuta persistente rilevanza, un nuovo atto di promuovimento): non a caso, in varie occasioni la riproposizione ha fatto seguito ad una restituzione degli atti (sentenze nn. 243, 425 e 442, ed ordinanze nn. 22, 316, 341 e 422).

È peraltro interessante constatare che la riproposizione può trarre origine anche da altri tipo di dispositivi processuali, i quali non si configurano esplicitamente come prodromici ad un nuovo promuovimento. Tale è il caso delle ordinanze di manifesta inammissibilità, che in taluni casi, nel 2005, hanno originato nuove decisioni rese dalla Corte. Sulla scorta dell’indicazione del vizio che precludeva l’esame del merito della questione, il giudice a quo ha provveduto ad emendare il vizio (o, quanto meno, si è adoperato in tal senso, con esiti non sempre «fausti»), sollecitando nuovamente uno scrutinio di costituzionalità (sentenze nn. 439 e 459, ed ordinanze nn. 101, 257, 331 e 347).

Siffatte dinamiche testimoniano, unitamente ad altri – e più rilevanti – indizi, la vitalità del dialogo tra la Corte costituzionale e le giurisdizioni comuni, dialogo che è elemento imprescindibile per il corretto funzionamento dei meccanismi procedurali preposti alla garanzia della Costituzione.

 

6. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale

Dalla giurisprudenza del 2005 non emergono profili di particolare originalità per quanto attiene agli atti che possono formare oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale. Al riguardo, possono comunque segnalarsi alcune statuizioni.

Nella sentenza n. 322 si è affrontata una questione nella quale la disciplina legislativa impugnata si compenetrava con quella della contenuta in contratti collettivi di lavoro. Nell’esaminare il merito delle censure, la Corte ha precisato che «resta[va]no estranee allo scrutinio di costituzionalità tutte le questioni relative alla disciplina della materia contenuta in atti di contrattazione collettiva per le varie categorie di personale della scuola, quale che [fosse] la funzione svolta o il profilo professionale di appartenenza». Si è in tal modo confermata l’inutilizzabilità del giudizio in via incidentale per denunciare atti che non rientrino nel novero delle fonti di rango primario.

Tale affermazione non è stata smentita dalla sentenza n. 441, che ha avuto ad oggetto una disposizione del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, recante il «Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato». In ordine all’ammissibilità della questione, è stato evidenziato che, «dopo un primo contrario orientamento volto a desumere la natura regolamentare della normativa dalla formulazione dell’art. 16, primo comma, della legge di delega 7 marzo 1907, n. 62, per l’emanazione del decreto n. 642 del 1907», la Corte «ha sempre dato ingresso allo scrutinio del medesimo regolamento, nel presupposto della sua natura legislativa»: nella specie, non si sono ravvisati motivi per discostarsi da tale più recente indirizzo.

Di nuovo in ossequio ad un orientamento consolidato, è stato affermato che «l’intervenuta abrogazione della disposizione censurata […] non costituisce impedimento all’esame della questione di legittimità costituzionale sollevata» allorché tale disposizione sia stata «integralmente trasfusa» in altra (sentenza n. 345 ed ordinanza n. 54). Il «trasferimento» della questione da un oggetto ad un altro è testimonianza dell’atteggiamento rivolto a privilegiare la sostanza normativa (rimasta inalterata a seguito della abrogazione) rispetto alla pura forma. Ad analoghe considerazioni si prestano i casi nei quali l’avvenuta modifica della disposizione censurata non ha impedito l’esame del merito della questione quando «le modifiche subite dalla norma non incid[eva]no sulla sostanza del precetto normativo» (sentenza n. 161). Come è chiaro, allorché siano state apportate modificazioni al testo della disposizione impugnata tali da incidere sulla sostanza della normazione, si è imposta la restituzione degli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza della questione (così, con particolare riferimento ad un decreto legge convertito con modificazioni, l’ordinanza n. 2).

 

7. Il parametro del giudizio

Per quel che concerne le norme che sono state invocate dai giudici rimettenti come parametri o come norme interposte, non constano decisioni di particolare rilevanza.

Ciò che può segnalarsi è, peraltro, una certa frequenza, anche nel giudizio in via incidentale, dell’invocazione delle disposizioni contenute nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione, nel testo vigente (sentenze nn. 111, 147, 161, 200, 243, 244, 392, 432 e 437, ed ordinanze nn. 82, 96, 127, 156, 179, 208, 248, 250, 268, 314, 427, 434, 436 e 476) ed anche in quello anteriore alla riforma (sentenze nn. 343 e 459, ed ordinanze nn. 23, 209 e 241).

Non mancano riferimenti al diritto comunitario ed alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima fonte è stata invocata come parametro nell’ambito della questione risolta con l’ordinanza n. 139, mentre nelle questioni a seguito delle quali la Corte ha reso la sentenza n. 224 e le ordinanze nn. 97, 250, 260 e 464, la Convenzione è stata evocata come norma interposta, in riferimento all’art. 10 della Costituzione. Tale ultimo impiego non corrisponde ad una corretta esegesi della disposizione costituzionale: in tal senso, la sentenza n. 224 ha sottolineato che «non è invocabile l’art. 10 della Costituzione», poiché, secondo l’orientamento invalso nella giurisprudenza costituzionale, essa «“esorbita dagli schemi del diritto internazionale pattizio” (sentenza n. 32 del 1999)». Più radicale è l’affermazione di cui all’ordinanza n. 464, secondo la quale «l’art. 8 della Convezione europea dei diritti dell’uomo non assume il valore di norma parametro».

Meno numerosi sono stati i casi nei quali è stato il diritto comunitario è stato evocato. Viene all’uopo in rilievo l’ordinanza n. 434, che non ha deciso il merito di una questione con cui si denunciavano varie disposizioni per la loro violazione dell’art. 117, comma primo, nonché dell’art. 11 della Costituzione, in ragione del contrasto con l’art. 4, punto 2, della parte II della Carta sociale europea. Da segnalare è anche l’ordinanza n. 464, con la quale si è negata la parametricità delle disposizioni del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, non essendo tale atto ancora entrato in vigore.

Conclusivamente, in merito ai limiti entro cui la violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione è invocabile, si rinvia a quanto verrà detto infra, parte II, cap. II, sez. I, par. 2.4, limitandosi in questa sede a ricordare che la Corte ha avuto modo di sottolineare come tali articoli non possano essere invocabili in relazione ad ambiti diversi dalla delegazione legislativa (o, scil., dalla decretazione d’urgenza): ordinanze nn. 209, 253 e 257.

8. La questione di legittimità costituzionale ed i poteri interpretativi dei giudici comuni

Uno dei profili maggiormente caratterizzanti del giudizio in via incidentale è rappresentato dai rapporti intercorrenti tra la facoltà di sollevare questione di legittimità costituzionale ed i poteri interpretativi propri dei giudici comuni e della Corte costituzionale.

Affinché una questione di legittimità costituzionale possa dirsi validamente sollevata, la Corte richiede che il giudice rimettente esperisca un previo tentativo diretto a dare alla disposizione impugnanda una interpretazione tale da renderla conforme al dettato costituzionale. Ciò in quanto il principio di conservazione degli atti giuridici – che non può non trovare applicazione anche nell’ambito degli atti fonte – fa sì che «le leggi non si dichiarano incostituzionali se esiste la possibilità di dare loro un significato che le renda compatibili con i precetti costituzionali» (ordinanza n. 115), in quanto, «secondo un principio non discusso e più volte espressamente affermato [dalla] Corte, una normativa non è illegittima perché suscettibile di una interpretazione che ne comporta il contrasto con precetti costituzionali, ma soltanto perché non può essere interpretata in modo da essere in armonia con la Costituzione» (ordinanza n. 89). È in quest’ottica che debbono apprezzarsi le – invero piuttosto numerose – decisioni nelle quali lo scrutinio del merito delle questioni è risultato precluso dalla omessa attività ermeneutica del giudice (ordinanze nn. 74, 130, 245, 250, 252, 306, 361, 381, 399, 419, 420, 427 e 452).

L’attenzione della Corte a che i giudici comuni esercitino la funzione interpretativa alla quale sono chiamati non può, però, tradursi in una acritica accettazione di qualunque esito cui essa giunga. Ne discende il potere della Corte di censurare – solitamente con una decisione in rito – l’erroneo presupposto interpretativo da cui il promuovimento della questione ha tratto origine (ordinanze nn. 1, 25, 54, 69, 118, 269, 310, 331 e 340).

L’interpretazione delle disposizioni legislative, d’altra parte, non può essere configurata come un monopolio della giurisdizione comune: anche la Corte costituzionale ben può – e, entro certi limiti, deve – coadiuvare i giudici nella ricerca della interpretazione più «corretta», nel senso di «adeguata ai precetti costituzionali». Ne sono una patente testimonianza le decisioni c.d. «interpretative», con le quali la Corte dichiara infondata una determinata questione alla luce dell’interpretazione che essa stessa ha enucleato: in taluni casi, di questa attività si ha riscontro anche nel dispositivo della sentenza, che collega l’infondatezza «ai sensi di cui in motivazione» (sentenze nn. 63, 394, 410, 460, 471 e 480); sovente, però, questo riscontro non viene esplicitato, ciò che non infirma, comunque, la portata del decisum (ex plurimis, sentenze nn. 163, 266, 379, 410, 437 e 441, ed ordinanze nn. 8, 347).

Il «dialogo» che viene così a strutturarsi – cadenzato da riferimenti, in motivazione, a decisioni rese dal Consiglio di Stato e, soprattutto, dalla Corte di cassazione (nella sentenza n. 303 si richiama anche «l’unanime opinione dottrinale») – non può prescindere, tuttavia, da una chiara ripartizione dei rispettivi compiti, veicolata, per un verso, da (a) la necessità di tener conto dell’acquis ermeneutico sedimentatosi in seno alla giurisprudenza comune e, per l’altro, da (b) la considerazione del ruolo proprio della Corte costituzione, che è avant tout il giudice chiamato ad annullare leggi contrastanti con la Costituzione.

a) Sotto il primo profilo, viene in precipuo rilievo la nozione di «diritto vivente», definibile come l’interpretazione del diritto scritto consolidatasi nella prassi applicativa.

In diverse circostanze, la Corte costituzionale ha constatato essa stessa la sussistenza di una uniformità di giurisprudenza idonea a dimostrare l’esistenza di un «diritto vivente». Così è stato, ad esempio, nell’ordinanza n. 54, in cui il diritto vivente è stato dedotto da «numerose pronunce della Corte di cassazione», confermate da una recente sentenza delle sezioni unite penali, oppure nell’ordinanza n. 427, nella quale l’individuazione del diritto vivente ha condotto a censurare l’operato del giudice a quo, che aveva omesso di riferirvisi onde assolvere «il compito di effettuare una lettura della norma conforme alla Costituzione».

Alcune decisioni hanno – espressamente o meno – suffragato l’individuazione del diritto vivente operata dal giudice rimettente (sentenza n. 283 ed ordinanza n. 188), mentre altre decisioni hanno smentito quanto prospettato nell’ordinanza di rinvio, sia nel senso di escludere l’incidenza del diritto vivente sulla fattispecie oggetto del giudizio principale (sentenza n. 480), sia nel senso di negare l’esistenza stessa di un orientamento giurisprudenziale sufficientemente consolidato. A tale ultimo riguardo, se la rintracciabilità di un orientamento della giurisprudenza di legittimità divergente rispetto a quello prevalente impedisce radicalmente la configurabilità di un diritto vivente (ordinanze nn. 58 e 332), alla stessa stregua di quanto constatabile in presenza di «diverse, contrarie soluzioni della giurisprudenza di merito» (ordinanza n. 452), a testimoniare l’inesistenza di un diritto vivente può essere sufficiente anche una recente decisione della Corte di cassazione (sentenza n. 460). Parzialmente differente è il caso della sentenza n. 408, che ha escluso l’esistenza del «diritto vivente» invocato dalla Avvocatura dello Stato per fondare una eccezione di irrilevanza della questione.

Con riferimento ai profili ora in esame, la decisione più importante dell’anno, per il tema affrontato oltre che per la vicenda nella quale si è inserita, è comunque la sentenza n. 299. Con essa si è compiuto un passo decisivo nella evoluzione della disciplina del computo dei periodi di custodia cautelare, in merito alla quale, nel recente passato, «la Corte costituzionale ha applicato il principio di astenersi dal pronunciare una dichiarazione di illegittimità sin dove è stato possibile prospettare una interpretazione della norma censurata conforme a Costituzione, anche al fine di evitare il formarsi di lacune nel sistema, particolarmente critiche quando la disciplina censurata riguarda la libertà personale». Alla luce di ciò, «la Corte ha […] pronunciato la sentenza interpretativa di rigetto n. 292 del 1998, ed ha poi confermato la scelta della via interpretativa dopo i primi interventi delle sezioni unite della Cassazione, sollecitate a dirimere i contrasti insorti in materia tra le diverse sezioni, sino a quando la Corte di cassazione a sezioni unite ha confermato con particolare forza il proprio indirizzo interpretativo nella sentenza n. 23016 del 2004». A seguito di tali decisioni e, in particolare, di quest’ultima sentenza, alla Corte costituzione si è imposta la constatazione che «l’indirizzo delle sezioni unite [dovesse] ritenersi oramai consolidato, sì da costituire diritto vivente, rispetto al quale non [erano] più proponibili decisioni interpretative». L’impossibilità di prospettare ulteriormente soluzioni volte a rendere la disciplina censurata conforme a Costituzione ha reso indefettibile una pronuncia di illegittimità costituzionale.

Questa vicenda illustra chiaramente l’importanza di una franca dialettica tra Corte costituzionale e giudici comuni, nell’ambito della quale confrontare le diverse posizioni al fine di addivenire a risultati (interpretativi o anche caducatori, come nella specie) che garantiscano il rispetto dei principî sanciti nella Carta costituzionale.

b) Per quanto concerne i rapporti che sussistono tra l’attività interpretativa dei giudici comuni e la funzione che la Corte costituzionale ricopre nel sistema, deve evidenziarsi che (il coadiuvare ne) la ricerca di soluzioni ermeneutiche costituzionalmente orientate non può tradursi in una sorta di «tutela». Ciò è reso evidente dal costante rifiuto della Corte di assecondare richieste volte ad ottenere un avallo all’interpretazione che il giudice a quo ritenga di dover dare (ordinanze nn. 112, 115 e 211) o addirittura richieste dirette a sollecitare la Corte a dirimere contrasti interpretativi, per i quali sono altre le sedi istituzionalmente idonee (ordinanza n. 89).

9. Il contraddittorio di fronte alla Corte

Nel corso del 2005, 295 decisioni hanno avuto ad oggetto fonti legislative statali, 18 leggi regionali ed 1 un decreto legislativo ed una legge regionale congiuntamente (sentenza n. 266).

Quando sono state fonti statali ad essere scrutinate, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, ha assai frequentemente spiegato intervento, sempre nel senso della non illegittimità delle disposizioni denunciate. In particolare, la difesa erariale ha partecipato a 228 giudizi (nel caso in cui si sia proceduto alla riunione delle cause, peraltro, gli interventi hanno spesso riguardato soltanto alcuni atti di promuovimento), mentre in 67 non è intervenuta. È da notare, a quest’ultimo proposito, che nel giudizio conclusosi con l’ordinanza n. 81 il Presidente del Consiglio, inizialmente intervenuto, ha poi ritirato l’intervento; l’Avvocatura dello Stato ha comunque partecipato alla trattazione della causa, giacché contemporaneamente al ritiro dell’intervento si è costituito il Ministero per i beni e le attività culturali. Di contro, nel caso deciso con la sentenza n. 32, l’Avvocatura dello Stato ha difeso congiuntamente il Presidente del Consiglio e la Consob, costituitasi nel giudizio di fronte alla Corte.

L’Avvocatura dello Stato ha spiegato intervento anche nel giudizio in cui erano state denunciate congiuntamente disposizioni statali e disposizioni regionali, mentre non altrettanto ha fatto la Regione interessata.

Negli altri giudizi che hanno interessato leggi regionali, la difesa regionale è intervenuta in 10 occasioni, si è costituita – in quanto la Regione era parte dei giudizi a quibus – in 4 ed in 4 non ha invece spiegato attività difensiva.

In 82 giudizi si sono costituite (alcune de) le parti del giudizio principale; in 3 giudizi, peraltro, nessuna delle parti si è costituita ritualmente, in conseguenza della tardività del deposito dell’atto di costituzione. In totale, si sono avuti 135 atti di costituzione, di cui 9 dichiarati inammissibili per tardività.

Gli interventi di soggetti terzi rispetto al giudizio a quo sono stati 26, ripartiti in 9 giudizi. In 17 casi è stata dichiarata l’inammissibilità. Sul punto, meritano una segnalazione quattro decisioni.

Nella sentenza n. 163 si affrontava il tema delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni «alle quali hanno preso parte membri del Parlamento». L’intervento spiegato dal Senato della Repubblica è stato dichiarato inammissibile (con decisione che è stata esplicitata anche nel dispositivo della sentenza).

Il Senato aveva sostenuto la propria legittimazione ad intervenire «sulla base di un duplice rilievo»: da un lato, la pronuncia della Corte avrebbe inciso «direttamente sulla propria funzione di autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni “indirette”, che trae titolo dall’art. 68, terzo comma, Cost. e dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, oggetto, appunto, dello scrutinio di costituzionalità»; dall’altro lato, si evidenziava che «l’art. 20, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, prevede espressamente che “gli organi dello Stato e delle Regioni hanno il diritto di intervenire in giudizio”, confermando, così, la “naturale” legittimazione dell’organo, che sia portatore di un interesse qualificato dal collegamento alle proprie funzioni costituzionali, ad essere presente nel giudizio stesso, a prescindere da ogni ulteriore considerazione».

La Corte ha disatteso entrambi gli argomenti. Il primo perché , nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, «ciò che forma oggetto di scrutinio – e dunque di contraddittorio – è la conformità alla Costituzione o ad una legge costituzionale di una norma avente forza di legge, in correlazione, peraltro, con le posizioni soggettive che quella norma ha coinvolto nel giudizio principale, o che in relazione ad esso possono venir coinvolte». In questo quadro, resta affidato «al Presidente del Consiglio dei ministri o al Presidente della Giunta regionale – a seconda che si tratti di legge statale o regionale – il ruolo di interventori ex lege (art. 25, terzo comma, della legge n. 87 del 1953)». In effetti, «la disciplina del giudizio incidentale non contempla […] né esplicitamente né implicitamente, una concorrente facoltà di intervento di ulteriori organi o poteri dello Stato, estranei per definizione al giudizio a quo»: la facoltà di intervento «non potrebbe […] prescindere da una specifica previsione, che ne definisse gli esatti contorni e le finalità nel panorama delle tutele e dei meccanismi di contenzioso costituzionale, finendo altrimenti l’intervento stesso per sovrapporsi a quello “istituzionale” del Presidente del Consiglio dei ministri».

Riguardo al secondo argomento dedotto, la Corte, rifacendosi a precedenti statuizioni, ha ribadito che «il secondo comma dell’art. 20 della legge n. 87 del 1953 dett[a] una previsione generale volta a regolare esclusivamente la rappresentanza e difesa nel giudizio davanti alla Corte, stabilendo che – a differenza di quanto è previsto per il Governo, rappresentato dall’Avvocato generale dello Stato (terzo comma), e per le altre parti, le cui rappresentanza e difesa possono essere affidate soltanto ad avvocati abilitati al patrocinio innanzi alla Corte di cassazione (primo comma) – per gli organi dello Stato e delle Regioni non è richiesta una difesa professionale» (il che, peraltro, «non riguarda, né vale a modificare, la disciplina della legittimazione ad essere parte o ad intervenire in giudizio»).

Nel giudizio concluso con la sentenza n. 345, concernente i certificati complementari nazionali di protezione per i prodotti medicinali, si sono avuti ben 18 interventi. Con ordinanza presidenziale letta nell’udienza del 12 giugno 2005 (poi succintamente ripresa nella parte motiva della sentenza e nel dispositivo della stessa), la Corte ha dichiarato ammissibili 4 interventi ed inammissibili 14. L’ammissibilità è stata giustificata in relazione al fatto che, successivamente all’intervento nel giudizio in via incidentale, le quattro società farmaceutiche erano intervenute anche nel giudizio a quo. Rilevato che, quanto all’ammissibilità dell’intervento, la giurisprudenza costituzionale «è nel senso che al principio generale – secondo il quale possono partecipare al giudizio di legittimità costituzionale (oltre il Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, il Presidente della Giunta) solo le parti del giudizio a quo – può derogarsi “soltanto a favore dei soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio” (ordinanza n. 251 del 2002)», si è precisato che «l’incidenza sulla situazione sostanziale vantata dall’interveniente deriv[a] non già, come per tutte le altre situazioni sostanziali governate dalla legge oggetto del giudizio, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, bensì dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo».

Conformemente a questa impostazione, nel giudizio concluso con l’ordinanza n. 398 è stata dichiarata l’inammissibilità degli interventi spiegati da un soggetto privato «parte di un processo diverso da quelli nei quali [erano] state pronunciate le ordinanze di rimessione».

Del pari, la sentenza n. 440, vertente su questioni di legittimità costituzionale di norme concernenti l’amministrazione di sostegno ha dichiarato l’inammissibilità dell’intervento spiegato dall’Associazione nazionale mutilati e invalidi civili (Anmic), «trattandosi di un soggetto non titolare di alcun interesse diretto e qualificato nei giudizi a quibus (cui [era] rimasto estraneo), in quanto portatore di un mero interesse diffuso della categoria dei disabili».

Circa il ruolo che le parti costituite e gli intervenienti svolgono nell’ambito del giudizio di costituzionalità, la Corte ha più volte confermato l’orientamento consolidato in base al quale le ulteriori censure ed i parametri di costituzionalità da essi prospettati non possono essere presi in considerazione, in quanto il thema decidendum è fissato dal giudice al momento del promuovimento della questione di legittimità costituzionale (sentenze nn. 168, 244 e 301, ed ordinanza n. 273).

Questa limitazione non osta a che le difese svolte abbiano una funzione di grande importanza, onde specificare e chiarire le (sovente molteplici) problematiche che animano il giudizio di costituzionalità. A testimonianza dell’attenzione che la Corte dimostra, può rimarcarsi come la presenza o meno di parti abbia una profonda incidenza sulla scelta del rito: in presenza di parti validamente costituite, infatti, si è generalmente optato per la trattazione in udienza pubblica; soltanto in 15 occasioni la trattazione è avvenuta in camera di consiglio, e ciò nonostante l’ampia possibilità di ricorso a questo rito semplificato che è offerta dalle fonti normative sul processo costituzionale.

10. La trattazione congiunta e la riunione delle cause

Il dato di 1.149 giudizi definiti nel corso del 2005, attraverso 314 decisioni, rende inequivocabile l’ampio uso fatto dalla Corte dell’istituto della trattazione congiunta e della riunione delle cause (in media, ogni decisione definisce 3,66 giudizi di legittimità costituzionale).

Le decisioni assunte a seguito di riunione sono ben 103. Non tutti i casi di riunione hanno fatto seguito ad una trattazione congiunta delle cause: a tal proposito, devono segnalarsi, in particolare, le sentenze nn. 437 e 444, e l’ordinanza n. 418, che hanno deciso congiuntamente questioni in parte trattate in udienza pubblica ed in parte in camera di consiglio (nei tre casi, trattavasi dell’udienza tenutasi il giorno 11 ottobre e della camera di consiglio del 12).

Varie decisioni (tutte adottate con ordinanza) hanno definito un n. particolarmente elevato di giudizi, quasi tutti relativi alla disciplina della condizione giuridica dello straniero e dell’immigrazione ovvero alla riforma del codice della strada. Nella prima categoria si annoverano le ordinanze nn. 317 (53 giudizi definiti), 375 (49), 14 (43), 83 (39), 17 (38), 13 (35), 18 (34), 11 (30), 16 (28), 97 (26), 15 (23) e 126 (22), nella seconda le ordinanze nn. 184 (45 giudizi definiti), 60 (38) e 352 (33). Un n. elevato di questioni è stato talvolta deciso anche in riferimento ad altri settori dell’ordinamento, come testimoniano le ordinanze nn. 356 (30 giudizi definiti) e 112 (20), ambedue in tema di sospensione condizionata dell’esecuzione della pena.

Per quanto attiene alla motivazione che ha condotto alla riunione, in molti casi la Corte ha addotto la «medesimezza» o l’«identità» delle questioni sollevate (sentenze nn. 53, 111, 299 147, ed ordinanze nn. 19, 29, 57, 91, 97, 136, 138, 156, 189, 251, 262, 297, 317, 340, 359, 364, 369, 376, 418 e 454), ovvero la sostanziale identità delle questioni (sentenze nn. 280 e 444, ed ordinanze nn. 24, 89, 179, 213, 372, 375, 382 e 411), una identità che può essere anche «quasi assoluta» (ordinanza n. 434). Tale è ovviamente, anche il caso della identità o della sostanziale identità delle ordinanze di rimessione (rispettivamente, ordinanze nn. 54, 86, 141 e 366, ed ordinanze nn. 356 e 358).

Tendenzialmente assimilabili a queste motivazioni sono quelle che si fondano sulla identità delle norme, dei parametri e delle censure, nonché sulla sostanziale identità argomentazioni (ordinanza n. 152, nonché, analogamente, sentenze nn. 174 e 265).

I giudizi sono riuniti anche in caso di questioni «in parte identiche ed in parte analoghe» (ordinanza n. 9), nonché quando si riscontra una «sostanziale affinità delle questioni» (ordinanza n. 236).

Di per sé sufficiente è, comunque, l’analogia o la parziale analogia delle questioni (rispettivamente, ordinanze nn. 155 e 368, ed ordinanze nn. 139, 206, 269 e 453).

Parimenti, si riuniscono le cause per le quali sussiste una connessione oggettiva (sentenze nn. 27 e 63), o una evidente connessione delle questioni (ordinanze nn. 60, 102, 165, 194, 239, 342, 352, 398) o dei giudizi (sentenza n. 21).

La riunione segue altresì la «medesimezza» o l’«identità» della disciplina legislativa impugnata (sentenze nn. 437 e 481, ed ordinanze nn. 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 83, 92, 157, 166, 228, 312, 333, 381, 419, 420). Tale identità viene sovente rafforzata dalla identità dei parametri (ordinanze nn. 131, 180 e 313), dei profili fatti valere (sentenze nn. 144 e 408) o delle motivazioni (sentenza n. 440 ed ordinanza n. 334); le motivazioni, peraltro, talvolta sono «in parte identiche ed in parte analoghe» (ordinanze nn. 112, 289, 346 e 350). Più analiticamente, la riunione può seguire alla constatazione della identità della normativa impugnata, della parziale coincidenza delle censure proposte e dei parametri invocati, nonché delle argomentazioni svolte (ordinanze nn. 315 e 316, nonché, similmente, ordinanza n. 96).

La diversità delle norme impugnate non è, comunque, ostacolo alla riunione, quanto meno allorché le questioni si pongano negli stessi termini (ordinanza n. 126) o in termini non diversi (sentenza n. 78).

In un caso, a fondare la riunione è stata l’identità delle ragioni poste a fondamento dei dubbi di legittimità costituzionale (ordinanza n. 69).

Per quanto piuttosto rari, non mancano giudizi nei quali la riunione è stata disposta lasciando implicita la motivazione (peraltro riconducibile alla identità dell’oggetto: ordinanze nn. 99, 464 e 475).

11. Le decisioni della Corte

Nel 2005, la Corte ha reso, nell’ambito del giudizio in via incidentale, 314 decisioni, di cui 80 in forma di sentenza e 234 in forma di ordinanza. Nel complesso, sono stati pronunciate 366 formule all’interno dei dispositivi, 105 relativamente alle sentenze e 261 nelle ordinanze. A tali dati, si aggiungono le decisioni interlocutorie, non numerate.

11.1. Le decisioni interlocutorie

Prive di numerazione, le ordinanze interlocutorie non hanno, generalmente, una rilevanza verso l’esterno, trattando aspetti organizzativi interni alla Corte, come è il caso, ad esempio, dei decreti di rinvio a nuovo ruolo di cause già fissate.

In taluni casi, peraltro, le decisioni interlocutorie hanno una incidenza sul giudizio in corso che coinvolge direttamente altri soggetti. Nel quadro dei giudizi definiti nel 2005, possono all’uopo segnalarsi le ordinanze lette in udienza concernenti l’ammissibilità o meno di interventi di terzi (sul punto, si rinvia a quanto detto supra, par. 9) e quelle c.d. istruttorie ex art. 12 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Con precipuo riguardo all’acquisizione dei mezzi di prova, sono generalmente sufficienti le informazioni che giungono alla Corte attraverso l’ordinanza di rimessione (o, eventualmente, con l’attività dei soggetti intervenuti o costituitisi in giudizio). È dunque raro che la decisione sulla/e questione/i necessiti di una integrazione istruttoria. Nel 2005, tale è stato il caso del giudizio definito con la sentenza n. 110, concernente la tariffa delle tase sulle concessioni regionali per le aziende faunistico-venatorie. Con ordinanza istruttoria del 10 aprile 2002, depositata il 12 successivo, la Corte ha disposto che il Presidente del Consiglio dei ministri depositasse «la documentazione relativa alla tariffa della tassa di concessione regionale per le aziende faunistico-venatorie o per le riserve di caccia, in vigore in ciascuna delle Regioni e Province autonome al momento dell’emanazione del d.lgs. n. 230 del 1991, corredandola con una relazione sui criteri in base ai quali il Governo era pervenuto a determinare la voce n. 16 della tariffa approvata con tale decreto legislativo e le note ad essa relative».

Successivamente, con ordinanza istruttoria del 2 luglio 2003, depositata e comunicata il 18 successivo, la Corte, ha ritenuto che «la documentazione inviata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in riferimento alla precedente ordinanza non contenesse tutti i dati richiesti», per cui ha disposto che il Presidente del Consiglio dei ministri depositasse, «entro 90 giorni dalla comunicazione del provvedimento», una relazione «attestante l’entità della tassa di concessione regionale e, se prevista, dell’eventuale soprattassa, per le aziende faunistico-venatorie o per le riserve di caccia, in vigore in ciascuna delle Regioni al momento dell’emanazione del d.lgs. n. 230 del 1991, con l’indicazione della relativa base normativa».

11.2. Le decisioni processuali

A] Nell’ambito delle decisioni processuali, le 16 sentenze che recano un dispositivo di inammissibilità costituiscono una netta minoranza rispetto agli altri tipi di pronunce.

L’insieme più ampio di statuizioni di inammissibilità è quello connesso a carenze riscontrate nella motivazione dell’ordinanza di rimessione. In 3 casi, il difetto di motivazione è stato individuato relativamente alla rilevanza della questione (sentenze nn. 66, 303 e 461); in altrettanti, ad essere censurata è stata la circostanza che i parametri fossero stati evocati «senza alcuna motivazione specifica» (sentenze nn. 149 e 322) o con una motivazione comunque non congrua (sentenza n. 409). Di diverso segno, ma con identico risultato, è la motivazione di cui alla sentenza n. 243, in cui si rileva che «il giudice rimettente prospetta [una] questione in modo contraddittorio, ritenendo possibili due distinte e contrapposte letture del parametro costituzionale considerato, senza peraltro risolvere tale antinomia ermeneutica attraverso una scelta argomentata; ed, anzi, sollevando la questione essenzialmente ai fini dello scioglimento dell’alternativa stessa».

Nella sentenza n. 21, i vizi hanno riguardato molteplici aspetti, e segnatamente «la formale mancanza, nell’ordinanza di rimessione, di una motivazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza specificamente riferite [agli] articoli [denunciati]» e «la sostanziale estraneità delle norme in essi contenute […] alle censure sollevate dalla [autorità] rimettente»; la sentenza n. 147 dichiara invece l’inammissibilità delle questioni relative ad alcune delle disposizioni denunciate, in quanto sollevate «senza svolgere alcuna argomentazione in relazione» ad esse.

Il difetto di pregiudizialità – variamente motivato – della questione di legittimità costituzionale nei confronti del giudizio principale è stato alla base di 3 decisioni di inammissibilità, rese con le sentenze nn. 148, 266 e 345 (per ulteriori dettagli, sul punto, si rinvia supra, par. 3).

Per quanto attiene all’oggetto del giudizio di costituzionalità, la sentenza n. 111 ha dichiarato inammissibile una questione che il giudice aveva sollevato dando alla disposizione oggetto un significato che non aveva, incorrendo in un «errore di fondo», constatabile «ictu oculi», e consistente nel denunciare, di fatto, gli eventuali inconvenienti derivanti da una prassi applicativa distorsiva della disposizione.

Nella sentenza n. 109, la Corte ha dichiarato l’inammissibilità della questione, non potendo «emettere la pronuncia di incostituzionalità che le [veniva] sollecitata», giacché la soluzione dei problemi posti dal giudice a quo competevano al legislatore «nell’ambito della sua discrezionalità». Del pari, la sentenza n. 470 ha escluso, con la pronuncia processuale, che la Corte potesse rendere «una sentenza additiva dal contenuto non costituzionalmente obbligato, tale da comportare l’introduzione di un elemento estraneo all’impianto normativo esistente e che perciò presuppone[va] l’esercizio di valutazioni discrezionali» esulanti dalle sue funzioni.

B] I dispositivi di manifesta inammissibilità sono stati 124, di cui 3 contenuti in sentenze e 121 in ordinanze. Le motivazioni che hanno portato a siffatte decisioni possono essere ricondotte a cinque categorie, concernenti, rispettivamente, (a) il difetto di legittimazione del giudice rimettente, (b) l’assenza di un nesso di pregiudizialità tra giudizio principale e giudizio in via incidentale, (c) le carenze che affliggono l’ordinanza di rimessione, (d) il cattivo esercizio da parte del giudice a quo, anteriormente al promuovimento della questione, dei poteri interpretativi, (e) la tipologia di pronuncia richiesta alla Corte costituzionale.

a) Il difetto di legittimazione a sollevare questione del giudice rimettente è stato alla base della manifesta inammissibilità di cui all’ordinanza n. 170 (si veda anche supra, par. 2).

b) Un n. consistente di decisioni hanno avuto riguardo al riscontrato difetto del nesso di pregiudizialità tra il giudizio a quo e la questione di legittimità costituzionale sollevata (ordinanze nn. 9, 55, 57, 81, 82, 90, 97, 208, 213, 292, 296, 340, 341, 363, 370, 375, 377, 382, 429, 434, 443 e 447). Per maggiori dettagli in merito alle ragioni che fondano tale difetto, si rinvia a quanto detto supra, par. 3.

c) La categoria numericamente più cospicua è quella delle dichiarazioni di manifesta inammissibilità derivanti da vizi di motivazione dell’ordinanza di rimessione in riferimento alle condizioni legittimanti il promuovimento della questione (sentenza n. 243 ed ordinanze nn. 3, 29, 74, 84, 86, 90, 92, 100, 123, 126, 139, 140, 141, 142, 153, 155, 166, 183, 189, 195, 196, 197, 207, 210, 212, 226, 228, 236, 237, 251, 254, 256, 288, 295, 297, 298, 312, 314, 316, 318, 328, 331, 333, 340, 364, 381, 382, 390, 396, 413, 418, 434, 435, 448, 453, 472, 476 e 482). Analogamente, la manifesta inammissibilità ha colpito le carenze di motivazione sui termini della questione (ordinanze nn. 23, 39, 86, 126, 311 e 414). In tale ambito possono essere annoverate anche le decisioni inerenti ad ordinanze motivate per relationem (ordinanze nn. 8, 22, 84, 92, 125, 141, 166, 208, 312, 364 e 423).

L’errore nella individuazione dei termini delle questioni è stato alla base delle declaratorie di inammissibilità manifesta rese con le ordinanze nn. 257, 376 e 454.

Le carenze censurate con la manifesta inammissibilità riguardano anche la mancata presa in considerazione di modifiche legislative (ordinanze nn. 24 e 317) o di precedenti dichiarazioni di illegittimità costituzionale della Corte (sentenze nn. 27 e 468, ed ordinanza n. 313).

Anche le questioni sollevate in modo generico, perplesso o contraddittorio hanno condotto ad ordinanze di manifesta inammissibilità (ordinanze nn. 58, 112, 188, 246, 297 e 400), così come le questioni alternative (ordinanze nn. 215 e 363).

Specificazioni ulteriori, relativamente alle decisioni processuali motivate da carenze delle ordinanze di rimessione, possono essere rinvenute supra, par. 4.

d) In ordine ai rapporti tra la questione di legittimità costituzionale ed i poteri interpretativi del giudice a quo, la Corte ha talvolta censurato con la manifesta inammissibilità l’erroneo presupposto interpretativo da cui muoveva il rimettente (ordinanze nn. 269 e 310). Più frequenti sono comunque state le declaratorie di inammissibilità manifesta discendenti dal mancato esperimento di un tentativo di dare alle disposizioni denunciate una interpretazione conforme alla Costituzione (ordinanze nn. 74, 130, 245, 250, 252, 306, 361, 381, 419, 420, 427 e 452). Riferimenti più dettagliati sono contenuti supra, par. 8.

e) Il tipo di intervento richiesto alla Corte è stato alla base di alcune pronunce di manifesta inammissibilità, motivate dalle conseguenze incostituzionali che l’eventuale accoglimento della questione avrebbe creato (ordinanza n. 68) ovvero dal tipo di intervento additivo cui la Corte era chiamata, che avrebbe inciso su un ambito lasciato alla discrezionalità del legislatore (ordinanze nn. 260, 273 e 399) o si sarebbe tradotto in una addizione in malam partem in materia penale (ordinanza n. 187).

C] 71 (1 in sentenza e 70 in ordinanze) sono i dispositivi attraverso i quali la Corte ha restituito gli atti al giudice rimettente o ai giudici rimettenti.

Nella maggior parte dei casi, la restituzione è stata dovuta al sopravvenire di una decisione di incostituzionalità che ha caducato la disposizione denunciata o che ha comunque inciso sull’oggetto della questione (ordinanze nn. 24, 60, 75, 102, 127, 158, 184, 229, da 238 a 240, 313, 315, 342, 346, 351, 356, 358 e 475; si noti che, per quanto attiene all’ordinanza n. 127, la precedente declaratoria di illegittimità costituzionale era stata resa in un giudizio in via principale). Peraltro, nel caso in cui la pronuncia di accoglimento sia intervenuta prima dell’ordinanza di rimessione, il dispositivo è stato di manifesta inammissibilità (v. supra).

Altra fattispecie ricorrente è stata quella di restituzione in dipendenza di modifiche legislative sopravvenute a mutare il quadro normativo tenuto presente dal giudice a quo (sentenza n. 174 ed ordinanze nn. 2, 41, 80, 93, 101, 157, 165, 248, 258, 259, 317, 398, 411 e 422).

Soprattutto con riferimento alle questioni aventi ad oggetto la disciplina dell’immigrazione e della condizione giuridica dello straniero, molto numerosi sono stati i casi nei quali alla decisione di incostituzionalità incidente sull’oggetto si è associato un successivo intervento legislativo, conducendo ad una restituzione per il concorrere di questi due motivi (ordinanze nn. da 11 a 19, 83, da 96 a 99, 131, 138, 152, 156, 180, 182, 206, 362, da 365 a 369, da 371 a 375, 395 e 446; nel caso dell’ordinanza n. 156, l’intervento della Corte era avvenuto nel quadro di un giudizio in via principale).

A queste tre grandi categorie di restituzioni si aggiungono due ordinanze che hanno dato atto di una sopravvenuta sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee: l’ordinanza n. 241 ha motivato la restituzione sulla base del concorrere della decisione assunta in sede comunitaria e di una modifica del diritto positivo, mentre nell’ordinanza n. 268 la sentenza della Corte di giustizia è stata l’unico fattore preso in considerazione. Nell’occasione, la Corte costituzionale, ribadendo il suo «costante orientamento» secondo il quale «i principî enunciati dalla Corte di giustizia, riguardo a norme oggetto di giudizio di legittimità costituzionale, si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quelle norme conservano efficacia e devono essere applicate anche da parte del giudice a quo», ha disposto «la restituzione degli atti al rimettente, perché valut[asse] l’incidenza della pronuncia della Corte di giustizia sulla decisione del giudizio sottoposto al suo esame e sulla persistente rilevanza della questione di legittimità costituzionale».

11.3. Le decisioni di rigetto

A] La maggioranza delle decisioni di rigetto sono state adottate nella forma della manifesta infondatezza: dei 72 dispositivi, 2 si trovano in sentenze e 70 in ordinanze.

Dalle rationes decidendi emerge che buona parte delle pronunce sono derivate dalla infondatezza ictu oculi delle questioni poste (ordinanze nn. 57, 59, 67, 132, 181, 213, 215, 216, 218, 228, 230, 247, 257, 296, 307, 309, 310, 381, 421, 452 e 453); in molti di questi casi, la Corte ha riscontrato l’infondatezza (manifesta) del denunciato vizio di irragionevolezza delle disposizioni legislative (ordinanze nn. 67, 181, 213, 215, 218, 228, 230, 247, 310, 421 e 452).

Non mancano le dichiarazioni di manifesta infondatezza derivanti dall’impossibilità di operare uno scrutinio che avrebbe avuto ad oggetto la discrezionalità legislativa (ordinanze nn. 87, 113, 155, 215, 255, 261, 262, 380, 401 e 463).

L’erroneità del presupposto interpretativo da cui muoveva il giudice a quo è stata all’origine delle declaratorie contenute nelle ordinanze nn. 1, 54, 69, 118, 124, 332, 340, 347, 348 e 389. La possibilità di dare della disposizione denunciata una interpretazione conforme alla Costituzione è stata sottolineata, invece, nelle ordinanze nn. 8 e 115.

L’erroneità dei parametri evocati è stata censurata con una decisione di «manifesta» nelle sentenze nn. 174 e 243, nonché nelle ordinanze nn. 125 e 209; mentre difetti concernenti l’individuazione del tertium comparationis nel giudizio di uguaglianza-ragionevolezza sono stati riscontrati nelle ordinanze nn. 25, 59, 122, 227, 350 e 402.

Piuttosto numerosi sono stati i casi in cui la decisione di manifesta infondatezza è stata dedotta da statuizioni della Corte. Precedenti decisioni di infondatezza di analoghe questioni hanno dato luogo alle decisioni di manifesta infondatezza di cui alle ordinanze nn. 136, 179, 289, 334, 359, 395 e 464. Ancor più frequenti sono state le decisioni di manifesta infondatezza che sono seguite a dichiarazioni di manifesta infondatezza aventi ad oggetto le medesime questioni (ordinanze nn. 114 e 128) o questioni analoghe (ordinanze nn. 23, 85, 91, 137, 154, 291, 305, 312, 382, 415 e 430); l’ordinanza n. 333 ha fatto seguito alla declaratoria di manifesta infondatezza di questioni «in tutto simili».

Merita un cenno, infine, l’ordinanza n. 209. In essa la Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione avente ad oggetto alcune disposizioni legislative regionali «nella parte in cui dispongono che sono trasferiti al patrimonio delle unità sanitarie locali i beni mobili ed immobili già di proprietà dei Comuni con vincolo di destinazione alle Unità sanitarie locali», motivata – tra l’altro –sull’assunto della lesione del principio fondamentale dell’autonomia degli enti locali, «la quale concerne anche l’integrità del patrimonio degli enti medesimi». Sul punto, la Corte ha sottolineato che essa «ha sempre risolto, negandole il necessario tono costituzionale, la questione – alla presente assimilabile – sollevata in sede di conflitto di attribuzione se avente quale suo sostanziale oggetto una rei vindicatio».

B] Delle 51 decisioni di rigetto adottate nel corso dell’anno, 6 presentano il dispositivo tipico delle decisioni interpretative (sentenze nn. 63, 394, 410, 460, 471 e 480). Tra queste ultime, merita un cenno la sentenza n. 63, in cui si è proceduto ad un rigetto interpretativo alla luce di una contestuale decisione di incostituzionalità additiva: l’ampliamento della portata normativa di una delle disposizioni impugnate ha «automaticamente ampliato» anche la portata normativa della disposizione su cui il rigetto interpretativo si è appuntato.

Delle sentenze di rigetto formalmente non interpretative, è da constatare come molte rechino una motivazione nella quale la Corte ha provveduto ad una (re)interpretazione delle disposizioni impugnate, giungendo in tal modo ad esiti sostanzialmente analoghi a quelli propri di una decisione interpretativa di rigetto (si segnalano, in particolare, le sentenze nn. 110, 174, 192, 266, 283, 303, 322, 379, 440 e 441). Di particolare interesse, a questo riguardo, è la sentenza n. 441, che, pur non recando alcun riferimento all’interpretazione nel dispositivo, presenta, a conclusione della parte motiva, una formula assai simile a quelle che connotano le sentenze interpretative di rigetto: «la norma impugnata non è quindi viziata di incostituzionalità nei sensi sopra esposti».

11.4. Le decisioni di accoglimento

Nel corso del 2005, sono state pronunciate 30 sentenze che contengono una o più declaratorie di illegittimità costituzionale, per un totale di 32 dispositivi di annullamento.

A] Soltanto in 6 occasioni si è avuta una dichiarazione di illegittimità costituzionale di una intera disposizione (sentenze nn. 191, 220, 221, 278, 437 e 466). Tra queste decisioni, può constatarsi come la sentenza n. 466, avendo ad oggetto una disposizione nel testo anteriore a modifiche apportate dal legislatore, ma non applicabili nel giudizio a quo, ha dichiarato l’incostituzionalità precisando, in motivazione, che essa colpisce «la disposizione censurata nel testo vigente prima delle modifiche introdotte».

B] L’insieme nettamente più cospicuo di incostituzionalità è quello delle sentenze «manipolative». Le più numerose, 14, sono le decisioni additive, id est quelle che «aggiungono» alla disposizione legislativa significati normativi, dichiarandola incostituzionale «nella parte in cui non prevede» un determinato contenuto (sentenze nn. 63 – con due dispositivi di questo tipo –, 144, 199, 233, 280, 281, 299, 343, 385 e 458), «nella parte in cui non si applica» a fattispecie ulteriori (sentenza n. 408), «nella parte in cui non include» (tra i beneficiari di una prestazione) determinati soggetti (sentenza n. 432) ovvero «nella parte in cui non equipara» determinati soggetti ad altri (sentenza n. 433).

Con precipuo riferimento alle decisioni additive, la sentenza n. 343 dichiara «l’illegittimità costituzionale degli articoli 4 e 30 della legge della Regione Marche 5 agosto 1992, n. 34 (Norme in materia urbanistica, paesaggistica e di assetto del territorio), nella parte in cui non prevedono che copia dei piani attuativi, per i quali non è prevista l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla Regione (o alla Provincia delegata)». Alla luce di questo dispositivo viene inserito un adempimento all’interno di un procedimento di adozione di un atto giuridico; in tal senso, questa decisione può essere annoverata tra le sentenze «manipolative di procedura», riscontrabili in più occasioni nel giudizio in via principale (v. infra, cap. II, par. 8.5).

Di notevole interesse è anche la sentenza n. 280, che pone fine ad una vicenda nella quale la Corte già era stata chiamata ad intervenire, a seguito di censure della medesima norma, le quali, però, non erano state scrutinate nel merito. Peraltro, nelle due ordinanze rese (n. 107 del 2003 e n. 352 del 2004), la Corte aveva avuto modo di rilevare le difficoltà che la norma poneva, con il che, una volta giunta una questione tale da poter essere decisa nel merito, la Corte ha proceduto ad una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, come modificato dal d.lgs. n. 193 del 2001, «nella parte in cui non prevede per la notifica al contribuente della cartella di pagamento un termine, fissato a pena di decadenza, e per il quale, pertanto, sia stabilito il dies a quo». La Corte ha contestualmente precisato che tale statuizione «rendeva indispensabile un sollecito intervento legislativo con il quale si colm[asse] ragionevolmente la lacuna che si [andava] a creare».

Oltre a questo «invito» al legislatore, nella sentenza si enunciano anche alcuni «suggerimenti», in quanto si sottolinea, per un verso, che «la ragionevolezza del termine che verrà stabilito dal legislatore, ferma la sua natura decadenziale, discenderà dalla adeguata considerazione del carattere estremamente elementare (tanto da richiedere “procedure automatizzate”) dell’attività di liquidazione ex art. 36-bis e della successiva attività di iscrizione nei ruoli: attività che la vigente disciplina prevede si esauriscano entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione», e, per l’altro, che, «nel fissare il termine la cui mancanza qui si dichiara incostituzionale, il legislatore non potrà non considerare che il vigente art. 43, comma primo, del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede che l’avviso di accertamento – quale atto conclusivo di un ben più complesso procedimento – sia notificato a pena di decadenza entro il 31 dicembre del quarto anno successivo alla presentazione della dichiarazione, e che solo entro tale limite temporale il contribuente è obbligato a conservare la documentazione sulla base della quale ha redatto la dichiarazione».

Un ulteriore caso di decisione additiva, per quanto particolare, è rappresentato dalla sentenza n. 438 (su cui v. infra).

C] 9 sono state le decisioni di tipo ablatorio (o di accoglimento parziale), le quali caducano una parte dei contenuti della disposizione legislativa attraverso le formule secondo cui la disposizione è incostituzionale «nella parte in cui prevede» un certo contenuto (sentenze nn. 7, 320 e 437), «nella parte in cui fa divieto» di compiere una determinata azione (sentenza n. 161) oppure «nella parte in cui si riferisce» a certe fattispecie (sentenza n. 274). In taluni casi, analogamente, la formula ablativa si traduce in una illegittimità costituzionale di una disposizione «limitatamente alle parole» espressamente individuate (sentenze nn. 392 e 457).

Un dispositivo più elaborato, pur se sempre di tipo ablativo, è quello che reca la sentenza n. 78, con cui si dichiara «l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 7, lettera c), della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e dell’art. 1, comma 8, lettera c), del decreto legge 9 settembre 2002, n. 195 (Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari), convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2002, n. 222, nella parte in cui fanno derivare automaticamente il rigetto della istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla presentazione di una denuncia per uno dei reati per i quali gli articoli 380 e 381 cod. proc. pen. prevedono l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza».

Tra le decisioni manipolative, un caso particolare è quello della già ricordata sentenza n. 438, il cui dispositivo («illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 8 giugno 1966, n. 424 […] nella parte in cui prevede, per i dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato, la sequestrabilità e la pignorabilità delle indennità di fine rapporto di lavoro, per crediti da danno erariale, senza osservare i limiti stabiliti dall’articolo 545 del codice di procedura civile») presenta una costruzione complessa, associando elementi tipici di una illegittimità costituzionale ablativa («nella parte in cui prevede che …») ad altri riconducibili, di fatto, ad una additiva («senza osservare …»).

D] Infine, 3 sentenze sono riconducibili al genus delle decisioni sostitutive che censurano una disposizione «nella parte in cui prevede [un contenuto] anziché [un altro]» (sentenze nn. 27 e 168). Un dispositivo sostitutivo di tipo più analitico è contenuto nella sentenza n. 444, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui esclude la pignorabilità per ogni credito dell’intero ammontare della pensione erogata dalla Cassa nazionale del notariato, anziché prevedere l’impignorabilità, con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte della pensione necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità nei limiti del quinto della residua parte».

E] Non constano, nel 2005, dichiarazioni di illegittimità costituzionale consequenziali rese ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953.

12. Sindacato di costituzionalità e discrezionalità legislativa

Nell’operare il sindacato di legittimità costituzionale, la Corte incontra il limite derivante dall’impossibilità di incidere sul «merito» delle scelte legislative. In tal senso, già si è avuto modo di riscontrare (supra, par. 4) che la Corte si astiene dal giudicare nel merito questioni che, per il loro petitum, si risolvano nella richiesta di esercitare una funzione che si inserisce nell’ambito della discrezionalità legislativa.

Se è vero che la «discrezionalità» del legislatore rappresenta un argine al giudizio di costituzionalità, è però anche vero che tale argine può essere superato, sia pure soltanto nelle ipotesi in cui le scelte operate a livello politico ridondino in vizi di legittimità del prodotto legislativo.

Onde dare consistenza al proprio margine di azione, la Corte utilizza varie formule, sostanzialmente equivalenti. Nel corso del 2005, in particolare, di più frequente impiego è stata la definizione sulla base della quale il giudizio di costituzionalità può incidere sulla discrezionalità legislativa allorché il suo esercizio abbia avuto esiti censurabili come «irragionevoli» (sentenze nn. 7, 21, 220, 322 e 442, ed ordinanze nn. 218, 230, 350 e 453). Quasi equivalenti, sul piano numerico, sono stati i casi in cui si è posto alla discrezionalità legislativa il limite della «non manifesta irragionevolezza» (sentenze n. 144, 191, 224 e 379, ed ordinanze nn. 87, 261, 310 e 421); in due casi, invece, è stata resa indefettibile la «non intrinseca irragionevolezza» (sentenze nn. 78 e 111).

La «non manifesta irragionevolezza o arbitrarietà» è stata posta come limite nelle ordinanze nn. 213 e 382, mentre nella sentenza n. 243 si è fatto riferimento alla «non palese arbitrarietà o irragionevolezza».

L’ordinanza n. 215 ha definito le scelte discrezionali del legislatore esenti da scrutinio di costituzionalità come «non irrazionali», l’ordinanza n. 23 ha ampliato la definizione alla «non arbitrarietà o irrazionalità», mentre le ordinanze nn. 155 e 255 hanno richiesto la «non manifesta irrazionalità o arbitrarietà».

Alla «corrispondenza ai canoni di coerenza e di ragionevolezza» ha fatto richiamo l’ordinanza n. 452; le ordinanze nn. 262 e 401, dal canto loro, hanno posto quale condizione per lo scrutinio della Corte l’esercizio della discrezionalità legislativa che «ne rappresenti un uso distorto o arbitrario, così da configgere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza».

Una definizione ancor più analitica è stata fornita dalla sentenza n. 325, secondo cui sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale le «scelte normative palesemente arbitrarie o radicalmente ingiustificate, ovvero contrastanti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, che si traducono in un uso distorto della discrezionalità».

Il tema concernente il controllo sulla discrezionalità legislativa, sul piano sostanziale, si interseca con il giudizio di ragionevolezza, su cui si avrà modo di tornare infra, parte II, cap. I, par. 2.


Capitolo II

Il giudizio in via principale

1. Premessa

Nel corso del 2005, per la prima volta dal 1988 la Corte ha superato la quota simbolica – ma assai significativa – di cento decisioni rese in un anno in sede di giudizio in via principale. Le 101 decisioni, di cui 85 sentenze e 16 ordinanze, non rivestono importanza solo relativamente al mero dato numerico: sono, anzi, molti gli aspetti da segnalare, anche rispetto ai profili processuali.

2. Il ricorso

Con riferimento ai problemi connessi al ricorso con cui vengono sollevate le questioni di legittimità costituzionale, di particolare interesse sono le affermazioni concernenti la notifica ed il deposito, il rapporto tra il ricorso e la delibera del Governo o della Giunta regionale contenente la determinazione all’impugnazione ed i contenuti che del ricorso sono propri.

2.1. La notifica, il deposito ed i termini per ricorrere

Per quel che attiene alla disciplina del procedimento di impugnazione delle leggi ai sensi dell’art. 127 della Costituzione, un primo profilo che è venuto in evidenza riguarda la notifica del ricorso.

La sentenza n. 344 ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso regionale che era stato notificato dapprima presso l’Avvocatura generale dello Stato e, successivamente, al Presidente del Consiglio dei ministri. Delle due notifiche, soltanto la prima era intervenuta entro il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato. La Corte, rifacendosi alla sua «costante giurisprudenza», ha evidenziato che «ai giudizi costituzionali non si applicano le norme sulla rappresentanza dello Stato in giudizio previste dall’art. 1 della legge 25 marzo 1958, n. 260 e dalla legge 3 aprile 1979, n. 103», con la conseguenza che «per la rituale proposizione del giudizio l’atto deve essere notificato presso la sede del Presidente del Consiglio dei ministri». Nel caso concreto, la Corte non ha rinvenuto ragioni per discostarsi da questo orientamento, «dato che la parte ricorrente non ha prospettato argomenti nuovi, anche per quanto concerne la statuizione che l’irritualità della notificazione non può essere sanata dalla costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, quando tale costituzione sia avvenuta, come nel caso di specie, proprio per eccepire la predetta inammissibilità».

Diversa è stata la decisione sul caso prospettatosi nel giudizio concluso con la sentenza n. 383, dove uno dei ricorsi avverso un atto legislativo statale risultava, sì, notificato al Presidente del Consiglio dei ministri presso la Presidenza del Consiglio oltre il termine perentorio di sessanta giorni di cui all’art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ma «a motivo della documentata impossibilità del destinatario a ricevere l’atto nei termini (24 dicembre 2003), per la chiusura dell’Ufficio protocollo della Presidenza del Consiglio», mentre risultava notificato nei termini presso l’Avvocatura dello Stato. Nella fattispecie, il ricorso è stato considerato ammissibile «in forza dell’orientamento della più recente giurisprudenza costituzionale […], che ha affermato il principio di scissione fra il momento in cui la notificazione deve intendersi perfezionata nei confronti del notificante – e che coincide con il momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario – rispetto al momento in cui essa si perfeziona per il destinatario dell’atto».

L’ordinanza n. 20 ha avuto ad oggetto il diverso problema della tardività del deposito del ricorso. In tal caso, l’esame del merito del ricorso è stato dichiarato precluso dalla circostanza che il ricorso medesimo fosse stato depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale oltre il termine di dieci giorni dalla notifica (art. 31, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953), termine da ritenersi, secondo costante giurisprudenza, perentorio.

Sempre connesse ai tempi dell’impugnazione, sia pure in un’ottica più generale, sono quelle statuizioni nelle quali la Corte ha affrontato il tema della tardività del ricorso derivante dall’avvenuta impugnazione soltanto dopo l’entrata in vigore della legge di conversione, e non del decreto legge convertito. Avverso eccezioni formulate in questi termini, si è sottolineato come la giurisprudenza della Corte sia «costante nel riconoscere la tempestività della impugnazione dei decreti legge dopo la loro conversione, che ne stabilizza la presenza nell’ordinamento» (sentenze nn. 62 e 383).

2.2. I rapporti tra il ricorso e la delibera recante la determinazione all’impugnazione

Con riferimento all’incidenza che ha la deliberazione con cui l’ente statuale, regionale o provinciale si determina all’impugnazione, può constatarsi come, in varie occasioni, la Corte costituzionale abbia operato una valutazione diretta a verificare la corrispondenza tra l’intento dell’organo politico ed il ricorso redatto dalla difesa tecnica. Così, nella sentenza n. 95, si è evidenziato – onde delimitare l’oggetto del giudizio – che, benché nell’epigrafe del ricorso proposto dal Presidente del Consiglio avverso la legge della regionale si facesse generico riferimento all’intera legge, «dalla motivazione e dalle conclusioni del ricorso emerge[va] chiaramente che la questione di legittimità costituzionale [era] limitata al solo art. 1, e ciò peraltro conformemente a quanto risulta[va] dalla relazione del Ministro per gli affari regionali allegata alla delibera del Consiglio dei ministri che [aveva] deciso l’impugnativa della legge regionale in questione.

Questa impostazione ha trovato conferma in altre decisioni, tra cui la sentenza n. 106, in cui la Corte ha precisato che «l’oggetto dell’impugnazione è definito dal ricorso in conformità alla decisione assunta dal Governo», e dunque «l’ambito delle censure sottoposte validamente all’esame della Corte risulta in tal modo limitato alle sole disposizioni indicate nella deliberazione assunta dal Consiglio dei ministri, ferma restando la valutazione in ordine all’eventuale nesso di inscindibilità fra la disposizione validamente impugnata e le altre disposizioni della legge, non investite da autonome censure ritualmente proposte».

In applicazione di siffatto principio, nella sentenza medesima si è circoscritto l’oggetto del ricorso ai soli articoli di cui si proponeva l’impugnazione nella relazione del Ministro per gli affari regionali, la cui proposta risultava approvata nella riunione del Consiglio dei ministri in cui era stata deliberata l’impugnazione della legge provinciale.

La relazione del Ministro per gli affari regionali assume, in effetti, un valore generalmente definitorio dei limiti dell’impugnazione deliberata dal Consiglio dei ministri. In tal senso, nella sentenza n. 150, preso atto che «la generica previsione contenuta nella deliberazione del Consiglio dei Ministri di impugnare la legge [era] specificata dall’allegata relazione ministeriale con riferimento esclusivo all’art. 2» di una delle leggi regionali oggetto del giudizio, si è concluso che il ricorso dovesse essere ritenuto «validamente proposto solo nei confronti dell’art. 2 della legge della Regione Marche n. 5 del 2004».

Ed ancora, nel giudizio concluso con la sentenza n. 360, si è evidenziato che la delibera del Consiglio dei ministri conteneva la generica determinazione di impugnare «la legge della Regione Emilia-Romagna 24 giugno 2002, n. 12», ma, al contempo, poiché la relazione del Dipartimento affari regionali, sulla cui base il Consiglio dei ministri aveva deciso di impugnare, censurava espressamente solo alcuni articoli di essa, l’esame delle doglianze svolte nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri si doveva limitare a quelle relative a tali articoli (in termini analoghi la Corte si è espressa anche nelle sentenze nn. 300 e 393, nonché, sostanzialmente, nell’ordinanza n. 428; nella sentenza n. 391, la delimitazione oggettiva ha riguardato la reductio dell’impugnazione da un intero articolo ad un solo comma dello stesso).

L’importanza che la deliberazione del Consiglio dei ministri (o della Giunta regionale o provinciale) assume ai fini dell’individuazione del thema decidendum giustifica anche il vaglio della Corte in ordine alla sua sufficiente determinatezza (vaglio per consentire il quale la Corte è giunta anche a richiedere con ordinanza istruttoria il deposito di copia della relazione allegata al verbale della riunione del Consiglio dei ministri, che non risultava prodotta in giudizio: sentenza n. 321). A tal proposito, vengono in rilievo le statuizioni di cui alle sentenze nn. 50 e 384. Nella prima, si è dichiarata la inammissibilità del ricorso regionale della Regione Toscana, per la genericità della delibera della Giunta regionale, di autorizzazione al Presidente a proporre il ricorso, che ometteva di indicare specificamente le disposizioni da impugnare e le ragioni della impugnativa e si limitava ad affermare che la legge statale oggetto del giudizio appariva «in più parti invasiva delle competenze attribuite alla Regione dagli articoli 117 e 118 della Costituzione». A suffragio della decisione, si è rilevato che la delibera di autorizzazione al ricorso di cui all’art. 127 Costituzione «può concernere l’intera legge soltanto qualora quest’ultima abbia un contenuto omogeneo e le censure siano formulate in modo tale da non ingenerare dubbi sull’oggetto e le ragioni dell’impugnativa». Nella seconda decisione, avente ad oggetto il medesimo ricorso regionale, si ribadiva quanto in precedenza affermato (nella sentenza n. 120, invece, la Corte non si è pronunciata, constatata l’infondatezza delle questioni proposte ,sulla «dubbia ammissibilità della censura sotto il profilo della sua conformità alla delibera di impugnazione del Consiglio dei ministri»).

2.3. I contenuti del ricorso

La giurisprudenza costituzionale del 2005 mostra una costante attenzione della Corte nei confronti dei contenuti del ricorso, e segnatamente della idoneità dello stesso a radicare questioni di costituzionalità che siano sufficientemente precisate ed adeguatamente motivate.

Una siffatta attenzione è ben rappresentata dalla sentenza n. 450, in cui la Corte ha sottolineato: «è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello per cui il ricorso in via principale non solo “deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi”, indicando “le norme costituzionali e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione di costituzionalità” (ex plurimis, sentenze n. 360 del 2005, n. 213 del 2003 e n. 384 del 1999), ma deve, altresì, “contenere una seppur sintetica argomentazione di merito, a sostegno della richiesta declaratoria d’incostituzionalità della legge” (si vedano, oltre alle pronunce già citate, anche le sentenze n. 261 del 1995 e n. 85 del 1990). Ed invero, l’esigenza di una adeguata motivazione a sostegno della impugnativa si pone – come precisato dalla sentenza n. 384 del 1999 – “in termini perfino più pregnanti nei giudizi diretti che non in quelli incidentali, nei quali il giudice rimettente non assume propriamente il ruolo di un ricorrente e al quale si richiede, quanto al merito della questione di costituzionalità che esso solleva, una valutazione limitata alla ‘non manifesta infondatezza’”».

Alla luce di tali principî, espressamente o implicitamente confermati in molte decisioni, la Corte ha censurato le carenze riscontrate ne (a) l’individuazione delle norme oggetto delle questioni e delle norme di raffronto e ne (b) la motivazione delle censure.

a) Avendo riguardo ai termini delle questioni, possono evidenziarsi alcuni casi in cui il ricorso omette di individuare i parametri di giudizio o, più frequentemente, sia inficiato da una loro erronea indicazione.

Nel primo senso, può citarsi la sentenza n. 202, che reca una decisione di inammissibilità basata sulla omessa deduzione di norme parametro rilevanti nella materia in questione.

Un caso in parte analogo è quello di cui alla ordinanza n. 428, che ha deciso un ricorso evidentemente incompleto relativamente ai parametri invocati: la Corte ha, infatti, evidenziato come «non po[tessero] trovare ingresso le deduzioni difensive dell’Avvocatura dello Stato circa la violazione, da parte della Regione, con l’impugnata legge, delle norme costituzionali sul riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni nella materia “pesi e misure”, in quanto formulate, per la prima volta, in sede di discussione orale, e pertanto estranee al thema decidendum fissato nel ricorso introduttivo».

In varie occasioni, la Corte ha escluso l’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale sollevate in via principale dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti di leggi di Regioni a statuto speciale o delle Province autonome allorché il ricorso faceva esclusivo riferimento ad articoli del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, senza evocare a parametro le corrispondenti disposizioni statutarie (sentenze nn. 65, 202, 203 e 304). Peraltro, in taluni casi, tale carenza non ha avuto riflessi di tipo processuali, se non altro perché il ricorso introduttivo, «oltre a rivendicare, in base alle disposizioni del Titolo V della Costituzione, la competenza statale nella materia disciplinata dalla legge provinciale, lamenta[va] che le norme impugnate non rinven[issero] alcun titolo legittimante nello statuto speciale di autonomia» (sentenza n. 431).

Relativamente alla erroneità dell’indicazione delle norme di raffronto, la Corte ha censurato i richiami a norme costituzionali inconferenti con la materia trattata nel giudizio (ex plurimis, sentenza n. 467, nonché la sentenza n. 456, che ha escluso – in consonanza con quanto stabilito, in sede di giudizio in via incidentale, con la sentenza n. 244 – che possano riferirsi alle comunità montane le attribuzioni costituzionali delle Regioni o degli enti locali) e la «evidente erronea indicazione delle norme interposte» da cui veniva dedotta la illegittimità delle disposizioni legislative impugnate (sentenza n. 150).

In ordine all’oggetto del giudizio, il difetto di individuazione è stato talvolta ricavato dalla circostanza che venisse impugnato un atto legislativo nel suo complesso, specie allorché, invece, la delibera governativa (o giuntale) facesse riferimento soltanto ad alcuni articoli o ad alcune disposizioni (v. supra, par. precedente). Come è chiaro, quando la legge rechi un contenuto omogeneo (come, ad esempio, nei casi di cui alle sentenze nn. 62 e 159) l’impugnazione della sua totalità non trova alcun ostacolo.

L’esigenza che i termini delle questioni siano adeguatamente determinati non si traduce, peraltro, in una attitudine censoria della Corte costituzionale, la quale procede, nei limiti del possibile, alla precisazione del thema decidendum, quando esso presenta elementi di vaghezza. Così, nella sentenza n. 203, si è pervenuti a «dare un coerente significato alla impugnazione» analizzando l’articolo di legge impugnato e constatando, alla luce della pluralità di contenuti che esso recava, che l’intentio impugnatoria del ricorrente doveva essere ricondotta soltanto ad una parte di essi (una ridefinizione analoga della questione è contenuta anche nella sentenza n. 407). Del pari, nella sentenza n. 26, sebbene nelle conclusioni del ricorso si chiedesse la caducazione per illegittimità costituzionale degli articoli censurati nella loro totalità, la circostanza che gli articoli medesimi avessero una sfera soggettiva di applicazione molto vasta, relativa a tutte le pubbliche amministrazioni, imponeva una circoscrizione dell’ambito oggettivo dell’impugnazione veicolata dal parametro evocato – l’art. 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione –, in ragione del quale ad essere censurata doveva intendersi semplicemente l’applicabilità degli articoli impugnati alle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici nazionali.

Nell’ambito di siffatti poteri della Corte rientra anche la «correzione» dell’individuazione dei termini della questione, sempreché essa sia inequivocabilmente ricavabile dal contesto del ricorso. Se ne ha un esempio con la sentenza n. 304, in cui si è rilevato che, quanto ad alcune delle questioni concernenti «l’art. 38, comma 3», della legge provinciale impugnata, il ricorrente aveva fatto erroneo riferimento «ad una disposizione che formalmente non esiste[va], dal momento che l’art. 38 citato [era] costituito da un unico comma» che dispone l’inserimento di un articolo all’interno di un’altra legge «e che solo quest’ultimo articolo, in realtà, contempla[va] un comma 3 peraltro corrispondente in tutto e per tutto alla norma censurata dal ricorrente». In virtù di tale «piena corrispondenza», il ricorso è stato, comunque, per tale profilo, ritenuto ammissibile e riferito correttamente all’art. 38 della legge impugnata «nella parte in cui» introduceva l’articolo recante il comma 3 oggetto di censure.

b) Per quel che concerne le carenze che inficiano la motivazione, a precludere un esame del merito delle questioni sono state l’insufficienza (sentenza n. 151), la «genericità ed apoditticità» (sentenza n. 205), la non adeguatezza della motivazione (sentenza n. 462) o il suo limitarsi alla semplice invocazione delle norme parametro (sentenza n. 65), alla stessa stregua della carenza di specifici motivi (sentenza n. 417) o della mancata specificazione delle censure (sentenza n. 272).

Lo scrutinio inerente a queste carenze viene operato sul piano sostanziale, più che formale, come prova la sentenza n. 323, in cui si è rilevato che «al di là della copiosa e mera evocazione di parametri, l’unica motivazione del ricorso consiste[va] in un asserito contrasto tra la norma [provinciale] impugnata e l’art. 4 della legge statale n. 124 del 1999 […] senza peraltro che [fosse] neppure precisato sotto quale profilo siffatto contrasto tra legge provinciale e legge statale si traduc[esse] in un vizio di legittimità costituzionale della prima», dal che derivava «la sostanziale elusione dell’onere di allegazione gravante sul ricorrente nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale».

L’onere di motivazione, valutato in senso sostanziale, rende inammissibili anche quei ricorsi nei quali le argomentazioni si rivelino contraddittorie, come nel caso della sentenza n. 462, dove si è evidenziata la natura «intrinsecamente contraddittoria» della censura, «perché il ricorrente, da un lato, nel denunciare la violazione dell’evocato parametro costituzionale, afferma[va] la competenza esclusiva dello Stato a legiferare nella [dedotta] materia e, dall’altro, nel denunciare l’omessa disciplina del termine di prescrizione da parte del legislatore regionale, presuppone[va] invece la competenza legislativa della Regione, che prima aveva negato».

Lungi dal potersi ritenere contraddittorie, e dunque pienamente ammissibili, sono le questioni subordinate (sentenze nn. 26, 162, 234, 270, 279, 285, 319 e 383) o le questioni che presentino profili di illegittimità costituzionale in via gradata (sentenze nn. 51, 77, 205, 234, 321 e 467, ed ordinanza n. 349) : è ben possibile contestare la legittimità costituzionale di una norma di legge contemporaneamente alla luce di diversi parametri, «sia che si faccia valere un rapporto gradato tra i due presunti vizi, sia anche che si sostenga […] la contemporanea incidenza su più profili di una singola disposizione legislativa»; in tali evenienze, non si ravvisano dunque «elementi di perplessità o contraddittorietà che possano sostenere una pronuncia di inammissibilità del ricorso» (sentenza n. 467).

Parimenti ammissibili sono le questioni proposte in via «cautelativa»: la finalità interpretativa, o «cautelativa», della questione non incide, infatti, sull’ammissibilità della questione medesima, in quanto, per giurisprudenza costante, «a differenza del giudizio in via incidentale, il giudizio in via principale può ben concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili, soprattutto nei casi in cui […] sulla legge non si siano ancora formate prassi interpretative in grado di modellare o restringere il raggio delle sue astratte potenzialità applicative e le interpretazioni addotte dal ricorrente non siano implausibili e irragionevolmente scollegate dalle disposizioni impugnate, così da far ritenere le questioni del tutto astratte o pretestuose» (così, testualmente, la sentenza n. 249, ma nel medesimo senso è anche la sentenza n. 449).

Pur in un quadro tendenzialmente improntato ad un certo rigore, sufficiente ai fini di una pronuncia sul merito dell’impugnazione è che «il ricorso, sebbene succintamente argomentato, [sia] chiaro e determinato e non [lasci] dubbi sull’oggetto della contestazione» (sentenza n. 159): in quest’ottica, la Corte ha sovente respinto eccezioni – statali o regionali – dirette a denunciare la non adeguatezza della motivazione (sentenze nn. 77, 108, 159, 335 e 387). Soltanto quando siffatti requisiti minimi sussistano all’interno dell’atto introduttivo del giudizio, si può ammettere che successive memorie provvedano ad ulteriori specificazioni (sentenza n. 406).

La essenzialità della motivazione si apprezza anche con riferimento alle argomentazioni poste a sostegno dell’individuazione di una determinata norma oggetto o di una norma parametro.

In tal senso, non mancano decisioni che censurano la genericità delle motivazioni dedotte al fine di giustificare la individuazione di una disposizione come affetta da vizio di incostituzionalità (sentenze nn. 37, 279, 336 e 450) e ciò, a maggior ragione, quando la disposizione sia indicata come oggetto di questione soltanto nell’epigrafe del ricorso, senza essere ripresa nella sua parte motiva (sentenza n. 384).

Al pari di quanto riscontrabile per le disposizioni oggetto, anche sulla scelta dei parametri è indefettibile una motivazione ad hoc, con il che uno scrutinio di merito risulta precluso quando le argomentazioni a tal riguardo si appalesino generiche (sentenza n. 50) o siano addirittura, del tutto o per l’essenziale, omesse (sentenze nn. 202, 203, 304, 321, 335 e 383).

3. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale

In merito agli atti che sono stati oggetto di ricorso in via principale, non constano, nella giurisprudenza del 2005, particolari novità. Le tipologie, per l’essenziale costituite da atti legislativi statali e leggi regionali, conoscono alcune peculiarità in relazione a determinati giudizi, e segnatamente quelli di cui all’art. 123 della Costituzione, il cui oggetto è la delibera statutaria di una Regione a statuto ordinario (ordinanza n. 353, nonché – salvo quanto si dirà infra, par. 9 –, sentenza n. 469), e quelli previsti dall’art. 28 dello Statuto della Regione Siciliana (ordinanze nn. 103, 69, 293 e 403).

Con riferimento all’oggetto del giudizio, sono peraltro da segnalare soprattutto alcune statuizioni nelle quali il tipo di disposizione impugnata aveva riflessi anche in ordine alla sussistenza di un interesse alla pronuncia di illegittimità costituzionale. Sul tema, si rinvia a quanto verrà detto infra, par. 5.

4. Il parametro di costituzionalità

Nel corso del 2005, la Corte ha chiuso definitivamente il contenzioso instaurato antecedentemente alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione (sentenze nn. 33 e 272, ed ordinanza n. 349). In questi casi, lo scrutinio di costituzionalità è stato effettuato «avendo riguardo ai parametri costituzionali vigenti alla data di emanazione degli atti legislativi impugnati e, quindi, alla loro formulazione anteriore alla riforma di cui alla […] legge costituzionale» n. 3 del 2001 (sentenza n. 272; analogamente, sentenza n. 33).

Con riferimento ai parametri invocabili, molteplici decisioni hanno affrontato questioni in cui l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 era invocato come parametro (sentenze nn. 35, 50, 62, 145, 201, 234, 279, 378, 383 e 384). La portata di tale disposizione, confermando precedenti statuzioni, è stata ricostruita tenendo conto che le disposizioni della legge costituzionale modificativa del Titolo V della Costituzione si applicano alle Regioni ed alle Province autonome, ai sensi dell’art. 10 della stessa legge costituzionale, solo «per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite», con il che «deve necessariamente escludersi che le disposizioni della suddetta legge costituzionale possano comportare limitazioni alla sfera di competenza legislativa già attribuita [alle Regioni speciali o alle Province autonome] per effetto dello statuto di autonomia».

Circa la portata dell’art. 10, merita un cenno anche la sentenza n. 279, nella quale si è disattesa la eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa erariale, motivata sull’assunto che «le Regioni a statuto speciale godrebbero, in virtù della norma citata, di una tutela solo riflessa e derivata da quella spettante alle regioni ordinarie, con la conseguenza che non potrebbero reagire con autonomo ricorso principale alla eventuale violazione delle maggiori autonomie anche ad esse riconosciute dalla novella costituzionale». La perentoria replica della Corte è stata nel senso che il tenore dell’art. 10 è tale «da non lasciare alcun dubbio circa la volontà del legislatore costituzionale di estendere in via diretta alle Regioni a statuto speciale le maggiori autonomie riconosciute alle Regioni a statuto ordinario, senza alcuna limitazione quanto alle forme di tutela».

Per quel che concerne l’invocabilità di norme parametro che risultino abrogate, la sentenza n. 388 ha stabilito che qualora l’abrogazione di tali norme (nella fattispecie, trattavasi di una norma interposta) sia avvenuta successivamente alla proposizione del ricorso, essa deve ritenersi ininfluente sul giudizio in corso.

Tra tutte, la decisione probabilmente più innovativa, è comunque la sentenza n. 406, nella quale, per la prima volta, la Corte ha fatto impiego esplicito dell’art. 117, primo comma, della Costituzione come parametro nei confronti di disposizioni legislative (regionali) contrastanti con i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario». Su tale pronuncia, anche ai fini della ricostruzione delle norme comunitarie la cui violazione ridonda nel contrasto con la disposizione costituzionale da parte della legge regionale, si rinvia a quanto verrà detto infra, parte II, cap. III, sez. II, par. 2.

5. L’interesse a ricorrere

Molteplici sono le decisioni che hanno avuto riguardo all’interesse a ricorrere, analizzato sotto molteplici profili. Operando una schematizzazione dell’ampia giurisprudenza rintracciabile, possono distinguersi tre ambiti, relativi a (a) i parametri invocabili, a (b) le vicende incidenti sul persistere dell’interesse ed a (c) i casi che potrebbero definirsi di «sostituzione processuale».

a) Come noto, la configurazione del giudizio in via principale – sia prima che dopo la riforma del Titolo V – si presenta in forme parzialmente diverse a seconda che a ricorrere sia lo Stato ovvero una Regione o una Provincia autonoma.

Quando il giudizio è radicato a seguito di un ricorso statale, le questioni di legittimità costituzionale non debbono necessariamente essere costruite come conflitti competenziali, ben potendo avere ad oggetto la violazione di parametri costituzionali estranei a quelli che regolano i rapporti tra Stato e Regioni. Ed effettivamente non mancano i casi in cui la Corte è stata chiamata a giudicare di asserite lesioni di parametri riconducibili al Titolo V della Parte seconda della Costituzione unitamente a quelle di parametri altri (ex plurimis, sentenze nn. 173, 407 e 465). In taluni casi, il thema decidendum era addirittura integralmente estraneo alla logica rivendicativa di competenza, giacché se è vero che «lo Stato può impugnare le leggi regionali in via principale deducendo come parametro qualsiasi norma costituzionale, pur se estranea al riparto delle competenze legislative» (sentenza n. 277), si giustifica la circostanza che lo Stato, in sede di impugnazione, non deduca alcuna ragione di incompetenza (in tal senso, oltre alla sentenza n. 277, anche la sentenza n. 190).

Tali rilievi non valgono per il caso in cui a proporre ricorso sia una Regione (sentenze nn. 30, 36, 37, 50, 64, 107, 270, 272, 285 e 383), nella misura in cui la logica competenziale è l’unica che possa trovare cittadinanza, e ciò anche se, in certa misura, anche parametri tendenzialmente estranei a questa logica posso venire invocati. La Corte ha, infatti, più volte chiarito che «le Regioni sono legittimate a denunciare la violazione di norme costituzionali non attinenti al riparto di competenze con lo Stato solo quando tale violazione abbia un’incidenza diretta o indiretta sulle competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni stesse», di talché la pronuncia di inammissibilità non può derivare automaticamente dal tipo di parametro invocato, bensì dalla circostanza che nella prospettazione non si evidenzi alcuna incisione, «diretta o indiretta», delle competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni ricorrenti (così la sentenza n. 285; sul punto, tuttavia, si riscontra una copiosa giurisprudenza, in ordine alla quale possono segnalarsi anche le inammissibilità di cui alle sentenze nn. 36, 50, 270, 383 e 384).

b) Relativamente alle vicende che incidono sul persistere dell’interesse al ricorso ed alla decisione, sono molteplici le affermazioni che si connettono alla modifica ed all’abrogazione delle disposizioni oggetto del giudizio.

L’abrogazione della disposizione conduce ad una cessazione della materia del contendere soltanto quando la disposizione abrogata non abbia avuto medio tempore attuazione (sentenza n. 407 ed ordinanza n. 477), nel caso contrario potendosi constatare la persistenza dell’interesse alla pronuncia di merito (sentenza n. 203). Analogamente, l’intervenuta conversione in legge di un decreto legge non fa venir meno l’interesse ad una pronuncia su disposizioni del medesimo: in tal senso, nella sentenza n. 378, si è escluso che il sopravvenire della legge di conversione, con le sostanziali modifiche apportate al testo originario della disposizione impugnata, avesse fatto venir meno l’interesse alla decisione del ricorso, dal momento che la legge di conversione – facendo salvi gli effetti degli atti compiuti nelle more del procedimento legislativo di conversione – aveva conferito piena vigenza al testo originario della disposizione del decreto legge.

Caso affatto peculiare è quello delle delibere legislative siciliane promulgate parzialmente – con omissione delle disposizioni impugnate – nelle more del giudizio di costituzionalità (ordinanze nn. 103, 169, 293 e 403).

A fortiori inidonea ad escludere l’interesse al ricorso è stata ritenuta la modificazione della disposizione impugnata, purché, scil., il contenuto precettivo non risulti mutato, donde la necessità di trasferire le censure dalla disposizione impugnata a quella risultante dalle modifiche intercorse (sentenza n. 50). Né può risultare cessata la materia del contendere allorché la sopravvenienza di una norma di «sanatoria» non abbia effetti, ratione temporis, su quelle oggetto del giudizio (sentenza n. 455). Di contro, la sopravvenuta carenza di interesse è riscontrabile quando la modifica normativa sia satisfattiva delle richieste del ricorrente (sentenze nn. 50, 108, 205, 304 e 378, ed ordinanze nn. 428 e 474) e/o quando sia intervenuta successivamente all’avvenuta attuazione della disposizione impugnata (sentenze nn. 272 e 383).

La radicale modificazione può anche derivare da una pronuncia della Corte, il cui decisum e la cui ratio decidendi producano un mutamento del quadro normativo tale da rendere superate le eventuali violazioni di parametri costituzionali (così la sentenza n. 71, in riferimento a quanto disposto nella sentenza n. 196 del 2004, in tema di condono edilizio straordinario; in senso analogo, anche la sentenza n. 26). Più specificamente, la sentenza n. 397 ha constatato che la sopravvenuta carenza di interesse può desumersi da una pronuncia di illegittimità costituzionale che, riferita ad altra disposizione, incida su quella oggetto della decisione di tipo processuale nel senso di spostarne il dies a quo dell’efficacia, tanto da escludere ogni contrasto con una norma parametro (nella specie destinata a perdere vigenza anteriormente all’efficacia della disposizione legislativa).

Sotto un diverso profilo, è da sottolinearsi come la cessazione della materia del contendere non possa derivare dalla attuazione che abbia avuto la norma censurata, «permanendo nell’ordinamento una disposizione che, in ipotesi, potrebbe dare luogo anche a diverse applicazioni, non conformi agli evocati parametri» (sentenza n. 33).

Come è chiaro, il difetto sopravvenuto di interesse può essere reso manifesto dalla rinuncia formale al ricorso, che produce, se accettata, la estinzione del giudizio. Non mancano, peraltro, casi di rinuncia sostanziale, cioè non formalizzata ma espressa in sede di trattazione della causa, rinuncia che, senza poter estinguere il giudizio, fornisce comunque un segno inequivocabile del venir meno di ogni interesse alla decisione della Corte (si pensi, ad esempio, a quanto avvenuto nel giudizio concluso con la sentenza n. 36).

c) Per quanto attiene, infine, alle ipotesi di «sostituzione processuale», è da evidenziare la sentenza n. 417, in cui si è confermato il precedente della sentenza n. 196 del 2004 nel ritenere le Regioni legittimate a denunciare la legge statale per la violazione di competenze degli enti locali. La Corte ha infatti ritenuto sussistente in via generale una tale legittimazione in capo alle Regioni, perché «la stretta connessione, in particolare […] in tema di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali».

6. La riunione e la separazione delle cause

A tale tecnica la Corte ricorre nel caso di una pluralità di ricorsi proposti avverso un medesimo atto normativo e che tuttavia siano caratterizzati dalla impugnazione di disposizioni dal contenuto molto eterogeneo. Le singole questioni proposte dai diversi ricorsi introduttivi vengono prima separate e poi riunite in un unico giudizio in modo tale che con una decisione unica possano essere risolte questioni omogenee, sia pure sollevate da più di un ricorso.

I 133 ricorsi integralmente definiti nel 2005, di cui 65 promossi dallo Stato, hanno visto 22 casi di riunione e 7 ricorsi decisi con separate pronunce.

La riunione è stata disposta in 5 casi relativamente a ricorsi statali avverso leggi regionali aventi una certa omogeneità o, comunque, una continguità contenutistica (sentenze nn. 95, 150, 431, 456 e 469, tutte concernenti due ricorsi); in 2 casi il collegamento materiale ha riguardo atti legislativi statali impugnati da Regioni e leggi regionali impugnate dallo Stato (sentenze nn. 62 e 378, rispettivamente concernenti tre ricorsi statali ed uno regionale e quattro ricorsi statali ed uno regionale). Nei restanti 15 casi, si sono avute riunioni di impugnative regionali avverso gli stessi atti o avverso atti connessi: le sentenze nn. 30, 31, 35, 36, 234, 279, 285 e 336 hanno deciso due ricorsi regionali; la sentenza n. 383 e l’ordinanza n. 349 su quattro; la sentenza n. 417 su cinque; la sentenza n. 384 su 7; la sentenza n. 270 su 8; la sentenza n. 50 su 9; la sentenza n. 272 ha deciso su ben 17 ricorsi regionali, aventi ad oggetto una serie di atti legislativi in materia di «quote-latte».

Per quanto attiene alla separazione dei giudizi, cinque ricorsi regionali aventi ad oggetto la legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro) – c.d. «legge Biagi» – sono stati decisi in parte con la sentenza n. 50 ed in parte con la sentenza n. 384. Le sentenze nn. 277 e 462 hanno deciso un ricorso statale avverso una legge della Regione Lazio recante contenuti eterogenei, alla stessa stregua di quanto avvenuto, relativamente ad una legge della Provincia autonoma di Bolzano, con le sentenze nn. 304 e 323.

A questi dati devono aggiungersi i 3 ricorsi che erano stati parzialmente decisi nel 2004 e che, nel 2005, sono stati solo parzialmente definiti nel 2005, giacché restano pendenti alcune questioni. In questi tre casi, si è trattato di discipline statali coinvolgenti una pluralità di materie, e segnatamente la legge finanziaria (legge 24 dicembre 2003, n. 350, per cui resta pendente il ricorso n. 33 del 2004, parzialmente deciso con le sentenze nn. 36, 71, 77, 107, 134, 151, 160, 162, 175, 219, 222, 231, 242, 270 e 449) ed il c.d. collegato ordinamentale in materia di pubblica amministrazione (legge 16 gennaio 2003, n. 3, per cui restano pendenti i ricorsi n. 31 del 2003, parzialmente deciso con la sentenza n. 270, e n. 32 del 2003, parzialmente deciso con le sentenze nn. 31 e 270).

7. Il contraddittorio di fronte alla Corte

Il processo in via principale, in quanto processo di parti, si caratterizza per una assai elevata percentuale di casi nei quali le parti si costituiscono di fronte alla Corte.

L’anno 2005 non fa, in questo senso, eccezione. A fronte dei 136 ricorsi decisi (parzialmente o integralmente), si sono avuti soltanto 12 casi di mancata costituzione. Lo Stato è rimasto inerte in un solo giudizio, conclusosi con la dichiarazione di estinzione per rinuncia (ordinanza n. 6). Gli 11 casi di mancata costituzione delle Regioni sembrano, invece, assumere diversi significati: così, in 4 giudizi in cui lo Stato è rimasto l’unico soggetto presente si è avuta una dichiarazione di incostituzionalità (sentenze nn. 167, 319, 335 e 445) ed in un quinto un accoglimento parziale delle censure (sentenza n. 456, resa peraltro relativamente a due giudizi riuniti, in cui solo una delle Regioni non si era costituita). In un ulteriore caso si è fatto luogo ad una pronuncia di merito, ma di rigetto (sentenza n. 95, che ha deciso due giudizi riuniti, in uno dei quali era presente la difesa regionale). Nei restanti 5 giudizi non si è proceduto ad uno scrutinio di merito, ora in ragione della constata cessazione della materia del contendere (ordinanze nn. 103, 403 e 428) ora per la rinuncia al ricorso, prodromo dell’estinzione (ordinanze nn. 353 e 478).

In quattro casi la costituzione di una Regione è stata dichiarata inammissibile.

Nel giudizio concluso con la sentenza n. 150, con ordinanza letta nella pubblica udienza del 22 febbraio 2005 e allegata alla sentenza, è stata dichiarata inammissibile la costituzione della Regione Puglia, in quanto avvenuta oltre il termine prescritto dall’art. 23, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte. La Regione Puglia, nel riconoscere la tardività della propria costituzione, aveva presentato il 5 agosto 2004 una «nuova memoria di costituzione», ritenendo che la Corte, all’art. 33 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 176 del 29 luglio 2004, avesse permesso alle parti «nei procedimenti pendenti davanti alla Corte alla data di entrata in vigore delle […] norme integrative» di costituirsi «fino al decimo giorno successivo alla data stessa». Nel replicare a tale prospettazione, la Corte ha evidenziato l’infondatezza di tale argomentazione, «dal momento che il testo delle Norme integrative [era] stato semplicemente oggetto di una “integrale ripubblicazione” a fini meramente notiziali, dopo che la precedente deliberazione 10 giugno 2004 della Corte costituzionale (Modificazioni alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 151 del 30 giugno 2004, aveva apportato diverse modifiche alla precedente formulazione delle Norme integrative» (ciò che, peraltro, era stato espressamente evidenziato dal Comunicato di rettifica pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 187 dell’11 agosto 2004). Anche volendosi prescindere dal fatto che, comunque, l’art. 33, al momento della sua entrata in vigore, non trovava applicazione nei confronti di termini già scaduti, la mancata novazione della fonte meramente ripubblicata a fini notiziali rendeva evidente che l’efficacia di questa norma transitoria si fosse esaurita da quasi cinquanta anni.

Nella sentenza n. 391 si è dato conto che la Regione Puglia si era costituita in giudizio con atto depositato dopo la scadenza del termine di venti giorni decorrente dalla data del deposito del ricorso: la costituzione della Regione Puglia doveva pertanto dichiararsi inammissibile, «in conformità alla costante giurisprudenza [della] Corte circa la perentorietà, anche per la parte resistente, dei termini per la costituzione in giudizio».

In tutto analoghe sono state le decisioni relative alla costituzione tardiva della Regione Umbria nel giudizio definito con la sentenza n. 393 ed a quella della Regione Molise nel giudizio definito con la sentenza n. 397.

Una fattispecie peculiare si è presentata nel giudizio concluso con la sentenza n. 455, nel quale il Presidente della Regione Liguria, resistente, si era costituito senza previa autorizzazione della Giunta regionale. Il vizio riscontrabile non ha inficiato, tuttavia, l’avvenuta costituzione, risultando sanato dall’avvenuto deposito, unitamente alla memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, della copia autentica della deliberazione della Giunta che aveva proceduto alla ratifica della costituzione medesima.

Al di là di questi casi inerenti alla costituzione delle parti, uno dei profili che maggiormente hanno caratterizzato il processo in via principale nel corso del 2005 è rappresentato dalla frequenza degli atti di intervento spiegati da terzi, che hanno riguardato i giudizi conclusi da ben 10 pronunce (sentenze nn. 150, 232, 336, 344, 355, 378, 383 e 469, ed ordinanze nn. 20 e 103), per un n. totale di 36 interventi.

In taluni casi, degli interventi si è dato conto soltanto nella decisione definitiva. Nella ordinanza n. 20 si sono citati quattro interventi, di cui uno fuori termine; la manifesta inammissibilità del ricorso ha peraltro precluso ogni decisione in merito all’ammissione di questi soggetti.

Analoga è stata la sorte dell’intervento, spiegato anch’esso fuori termine, nel giudizio concluso con la dichiarazione di cessazione della materia del contendere di cui all’ordinanza n. 103.

Fuori termine è risultato altresì l’intervento – per un lapsus calami definito «nel ricorso per conflitto di attribuzioni» – posto in essere nel giudizio concluso con la sentenza n. 232.

Più articolata è stata la motivazione che ha presieduto alla declaratoria di inammissibilità dell’intervento nella sentenza n. 355, in cui si è evidenziato che, «a prescindere dalla tardività dell’intervento», era decisivo il rilievo che «nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale non è ammessa, secondo la costante giurisprudenza [della] Corte, la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui atto è oggetto di contestazione» («mentre del tutto improprio [era] il riferimento dell’interveniente ai principî affermati [dalla] Corte nei giudizi di ammissibilità del referendum, avuto riguardo all’evidente diversità di tali giudizi rispetto a quelli di legittimità costituzionale in via principale»).

In un caso, sull’intervento è stato deliberato con ordinanza collegiale, all’udienza del 26 ottobre 2004, sentite le parti: nella fattispecie, i cinque interventi sono stati dichiarati inammissibili «in base al consolidato orientamento [della] Corte, secondo il quale nei giudizi di legittimità costituzionale proposti in via principale non è ammessa la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio sia oggetto di contestazione» (sentenza n. 336).

Più frequente è stato l’utilizzo della forma dell’ordinanza presidenziale letta in udienza pubblica.

Così, nel giudizio concluso con la sentenza n. 150, l’ordinanza del 22 febbraio 2005 ha dichiarato l’inammissibilità di ben venti interventi (alcuni dei quali anche spiegati fuori termine), in ragione della configurazione del giudizio in via principale come processo «svolgentesi esclusivamente fra soggetti titolari di potestà legislativa».

Parimenti, l’ordinanza letta all’udienza del 7 giugno 2005 ha dichiarato l’inammissibilità dell’intervento spiegato facendo riferimento alla costante secondo cui «è inammissibile l’intervento, nei giudizi promossi in via principale nei confronti di leggi regionali o statali, di soggetti diversi da quelli titolari delle competenze legislative oggetto di contestazione, ancorché tali soggetti siano, o si assumano, destinatari attuali o potenziali degli effetti prodotti dalle leggi impugnate e, pertanto, anche dall’eventuale dichiarazione d’incostituzionalità di tali leggi» (sentenza n. 378, nella quale dell’inammissibilità dell’intervento si dà conto anche in un capo del dispositivo).

Sostanzialmente assimilabile è la motivazione che ha condotto, nell’ordinanza letta nell’udienza del 24 maggio 2005, alla declaratoria di inammissibilità dell’intervento spiegato: «il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via d’azione, è configurato come svolgentesi esclusivamente fra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente anche di fronte a questa Corte in via incidentale» (sentenza n. 383).

Identica è stata la motivazione dell’ordinanza letta all’udienza del 29 novembre 2005, la quale, nel negare ingresso all’intervento spiegato dai promotori del referendum sullo Statuto della Regione Umbria (anche in proprio, nonché in qualità di rappresentanti dell’apposito «Comitato per il referendum sullo Statuto regionale dell’Umbria»), ha ulteriormente precisato che «anche nel giudizio previsto dall’art. 123, secondo comma, della Costituzione, [la] Corte ha già avuto modo di chiarire che gli unici soggetti legittimati ad esserne parti sono la Regione, in quanto titolare della potestà normativa in contestazione, e lo Stato, indicato dalla Costituzione come unico possibile ricorrente» (sentenza n. 469).

Un caso a sé, infine, è costituito dall’intervento della Regione Friuli – Venezia Giulia nel giudizio di cui alla sentenza n. 344. Essendo oggetto di impugnazione, promossa dalla Regione Veneto, un decreto di attuazione dello Statuto speciale del Friuli – Venezia Giulia, quest’ultima Regione è stata destinataria, al pari dello Stato, della notifica del ricorso, donde la sua contiguità con la posizione di parte del giudizio.

8. Le decisioni della Corte

Le 101 decisioni rese nel 2005, di cui 85 sentenze e 16 ordinanze, recano, in totale, 348, un n., dunque, quasi equivalente ai 366 del giudizio in via incidentale.

8.1. Le decisioni interlocutorie

In taluni giudizi, la Corte ha pronunciato ordinanze istruttorie, concernenti segnatamente gli interventi di terzi e l’acquisizione di elementi utili ai fini della decisione (nel 2005 non si sono registrati casi di decisioni sulla sospensione dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall’art. 9, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131). Rinviando a quanto si è avuto modo di rilevare supra, par. 7, in merito alle ordinanze di inammissibilità degli interventi, con riferimento alle ordinanze istruttorie può segnalarsi come, tra i giudizi decisi nel 2005, vengano in rilievo due casi.

Il primo è quello – già menzionato supra, par. 2.2 – di cui alla sentenza n. 321, dove si afferma che, a seguito di una prima udienza di trattazione, la Corte, con ordinanza istruttoria del 14 novembre 2003, «ha richiesto alla Presidenza del Consiglio dei ministri di depositare copia della relazione allegata al verbale della riunione del Consiglio stesso in cui la proposizione del ricorso fu deliberata, che non risultava prodotta in giudizio».

Il secondo caso concerne l’ordinanza emanata, in data 15 dicembre 1999, a seguito dell’udienza pubblica del 26 ottobre 1999. Con essa la Corte ha disposto l’acquisizione di elementi di conoscenza concernenti profili tecnici e giuridici relativi alle c.d. «quote-latte» (verbali delle riunioni tenute del Comitato permanente delle politiche agroalimentari e forestali e della Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni e Province autonome, relazione finale della Commissione di garanzia quote latte, prospetto delle date di emissione dei bollettini Aima in riferimento alle campagne lattiero-casearie 1995-1996, 1996-1997, 1997-1998, quadro del contenzioso civile e amministrativo in corso, in relazione alla determinazione delle quote latte individuali e alle compensazioni effettuate dall’Aima, oggi Agea). L’ordinanza ha fornito elementi di prova poi impiegati nella definizione dei giudizi di cui alla sentenza n. 272 ed all’ordinanza n. 349.

8.2. L’estinzione del giudizio

I casi di estinzione a seguito di rinuncia al ricorso, ai sensi dell’art. 25 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, sono stati, in totale 14. Di questi, un dispositivo dà conto di una rinuncia parziale (sentenza n. 272), uno della rinuncia intervenuta relativamente ad un ricorso trattato congiuntamente ad altri (rinuncia, dunque, non preclusiva dell’esame del merito: ancora sentenza n. 272) ed un terzo dà conto congiuntamente di una rinuncia parziale e di rinunce relative a ricorsi trattati congiuntamente ad altri (sentenza n. 270). In altri undici casi la rinuncia ha prodotto una preclusione assoluta alla trattazione del merito dei ricorsi (ordinanze nn. 6, 40, 329, 349, con quattro identici capi di dispositivo, 353, 412, 426 e 478).

Da notare che in 3 casi la rinuncia è intervenuta in relazione a giudizi che non avevano visto la costituzione del resistente (ordinanze nn. 6, 353 e 478), donde l’assenza della necessità di una accettazione della rinuncia, altrimenti indefettibile.

8.3. Le decisioni processuali

Le decisioni processuali, che nel complesso si attestano a quota 80 capi di dispositivo, sono ripartite tra dichiarazioni di cessazione della materia del contendere, inammissibilità e manifeste inammissibilità.

A] Si sono avuti 18 casi di cessazione della materia del contendere. La maggior parte di queste ipotesi si sono avute – come più dettagliatamente riferito supra, par. 5 – in relazione all’avvenuta abrogazione, sostituzione o modifica delle disposizioni impugnate (sentenze nn. 50, 108, 205, 272, 304, 378 383 e 407, ed ordinanze nn. 428, 474 e 477). In quattro casi, si è riproposta, invece, la cessazione della materia del contendere conseguente alla promulgazione parziale delle leggi siciliane sottoposte allo scrutinio di legittimità costituzionale (ordinanze nn. 103, 169, 293 e 403).

B] Il n. più cospicuo di decisioni processuali è costituito, comunque, dalle 61 pronunce di inammissibilità, sovente presenti in n. plurimo all’interno di una decisione (ad esempio, si contano 13 capi di dispositivo nella sentenza n. 50, 8 nella sentenza n. 272 e 5 nella sentenza n. 383).

Siffatte pronunce sono motivate principalmente da difetti riscontrati in ordine alla motivazione delle censure (sentenze nn. 50, 65, 202, 205, 272, 279, 304, 323, 335, 336, 383, 417, 450 e 462), da vizi nella individuazione dei termini delle questioni (sentenze nn. 26, 37, 150, 151, 203, 360 e 383), dall’invocazione di parametri diversi da quelli concernenti il riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni (sentenze nn. 36, 50, 270, 285, 383 e 384) e dal difetto di interesse, variamente argomentato (sentenze nn. 37, 50, 71 e 397), anche in relazione ad una rinuncia «sostanziale» (sentenza n. 36; sul punto, si rinvia a quanto detto supra, par. 5).

Piuttosto numerosi sono anche i casi nei quali l’inammissibilità deriva dall’assenza, nella deliberazione del Consiglio dei ministri o della Giunta regionale, di riferimenti relativi alle poi disposizioni oggetto di impugnazione (sentenze nn. 50, 150 e 300); non mancano, poi, decisioni che censurano la genericità della delibera in questione (sentenze nn. 50, 384).

Nella sentenza n. 344, la decisione processuale ha fatto seguito alla constatazione della tardività della notifica del ricorso, mentre la sentenza n. 469 censura l’erroneità del procedimento di impugnazione per il quale si è optato (trattavasi di una delibera statutaria di una Regione ordinaria impugnata nelle forme di cui all’art. 127 della Costituzione; sul tema, si rinvia, comunque, alle considerazioni svolte infra, par. 9).

C] Ad esaurire il novero delle decisioni di tipo processuale, deve menzionarsi l’ordinanza n. 20, con la quale il deposito tardivo del ricorso è stato all’origine di una declaratoria di manifesta inammissibilità.

8.4. Le decisioni di rigetto

La maggioranza relativa delle formule contenute nei dispositivi delle decisioni è rappresentata da quelle che constatano la non fondatezza delle questioni poste, che sono, in totale, 155. Tra queste, 8 sono interpretative di rigetto, presentando il riferimento a «i sensi di cui in motivazione».

Il dato relativamente esiguo delle decisioni interpretative non osta alla constatazione del notevole impiego di strumenti ermeneutici anche nell’ambito del giudizio in via principale. Sono, infatti, assai frequenti le sentenze di rigetto che, pur non recando traccia nel dispositivo, possono dirsi, nella sostanza, interpretative (sentenze nn. 31, 36, 120, 231, 270, 278, 431 e 449). Ad esse possono aggiungersi le statuizioni che muovono dal riconoscimento di un erroneo presupposto interpretativo (sentenze nn. 272 e 336), ovvero dalla necessità di disattendere interpretazioni prospettate in chiave difensiva (sentenze nn. 108 e 465). Parimenti, la Corte non ha esitato a fornire interpretazioni delle norme parametro diverse da quelle fornite dai ricorrenti (ex plurimis, sentenza n. 173).

Lo sviluppo dell’attività ermeneutica nel giudizio in via principale ha fatto sì che anche in esso la declaratoria di illegittimità costituzionale si configurasse alla stregua di una extrema ratio. Ne sono dimostrazioni eloquenti quelle statuizioni nelle quali la Corte ha constatato preliminarmente l’impossibilità di superare in via interpretativa le ragioni dell’asserita incostituzionalità (assai significative, a tal proposito, risultano le sentenze nn. 145 e 407).

8.5. Le decisioni di accoglimento

I capi di dispositivo che recano una declaratoria di illegittimità costituzionale sono 99. Le tipologie di accoglimento presentano forti profili di comunanza con quelle che si sono riscontrate nel giudizio in via incidentale (accoglimento tout court, ablativo, additivo, sostitutivo), con l’aggiunta della declaratoria in via consequenziale, quest’anno assente nei dispositivi dei processi in via d’eccezione.

A] Per quel che concerne le illegittimità costituzionali tout court, si segnalano 33 casi (sentenze 50 – 2 capi di dispositivo –, 51, 62 – 3 capi –, 77, 106, 107, 159, 160, 167, 190, 232, 270, 271, 272, 277, 285 – 2 capi –, 286, 319, 335, 355, 378 – 2 capi –, 391, 405, 406, 407, 424, 455 e 465).

Da notare è che, se generalmente queste formule si rivolgono ad uno o più articoli o commi, talvolta colpiscono un atto nel suo complesso. A tal proposito si segnalano i 3 capi di dispositivo di cui alla sentenza n. 62 e la sentenza n. 319, in cui la disciplina contenuta nell’atto legislativo (sempre regionale) esorbitava, nel suo complesso, dalle competenze all’ente attribuite dalla Costituzione. La sentenza n. 159, invece, ha dichiarato l’atto legislativo regionale incostituzionale, nel suo complesso, per violazione di altri parametri.

A queste decisioni può ricondursi, in certa misura, anche la sentenza n. 391 che reca una illegittimità costituzionale dell’«articolo unico» di una legge regionale.

B] In ordine alle decisioni additive, al loro n. piuttosto elevato (33 capi di dispositivo), corrisponde anche una certa varietà nella formulazione. Così, se nella maggior parte dei casi l’incostituzionalità di una disposizione viene pronunciata «nella parte in cui non prevede» un determinato contenuto (sentenze nn. 51, 162, 219, 242, 279 – 2 capi di dispositivo –, 285 – 2 capi –, 383 – 5 capi – e 384 – 2 capi –), non mancano altri tipi di dichiarazioni: dall’incostituzionalità della disposizione «nella parte in cui non esclude» un certo contenuto (nella specie, l’applicazione di un regolamento alle Province autonome di Trento e di Bolzano: sentenza n. 145) all’incostituzionalità «nella parte in cui non dispone» (sentenze nn. 285 – 11 capi di dispositivo – e 383 – 2 capi –), formula, quest’ultima, particolarmente utilizzata nei casi di decisioni «manipolative di procedura» (su cui, v. infra).

Tra le decisioni di tipo additivo, alcune presentano peculiarità che meritano almeno un cenno.

La prima è la sentenza n. 271, con la quale si dichiara l’incostituzionalità di una disposizione legislativa regionale «nella parte in cui non richiama», all’interno del testo, il necessario rispetto della legislazione statale nella materia su cui va ad incidere (nella specie, la protezione dei dati personali): l’additiva, in questo caso, non si pone come una «aggiunta» di contenuto normativo, ma semmai come una esplicitazione dei rapporti intercorrenti tra legislazione statale e legislazione regionale.

Altra decisione da segnalare è la sentenza n. 62, che reca due dispositivi costruiti come una compenetrazione tra incostituzionalità additiva ed interpretativa. Vi si dichiara, infatti, l’illegittimità costituzionale di due disposizioni legislative statali «nella parte in cui non preved[ono] una forma di partecipazione della Regione interessata, nei sensi di cui in motivazione», a determinati procedimenti. Questo tipo di declaratoria appare funzionale alla introduzione, attraverso una «manipolativa di procedura», di meccanismi di raccordo ulteriori – individuati in motivazione – rispetto a quelli già contemplati dalle disposizioni censurate, in merito a procedimenti e fasi diverse da quelli nelle quali le Regioni hanno già la possibilità di intervenire.

Infine, la sentenza n. 231 può annoverarsi nell’ambito delle decisioni «additive di principio», adottando una «manipolativa di procedura» (veicolata dalla illegittimità costituzionale di una disposizione, «in quanto non prevede alcuno strumento volto a garantire la leale collaborazione tra Stato e Regioni») che, constatata l’esigenza di un coinvolgimento delle Regioni nel procedimento disciplinato dalla disposizione legislativa statale oggetto del giudizio, non precisa quali in concreto debbano essere gli strumenti attraverso cui garantire un tale coinvolgimento, all’uopo rilevando, in motivazione, che «il principio di leale collaborazione può essere diversamente modulato poiché nella materia in oggetto non si riscontra l’esigenza di specifici strumenti costituzionalmente vincolati di concretizzazione del principio stesso», e dunque che «deve essere rimessa alla discrezionalità del legislatore la predisposizione di regole che comportino il coinvolgimento regionale».

C] Meno numerose delle sentenze additive, ma comunque tutt’altro che infrequenti – 26 capi di dispositivo, in totale – sono le decisioni di tipo ablativo. La maggior parte di esse sono strutturate come illegittimità costituzionali di una disposizione «limitatamente alle parole» specificate nel dispositivo (sentenze nn. 270 – 7 capi –, 321, 383 – 2 capi –, 384 – 2 capi –, 431 – 2 capi – e 445). Negli altri casi, l’incostituzionalità della norma è dichiarata «nella parte in cui prevede» qualcosa (sentenze nn. 30, 145, 397 e 456) o «nella parte in cui introduce» una nuova disposizione legislativa (sentenza n. 383). Ancora, con valore sostanzialmente analogo, l’incostituzionalità ha avuto riguardo alla disposizione «nella parte in cui include» determinati soggetti tra i propri destinatari (nella specie, le amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali esistenti nel territorio della Regione da cui la legge impugnata proveniva: sentenza n. 26), «nella parte in cui si applica» a certi soggetti (nella specie, il personale delle Regioni: sentenza n. 449) o «nella parte in cui si riferisce» a certe categorie di personale ovvero alle Regioni ed agli enti locali (rispettivamente, sentenze nn. 407 e 417).

L’incostituzionalità ablativa ha avuto anche riguardo all’annullamento della disposizione «nella parte in cui disciplina» una certa attività (sentenza n. 108) o, infine, «nella parte in cui demanda» alla fonte regolamentare la disciplina di alcuni aspetti della normativa oggetto del giudizio» (sentenza n. 431).

D] In 4 casi, la Corte ha adottato un dispositivo di tipo sostitutivo, dichiarando la illegittimità della disposizione «nella parte in cui prevede [una certa forma di coinvolgimento della Conferenza unificata] anziché [oppure invece che] [un’altra]» (sentenze nn. 31, 222, 279 e 383).

E] Come si vede, tutte le decisioni sostitutive possono classificarsi all’interno di una specifica categoria, quella concernente le «manipolative di procedura», le decisioni, cioè, nelle quali l’illegittimità costituzionale mira a modulare una disciplina che sia pienamente conforme al principio di leale cooperazione, principio cardine dell’assetto autonomistico.

Con siffatte statuizioni, la Corte ha dedotto dal sistema la necessità di un coinvolgimento, o di un coinvolgimento maggiore di enti territoriali diversi rispetto a quello cui l’atto finale di un procedimento sia imputabile (o delle istanze rappresentative degli stessi). A tal fine, come già accennato, le decisioni manipolative si sono tradotte in una sostituzione «migliorativa» ovvero in una «addizione», ora declinata in forme specifiche ora attraverso un richiamo al principio cooperativo tradottosi, nel dispositivo, in una additiva di principio (sentenza n. 231).

Questo tipo di decisioni ha assunto una consistenza assai rilevante: al fianco delle decisioni sostitutive e della additiva di principio cui si è accennato, possono citarsi, al riguardo, varie decisioni additive strutturate secondo lo schema classico (sentenze nn. 51, 62, 162, 219, 242, 278, 383 e 384).

F] Nel corso del 2005, sono state adottate anche 3 dichiarazioni di illegittimità costituzionale in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27, secondo periodo, della legge n. 87 del 1953.

Nelle sentenze nn. 355 e 405, alla declaratoria principaliter di alcune disposizioni ha fatto seguito la incostituzionalità di tutte le altre disposizioni della legge regionale censurata, la Corte non poteva «omettere di rilevare che l’intera legge regionale si pone[va] in inscindibile connessione con le disposizioni specificamente impugnate dal ricorrente». Analoga è stata la motivazione addotta per l’incostituzionalità in via consequenziale di cui alla sentenza n. 424, nella quale, la pronuncia è stata resa una volta constatato che «l’intera legge regionale si pone[va] in inscindibile connessione con le disposizioni specificamente impugnate dal ricorrente», giacché gli articoli 8 e 9, non impugnati, [avevano] ragion d’essere in quanto funzionali al raggiungimento dello scopo della legge medesima».

9. Il controllo degli statuti ordinari ai sensi dell’art. 123 della Costituzione

Nel corso del 2005, la Corte ha reso una sola decisione, l’ordinanza n. 353, peraltro di scarsa rilevanza ai presenti fini.

Il Presidente del Consiglio dei ministri aveva impugnato molteplici disposizioni dello statuto della Regione Liguria approvato in prima deliberazione il 27 luglio 2004 ed in seconda deliberazione il 28 settembre 2004. Nelle more della decisione della Corte, il ricorrente – premesso che, in adeguamento ai rilievi formulati, la Regione Liguria (non costituitasi) aveva riapprovato in prima lettura il 23 novembre 2004 e, in seconda lettura, il 28 gennaio 2005 un nuovo testo statutario, che, decorso il termine di tre mesi dalla pubblicazione senza richiesta di referendum confermativo, era stato pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Liguria del 4 maggio 2005 come legge regionale 3 maggio 2005, n. 1 (Statuto della Regione Liguria) – rilevava essere venuti meno l’oggetto e i presupposti del ricorso, rinunciando conseguentemente al ricorso.

Più significative, ai fini della individuazione delle peculiarità del procedimento di approvazione dello statuto (e, quindi, anche del giudizio della Corte), sono le sentenze nn. 445 e 469, ambedue rese a proposito di ricorsi promossi ex art. 127 della Costituzione.

La prima ha deciso il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri avverso l’articolo 3, comma 3, della legge della Regione Liguria 24 dicembre 2004, n. 31 (Norme procedurali per lo svolgimento del referendum previsto dall’art. 123, comma 3, della Costituzione), nella parte in cui prevedeva che le operazioni referendarie di cui all’art. 123, terzo comma, Cost., iniziate prima del giudizio della Corte costituzionale sulla deliberazione statutaria impugnata dal Governo, perdessero efficacia «qualora [venisse] pronunciata l’illegittimità totale della deliberazione statutaria ovvero [venisse] pronunciata l’illegittimità parziale della medesima e le parti dichiarate incostituzionali coincid[essero] con l’oggetto della richiesta referendaria».

Ad avviso del ricorrente, la previsione che potessero esservi richieste referendarie coincidenti con le parti della deliberazione statutaria in ipotesi dichiarate incostituzionali si poneva in contrasto con la previsione costituzionale secondo cui il referendum deve avere ad oggetto soltanto l’intera delibera statutaria e non singole norme o parti di essa.

La Corte, accogliendo la questione, ha evidenziato che «il tenore letterale del terzo comma dell’art. 123 della Costituzione rende palese che il referendum ivi disciplinato si riferisce alla complessiva deliberazione statutaria e non a singole sue parti; pertanto, gli effetti che possono essere prodotti sul procedimento di richiesta di questo tipo di referendum da una eventuale sentenza della Corte costituzionale di accoglimento dei rilievi di costituzionalità sollevati dal Governo con il ricorso di cui al secondo comma dell’art. 123 Cost. non possono subire alcuna differenziazione a seconda dell’ampiezza della dichiarazione di illegittimità costituzionale». Alla luce di ciò, tanto nel caso in cui sia stata dichiarata la illegittimità totale quanto nel caso in cui sia stata dichiarata la illegittimità parziale della deliberazione statutaria, le operazioni del procedimento referendario eventualmente compiute prima del ricorso del Governo non possono non divenire necessariamente inefficaci: ogni pronuncia di accoglimento, infatti, «determina di per sé una mutazione dell’oggetto del referendum, sia nell’ipotesi che successivamente si proceda ad una nuova deliberazione statutaria da parte del Consiglio regionale in conseguenza di una dichiarazione di illegittimità totale o parziale della delibera statutaria, sia nell’ipotesi che si debba semplicemente prendere atto di un effetto meramente demolitorio di parte della deliberazione statutaria prodotto dalla sentenza [della] Corte».

Sulla scorta di questi rilievi di ordine generale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, della legge regionale della Liguria n. 31 del 2004 è stata peraltro limitata alle sole parole «e le parti dichiarate incostituzionali coincidano con l’oggetto della richiesta referendaria», in quanto erano queste a far erroneamente ritenere ammissibile l’ipotesi di una richiesta referendaria limitata ad alcune delle disposizioni contenute nella deliberazione statutaria (esente da profili di illegittimità era, invece, il riferimento, contenuto nello stesso comma 3 dell’art. 3 della legge regionale, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale solo di parte della deliberazione statutaria, «dal momento che anch’essa determinava la necessità che venisse considerato inefficace il precedente procedimento di richiesta referendaria, in quanto concernente un testo statutario diverso da quello risultante dalla pronuncia di accoglimento [della] Corte»).

Di notevole interesse è anche la sentenza n. 469, relativa ai giudizi di legittimità costituzionale della legge della Regione Umbria 16 aprile 2005, n. 21 (Nuovo Statuto della Regione Umbria), e della legge della Regione Emilia-Romagna 31 marzo 2005, n. 13 (Statuto della Regione Emilia-Romagna), promossi con distinti ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 127 della Costituzione.

Entrambi i testi statutari erano stati oggetto di precedenti impugnative del Governo, ai sensi dell’art. 123, secondo comma, della Costituzione, e le conseguenti sentenze della Corte nn. 378 e 379 del 2004, accogliendo in minima parte le questioni di legittimità sollevate, avevano dichiarato la illegittimità costituzionale di alcune disposizioni delle due delibere statutarie.

Entrambi i testi non erano stati oggetto di riesame da parte dei rispettivi Consigli regionali tramite la procedura di cui all’art. 123, secondo comma, della Costituzione, ma, dopo una fase di pubblicazione notiziale degli esiti del giudizio di costituzionalità e la riapertura dei termini per l’eventuale richiesta di referendum ai sensi dell’art. 123, terzo comma, erano stati promulgati dai Presidenti delle rispettive Regioni.

A fondamento dell’impugnativa, il Governo negava che si potesse, sulla base dell’art. 123 della Costituzione, procedere alla promulgazione di una delibera statutaria dichiarata parzialmente illegittima senza procedere previamente al suo riesame e ad una nuova approvazione secondo la procedura di cui all’art. 123, secondo comma, della Costituzione (l’asserita illegittimità della procedura di promulgazione seguita dalle Regioni avrebbe inoltre leso – sempre ad avviso del Governo – il diritto degli elettori regionali ad esercitare il potere di richiedere referendum popolare sul testo della deliberazione statutaria).

Entrambi i ricorsi sono stati dalla Corte dichiarati inammissibili, in quanto proposti «non già nell’ambito del procedimento di controllo preventivo di cui all’art. 123, secondo comma, Cost., ma nell’esercizio del potere che l’art. 127, primo comma, Cost. riconosce al Governo di impugnare a posteriori le leggi regionali, quindi assumendo come termine iniziale di riferimento per l’esercizio dell’azione la data della pubblicazione della legge regionale nel Bollettino Ufficiale della Regione interessata».

Nella sentenza si è sottolineato che le due azioni promosse dal Governo contrastavano «con il sistema dei controlli sulle fonti primarie regionali quale attualmente configurato nel Titolo V della Parte II della Costituzione e, specificamente, con le previsioni contenute nell’art. 123, secondo comma, e nell’art. 127, primo comma, che individuano due ben distinte procedure di controllo, mediante ricorso diretto del Governo [alla] Corte, per la legge che adotta lo statuto regionale e per tutte le altre leggi regionali».

Secondo la Corte, «l’esplicita previsione di uno speciale e meno favorevole (perché preventivo) sistema di controllo sulla legge statutaria comporta che a questa legge, una volta promulgata e pubblicata nel Bollettino Ufficiale, non possa applicarsi anche il controllo successivo previsto per le altre leggi regionali dall’art. 127, primo comma, Cost.»; d’altra parte, «è tutto il disegno costituzionale relativo alle forme di autonomia delle Regioni che, nel silenzio delle disposizioni costituzionali, si pone come ostacolo ad una estensione di forme di controllo tipiche di una fonte legislativa ad un’altra».

Ad evitare lacune nel sistema delle garanzie, la Corte ha rilevato che «il controllo preventivo di cui al secondo comma dell’art. 123 Cost. è senz’altro reiterabile […], seppure solo a certe condizioni, così come nel passato, nel vigore del previgente art. 127 Cost., era ben nota la possibilità di una nuova impugnativa (per quanto limitata) da parte del Governo delle leggi regionali rideliberate dal Consiglio regionale dopo il primo rinvio governativo»: non può escludersi, infatti, che «il testo della deliberazione statutaria, già sottoposto ad un primo scrutinio [della] Corte, venga successivamente modificato ad opera del Consiglio regionale e che questo nuovo testo susciti dubbi di legittimità costituzionale sul piano sostanziale in relazione alle nuove disposizioni, con la conseguente possibilità per il Governo di promuovere una nuova impugnazione limitatamente alle norme che non avrebbero potuto formare oggetto del precedente ricorso; analogamente, non può escludersi per il Governo la possibilità di presentare un nuovo ricorso facendo valere eventuali vizi formali relativi al procedimento di adozione dello statuto e successivi al primo giudizio di questa Corte». Come è chiaro, anche in questi casi, il dies a quo per l’azione del Governo «non potrebbe che essere costituito dalla data della necessaria pubblicazione notiziale, ad opera della Regione, dell’atto da cui risult[asse] il testo statutario che la Regione intenda deliberato come definitivo».

In entrambi i casi di specie la suddetta seconda pubblicazione notiziale si era verificata, ed era dunque evidente che il Governo avrebbe potuto promuovere il ricorso di cui al secondo comma dell’art. 123, sollevando le questioni di legittimità costituzionale oggetto dei giudizi nel termine dei trenta giorni successivi alle suddette pubblicazioni notiziali, termine che era invece ampiamente scaduto al momento della proposizione dei due ricorsi avverso le leggi di adozione degli statuti in questione.

Conclusivamente, si osservava che «la tipicità dell’azione prevista dall’art. 123, secondo comma, Cost. e la conseguente inutilizzabilità del ricorso ex 127, primo comma, Cost., per le deliberazioni di adozione delle leggi statutarie non esclude […] che possa impugnarsi la promulgazione e la successiva vera e propria pubblicazione di un testo statutario in ipotesi incostituzionale per vizi non rilevabili tramite il procedimento di cui all’art. 123, secondo comma, Cost.»; «in simili casi (peraltro senza dubbio marginali) al Governo resta comunque la eventuale possibilità di utilizzare lo strumento del conflitto di attribuzione, analogamente a quanto nel passato si è ammesso per le ipotesi, in qualche misura analoghe, concernenti la asserita lesione dei poteri governativi relativi al controllo preventivo sulle leggi regionali ai sensi del previgente art. 127 Cost. (sentenza n. 40 del 1977)».


Capitolo III

Il giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni

1. Premessa

Nel contenzioso che oppone lo Stato alle Regioni ed alle Province autonome, il giudizio per conflitto di attribuzione ha avuto un ruolo decisamente meno rilevante di quello che, nel 2005 (come, del resto, nel 2004), ha avuto il giudizio di legittimità costituzionale in via principale.

Nonostante la relativa esiguità del n. di decisioni (16), possono comunque riscontrarsi alcuni spunti di un certo interesse concernenti gli aspetti processuali del conflitto.

2. I soggetti del conflitto

Dei 22 conflitti decisi nel 2005, 20 sono stati promossi da una Regione o da una Provincia autonoma contro lo Stato; in un solo caso si è avuta l’ipotesi inversa (ordinanza n. 217), mentre in un caso il conflitto è stato promosso da una Regione contro una Provincia autonoma (sentenza n. 133).

Generalmente, i resistenti si sono sempre costituiti. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalla Regione Sardegna, nel conflitto deciso con l’ordinanza n. 217, e dallo Stato nel conflitto deciso con la sentenza n. 337. In uno dei cinque conflitti decisi con la sentenza n. 324 lo Stato si è costituito con memoria depositata fuori termine.

Oltre al ricorrente ed al resistente, in due casi hanno presentato memorie anche soggetti ulteriori.

Il primo si è avuto nel giudizio vertente sulla controversia tra la Regione Veneto e la Provincia autonoma di Trento in materia di canoni di concessione di derivazioni di acqua pubblica (sentenza n. 133), in cui si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, «rilevando che lo Stato non [aveva] ancora esercitato i poteri sostitutivi previsti» in materia, di talché la propria posizione processuale doveva ritenersi «di “mera” attesa della decisione». Lo Stato, conseguentemente, ha concluso «rimettendosi alla “giustizia” della Corte».

Il secondo caso ha riguardato il conflitto deciso con la sentenza n. 386, nel quale era stato sottoposto allo scrutinio della Corte l’atto di nomina del Presidente dell’Autorità portuale di Trieste. Tale intervento è stato dichiarato ammissibile in quanto l’interveniente era, «pacificamente, parte di giudizi pendenti davanti al Tar del Friuli-Venezia Giulia, aventi ad oggetto la legittimità del provvedimento di nomina del Presidente dell’Autorità portuale». In ragione di ciò, trovava applicazione il principio, enunciato dalla Corte in fattispecie analoghe, secondo il quale «il potere di intervento non può essere precluso quando “l’esito del conflitto è suscettibile di condizionare la stessa possibilità che il giudizio comune abbia luogo” (sentenze n. 225 e n. 76 del 2001; sentenza n. 154 del 2004)».

3. La deliberazione del ricorso

Nell’ambito delle decisioni pronunciate nel 2005, non si riscontrano questioni di particolare momento relativamente alla deliberazione del ricorso per conflitto ed al procedimento che da tale deliberazione prende avvio. A tal proposito, possono comunque menzionarsi due decisioni.

Nella sentenza n. 121 la Corte ha disatteso l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dall’Avvocatura dello Stato, motivata dalla circostanza che il decreto impugnato avrebbe costituito «solo il provvedimento conclusivo di un procedimento il cui inizio già rappresentava “atto di esercizio del potere, contro il quale la Provincia avrebbe dovuto proporre il conflitto, poiché ne era a conoscenza”». In particolare, la difesa erarariale evidenziava che la Provincia autonoma di Bolzano, ricorrente, «avrebbe avuto piena conoscenza dell’atto invasivo delle proprie competenze in data antecedente al decreto impugnato».

La Corte, sottolineando come, ai sensi dell’art. 39, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, il termine di sessanta giorni per proporre ricorso decorra dalla notificazione o pubblicazione ovvero dall’avvenuta conoscenza dell’atto impugnato, ha precisato, in consonanza con i propri precedenti, che il criterio dell’avvenuta conoscenza dell’atto «viene in considerazione soltanto in linea sussidiaria, quando manchino la pubblicazione o la notificazione» (sentenza n. 132 del 1976); «con l’ovvia conseguenza che, ove sia prescritta la pubblicazione dell’atto, il termine per la proposizione del ricorso “deve in ogni caso essere individuato avendo riferimento alla data della medesima”» (ordinanza n. 195 del 2004).

Con precipuo riguardo al caso di specie, il conflitto non poteva essere inficiato dall’asserita tardività, in quanto la Provincia autonoma di Bolzano lo aveva promosso entro sessanta giorni dall’avvenuta pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale, dell’atto impugnato.

Nella sentenza n. 386 si è affrontato il tema dei rapporti tra il giudizio per conflitto di attribuzione ed il giudizio di legittimità costituzionale in via principale. Il ricorso per conflitto di attribuzione poneva alcune questioni che erano oggetto anche di ricorso in via principale. A tal proposito, la Corte ha rilevato che «la circostanza che un conflitto di attribuzioni sia sollevato nei confronti di un provvedimento amministrativo contestualmente al ricorso proposto in via principale avverso un atto avente forza di legge non è, di per sé, ostativa all’esame nel merito del conflitto, purché il soggetto che lo solleva lamenti che la menomazione delle sue attribuzioni è autonomamente imputabile al provvedimento impugnato, e non già a questo quale mero e puntuale provvedimento attuativo ed esecutivo della norma censurata di incostituzionalità (sentenza n. 206 del 1975; sentenza n. 245 del 1985), dovendosi escludere che il conflitto di attribuzione costituisca sede idonea per lamentare l’illegittimità costituzionale di leggi delle quali il provvedimento amministrativo costituisce applicazione (sentenza n. 472 del 1995)». Quest’ultima affermazione vale ad escludere che «il ricorso per conflitto di attribuzioni si risolv[a], da un lato, in strumento attraverso il quale si eluderebbero i termini perentori previsti dall’art. 127 Cost. per promuovere in via principale le questioni di legittimità costituzionale di leggi regionali o statali e, dall’altro lato, in mezzo utilizzabile per sottrarre al giudice a quo il potere-dovere di sollevare in via incidentale la questione di legittimità costituzionale dell’atto avente forza di legge, sul quale si fonda il provvedimento davanti ad esso giudice impugnato».

4. Gli atti impugnati

La categoria di atti più frequentemente impugnata, nel quadro delle decisioni rese nel 2005, è stata quella dei decreti ministeriali, di natura regolamentare oppure amministrativa (nel primo senso, vengono in rilievo i due decreti del Ministro del lavoro e delle politiche sociali oggetto delle sentenze nn. 263 e 287 ed i quattro decreti del Ministro per le politiche agricole di cui alla sentenza n. 324; nel secondo senso, possono citarsi il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di cui all’ordinanza n. 4 ed i due decreti del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti oggetto delle sentenze nn. 339 e 387).

Ancora nell’ambito degli atti del potere esecutivo nazionale, la sentenza n. 121 ha avuto ad oggetto un decreto del Direttore generale dello sviluppo produttivo e competitività del Ministero delle attività produttive, mentre la sentenza n. 135 ha risolto un conflitto avverso una nota del Direttore generale del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio – Dipartimento per la protezione ambientale – Direzione per l’inquinamento e rischi industriali, ed un decreto del medesimo Direttore generale.

Le sentenze nn. 72 e 73 hanno riguardato, l’una, risoluzioni dell’Agenzia delle entrate – Direzione Centrale Gestione Tributi e, l’altra, una analoga risoluzione ed un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate.

L’Avvocatura dello Stato aveva eccepito l’inammissibilità dei conflitti in quanto aventi ad oggetto atti «non dello Stato, ma dell’Agenzia delle entrate». La Corte, in ossequio all’orientamento già manifestato nella sentenza n. 288 del 2004, ha respinto l’eccezione, «sul presupposto della sostanziale riconducibilità di tale ente, ai fini del conflitto, nell’ambito dell’amministrazione dello Stato»: «il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59) affida, infatti, all’Agenzia delle entrate la “gestione” dell’esercizio delle tipiche funzioni statali concernenti “le entrate tributarie erariali” prima attribuite al Dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze ed agli uffici connessi e, in particolare, assegna a tale ente la cura del fondamentale interesse statale al perseguimento del “massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali” (articoli 57, comma 1, primo periodo; 61, comma 3; 62, commi 1 e 2)». Su questa base, la Corte ha evidenziato come, ai soli fini del conflitto costituzionale di attribuzione tra Regione e Stato, «la riconducibilità alla sfera di competenza statale di tali essenziali funzioni – “affidate” all’Agenzia delle entrate nell’ambito del peculiare modulo organizzatorio disegnato per le agenzie fiscali dal decreto legislativo n. 300 del 1999, con disciplina derogatoria rispetto a quella dettata per le agenzie non fiscali (art. 10 del decreto) – esig[a] di imputare al sistema ordinamentale statale gli atti emessi nell’esercizio delle medesime funzioni» (sentenza n. 72).

Riconducibili ancora all’amministrazione statale sono gli atti impugnati nei conflitti decisi – peraltro, nel senso dell’inammissibilità (v. infra, par. 6) – con la sentenza n. 177, che ha avuto ad oggetto un decreto dell’Agenzia del demanio, una convenzione tra amministrazione dello Stato e Comune di Cagliari, convenzioni aventi ad oggetto un compendio immobiliare situato in Cagliari, atti di gestione concernenti determinati beni immobili.

La sentenza n. 302 ha avuto ad oggetto una nota del Provveditorato regionale alle opere pubbliche – Magistrato alle acque di Venezia.

Per quanto attiene alle funzioni di controllo della Corte dei conti, la sentenza n. 171 ha definito due conflitti di attribuzione sorti a seguito di una nota della Corte dei conti, Sezione di controllo di Trento, di richiesta di sottoposizione al controllo delle sezioni riunite dei contratti collettivi di lavoro dei dipendenti provinciali e della delibera della Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo, di affermazione della propria competenza a sottoporre a verifica di compatibilità economico-finanziaria i contratti collettivi di lavoro dei dipendenti provinciali.

Dodici ordini di esibizione in forma integrale della documentazione e degli atti contabili pertinenti le contribuzioni e i finanziamenti liquidati dall’Assemblea regionale siciliana, emessi dalla Procura regionale presso la sezione giurisidizionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana sono stati l’oggetto della sentenza n. 337.

Infine, per quanto concerne gli atti regionali o provinciali impugnati in sede di conflitto, trattasi, in un caso, di una deliberazione della Giunta della Provincia autonoma di Trento e di una determinazione del dirigente del servizio utilizzazione delle acque pubbliche della Provincia di Trento (sentenza n. 133) e, nell’altro, di una ordinanza contingibile ed urgente del Presidente della Giunta della Regione Sardegna (ordinanza n. 217).

5. I parametri del giudizio

La circostanza che, dei 22 conflitti definiti nel 2005, ben 14 abbiano visto coinvolti (in posizione di ricorrente o di resistente) una Regione speciale o una Provincia autonoma, ha inciso inevitabilmente sui parametri invocati.

In effetti, l’evocazione di uno degli statuti speciali ha caratterizzato i giudizi definiti con le sentenze nn. 72, 73, 121, 133, 135, 171, 177, 263, 287, 302, 337 e 386, e l’ordinanza n. 217). Generalmente, al fianco della violazione dello statuto speciale, è stata dedotta anche la violazione delle norme di attuazione dello stesso (sentenze nn. 72, 73, 121, 171, 177, 263, 287, 302 e 386). A questi parametri si è aggiunto il riferimento, veicolato dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, alle disposizioni del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, riferimento che talvolta si è sommato a quello dei decreti di attuazione degli statuti (sentenze nn. 121, 263 e 287) e talaltra vi si è sostituito (sentenze nn. 217 e 337).

Le disposizioni del nuovo Titolo V sono state invocate come unico parametro di giudizio in due sole occasioni (sentenza n. 339 ed ordinanza n. 4), tante quante sono state le invocazioni del Titolo V in sede di conflitto sollevato anteriormente alla riforma (sentenze nn. 133 e 324): per giurisprudenza consolidata, in questi casi ad essere impiegati sono stati i parametri vigenti al momento della proposizione del ricorso.

Da notare è che, sia nella sentenza n. 133 che nella sentenza n. 324, il parametro costituzionale è stato integrato anche con il richiamo a disposizioni di rango legislativo (rispettivamente, il decreto legislativo n. 112 del 1998, sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, ed il decreto legislativo n. 143 del 1997, sul conferimento alle Regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca).

Piuttosto frequente è stata anche l’invocazione del principio costituzionale di leale cooperazione (in particolare, sentenze nn. 72, 73, 177, 324 e 386, nonché, implicitamente ma inequivocabilmente, sentenza n. 339).

6. La materia del contendere ed il «tono costituzionale» del conflitto

Con riferimento alla materia del contendere ed al «tono costituzionale» del conflitto, possono segnalarsi quattro diverse categorie di pronunce, relative, rispettivamente, a (a) l’esistenza di un contrasto puramente interpretativo, a (b) il difetto di interesse al conflitto, a (c) la inidoneità dell’atto impugnato a ledere le attribuzioni costituzionali ritenute violate ed a (d) il conflitto avente ad oggetto una vindicatio rerum.

a) Nella prima categoria, si annovera la sentenza n. 121, nella quale si è deciso il conflitto sollevato avverso un decreto di revoca dell’autorizzazione alla certificazione comunitaria, rilasciata all’organismo I & S, Ingegneria e Sicurezza S.r.l., di Bolzano. La Corte ha rilevato, in primo luogo, che nel decreto impugnato non si escludeva che alla Provincia autonoma spettasse una competenza in materia di manutenzione e di verifiche di sicurezza, ma si contestavano all’organismo notificato le modalità (non conformi alla normativa comunitaria) di esercizio della attività di verifica.

Le posizioni rispettivamente sostenute dalla Provincia e dal Governo non consentivano di ravvisare nella controversia «la materia di un conflitto di attribuzione ex art. 39 della legge n. 87 del 1953, sia sotto il profilo soggettivo della rivendicazione di una sfera di competenza costituzionalmente riservata alla Provincia, sia sotto l’aspetto oggettivo della menomazione della sfera di attribuzioni costituzionali della Provincia a seguito dell’esercizio illegittimo del potere dello Stato». Ciò in quanto la Provincia non negava che spettasse allo Stato la competenza nella specie esercitata: le ragioni del contendere si incentravano piuttosto sul fatto che la Provincia di Bolzano – contrariamente allo Stato – riteneva che le incompatibilità che potevano, come nel caso, comportare la revoca dell’autorizzazione alla certificazione di conformità comunitaria, non fossero quelle nella specie addotte per revocare l’autorizzazione.

Risultava pertanto «evidente che la controversia, risolvendosi in un contrasto interpretativo sulla sfera di applicazione» della normativa comunitaria e del d.P.R. n. 162 del 1999, era «priva del necessario carattere costituzionale, in quanto non tocca[va] la ripartizione delle competenze tra Stato e Provincia autonoma»: l’eventuale illegittimità del decreto impugnato, «non essendo riconducibile ad un contrasto con norme costituzionali relative alla spettanza del potere, avrebbe dunque potuto offrire motivo per un ricorso avanti alla giurisdizione amministrativa, ma non incide[va] sulla sfera di attribuzioni costituzionalmente riconosciuta alla Provincia».

b) Nelle sentenze nn. 263 e 287, la Corte ha disatteso due eccezioni concernenti la carenza di interesse attuale al ricorso prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato, resistente in giudizio. In entrambi i casi, il presupposto dell’eccezione riposava sul fatto che le disposizioni regolamentari impugnate, nel prevedere finanziamenti per la ricorrente, avevano già avuto effetti ed i finanziamenti ottenuti già erano stati spesi (non avendo in proposito fornito, la ricorrente, prova contraria). La Corte ha replicato che va osservato che, «in materia di conflitti tra enti, la lesione delle attribuzioni costituzionali ben può concretarsi anche nella mera emanazione dell’atto invasivo della competenza, potendo perdurare l’interesse dell’ente all’accertamento del riparto costituzionale delle competenze» (così, testualmente, la sentenza n. 287).

Con la sentenza n. 324, si è constatato che le modifiche legislative e l’abrogazione del decreto ministeriale oggetto del conflitto da parte di un decreto legge poi convertito, con modificazioni, in legge, non facevano venire meno l’interesse al conflitto proposto dalla Regione, «atteso che gli effetti dell’abrogazione del regolamento impugnato non [erano] retroattivi, ma decorr[eva]no “dal primo periodo di applicazione del medesimo decreto legge” […] e considerato che la norma secondaria, medio tempore, ha ricevuto attuazione».

c) Circa l’inidoneità dell’atto impugnato a ledere le attribuzioni costituzionali del ricorrente, la Corte ha disatteso due eccezioni di inammissibilità formulate dallo Stato, ancora nei giudizi definiti con le sentenze nn. 263 e 287.

Nella prospettazione erariale, la (eventuale) lesione della sfera di attribuzione della Provincia di Trento sarebbe, in ipotesi, stata prodotta dalla legge attributiva del potere regolamentare di cui la ricorrente lamentava l’esercizio, e non dal regolamento ministeriale oggetto del conflitto, meramente esecutivo della prima. La Corte ha negato la fondatezza di tale ricostruzione, sottolineando come la disposizione legislativa recasse una «clausola di salvaguardia» (consistente nella previsione della sua applicazione alla Provincia di Trento, ricorrente, «compatibilmente con le norme» dello statuto), donde la astratta lesività di un regolamento che si ponesse in contrasto con lo statuto speciale o anche con le norme di attuazione dello stesso, atteso che, alla stregua della «consolidata giurisprudenza» della Corte, «al pari delle norme dello statuto speciale, anche le relative norme di attuazione […] possono essere utilizzate come parametro del giudizio di costituzionalità» e che, «in conseguenza di questa equiparazione tra norme statutarie e norme di modifica e di attuazione dello statuto, la “clausola di salvaguardia” [doveva] essere intesa, secondo una lettura costituzionalmente orientata, come riferita a tutte le disposizioni che fondano e definiscono l’autonomia speciale della Provincia» (così, testualmente, la sentenza n. 287).

L’inidoneità dell’atto impugnato a ledere le attribuzioni costituzionali contestate è stata invece all’origine delle decisioni di inammissibilità pronunciate con le sentenze nn. 72 e 73. Premesso che, «per aversi materia di un conflitto di attribuzione tra Regione e Stato, è necessario che l’atto impugnato sia idoneo a ledere la sfera di competenza costituzionale dell’ente confliggente», si è riconosciuto che gli atti oggetto dei conflitti, vale a dire risoluzioni dell’Agenzia delle entrate – Direzione Centrale Gestione Tributi e un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, non possedevano questa caratteristica, in quanto, in un caso, si limitavano, «attraverso l’istituzione di codici-tributo, a fornire istruzioni sulle modalità di versamento delle imposte e, pertanto, inserendosi in una fase procedimentale meramente provvisoria (che precede l’intervento dell’indicata struttura di gestione e non ne condiziona l’operato), non incid[eva]no sulla spettanza del gettito e non [erano] idonei a ledere le prerogative costituzionali della Regione Siciliana in materia finanziaria» (sentenza n. 72), e, nell’altro caso, «si limita[va]no a regolare le modalità di versamento del contributo unificato, senza incidere sull’assegnazione della quota spettante alla Regione Siciliana del gettito correlativo, e a disciplinare un aspetto esecutivo del procedimento di riscossione del contributo, con efficacia esterna solo nei confronti dei contribuenti e dei soggetti abilitati a riceverne i versamenti» (sentenza n. 73).

La sentenza, infine, n. 386 ha dichiarato «l’inammissibilità del conflitto in quanto sollevato nei confronti di provvedimento meramente attuativo di una norma assoggettabile, e di fatto assoggettata, a giudizio di legittimità costituzionale in via principale»: nella specie, era stato impugnato il decreto di nomina del Presidente dell’Autorità portuale di Trieste, adottato in conformità a quanto prescritto dalle disposizioni legislative impugnate in altra sede (ed oggetto del giudizio concluso con la sentenza n. 378).

d) Due sono stati i casi di declaratoria di inammissibilità motivata dalla circostanza che il conflitto si risolveva (in tutto o in parte) in una pura vindicatio rerum: per consolidata giurisprudenza, infatti, la Corte «esclude l’ammissibilità di un conflitto tra enti, quando si controverta della titolarità di beni (vindicatio rei) e non della spettanza o della delimitazione di funzioni attribuite dalla Costituzione o dagli statuti speciali di autonomia e dalle relative norme di attuazione (vindicatio potestatis), essendo nel primo caso la questione da proporre nelle forme ordinarie davanti ai giudici comuni competenti» (sentenza n. 302).

Nel caso deciso con la sentenza n. 177, le pretese delle due ricorrenti, che avevano promosso conflitto avverso un atto del Direttore dell’Agenzia del demanio, che individuava come appartenenti al patrimonio dello Stato taluni beni immobili esistenti nei rispettivi territori, erano fondate esclusivamente sulla dedotta appartenenza ad esse dei beni immobili in questione, «senza alcun riferimento a (neanche ipotizzate) lesioni di attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, in ragione di un eventuale nesso di strumentalità necessaria tra beni e attribuzioni». Questo specifico contenuto rendeva manifesto come i conflitti fossero «in realtà diretti soltanto all’accertamento del titolo giuridico di appartenenza dei beni».

Nella sentenza n. 302, invece, pronunciandosi circa una nota del Provveditorato regionale alle opere pubbliche – Magistrato alle acque di Venezia con la quale si eccettuava dal trasferimento al demanio della Regione talune tratte del torrente Judrio e dei fiumi Tagliamento e Livenza e si invitavano le Agenzie del demanio interessate a non procedere al trasferimento a favore dell’ente territoriale di alcuni beni immobili (caselli e magazzini idraulici) del demanio idrico statale, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto «in relazione alla rivendicazione della titolarità degli immobili (caselli e magazzini idraulici) non strumentali alle tratte del torrente Judrio e dei fiumi Livenza e Tagliamento, rimaste nel demanio idrico statale»: trattavasi, dunque, di «una questione priva di tono costituzionale, giacché involge[va] unicamente un aspetto proprietario e richiede[va] l’accertamento, di puro fatto, in ordine alla sussistenza di un nesso pertinenziale tra i beni rivendicati dallo Stato e le tratte fluviali di sua competenza».

7. La riunione dei giudizi

In tre casi, si è proceduto ad una riunione di più ricorsi.

La sentenza n. 171, che ha deciso congiuntamente due ricorsi promossi dalla Provincia autonoma di Trento, ha dato conto della «connessione soggettiva ed oggettiva» dei due giudizi, aventi ad oggetto rispettivamente una nota della sezione di controllo di Trento della Corte dei conti ed una connessa deliberazione delle sezioni riunite in sede di controllo della medesima Corte.

Nella sentenza n. 177 si è dato conto, ai fini della riunione, che le due Regioni ricorrenti chiedevano l’annullamento «del medesimo provvedimento in base a motivazioni sostanzialmente coincidenti, pur se riferite alle rispettive norme statutarie».

Infine, con la sentenza n. 324, si sono decisi cinque ricorsi, promossi da due diverse Regioni, aventi tutti ad oggetto regolamenti ministeriali in materia di «quote latte»; a fondamento della riunione è stata addotta «la sostanziale identità dell’oggetto delle questioni proposte nei cinque giudizi».

8. Le decisioni della Corte

Le 14 sentenze e le 2 ordinanze rese nel 2005 recano, complessivamente, 18 formule all’interno dei dispositivi, molte delle quali di tipo processuale.

8.1. Le decisioni interlocutorie

Nell’ambito del giudizio concluso con la sentenza n. 324, la Corte, con ordinanza istruttoria depositata il 30 dicembre 1999, in esito all’udienza del 26 ottobre 1999, ha disposto l’acquisizione di elementi di conoscenza concernenti i procedimenti nell’ambito dei quali gli atti regolamentari impugnati erano stati emanati (verbali delle sedute della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome e relativi allegati riferentisi alla materia delle quote latte). Siffatte acquisizioni hanno permesso un adeguato vaglio, nel giudizio di merito, circa l’avvenuto rispetto del principio di leale cooperazione.

8.2. L’estinzione del giudizio

In tre casi, i giudizi sono stati dichiarati estinti a seguito dell’intervenuta rinuncia al ricorso accettata dalla controparte costituita (sentenza n. 324 ed ordinanza n. 4). Nel caso della ordinanza n. 217, la mancata costituzione della resistente ha reso superflua la sua accettazione (trattavasi, peraltro, dell’unico ricorso promosso dallo Stato).

Da notare è che la sentenza n. 324 ha preso atto delle rinunce della Regione Veneto ai quattro ricorsi promossi (e trattati congiuntamente); la decisione di merito ha dunque riguardato il solo ricorso residuo, promosso dalla Regione Lombardia.

8.3. Le decisioni di inammissibilità

I 6 dispositivi di inammissibilità del ricorso sono stati motivati, come si evince da quanto evidenziato supra, par. 6), dalla inidoneità dell’atto impugnato a ledere le attribuzioni costituzionali del ricorrente (sentenze nn. 72, 73 e 386), dalla esistenza, al fondo del conflitto, di un contrasto puramente interpretativo (sentenza n. 121) e dalla mera vindicatio rerum che caratterizzava il petitum (sentenze nn. 177 e 302).

8.4. Le decisioni di merito

Le 9 formule con le quali la Corte ha deciso il merito dei conflitti sollevati sono state in 3 casi di rigetto (sentenze nn. 135, 302 e 324) ed in 6 di accoglimento (sentenze nn. 133, 171, 263, 287, 337 e 339).

La decisione di non spettanza della competenza esercitata dall’ente che ha posto in essere l’atto ha condotto al conseguente annullamento dell’atto. Tale annullamento è stato, in quattro casi, totale (sentenze nn. 133, 171, 337 e 339), mentre in due casi degli atti regolamentari impugnati sono state annullate varie disposizioni, ma non integralmente bensì «nella parte in cui si applica[va]no alle Province autonome di Trento e di Bolzano» (sentenze nn. 263 e 287). Queste ultime decisioni hanno spiegato dunque effetti, non solo nei confronti della ricorrente (Provincia di Trento), ma anche dell’altra Provincia autonoma, a seguito dell’estensione motivata dalla «piena equiparazione statutaria delle Province autonome di Trento e di Bolzano relativamente alle attribuzioni di cui tratta[va]si»).


Capitolo IV

Il giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato

 

Sezione I

La fase dell’ammissibilità

1. Premessa

Nel 2005, la Corte ha reso 23 ordinanze che hanno deciso la fase dell’ammissibilità di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Se la maggior parte di esse ha riguardato l’ipotesi ormai «classica» dell’impugnazione di una delibera di insindacabilità delle opinioni espresse da un parlamentare ex art. 68, primo comma, della Costituzione, non mancano ricorsi che hanno avuto ad oggetto fattispecie diverse, mai giunte prima alla cognizione della Corte.

2. I soggetti del conflitto

Gli organi della magistratura giudicante sono stati all’origine della maggioranza dei ricorsi della cui ammissibilità la Corte ha deciso: nei conflitti di cui alle ordinanze nn. 5, 10, 56, 94, 117, 119, 129 e 178, ricorrenti erano tribunali; i giudici per l’udienza preliminare presso il tribunale hanno promosso i ricorsi della cui ammissibilità si è deciso con le ordinanze nn. 104 e 105; l’ordinanza n. 416 ha avuto ad oggetto il ricorso promosso da un giudice per le indagini preliminari presso il tribunale; le corti d’appello, infine, hanno dato luogo alle ordinanze nn. 294, 330 e 473. La Corte ha costantemente ribadito la legittimazione di questi organi a sollevare conflitto, essendo essi competenti a dichiarare definitivamente, in relazione ai procedimenti dei quali sono investiti, la volontà del potere cui appartengono, «in considerazione della posizione di indipendenza, costituzionalmente garantita, di cui godono i singoli organi giurisdizionali» (tale ratio decidendi è rintracciabile in tutte le ordinanze, sebbene talvolta con formulazione leggermente diversa sul piano puramente formale).

Tutte le ordinanze che hanno fatto seguito ad un ricorso di organi della magistratura giudicante hanno riguardato delibere di insindacabilità dei parlamentari, donde l’individuazione preliminare del soggetto resistente in una delle due camere (la Camera dei deputati nei casi di cui alle ordinanze 5, 10, 94, 104, 105, 117, 119, 294, 330 e 473; il Senato della Repubblica relativamente ai ricorsi di cui alle ordinanze nn. 56, 129, 178 e 416). La Corte ha – scil. – costantemente ribadito la legittimazione al conflitto delle camere.

La Camera dei deputati medesima ha assunto la veste della ricorrente in 3 casi, tutti relativi all’impugnazione di atti giurisdizionali (ordinanze nn. 44, 185 e 186). Conseguentemente, nel dichiarare l’ammissibilità, la Corte ha individuato come resistenti organi della magistratura giudicante (segnatamente, tribunali); in due casi, inoltre, come destinatario della notifica del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità è stato indicato anche il Senato della Repubblica (ordinanze nn. 185 e 186).

Parzialmente diverso è il caso affrontato con l’ordinanza n. 357, in cui il ricorso avverso un atto giurisdizionale è stato promosso dal senatore Cossiga, nella qualità di ex Presidente della Repubblica. Nel dichiarare il conflitto ammissibile, la Corte ha ribadito la legittimazione attiva del senatore Cossiga già dichiarata nel conflitto deciso con la sentenza n. 154 del 2004 e con l’ordinanza n. 455 del 2002, a quest’ultima rifacendosi nel disporre, «a norma dell’art. 37, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, la notificazione del ricorso anche al Presidente della Repubblica in carica la cui posizione costituzionale, in relazione alle questioni di principio circa l’immunità di cui all’art. 90 della Costituzione, è oggetto […] del ricorso per conflitto di attribuzione».

Il Presidente della Repubblica (in carica) è stato all’origine del conflitto dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 354, che ha riservato alla fase di merito una più approfondita indagine circa l’ammissibilità del conflitto, coinvolgente il Ministro della giustizia, anche con riguardo ai requisiti soggettivi.

Nell’ordinanza n. 404 è stata positivamente valutata la legittimazione al conflitto degli organi della magistratura requirente («in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte, deve essere riconosciuta la legittimazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tempio Pausania a sollevare conflitto di attribuzione, in quanto organo direttamente investito delle funzioni previste dall’art. 112 della Costituzione e dunque gravato dell’obbligo di esercitare l’azione penale e le attività di indagine a questa finalizzate»), oltre che del Presidente del Consiglio dei ministri, «in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato» (indirizzo, quest’ultimo, ampiamente consolidato).

Un conflitto è stato sollevato anche dal Consiglio superiore della magistratura, la cui legittimazione è stata ribadita in ragione del suo essere «organo direttamente investito delle funzioni previste dall’art. 105 della Costituzione» (ordinanza n. 116, che ha contestualmente riconosciuto la legittimazione passiva del Governo nel suo complesso e delle due camere).

Per quanto attiene agli organi esterni allo Stato-persona, l’ordinanza n. 198 ha definito il ricorso proposto dai promotori e presentatori di quattro referendum abrogativi. Sul piano dei requisiti soggettivi, la Corte ha confermato quanto già, più volte, riconosciuto, e cioè che gli «elettori, in n. non inferiore a 500.000, sottoscrittori della richiesta di referendum – dei quali i promotori sono competenti a dichiarare la volontà in sede di conflitto – [hanno] la titolarità, nell’ambito della procedura referendaria, di una funzione costituzionalmente rilevante e garantita, in quanto essi attivano la sovranità popolare nell’esercizio dei poteri referendari» (nessun problema si poneva in ordine ai legittimati passivi, individuati nel Presidente della Repubblica e nel Consiglio dei ministri).

I profili soggettivi del conflitto sono dunque stati riscontrati in quasi tutte le occasioni. L’unica eccezione è costituita dal ricorso di cui all’ordinanza n. 479, sollevato dai promotori del referendum sullo statuto della Regione Umbria e di rappresentanti dell’apposito «Comitato per il referendum sullo Statuto regionale dell’Umbria», avverso la promulgazione della legge della Regione Umbria 16 aprile 2005, n. 21 (Nuovo Statuto della Regione Umbria), nonché, «per quanto occorr[esse]», avverso le modificazioni introdotte al quesito referendario e ai moduli per la richiesta di referendum ad opera dell’Ufficio di Presidenza e del Segretario generale del Consiglio regionale dell’Umbria con decisione del 14 dicembre 2004».

Nel vaglio circa la legittimazione attiva e passiva, la Corte ha evidenziato che, «a prescindere dalla questione se i promotori di un referendum costituzionalmente previsto siano titolari di attribuzioni costituzionali nella fase anteriore alla raccolta delle sottoscrizioni», doveva essere ribadito l’orientamento della Corte secondo cui i promotori di un referendum regionale «non sono equiparabili agli organi statali “competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono” e nemmeno esercitano funzioni concorrenti con quelle attribuite a poteri dello Stato-apparato», […] «ma debbono invece venire assimilati ai poteri di istituzioni autonome e non sovrane, quali sono gli enti territoriali interessati» (sentenza n. 69 e ordinanza n. 82 del 1978). In ogni caso, «in base alla vigente disciplina dei conflitti di attribuzione spettanti alla giurisdizione di questa Corte, né la Regione né singoli organi di essa possono essere considerati “poteri dello Stato” ai quali sia riconoscibile la legittimazione passiva nei giudizi regolati dagli articoli 37 e 38 della legge n. 87 del 1953 e dall’art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (ordinanza n. 82 del 1978 e ordinanza n. 10 del 1967)»; d’altra parte, «la Regione, quando esercita poteri rientranti nello svolgimento di attribuzioni determinanti la propria sfera di autonomia costituzionale o di funzioni ad essa delegate, non agisce come soggetto appartenente al complesso di autorità costituenti lo Stato, nell’accezione propria dell’art. 134 Cost.» (ordinanza 24 maggio 1990, senza n.).

Sempre con riferimento ai profili soggettivi, pur se in un’ottica estranea alla legittimazione attiva e passiva, può segnalarsi l’atto di intervento depositato, nel giudizio di ammissibilità concluso con l’ordinanza n. 404, dalla associazione “Friends of the earth international – Amici della Terra” associazione non governativa ambientalista, riconosciuta con d.m. 20 febbraio 1987, ex art. 13 della legge n. 349 del 1986, nonché l’associazione “Gruppo d’intervento giuridico”, associazione ambientalista non riconosciuta ex articoli 36 e ss. cod. civ. Essendo la Corte chiamata a decidere, senza contraddittorio, circa l’ammissibilità, su questo atto di intervento non ha avuto occasione di pronunciarsi (né l’avrà, alla luce della dichiarazione di inammissibilità del ricorso).

3. I profili oggettivi

Nella maggioranza dei casi sottoposti alla Corte, ad essere impugnate erano – come detto – delibere parlamentari di insindacabilità, in ordine alla quali è stata riconosciuta la sussistenza della materia di un conflitto: gli organi giurisdizionali denunciavano, infatti, la menomazione della propria sfera di attribuzione, garantita da norme costituzionali, in conseguenza dell’adozione, da parte di una delle camere, di una deliberazione ove si affermava, in modo asseritamente illegittimo, che le opinioni espresse da un proprio membro rientravano nell’esercizio delle funzioni parlamentari, in tal modo godendo della garanzia di insindacabilità stabilita dall’art. 68, primo comma, della Costituzione (ordinanze nn. 5, 10, 56, 94, 105, 117, 119, 178, 294, 330, 416 e 473; le ordinanze nn. 104 e 129, di inammissibilità, non hanno smentito questa ricostruzione).

Validamente instaurati sono stati anche i conflitti in cui la Camera dei deputati impugnava atti giurisdizionali.

Nel caso di cui all’ordinanza n. 44, oggetto del conflitto sono stati due provvedimenti di rinvio dell’udienza, il provvedimento di trattenimento della causa in decisione ed anche un’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale posti in essere dal Tribunale di Messina; la ricorrente prospettava la lesione della propria sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite, in conseguenza degli impugnati provvedimenti, contestando non già «il semplice esercizio della funzione giudiziaria, bensì la stessa appartenenza all’ordine giudiziario del potere in concreto esercitato», e inoltre negando «la titolarità, in capo al giudice, del potere di proseguire il giudizio».

Il ricorso dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 185 aveva ad oggetto un’ordinanza con la quale erano state respinte le eccezioni relative al dedotto impegno parlamentare dell’imputato concomitante con un’udienza, ed era stato disposto doversi procedere oltre nel dibattimento, un’ordinanza con la quale, relativamente allo stesso impedimento del predetto imputato, erano state respinte le eccezioni difensive in ordine alla nullità degli atti processuali tra cui il decreto che aveva disposto il giudizio, ed era stato disposto doversi procedere oltre nel dibattimento, la sentenza con la quale, relativamente allo stesso impedimento del predetto imputato, era stato implicitamente ribadito, ma senza alcuna motivazione, quanto stabilito nelle predette ordinanze. La ricorrente, dunque, prospettava la lesione della sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite alla Camera, per via del mancato riconoscimento giudiziale del «legittimo impedimento» di un deputato a partecipare all’udienza del processo penale in cui è imputato per concomitanti impegni parlamentari.

Del tutto analoga alla materia del contendere di cui al ricorso dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 185 era quella contemplata nel ricorso di cui all’ordinanza n. 186.

L’ordinanza n. 357 ha dichiarato l’ammissibilità del conflitto sorto in relazione alla sentenza n. 4024 del 23 settembre 2004, pronunciata dalla Corte di appello di Roma, in sede di rinvio, nel giudizio civile promosso dal senatore Pierluigi Onorato per il risarcimento del danno derivante da dichiarazioni (ritenute diffamatorie) pronunciate dal Presidente Cossiga nel corso del mandato presidenziale. La materia del contendere era individuata, nella specie, dalla lesione da parte dell’autorità giudiziaria, per il tramite dell’impugnata decisione, delle prerogative costituzionali di un ex Presidente della Repubblica, come riconosciute dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 154 del 2004.

Circa il conflitto instaurato dal Presidente della Repubblica, la Corte (ordinanza n. 354) si è riservata un più attento vaglio, nella fase di merito, circa la sussistenza dei requisiti oggettivi. Il conflitto aveva ad oggetto il rifiuto opposto dal Ministro della giustizia «di dare corso alla determinazione, da parte del Presidente della Repubblica, di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi», rifiuto risultante dalla nota del 24 novembre 2004 inviata dal medesimo Ministro al Capo dello Stato.

È stata confermata la astratta possibilità di impugnare, in sede di conflitto interorganico, un atto legislativo, sebbene la Corte (ordinanza n. 116) abbia sottolineato che «solo in seguito alla piena esplicazione del contraddittorio» sul punto dell’idoneità degli atti aventi natura legislativa, nella specie impugnati dal Consiglio superiore della magistratura, a determinare conflitto si sarebbe potuta adottare una decisione definitiva.

L’ordinanza n. 198 ha, invece, dichiarato inammissibile il conflitto sollevato dai promotori dei referendum abrogativi in relazione al decreto di indizione dei referendum medesimi.

I ricorrenti deducevano, in via principale, che la data fissata per lo svolgimento delle consultazioni referendarie non avrebbe tenuto conto di situazioni oggettive idonee ad incidere negativamente sull’esercizio del diritto di voto, influendo in concreto sulla possibilità dei cittadini di esprimere la loro volontà elettorale; e ledendo così la sfera di attribuzioni garantita ai promotori. Riprendendo quanto già affermato, la Corte ha chiarito che l’individuazione, ad opera dell’art. 34, primo comma, della legge n. 352 del 1970, di un rigido e ristretto arco temporale, entro il quale deve essere tenuta la votazione, «rivela come la valutazione dei possibili interessi coinvolti sia stata effettuata dal legislatore con una disciplina di per sé non irragionevole, la quale rende, “nella fisiologia del sistema, non altrimenti vincolata la scelta della data all’interno del predetto arco temporale, salvo che sussistano oggettive situazioni di carattere eccezionale […] idonee a determinare un’effettiva menomazione del diritto di voto referendario” (cfr. ordinanza n. 131 del 1997)». D’altra parte, nella sfera delle attribuzioni del comitato rientra «la pretesa allo svolgimento delle operazioni di voto referendario, una volta compiuta la procedura di verifica della legittimità e della costituzionalità delle relative domande; ma non anche – in assenza di situazioni eccezionali [nella specie insussistenti] – la pretesa di interferire sulla scelta governativa, tra le molteplici, legittime opzioni, della data all’interno del periodo prestabilito».

In via subordinata, i ricorrenti si dolevano del fatto che il Governo non avesse concordato la data di votazione con i comitati promotori, violando con ciò – in assunto – il principio di leale collaborazione tra i poteri dello Stato. Anche tale prospettazione è stata rigettata, in quanto «non è configurabile alcuna concorrente attribuzione, costituzionalmente garantita, del comitato promotore del referendum riguardo alla scelta della data di votazione entro la fascia temporale prestabilita dal legislatore: circostanza, questa, che rende inconferente il richiamo al principio di leale collaborazione» (ed esclude, altresì, che sussistano i presupposti affinché la Corte «sollevi innanzi a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, primo comma, della legge n. 352 del 1970, nella parte in cui non prevede la concertazione con il comitato promotore della data della consultazione referendaria, secondo quanto richiesto in via ulteriormente subordinata dai ricorrenti»).

In ragione di queste considerazioni, doveva desumersi che «le determinazioni assunte con i decreti di indizione delle consultazioni referendarie oggetto di ricorso non appa[rivano], neppure astrattamente, idonee ad incidere sulla sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita ai ricorrenti».

Altra decisione di inammissibilità è stata assunta con l’ordinanza n. 404. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Tempio Pausania, in persona del suo Procuratore capo, aveva sollevato conflitto in relazione al decreto del Ministro dell’interno che aveva disposto l’assoggettamento dell’area in località Punta della Volpe, denominata «Villa La Certosa», alle previsioni di cui all’art. 12 della legge 24 ottobre 1997, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato), interdicendone l’accesso «allo scopo di preservare la conoscibilità dei luoghi», nonché in relazione alla nota del sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri che – a ciò delegato dal Presidente del Consiglio dei ministri – aveva confermato l’esistenza del segreto di Stato sulla predetta area.

Nelle more della fase dell’ammissibilità, era intervenuta una nota del Ministero dell’interno con la quale, rappresentandosi espressamente la volontà del Presidente del Consiglio dei ministri, si era consentito al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tempio Pausania di accedere all’area già oggetto del provvedimento di apposizione del segreto di Stato «ai fini di procedere all’ispezione richiesta», e che tale ispezione era stata pienamente effettuata, in attuazione del relativo decreto.

Conseguentemente, il compimento dell’ispezione, ai sensi dell’art. 244 e seguenti del codice di procedura penale, da parte dell’autorità giudiziaria ricorrente aveva rimosso l’ostacolo frapposto all’esercizio del potere d’indagine spettante alla stessa autorità giudiziaria, così da far venir meno, allo stato, l’oggetto del conflitto.

D’altro canto, in relazione ai lamentati possibili effetti sui poteri dell’autorità ricorrente derivanti dal trascorrere del tempo relativo allo svolgimento della vicenda, la Corte ha evidenziato che trattavasi «di una mera situazione di fatto, comunque non rimediabile anche a seguito di una ipotetica pronuncia della Corte sul merito del conflitto». Il venir meno della materia del contendere ha reso dunque inammissibile il conflitto per difetto del requisito oggettivo, giacché la Corte, «in sede di risoluzione dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, è chiamata a giudicare, come confermato dalla costante giurisprudenza […], su conflitti non astratti o ipotetici, ma attuali e concreti».

4. Il ricorso per conflitto

Due decisioni hanno evidenziato vizi nel contenuto dei ricorsi introduttivi tali da rendere inammissibile il conflitto proposto (in entrambi i casi si verteva su delibere di insindacabilità approvate da una camera).

Nell’ordinanza n. 104 si è sottolineato come l’atto con il quale il conflitto era stato proposto non descriveva «in modo sufficientemente analitico i fatti in relazione ai quali [era] stata adottata la impugnata delibera di insindacabilità», non essendovi riportate le dichiarazioni in relazione alle quali era pendente il procedimento penale dinanzi al giudice ricorrente. In tal modo, restava «del tutto preclusa, per la Corte, la possibilità di giudicare nel merito il ricorso».

Analoga è stata la ratio decidendi dell’ordinanza n. 129 in cui si è ulteriormente rilevato che «a colmare la lacuna della mancata descrizione della fattispecie oggetto del giudizio penale, non [potevano] soccorrere gli atti del procedimento irritualmente trasmessi dal Tribunale […], in quanto è nel solo atto introduttivo e negli eventuali documenti ad esso allegati che devono essere rinvenuti gli elementi identificativi della causa petendi e del petitum, relativi al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato».

Profili di inammissibilità non sono invece stati riscontrati in relazione alla forma assunta dall’atto di promuovimento del giudizio (il riferimento va alle «ordinanze» emanate da organi giurisdizionali), né alla contestuale emanazione di una ordinanza di rimessione di una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la disposizione legislativa in applicazione della quale l’atto oggetto del conflitto presentava i connotati di lesività delle attribuzioni fatte valere (trattavasi dell’art. 3, comma 8, della legge n. 140 del 2003, in quanto obbliga il giudice a uniformarsi alla determinazione del Parlamento che dichiari la irresponsabilità). La Corte ha peraltro escluso di potere «sotto alcun profilo» esaminare, in sede di ammissibilità del conflitto, «la questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale» (ordinanza n. 56).

5. Le decisioni della Corte

Sui 23 ricorsi esaminati, 18 sono stati dichiarati ammissibili. I 5 dichiarati inammissibili lo sono stati, in due casi, in ragione dei vizi che inficiavano l’atto introduttivo (ordinanze nn. 104 e 129: v. supra, par. 4), in altri due in ragione dei profili oggettivi del conflitto (ordinanze nn. 198 e 404: v. supra, par. 3) ed in uno in relazione ai profili soggettivi (ordinanza n. 479).

L’inammissibilità pronunciata con l’ordinanza n. 198 ha precluso l’esame della richiesta di sospensiva dell’atto impugnato presentata dai ricorrenti.

In tutti i casi in cui il conflitto è stato dichiarato ammissibile, la Corte ha disposto che il ricorso e l’ordinanza di ammissibilità venissero notificati al resistente o ai resistenti, a cura del ricorrente, entro sessanta giorni dalla comunicazione. L’unica eccezione è rappresentata dall’ordinanza n. 354, nella quale il termine è stato stabilito in novanta giorni.


Sezione II

La fase del merito

1. Premessa

Nel corso del 2005, la Corte ha reso 23 decisioni in sede di conflitto tra poteri dello Stato. In esse possono riscontrarsi molteplici profili di interesse per quanto attiene agli aspetti processuali.

2. I soggetti del conflitto

Sul totale delle decisioni, ben 21 hanno avuto origine da un ricorso di un organo della magistratura giudicante, e segnatamente un tribunale (sentenze nn. 28, 88, 146, 164 e 204, ed ordinanze nn. 42, 43, 61, 76, 290, 308 e 326), una corte d’appello (sentenze nn. 79, 193 e 235, ed ordinanza n. 327), un giudice per le indagini preliminari presso il tribunale (sentenze nn. 38 e 223) ed un giudice per l’udienza preliminare presso il tribunale (sentenze nn. 176 e 267, ed ordinanze nn. 76 e 143). In questi casi, oggetto del conflitto sono state delibere di insindacabilità delle opinioni espresse da parlamentari, per cui il soggetto resistente è stato individuato nella Camera dei deputati (sentenze nn. 28, 79, 88, 146, 164, 193, 204, 223 e 235, ed ordinanze nn. 42, 43, 61, 76, 143 e 326) o nel Senato della Repubblica (sentenze nn. 176 e 267, ed ordinanze nn. 290, 308 e 327). In un caso, Camera e Senato sono stati entrambi resistenti, in conseguenza dell’avvenuta impugnazione di una molteplicità di delibere di insindacabilità rese da entrambe le camere (sentenza n. 38).

Due decisioni hanno riguardato vicende di natura diversa. La sentenza n. 284 ha deciso il conflitto che era stato dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 116 del 2005, in cui il Consiglio superiore della magistratura era il ricorrente e la Camera dei deputati, il Senato della Repubblica ed il Presidente del Consiglio dei ministri le controparti.

La sentenza n. 451 ha deciso i due conflitti dichiarati ammissibili con le ordinanze nn. 185 e 186 del 2005. Proposti entrambi dalla Camera dei deputati, avverso il Tribunale di Milano (non costituitosi), i conflitti hanno visto la costituzione del Senato della Repubblica.

In cinque occasioni, hanno spiegato atti di intervento soggetti diversi da quelli che la Corte costituzionale, in sede di ammissibilità, aveva individuato come destinatari della notifica del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità del medesimo. In tre casi, l’improcedibilità del giudizio ha reso pleonastica ogni valutazione in ordine all’ammissibilità dell’intervento del parlamentare le cui dichiarazioni erano oggetto del procedimento che avevano dato origine al conflitto (ordinanze nn. 76, on. Butti, e 290, sen. Dell’Utri) ovvero della parte offesa del procedimento medesimo (ordinanze nn. 290 e 327, dott. Onorato).

Nel quarto caso, la valutazione è stata preclusa dalla tardività dell’atto di intervento del soggetto privato cui le disposizioni legislative impugnate si sarebbero applicate (sentenza n. 284).

La Corte ha dunque avuto modo di pronunciarsi soltanto con riguardo ai due interventi spiegati dal parlamentare imputato nei procedimenti i cui atti erano oggetto di impugnazione (on. Previti) nei conflitti decisi con la sentenza n. 451. Dalla distinzione tra il giudizio comune ed il conflitto interorganico, nel quale la Corte è chiamata esclusivamente a decidere in ordine alle denunciate lesioni delle attribuzioni costituzionali della Camera, ad opera dei provvedimenti impugnati, la Corte ha dedotto «direttamente» l’inammissibilità degli interventi. In tal senso, è stato evidenziato che «il principio generale secondo cui nel giudizio per conflitto la legittimazione spetta soltanto agli organi dei poteri confliggenti subisce un’unica deroga quando (ma non [era] il caso di specie) l’esito di tale giudizio possa definitivamente pregiudicare le posizioni di un soggetto ad esso estraneo». D’altro canto il prosieguo del giudizio penale in questione, sotto nessun profilo avrebbe potuto considerarsi come «giudizio di ottemperanza» del giudicato costituzionale, «ostando a tale configurazione le differenze oggettive e soggettive esistenti fra il processo costituzionale e quello penale» (dell’inammissibilità degli interventi si è dato conto, oltre che in motivazione, anche nel dispositivo della sentenza).

3. I profili oggettivi

Per quanto attiene ai profili oggettivi del conflitto, le deliberazioni di insindacabilità delle opinioni espresse, validamente impugnabili per costante giurisprudenza, non hanno posto particolari problemi. Può segnalarsi, a tal riguardo, la sentenza n. 267, che ha respinto l’eccezione di inammissibilità fondata sul rilievo che il ricorso , investendo contestualmente due deliberazioni adottate nel corso della medesima seduta, nei confronti di due senatori, sarebbe risultato per ciò solo carente di un distinto e motivato riferimento alla posizione di ciascuno dei due parlamentari. Riprendendo precedenti affermazioni, la Corte ha evidenziato la necessità di valorizzare, «più che il profilo meramente “formale” della mancata corrispondenza numerica tra le deliberazioni investite dalla richiesta di annullamento ed i ricorsi all’uopo proposti dall’autorità giudiziaria, quello “sostanziale” della sufficiente descrizione, nell’atto di promovimento del conflitto, delle specifiche dichiarazioni attribuibili ai singoli deputati o senatori, e quindi della sua idoneità a consentire la verifica del nesso funzionale tra siffatte dichiarazioni e l’esercizio di funzioni parlamentari» (in tal senso, implicitamente, anche la sentenza n. 38).

Altra decisione di interesse è la sentenza n. 204, con cui si è dichiarato improcedibile il conflitto per sopravvenuta carenza di interesse alla pronuncia da parte dei soggetti confliggenti, a seguito dell’intervenuta remissione di querela, accettata dall’imputato, e della conseguente sentenza di non doversi procedere. L’esame del ricorso per conflitto è risultato, pertanto, precluso, quanto al merito della spettanza delle attribuzioni costituzionalmente garantite e quanto ai dedotti profili di inammissibilità».

La inattualità dell’interesse al conflitto è stata invece esclusa nella sentenza n. 235. Di fronte al ricorso promosso da una corte d’appello, la camera resistente ha eccepito l’omesso chiarimento in ordine alla avvenuta sospensione dell’efficacia della sentenza di primo grado, sostenendo che ciò avrebbe avuto rilievo perché, «ove l’efficacia della predetta sentenza fosse tuttora perdurante, in punto di accertamento della esimente di cui all’art. 68, primo comma, Cost., ne [sarebbe risultata] preclusa la configurabilità di un interesse attuale e concreto alla elevazione del conflitto». La Corte ha replicato che l’eventuale efficacia esecutiva interinale della sentenza appellata non incideva sul giudizio di impugnazione e, di conseguenza, non precludeva l’esame della controversia da parte del giudice d’appello.

Contestualmente, la camera resistente adduceva l’incidenza sull’esito del conflitto della sopravvenuta legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato). In particolare, l’art. 3, comma 1, di tale legge avrebbe introdotto «nuovi fattori di valutazione in ordine alla estensione della garanzia dell’insindacabilità», con conseguente necessità della restituzione degli atti al giudice ricorrente per una rivalutazione della perdurante sussistenza dei presupposti per l’elevazione del conflitto. Nel respingere tale prospettazione, la Corte riprendeva precedenti statuizioni con cui aveva precisato che la sopravvenienza, nelle more del giudizio, del citato art. 3, comma 1, non comportava la necessità di una rivalutazione da parte del giudice ricorrente della effettiva sussistenza dei presupposti per l’elevazione del conflitto, perché la norma sopravvenuta, nonostante la più ampia formulazione lessicale, non innovava rispetto all’art. 68, primo comma, della Costituzione, ma si limitava a rendere esplicito il contenuto di tale disposizione.

Nella sentenza n. 451, chiamata a giudicare su alcuni atti giurisdizionali che si ritenevano lesivi delle attribuzioni delle camere in conseguenza della mancata considerazione del «legittimo impedimento» dell’imputato parlamentare a partecipare ad udienze per concomitanti impegni presso il Parlamento, la Corte ha rilevato che, tra l’esigenza di speditezza dell’attività giurisdizionale e quella di tutela delle attribuzioni parlamentari, «aventi entrambe fondamento costituzionale», «si può determinare un’interferenza suscettibile di incidere sulle attribuzioni costituzionali di un soggetto estraneo al processo penale e, in particolare, sull’interesse della Camera di appartenenza a che ciascuno dei suoi componenti sia libero di regolare la propria partecipazione ai lavori parlamentari nel modo ritenuto più opportuno».

Da tale affermazione, deriva che «il giudice non può limitarsi ad applicare le regole generali del processo in tema di onere della prova del legittimo impedimento dell’imputato, incongruamente coinvolgendo un soggetto costituzionale estraneo al processo stesso, ma (come la Corte ha rilevato) ha l’onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari».

Alla luce di tali principî, sono stati esaminati i provvedimenti impugnati, anche attraverso un vaglio delle motivazioni che essi recavano, sottolineando come, se il sindacato sulle motivazioni di tipo processuale «compete esclusivamente al giudice del processo penale», non altrettanto poteva dirsi in ordine alle motivazioni nelle quali, «pur in presenza di una situazione di potenziale conflitto con le attribuzioni costituzionali della Camera, soggetto estraneo al giudizio penale», siffatte attribuzioni non erano state tenute adeguatamente in conto.

Infine, la sentenza n. 284, sciogliendo la «riserva» formulata nell’ordinanza n. 116 (v. supra, sez. I, par. 3), ha deciso nel senso dell’inammissibilità il conflitto interorganico sollevato dal Consiglio superiore della magistratura per la lesione delle proprie attribuzioni costituzionali, in relazione agli articoli 77, 97, 105 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, ad opera dell’art. 3, comma 57, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2004), nonché dell’art. 2, comma 3, del decreto legge 16 marzo 2004, n. 66 (Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall’impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 11 maggio 2004, n. 126, «nella parte in cui prevedono che il Csm debba, senza procedere ad alcuna valutazione, riammettere in servizio il magistrato prosciolto in sede penale con una formula piena dopo che questi sia volontariamente cessato, a causa di tale pendenza, dall’ordine giudiziario, e laddove stabiliscono che a questi venga conferita, in casi di anzianità non inferiore a dodici anni nell’ultima funzione esercitata, una funzione di livello immediatamente superiore, previa valutazione della sola anzianità di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate, e, nel caso di anzianità inferiore, una funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello».

Anche se, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 457 del 1999), l’ammissibilità del conflitto tra poteri dello Stato «non può essere negata sulla sola base della natura legislativa degli atti ai quali venga ascritta, dal ricorrente, la lesione delle attribuzioni costituzionali in gioco», la Corte ha precisato (sulla scia della sentenza n. 221 del 2002) che deve, comunque, «escludersi, nella normalità dei casi, l’esperibilità del conflitto tutte le volte che la legge, dalla quale, in ipotesi, deriva la lesione delle competenze, sia denunciabile dal soggetto interessato nel giudizio incidentale». Conformemente, nell’ordinanza n. 343 del 2003, si è riconosciuto che «il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è configurabile anche in relazione ad atti di rango legislativo “ove da essi possano derivare lesioni dirette all’ordine costituzionale delle competenze, ma solo nel caso in cui non esista un giudizio nel quale questi debbano trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione di legittimità costituzionale in via incidentale”».

Nella sentenza n. 284 la Corte ha ritenuto non sussistente «alcuna valida ragione» per discostarsi dall’orientamento invalso, ribadendo così che «il conflitto avverso atto legislativo è sollevabile, di norma, da un potere dello Stato solo a condizione che non sussista la possibilità, almeno in astratto, di attivare il rimedio della proposizione della questione di legittimità costituzionale nell’ambito di un giudizio comune».

Nel caso di specie, risultava, dunque, determinante «la circostanza che il Csm, nel corso di uno dei giudizi comuni che po[tevano] essere attivati dagli interessati a seguito dell’adozione, da parte dello stesso Csm, dei provvedimenti regolati dalle norme de quibus, o comunque a seguito dell’inerzia serbata su istanze tendenti alla emanazione di tali provvedimenti, dispone[sse] della possibilità di eccepire, in via incidentale, l’illegittimità costituzionale delle norme legislative presentate […] come asseritamente lesive delle proprie attribuzioni». E proprio la possibilità che le disposizioni contestate fossero scrutinate in via incidentale nel corso di simili giudizi ha comportato l’inevitabile dichiarazione di inammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzione.

4. Il ricorso per conflitto

Numerose sono state, nel corso del 2005, le prese di posizione della Corte (peraltro tutte confermative di orientamenti già enunciati) in ordine ai requisiti indefettibili affinché il conflitto di attribuzione sia validamente instaurato.

Innanzi tutto, per quanto attiene al rispetto della cadenza temporale degli adempimenti delineati nell’ordinanza di ammissibilità, in un caso si è constatata la tardività della notifica del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità (sentenza n. 88).

La peculiare disciplina dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato contempla, infatti, l’avvio, rimesso all’iniziativa della parte interessata, di due distinte ed autonome fasi procedurali, destinate a concludersi, la prima, con la preliminare e sommaria delibazione circa l’ammissibilità del conflitto e, la seconda, con la pronuncia sul merito, oltre che con il definitivo giudizio sull’ammissibilità.

Su questa base, è onere del ricorrente, a conclusione della prima fase ed affinché si possa aprire la seconda, provvedere alla notificazione del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità, entro il termine da quest’ultima fissato. In proposito, la Corte, richiamando i propri precedenti, ha affermato che – sussistendo, in generale, «l’esigenza costituzionale che il giudizio, una volta instaurato, sia concluso in termini certi non rimessi alle parti confliggenti» – tale termine «è da osservarsi a pena di decadenza, secondo quanto si rileva dal regolamento di procedura dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (in connessione con l’art. 36 del testo unico delle leggi sul Consiglio stesso, approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), applicabile nei procedimenti davanti alla Corte costituzionale in virtù del richiamo di cui all’art. 22, legge n. 87 del 1953».

La medesima ratio decidendi ha connotato gli 8 casi nei quali si è verificato un deposito tardivo del ricorso con la prova delle avvenute notifiche presso la cancelleria della Corte (ordinanze nn. 42, 43, 61, 76, 290, 308, 326 e 327). La perentorietà del termine per il deposito non è suscettibile di deroghe, a nulla rilevando, in proposito, il fatto che il decorso dei termini sia maturato durante la sospensione feriale di cui all’art. 1, primo comma, della legge 7 ottobre 1969, n. 742, «poiché tale sospensione non si applica ai processi davanti [alla] Corte, come affermato da costante giurisprudenza» (così l’ordinanza n. 76; conformemente, l’ordinanza n. 43).

Questo orientamento ha reso ininfluente l’istanza presentata da un tribunale ricorrente che, ricevuta comunicazione relativa alla trattazione in camera di consiglio del ricorso depositato fuori termine, ha chiesto alla Corte di valutare nel merito il ricorso stesso, «poiché la tardività del deposito non [avrebbe potuto] addebitarsi alla struttura giudiziaria cui appart[eneva] il Tribunale ma agli ufficiali giudiziari di Roma, l’operato dei quali sarebbe [stato] sottratto al potere di intervento dell’ufficio ricorrente» (ordinanza n. 290).

Analogo esito ha avuto il conflitto deciso con l’ordinanza n. 143. Il ricorrente riproponeva un conflitto di attribuzione già dichiarato ammissibile e non più coltivato con l’esecuzione dei prescritti adempimenti, adducendo che l’identità tra i due conflitti sarebbe ininfluente. Disattendendo tale prospettazione, la Corte si è richiamata alle affermazioni di cui alla sentenza n. 116 del 2003 (poi successivamente ribadite), ai termini delle quali le finalità e particolarità dell’oggetto del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato fanno emergere, nel quadro della disciplina della legge 11 marzo 1953, n. 87, «l’esigenza costituzionale che il giudizio, una volta instaurato, sia concluso in termini certi non rimessi alle parti confliggenti», ragion per cui non è consentito mantenere indefinitamente in sede processuale una situazione di conflittualità tra poteri, procrastinando così ad libitum il ristabilimento della «certezza e definitività» dei rapporti.

L’esigenza di «tempi certi» non può tuttavia produrre preclusioni derivanti dalla fase processuali in cui si versi nel giudizio da cui il conflitto trae origine. La sentenza n. 235 ha in tal senso respinto una eccezione di inammissibilità dedotta sull’assunto che, poiché il giudice di primo grado «si [era] puntualmente conformato alla delibera camerale di insindacabilità, addivenendo per conseguenza ad una sentenza dichiarativa dell’improcedibilità della domanda risarcitoria avanzata nei confronti del parlamentare», si doveva ritenere «che il potere di attivare un conflitto di attribuzione nei confronti della delibera menzionata non [fosse] più esercitabile da parte dell’autorità giurisdizionale», perché «definitivamente consumato a seguito della decisione del giudice di primo grado di conformarsi alla delibera d’insindacabilità intervenuta nelle more di tale giudizio».

La Corte ha evidenziato l’erroneo presupposto concernente la consumazione in primo grado del potere di sollevare il conflitto da parte del giudice. Questo assunto, infatti, contrasta con il principio secondo cui «il giudice d’appello, in forza dell’effetto devolutivo dell’impugnazione, ha rilevanti poteri di cognizione e di decisione e, quindi, ha il potere di porsi ogni questione non preclusa che ritenga rilevante ai fini del decidere»: «da tale principio e dall’assenza, nella legge 11 marzo 1953, n. 87 […], di un termine decadenziale per la proposizione dei conflitti interorganici consegue che anche il giudice d’appello è competente a esprimere in via definitiva la volontà del potere cui appartiene […] ed è legittimato a proporre un conflitto non sollevato dal giudice di primo grado».

Né, a sostegno dell’eccezione, poteva addursi l’argomento secondo cui nel nostro ordinamento costituzionale sussisterebbe il principio «di “favorire al massimo”, attraverso la cooperazione tra gli organi interessati al conflitto, la composizione extragiudiziaria delle relative controversie; con la conseguenza che ove la situazione di conflittualità sia “oramai palesata”, sorge la necessità che il contrasto si concluda entro limiti temporali certi», così che non sarebbe «pensabile che la facoltà di reazione nei confronti dell’atto parlamentare da parte degli organi giudiziari possa tranquillamente protrarsi per tutti i gradi di giudizio»: a smentire questo rilievo, oltre all’assenza di un termine decadenziale, doveva constatarsi che «anteriormente all’instaurazione del giudizio dinanzi alla Corte i tempi processuali sono solo quelli scanditi dalle regole proprie del processo nel quale il conflitto insorge».

Con riferimento alla forma dell’atto di promuovimento, la sentenza n. 193, in ossequio ad una giurisprudenza consolidata, ha respinto l’eccezione di irricevibilità del conflitto proposta, nell’atto di costituzione in giudizio, dalla Camera dei deputati, in quanto «l’utilizzazione della forma dell’ordinanza, in luogo di quella del ricorso, per sollevare il conflitto di attribuzioni non ne determina l’irricevibilità (né l’inammissibilità) quando l’atto “abbia i requisiti di sostanza del ricorso” (da ultimo, sentenza n. 298 del 2004); né v’è ragione per rivedere una giurisprudenza che fa applicazione in quello costituzionale di un principio generale del processo». La Corte ha ulteriormente precisato che «l’utilizzazione della forma dell’ordinanza non implica, di per sé, l’inosservanza delle prescrizioni di cui all’art. 6 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale».

Relativamente ai contenuti del ricorso, la sentenza n. 38 ha dichiarato inammissibile il conflitto in quanto il ricorso non era sorretto da motivazione sufficiente, potendosi anzi riscontrare un difetto di coerenza ed una genericità della stessa.

Il giudice ricorrente incorreva in una contraddizione in quanto, da un lato, poneva in rilievo la circostanza che le dichiarazioni rese extra moenia dai parlamentari erano di molto anteriori alla delibera camerale, mostrando così di considerare rilevante la circostanza che quelle dichiarazioni riguardassero la richiesta di autorizzazione all’esecuzione di misure restrittive della libertà personale a carico di un altro parlamentare; dall’altro, il ricorrente notava come le dichiarazioni pronunciate dai querelati non fossero legate da alcun nesso funzionale con l’esercizio delle funzioni parlamentari, spostando quindi il problema su un piano ben diverso rispetto a quello evocato in precedenza, quello cioè secondo cui le dichiarazioni rese da un membro del Parlamento fuori della sede parlamentare fruiscono della garanzia di cui al primo comma dell’art. 68 Cost. solo se divulghino o riproducano atti già compiuti dal dichiarante nell’esercizio delle sue funzioni.

Oltre che contraddittorie, le argomentazioni del ricorrente erano «del tutto generiche», anche perché accomunavano «in una valutazione indifferenziata e priva di specificità le posizioni dei cinque parlamentari querelati, senza considerare che le loro dichiarazioni erano state rese in momenti distinti, avevano contenuti disomogenei e la loro insindacabilità era stata dichiarata da cinque diverse deliberazioni, quattro della Camera e una del Senato».

Anche nella sentenza n. 79, si è dichiarata l’inammissibilità del ricorso avverso una delibera di insindacabilità, in quanto esso non conteneva «una compiuta esposizione dei fatti, non solo perché non [venivano] riportate le frasi pronunciate dal deputato […] – frasi che assum[eva]no importanza fondamentale ai fini dell’accertamento dell’eventuale nesso funzionale con atti parlamentari tipici di cui le frasi [avrebbero potuto] essere la divulgazione –, ma soprattutto perché, in luogo delle parole pronunciate […], [venivano] espresse valutazioni circa l’incidenza lesiva delle dichiarazioni del deputato […]». Ora, sebbene le frasi pronunciate fossero riprodotte nella deliberazione di insindacabilità allegata al ricorso, ciò che rendeva il ricorso inammissibile non era soltanto l’aver omesso di riprodurre quelle frasi nel ricorso, «bensì la loro sostituzione con una libera rielaborazione ad opera dell’autorità giudiziaria ricorrente». Ne risultava, infatti, «una impropria sovrapposizione tra l’oggettiva rilevanza delle opinioni espresse dal deputato […] e l’interpretazione soggettiva che ne [era] stata data, che interferi[va] con l’accertamento del nesso funzionale tra le frasi pronunciate […] e gli eventuali atti parlamentari tipici di cui le frasi stesse [avrebbero potuto] essere la divulgazione esterna». In definitiva, «la mancanza di una compiuta esposizione dei presupposti di fatto del conflitto di attribuzione si traduce[va], a norma degli articoli 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nel difetto di un requisito essenziale del ricorso, che [doveva] conseguentemente essere dichiarato inammissibile».

Analogamente, nella sentenza n. 267, anch’essa avente ad oggetto delibere di insindacabilità delle opinioni espresse, si è censurata l’omessa precisazione circa quale fosse il comportamento addebitato ai senatori imputati, atteso che né la loro posizione risultava adeguatamente differenziata rispetto a quella degli altri coimputati nei medesimi reati, né risultava specificata la natura (morale o materiale) del contributo recato dai predetti parlamentari a titolo di concorso nella realizzazione delle fattispecie criminose oggetto di contestazione.

Il ricorso, in effetti, si limitava «a riprodurre sic et simpliciter il contenuto dei capi di imputazione riportati nella richiesta di rinvio a giudizio». Dalla lettura del ricorso non era dunque dato comprendere se quello posto in essere dai due parlamentari consistesse in un concorso materiale ovvero morale, e quindi se essi, lungi dall’operare come autori o complici nella realizzazione delle fattispecie suddette, avessero comunque suscitato o rafforzato il proposito criminoso, mantenendo in tal modo il loro contributo alla realizzazione «collettiva» del reato entro limiti astrattamente idonei ad essere ricompresi nella manifestazione di una opinione.

A fronte di tale indeterminatezza, mancava «in radice» la possibilità di stabilire se quella ascrivibile a ciascuno dei due parlamentari fosse la realizzazione di un comportamento di carattere materiale o la manifestazione di una opinione, «rimanendo così preclusa la possibilità di valutare se ricorrano le condizioni per l’operatività della prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione».

Eccezioni inerenti alla formulazione dell’atto introduttivo del conflitto sono state invece disattese nella sentenza n. 146.

Con una prima eccezione, la resistente denunciava sia il mancato richiamo, da parte del ricorrente, delle disposizioni costituzionali relative alle attribuzioni dell’autorità giudiziaria, che sarebbero state violate, sia la circostanza che lo stesso ricorrente non avesse lamentato una specifica menomazione delle anzidette attribuzioni, limitandosi ad evidenziare «supposti motivi di illegittimità della delibera camerale». Si assumeva, in secondo luogo, che il ricorso per conflitto fosse privo di «sufficiente chiarezza […] in ordine al thema decidendum», atteso che le censure da esso mosse non avrebbero riguardato la delibera di insindacabilità nella sua interezza, ma solo parte di essa.

Ad avviso della Corte, tuttavia, «il ricorso proposto non genera[va] incertezza»: risultava, infatti, «chiara ed univoca – al di là di ogni formale evocazione dei relativi parametri costituzionali – la denuncia di menomazione delle attribuzioni funzionali, ritenuta dal giudice ricorrente»; risultava altresì completo il petitum, articolato tanto nella richiesta alla Corte di una pronuncia di non spettanza alla Camera dei deputati della valutazione contenuta nella deliberazione assunta, quanto nell’esplicita domanda di annullamento della stessa.

D’altra parte, la stessa Corte, nella sentenza n. 28 (confermata, dalla sentenza n. 164), ha sottolineato come l’indicazione del petitum, «pur ovviamente necessaria a pena di inammissibilità del ricorso», «non richied[a] certo l’adozione di formule predeterminate, essendo al riguardo necessaria e sufficiente, in assenza di una deroga al principio generale della libertà di forma, qualsiasi espressione idonea a palesare, in modo univoco e chiaro, la volontà del ricorrente di richiedere la decisione della Corte su un determinato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato» (nella specie, la stessa richiesta di una pronuncia di non spettanza alla Camera della deliberazione di insindacabilità doveva ritenersi compresa, «alla stregua dei generali canoni ermeneutici», sia nella volontà di promuovere il conflitto che nella richiesta di annullamento della delibera adottata dall’Assemblea).

5. La riunione dei giudizi

Con la sentenza n. 451 sono stati decisi due conflitti, sollevati dalla Camera dei deputati nei confronti di due diverse sezioni del Tribunale di Milano. Alla base della riunione è stata rilevata la circostanza che i due giudizi per conflitto ponessero «questioni in gran parte analoghe».

6. Le decisioni della Corte

Delle 23 decisioni rese, 14 sono sentenze e 9 ordinanze.

Tra queste ultime si annoverano gli 8 casi in cui il giudizio è stato dichiarato improcedibile per tardività del deposito del ricorso con la prova delle avvenute notifiche (ordinanze nn. 42, 43, 61, 76, 290, 308, 326 e 327). La nona ordinanza reca un dispositivo di inammissibilità derivante dalla riproposizione di un conflitto non coltivato (ordinanza n. 143).

Tra le sentenze, 6 definiscono il giudizio senza scendere nel merito. Si tratta della sentenza n. 88, che dichiara improcedibile il giudizio per tardiva notifica del ricorso alle controparti, e della sentenza n. 204, nella quale l’improcedibilità deriva dal sopravvenuto difetto di interesse alla pronuncia.

In quattro sentenze, le pronunce di inammissibilità derivano dalla inidoneità dell’atto impugnato ad essere oggetto del conflitto (sentenza n. 284) o da vizi concernenti il contenuto del ricorso (sentenze nn. 38, 79 e 267).

Delle 8 decisioni di merito, soltanto una è stata di infondatezza (sentenza n. 223), mentre tutte le altre, accogliendo il ricorso, hanno condotto all’annullamento degli atti impugnati (sentenze nn. 28, 146, 164, 193, 235 e 451). Peculiare è, peraltro, il decisum della sentenza n. 451, che reca annullamenti «nei limiti di cui in motivazione». In conseguenza della rilevata non spettanza al giudice del potere di formulare le affermazioni lesive delle attribuzioni costituzionali della Camera dei deputati, la Corte ha evidenziato che «gli effetti caducatori della dichiarazione di non spettanza [dovevano] limitarsi ai provvedimenti, o alle parti di essi, che [fossero] stati riconosciuti lesivi degli interessi oggetto del giudizio costituzionale per conflitto di attribuzione». Ne derivava che una delle ordinanze impugnate doveva essere annullata nella sua totalità, «essendo sorretta da una motivazione costituita esclusivamente dalle affermazioni lesive», mentre le altre ordinanze, in quanto «fondate su distinte linee argomentative, taluna delle quali di tipo processuale e quindi estranee al giudizio per conflitto di attribuzione», dovevano essere caducate limitatamente alle parti di cui era stata affermata la lesività. La Corte ha ritenuto che sarebbe spettato poi al giudice penale «rilevare, alla stregua delle norme che disciplinano il processo, l’eventuale esistenza di ulteriori effetti derivanti dai vizi accertati». Nessuna pronunzia di annullamento è stata, infine, emessa nei confronti delle sentenze impugnate, «non essendo esse affette da vizi rilevabili in sede di conflitto di attribuzione».


Capitolo V

Il giudizio di ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo

1. Premessa

Nel 2005, la Corte ha reso 5 decisioni in sede di giudizio sull’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo.

Tutti i giudizi hanno avuto ad oggetto la legge 19 febbraio 2004, n. 40 recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita». Più in particolare, la sentenza n. 45 ha deciso in merito all’ammissibilità del referendum diretto ad abrogare l’intera legge; la sentenza n. 46 ha riguardato il quesito dal titolo «Procreazione medicalmente assistita – Limite alla ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni – Abrogazione parziale»; la sentenza n. 47 quello così definito: «Procreazione medicalmente assistita – Norme sui limiti all’accesso – Abrogazione parziale»; la sentenza n. 48 quello concernente il tema seguente: «Procreazione medicalmente assistita – Norme sulle finalità, sui diritti dei soggetti coinvolti e sui limiti all’accesso – Abrogazione parziale»; la sentenza n. 49, infine, quello relativo all’abrogazione del divieto di fare ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.

La Corte ha dichiarato inammissibile la prima richiesta referendaria ed ammissibili le altre quattro.

2. Il contraddittorio di fronte alla Corte

Nei cinque giudizi di ammissibilità, hanno depositato memorie i presentatori dei referendum ed è intervenuto altresì il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato.

Oltre a questi soggetti, la cui partecipazione al giudizio – attraverso il deposito di scritti – è prevista direttamente dalla legge 25 maggio 1970, n. 352, hanno presentato memorie, tutte volte a sollecitare pronunce di inammissibilità, altri soggetti (7 nei giudizi conclusi con le sentenze nn. 45 e 46, 6 negli altri tre giudizi).

Con l’ordinanza letta nella camera di consiglio del 10 gennaio 2005, la Corte «ha disposto, oltre che di dar corso – come già avvenuto più volte in passato – all’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum e dal Governo, ai sensi del terzo comma dell’art. 33 della legge n. 352 del 1970, di ammettere gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sulla ammissibilità del referendum, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte».

Nella decisione finale, l’ammissione è stata confermata. Con l’occasione la Corte ha peraltro precisato che tale ammissione non si traduce in un potere dei soggetti non contemplati dalla legge «di partecipare al procedimento – che comunque deve “tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita” (sentenza n. 35 del 2000) – con conseguente diritto ad illustrare le relative tesi in camera di consiglio, a differenza di ciò che vale per i soggetti espressamente indicati dall’art. 33 della legge n. 352 del 1970, vale a dire per i promotori del referendum e per il Governo; ciò salva la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno – come è avvenuto in base all’ordinanza letta il 10 gennaio 2005 – di consentire brevi integrazioni orali degli scritti pervenuti in camera di consiglio, prima che i soggetti di cui all’art. 33 citato illustrino le rispettive posizioni».

3. Le decisioni della Corte

Nel decidere sull’ammissibilità delle 5 richieste di referendum, la Corte si è attenuta rigorosamente, sia nel decisum che nella ratio decidendi, a decisioni precedentemente rese in materia.

3.1. La decisione di inammissibilità

La sentenza n. 45 ha dichiarato l’inammissibilità della richiesta referendaria di abrogazione totale della legge n. 40 del 2004. A fondamento della pronuncia, si è ribadita «l’esistenza di “valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma della Costituzione”» (sentenza n. 16 del 1978).

Alla luce di tale constatazione, un limite all’ammissibilità è stato individuato nelle «leggi a contenuto costituzionalmente vincolato», cui si sono affiancate, a far tempo dalla sentenza n. 27 del 1981, le «leggi costituzionalmente necessarie», «la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione»: in altri termini – e riprendendo quanto precisato nella sentenza n. 49 del 2000 – «leggi costituzionalmente necessarie», «in quanto dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento».

Sulla scorta della ricostruzione della giurisprudenza pregressa, la Corte ha sottolineato come la legge n. 40 del 2004, nei suoi sette Capi, disciplini « analiticamente una molteplicità di differenziati profili connessi o collegati alla procreazione medicalmente assistita, materia in precedenza non disciplinata in via legislativa». In effetti, trattasi «della prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa».

La richiesta di sottoporre a referendum abrogativo l’intera legge n. 40 del 2004 coinvolgeva quindi una normativa che è costituzionalmente necessaria, donde l’inammissibilità della richiesta stessa. Non poteva a tal proposito obiettarsi che successivamente all’esito referendario, in ipotesi favorevole ai richiedenti, si sarebbe potuta adottare una diversa legislazione in tema di procreazione medicalmente assistita, pur essa idonea a garantire almeno un minimo di tutela agli interessi costituzionalmente rilevanti nella materia: la Corte, a tal riguardo, ha ripreso le affermazioni contenute nella sentenza n. 17 del 1997, secondo cui «ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare, tra l’altro, se essa abbia per avventura un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione, presentandosi come equivalente ad una domanda di abrogazione di norme o principî costituzionali, anziché di sole norme discrezionalmente poste dal legislatore ordinario e dallo stesso disponibili (sentenza n. 16 del 1978 e n. 26 del 1981)».

3.2. Le decisioni di ammissibilità

Le quattro pronunce nelle quali la Corte ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare danno conto del rispetto tanto dei limiti espressamente contemplati all’art. 75, secondo comma, della Costituzione quanto dei limiti ulteriori che la Corte, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, ha desunto in via interpretativa dal sistema costituzionale.

Nelle sentenze nn. 46, 47 e 48 si è sottolineato, in particolare, che andava «escluso che le disposizioni di legge po[tessero] ritenersi a contenuto costituzionalmente vincolato o necessario, così da sottrarsi alla possibilità di abrogazione referendaria».

Le richieste, inoltre, non si ponevano «in contrasto con i principî posti dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, e dal Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998, n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani, cui si è data esecuzione con legge 28 marzo 2001, n. 145», in quanto oggetto del divieto di cui all’art. 1 del richiamato Protocollo addizionale sono «solamente gli interventi diretti ad ottenere un essere umano geneticamente identico ad un altro essere umano vivente o morto, e tali interventi […] restano vietati anche alla stregua della normativa di risulta».

Analogamente, non faceva difetto il carattere dell’omogeneità del quesito, sebbene quest’ultimo fosse, nei casi decisi con le sentenze nn. 47 e 48, «a carattere plurimo».

Le medesime considerazioni sono state svolte nella sentenza n. 49, dove, escluso il contrasto con vincoli internazionali, si è rilevato che la richiesta di referendum riguardava «disposizioni fra loro intimamente connesse, le quali forma[va]no un autonomo e definito sistema», donde la «omogeneità e non contraddittorietà» del quesito.

Sotto altro profilo, si è evidenziato che la eventuale abrogazione delle disposizioni oggetto del quesito non era «suscettibile di far venir meno un livello minimo di tutela costituzionalmente necessario, così da sottrarsi alla possibilità di abrogazione referendaria».

Infine, non poteva sostenersi «il carattere sostanzialmente propositivo e non puramente demolitorio del referendum, perché [sarebbe stato] semplicemente abolito un divieto e, conseguentemente, una condotta fino ad allora vietata [sarebbe divenuta] consentita».

4. I rapporti tra giudizio di ammissibilità del referendum e controllo di costituzionalità

Nelle sentenze nn. 45, 46, 47 e 48 si è confermato il consolidato orientamento relativo alla non incidenza dell’eventuale dichiarazione di ammissibilità della richiesta di referendum sulla valutazione in termini di legittimità costituzionale della normativa di risulta.

Per costante giurisprudenza, il giudizio sulla «sola ammissibilità della richiesta referendaria» si atteggia «con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge» (cfr. sentenze n. 251 del 1975 e n. 16 del 1978). Ne è derivato che non era in discussione in quella sede la valutazione «di eventuali profili di illegittimità costituzionale della legge n. 40 del 2004», cosicché dalla decisione non era certo lecito «trarre conseguenze circa la conformità o meno a Costituzione della menzionata normativa».

Del pari, la decisione sull’ammissibilità non era «la sede di un giudizio sulla illegittimità costituzionale dell’eventuale disciplina di risulta derivante dall’effetto abrogativo del referendum». Sotto quest’ultimo profilo, «ciò che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una valutazione liminare e inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se, nei singoli casi di specie, il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale, consistente in una diretta e immediata vulnerazione delle situazioni soggettive o dell’assetto organizzativo risultanti a livello costituzionale».


Parte II

Profili sostanziali

Capitolo I

Principî fondamentali

1. Il principio personalistico

Nel periodo considerato, è estremamente significativa sotto il profilo del «principio di tutela della persona, desumibile dall’art. 2 della Costituzione», la sentenza n. 63, con cui la Corte ha esteso al maggiorenne infermo di mente, chiamato a testimoniare nell’ambito di processi penali per reati sessuali, la garanzia – prevista per il minore infrasedicenne e, rispettivamente, per il minore dall’art. 398, comma 5-bis, e dall’art. 498, comma 4-ter, del codice di procedura penale – del ricorso alle modalità “protette” di assunzione della prova testimoniale contemplate nelle norme menzionate, quando il giudice ne riscontri in concreto la necessità o l’opportunità.

La Corte ha sottolineato che tale conclusione si impone in base alla stessa ratio decidendi della sentenza n. 283 del 1997, in quanto, «pur non potendosi meccanicamente equiparare l’infermo di mente al minore ai fini della disciplina della testimonianza nel procedimento penale», «rendere testimonianza in un procedimento penale, nel contesto del contraddittorio, su fatti e circostanze legati all’intimità della persona e connessi a ipotesi di violenze subite, è sempre esperienza difficile e psicologicamente pesante» e «può tradursi in un’esperienza fortemente traumatizzante e lesiva della personalità» quando «chi è chiamato a deporre è persona particolarmente vulnerabile, più di altre esposta ad influenze e a condizionamenti esterni, e meno in grado di controllare tale tipo di situazioni» (v. infra, cap. II, sez. VI, par. 2.5).

Nell’ambito dei diritti inviolabili della persona, si segnala una questione sollevata in tema di responsabilità civile e decisa con l’ordinanza n. 58. Il rimettente, investito della domanda di risarcimento dei danni all’immagine, dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 2059 del codice civile, in quanto preclusivo della risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da un fatto non corrispondente ad una fattispecie almeno astratta di reato. Il dubbio di costituzionalità muoveva dalla premessa interpretativa secondo la quale tale preclusione sarebbe derivata da alcune pronunce del giudice di legittimità e dalla sentenza costituzionale n. 233 del 2003, che avrebbe individuato nella sussistenza di una fattispecie astratta di reato la «soglia minima per la risarcibilità» del danno non patrimoniale.

La Corte ha smentito l’assunto del rimettente, rilevando, per un verso, come nella sentenza interpretativa di rigetto n. 233 la questione riguardasse «la risarcibilità del danno non patrimoniale, in conseguenza di fatto riconducibile ad una fattispecie astratta di reato, allorché la colpa sia presunta e non positivamente accertata», e rimanesse invece «estranea alla suddetta pronuncia qualsiasi considerazione riguardo alla più generale problematica riguardante i limiti di risarcibilità del danno non patrimoniale»; e, per l’altro, che esiste un orientamento della giurisprudenza di legittimità, nota al rimettente, «secondo cui il danno non patrimoniale è sempre risarcibile, anche a prescindere dal limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 del codice penale, allorché vengano in considerazione […] valori personali di rilievo costituzionale».

Con la sentenza n. 425 la Corte ha ritenuto che l’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo modificato dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui «esclude la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata da parte della madre biologica», «in quanto espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda, non si pone in contrasto con l’art. 2 della Costituzione».

La questione di costituzionalità era stata sollevata, anche in riferimento all’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo che la norma censurata «farebbe prevalere in ogni caso l’interesse della madre naturale all’anonimato sul diritto inviolabile del figlio all’identità personale».

Secondo la Corte, «la norma impugnata mira evidentemente a tutelare la gestante che – in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale – abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». La ragione per cui la norma non prevede alcun tipo di limitazione, neanche temporale, per la tutela dell’anonimato della madre è rappresentata dall’esigenza di perseguire in modo efficace la suddetta duplice finalità. Qualora, invece, la decisione della gestante in difficoltà «di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà», la sua scelta «sarebbe resa oltremodo difficile».

La Corte ha ritenuto poi insussistente il contrasto con l’art. 32 della Costituzione, sotto il profilo della violazione del diritto dell’adottato alla salute e all’integrità psico-fisica, «prospettata come conseguenza della lesione del suo diritto all’identità personale, garantito dall’art. 2 della Costituzione», e con l’art. 3 della Costituzione, denunciata sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento «fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subìto l’adozione». La diversità di disciplina fra le due suddette ipotesi non è, secondo la Corte, ingiustificata: infatti, solo la prima, «e non anche la seconda, è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato».

Per l’affermazione dell’esistenza di «un nucleo irrinunciabile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana» v. la sentenza n. 432 (infra, par 4.4).

2. I principî di eguaglianza e di ragionevolezza

Il ruolo di preminenza che, da sempre, assume nei giudizi di legittimità costituzionale (specialmente) in via incidentale il parametro di cui all’art. 3 della Costituzione è attestato dal n. di questioni sollevate davanti alla Corte che ad esso fanno diretto riferimento: nel giudizio in via incidentale, 251 decisioni su un totale di 314 (79,94%) hanno definito giudizi nei quali veniva invocato l’art. 3; per quanto attiene al giudizio in via principale, d’altro canto, le 29 decisioni su 101, pur se lungi – per ovvie ragioni – dal dato dell’incidentale, rappresentano una quota tutt’altro che trascurabile (28,71%).

Per ragioni intuibili, in questa sede non verranno analizzate le sentenze ed ordinanze che hanno avuto ad oggetto la violazione del parametro costituzionale in parola: ci si limiterà, infatti, ad enucleare le principali affermazioni al riguardo, implicitamente rinviando ai paragrafi nei quali le varie rationes decidendi sono state inserite in base alle materie affrontate (una siffatta impostazione, del resto, pare coniugarsi anche con la circostanza che, nella grande maggioranza dei casi, le questioni di legittimità costituzionale nelle quali l’art. 3 della Costituzione è stato invocato hanno visto anche l’invocazione di parametri ulteriori).

Sul piano espositivo, il titolo del paragrafo dà conto della natura multiforme dei principî ricavati dall’art. 3 della Costituzione: al fianco del principio di eguaglianza (formale e sostanziale) esplicitamente contemplato, la giurisprudenza costituzionale – con una evoluzione le cui prime mosse risalgono ai primi anni di funzionamento della Corte – ha dedotto anche un altro principio, generalmente definito di «ragionevolezza».

In estrema sintesi, il principio di eguaglianza (formale) può essere declinato nel senso di richiedere una parità di trattamento tra situazioni identiche (o simili o ancora assimilabili). Il giudizio si struttura dunque secondo un modulo trilatero, nel quale alla luce del parametro costituzionale si raffronta la norma oggetto dell’impugnazione (e la situazione che essa disciplina) con una norma altra (c.d. tertium comparationis), che – sul presupposto della sua omogeneità con la norma oggetto (recte, della omogeneità della situazione che disciplina con quella disciplinata dalla norma oggetto) – assurge a termine di paragone al fine di verificare la sussistenza o meno di una disparità di trattamento. Nel contesto di tale giudizio, il termine «ragionevolezza» (o «irragionevolezza») ben può essere impiegato (anzi, solitamente lo è), in un’accezione che può essere traslitterata come «giustificatezza» (o «non giustificatezza») della disparità di trattamento riscontrata, ergo come corrispondenza della differenziazione normativa con la diversità delle situazioni disciplinate.

In una accezione più pregnante, il principio di ragionevolezza fa riferimento alla «razionalità» della disposizione legislativa, id est alla non contraddittorietà della stessa rispetto al sistema giuridico o al fine per il quale la disposizione è stata redatta. Lo schema del giudizio torna allora ad essere binario, nel senso che la ragionevolezza come razionalità non implica un confronto con altre norme, postulando un giudizio incentrato esclusivamente sulle caratteristiche della norma oggetto. Come è chiaro, un siffatto scrutinio non può sfociare, da parte della Corte costituzionale, nel controllo sulle scelte di merito operate dal legislatore: il controllo è di tipo «esterno», limitato, cioè, alla giustificatezza (o, meglio, alla non arbitrarietà) delle scelte legislative.

2.1. Il principio di eguaglianza

La violazione dell’art. 3 della Costituzione si produce in tutti quei casi in cui situazioni (tendenzialmente) omogenee conoscano discipline profondamente differenziate (trattavasi, nella specie, di tipi di trasporto, in ordine ai quali non si sono riscontrate peculiarità insuperabili): tale affermazione è contenuta nella sentenza n. 199, che ha ulteriormente rilevato che a confutazione dell’irragionevolezza di tale disparità di trattamento non è sufficiente invocare il carattere risalente e peculiare della disciplina, specie quando – come nel caso – la peculiarità derivi dal collegamento genetico con la normativa pattizia internazionale, evolutasi, però, successivamente all’entrata in vigore della disciplina interna.

Affermazioni generali di analogo tenore sono rintracciabili in un buon n. di decisioni. Senza alcuna pretesa di completezza, possono citarsi la sentenza n. 301, secondo cui la censura relativa ad una asserita ingiustificata disparità di trattamento deve ritenersi infondata in presenza di una (evidente) non comparabilità delle situazioni messe a raffronto dal rimettente, la sentenza n. 481, che ha ulteriormente ribadito che deve escludersi la violazione del principio di eguaglianza argomentata sulla base di un trattamento analogo per situazioni che non siano «sostanzialmente assimilabili» (nella specie, trattavasi dei soci e dei sindaci, nell’ambito del diritto societario), o ancora l’ordinanza n. 1, in cui si sottolinea che la disparità di trattamento è esclusa allorché il giudice rimettente muova da un erroneo presupposto interpretativo onde prospettare un’assoluta equiparazione tra situazioni diverse (nella specie, le situazioni non comparabili erano la breve sosta e l’interruzione nel tragitto compiuto dal lavoratore dalla propria abitazione al luogo di lavoro).

Siffatti canoni di giudizio trovano ampie conferme in tutta una serie di ambiti normativi sui quali la Corte è stata chiamata ad intervenire, nel 2005 come negli anni precedenti.

a) Con la sentenza n. 425, la Corte ha affrontato la questione inerente alla violazione dell’art. 3 della Costituzione dedotta sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subito l’adozione. Il rimettente riteneva irragionevole la scelta legislativa di vietare al primo l’accesso alle informazioni sulle proprie origini e consentirla invece al secondo, mentre l’equilibrio dell’adottato e quello dei genitori adottivi può essere esposto nell’ultimo caso ad insidie maggiori che non nel primo, nel quale il genitore biologico a distanza di anni potrebbe avere elaborato la condotta passata.

La Corte ha dichiarato la censura infondata, perché la diversità di disciplina fra le due ipotesi non è ingiustificata: Solo la prima, infatti, e non anche la seconda, è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato.

b) Di particolare rilievo è l’applicazione del principio di eguaglianza all’ambito religioso. In effetti, le esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose, sono riconducibili, tra l’altro, al principio di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di religione sancito dall’art. 3 della Costituzione. Tali esigenze sono state riscontrate, nella sentenza n. 168, anche in relazione alla questione di legittimità costituzionale che riguardava l’unica fattispecie incriminatrice tra quelle contemplate dal capo dei delitti contro il sentimento religioso che ancora prevedeva un trattamento sanzionatorio più severo ove le offese fossero recate alla religione cattolica.

c) Altro settore in cui la Corte ha operato la comparazione delle situazioni tipica del giudizio sull’eguaglianza è stato quello della condizione giuridica dello straniero. Così, l’ordinanza n. 261 ha posto a raffronto la situazione dello straniero e quella del cittadino, affermando che, per ciò che riguarda il diritto a permanere sul territorio nazionale, la posizione giuridica dello straniero è diversa rispetto a quella del cittadino (art. 16, secondo comma, della Costituzione), donde l’impossibilità di porre la condizione del cittadino come tertium comparationis nei confronti della condizione dello straniero.

La sentenza n. 224 e l’ordinanza n. 463 si sono invece incentrate sul confronto tra stranieri. La prima ha dichiarato infondata la censura relativa alla disparità di trattamento, asseritamente sussistente tra il richiedente il ricongiungimento che non abbia altri fratelli o sorelle e quello che invece li abbia: la differente disciplina è stata giustificata avuto riguardo alla diversità delle situazioni poste a raffronto, e preso atto che il diritto al godimento della vita familiare deve essere garantito senza condizioni a favore dei coniugi e dei nuclei familiari con figli minori, mentre negli altri casi esso può anche subire restrizioni, purché nei limiti della ragionevolezza, nella specie non superati (tale ratio decidendi è stata integralmente ripresa nell’ordinanza n. 464). Nell’ordinanza n. 463 si è stabilito che l’omessa presentazione della richiesta del permesso di soggiorno, da un lato, e la tardiva presentazione della domanda di rinnovo del permesso, dall’altro, sono situazioni tra loro eterogenee – sotto due distinti e concorrenti profili: la rilevanza dell’obbligo rimasto inadempiuto ed il tipo di violazione – e come tali non comparabili al fine di desumerne una violazione del principio di eguaglianza.

d) Con riferimento al diritto penale, nella sentenza n. 144 si è censurata la irragionevole equiparazione, ai fini del trattamento sanzionatorio, di situazioni tra loro diseguali (quali, nella fattispecie, quelle che facevano capo a soggetti che utilizzavano lavoratori irregolari da momenti diversi e per i quali la constatazione della violazione fosse in ipotesi avvenuta nella medesima data).

Nell’ordinanza n. 296, invece, si è riscontrata una palese inidoneità del tertium comparationis evocato dal giudice rimettente, stante l’eterogeneità delle situazioni poste a confronto: l’affidamento in prova al servizio sociale è una forma di esecuzione della pena, alternativa rispetto alla detenzione in carcere, mentre la sospensione condizionale si traduce in una semplice «astensione a tempo» dall’esecuzione della pena, che non implica alcuna limitazione della libertà personale del condannato.

e) Un ambito nel quale sono particolarmente numerosi i casi di svolgimento dello scrutinio relativo al rispetto del principio di eguaglianza è quello concernente il diritto processuale, tanto civile quanto penale.

Quanto alla pretesa disparità denunciata tra la disciplina della costituzione in giudizio dell’opponente a decreto ingiuntivo, con la sanzione di improcedibilità per costituzione tardiva, e quella della costituzione in giudizio dell’attore nel processo ordinario, la Corte, nell’ordinanza n. 154, ha osservato che i termini posti a raffronto dal rimettente sono privi di omogeneità e quindi non comparabili, in quanto, attesa la natura impugnatoria dell’opposizione a decreto ingiuntivo, il parallelo potrebbe eventualmente porsi con la disciplina della costituzione in giudizio dell’appellante, in relazione alla quale deve comunque escludersi l’asserita diseguaglianza, poiché anche per l’appellante è prevista analoga sanzione di improcedibilità in caso di costituzione tardiva.

Analogamente, la circostanza che una norma (art. 163, n. 7, cod. proc. civ.) preveda la necessità dell’avviso al convenuto, a pena di nullità (art. 164 cod. proc. civ.), dell’esistenza di un termine decadenziale – peraltro, non inseribile, quale previsto dall’art. 166 cod. proc. civ., nel procedimento di opposizione di terzo all’esecuzione ex art. 619 cod. proc. civ. – non comporta certamente che debba ritenersi costituzionalmente dovuta identica, o analoga, disciplina anche relativamente a procedimenti diversamente strutturati, quando l’omessa previsione di quell’avviso non renda – com’è evidente nella specie – la diversa disciplina manifestamente irragionevole (ordinanza n. 389).

In ordine a procedimenti particolari, nell’ordinanza n. 25 si è stabilito che la disomogeneità dell’oggetto dell’opposizione alla sospensione disciplinata dal decreto legge 20 giugno 2002, n. 122 (Disposizioni concernenti proroghe in materia di sfratti, di edilizia e di espropriazione) e di quella agli atti esecutivi rende ingiustificata l’adozione dell’intera disciplina dell’opposizione agli atti esecutivi come tertium comparationis.

Al fine di negare la sussistenza di una disparità di trattamento tra l’ipotesi di esecuzione di sentenza amministrativa di primo grado, perseguita attraverso il giudizio di ottemperanza, e l’ipotesi di esecuzione delle sentenze di primo grado del giudice ordinario, la Corte, nella ordinanza n. 122, ha evidenziato poi come – rispetto al giudizio di ottemperanza – siano differenti e quindi non comparabili le azioni esecutive esperibili davanti al giudice ordinario secondo le norme di procedura civile, trattandosi di sentenze o di provvedimenti esecutivi che non richiedono l’esame di merito proprio del giudizio di ottemperanza.

Con precipuo riguardo al processo penale, la sentenza n. 194 ha stabilito che la specificità del rito camerale fa sì che non sussista tra il processo ordinario di cognizione ed il procedimento camerale la omogeneità necessaria a rendere comparabili le rispettive discipline ai fini dello scrutinio riferito al principio di eguaglianza.

Nell’ordinanza n. 309, invece, è stato rilevato che la disciplina contenuta nell’art. 552 cod. proc. pen. – relativa al decreto di citazione a giudizio nel procedimento (a citazione diretta) davanti al tribunale in composizione monocratica, la quale stabilisce che l’imputato deve essere avvertito, a pena di nullità, della facoltà di presentare richiesta dei riti alternativi prima della dichiarazione di apertura del dibattimento – non può essere utilmente richiamata quale tertium comparationis per sostenere la necessità di estenderla, nel rispetto dell’art. 3 Cost., al decreto di fissazione dell’udienza preliminare.

Infine, secondo quanto riportato nell’ordinanza n. 125, nel quadro di un procedimento promosso da un condannato al fine di far dichiarare la non esecutività di una sentenza di condanna, il richiamo al diverso regime previsto per il giudizio abbreviato si rivela del tutto improprio, al fine di fondare su di esso un pertinente termine di raffronto, giacché la natura di procedimento speciale che caratterizza quel giudizio ne contrassegna i caratteri ampiamente derogatori rispetto al giudizio ordinario. Sotto altro profilo, la distinzione concettuale tra imputato contumace ed imputato assente, ben può comportare scelte differenziate, ove correlata ad un modello processuale che, come il giudizio abbreviato, si celebra in camera di consiglio, in una fase processuale che precede il dibattimento e secondo uno schema procedimentale idealmente caratterizzato dalla massima concentrazione.

f) Relativamente alla disciplina delle locazioni, come si evidenzia nella sentenza n. 264, non può reputarsi irragionevole e discriminatorio il differente trattamento in punto di rivalutazione annuale del canone tra locazioni di immobili di proprietà statale e locazioni di immobili privati, giacché non sussiste piena omogeneità tra le situazioni poste a raffronto.

g) Cospicua è la giurisprudenza concernente i diversi profili del diritto del lavoro.

In ordine all’inquadramento dei pubblici dipendenti, si segnala la sentenza n. 322, , secondo cui la questione di legittimità costituzionale con cui si invochi una disparità di trattamento risulta infondata quando sia palese che il giudice a quo sia stato mosso dall’erroneo convincimento – espressamente smentito dal dato normativo – che le categorie di personale operanti all’interno di una medesima istituzione (nella specie, quella scolastica) fossero riconducibili ad una medesima disciplina di stato giuridico (con la conseguenza che sarebbe stata ingiustificata una diversa regolamentazione in ordine alle modalità e alla durata del trattenimento in servizio in caso di riconosciuta inabilità allo svolgimento delle rispettive funzioni di istituto per motivi di salute).

Due importanti sentenze meritano un cenno relativamente alla confrontabilità dei diversi sistemi previdenziali. La sentenza n. 192 riconosce che un principio che può dirsi consolidato nella giurisprudenza della Corte costituzionale è quello relativo «alla impossibilità di istituire confronti tra sistemi previdenziali diversi […], in quanto i diversi sistemi hanno una loro specificità»: la circostanza che le relative discipline non siano uniformi non lede, di per sé, il principio di uguaglianza, salvo il caso, nella specie non sussistente, di una evidente irragionevolezza (declinata anche in termini di «manifesta arbitrarietà») della differenza di disciplina. Con analoga argomentazione, la sentenza n. 433 sottolinea che, secondo la costante giurisprudenza della Corte, «la regola generale della non confrontabilità» dei sistemi previdenziali «ai fini dell’art. 3 Cost. […] incontra un limite nei casi in cui dal confronto emerga una evidente irragionevolezza». Alla stregua di tale principio – e preso atto del riconoscimento, nei diversi ordinamenti previdenziali, del diritto alla pensione di riversibilità non solo agli orfani minorenni ma anche agli orfani maggiorenni infraventiseienni impegnati, per tutta la durata legale, in corsi universitari – la Corte, con la sentenza n. 433, è, quindi, pervenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale di norme che non prevedevano la parificazione tra le due categorie di orfani, in tal modo irragionevolmente escludendo dalle funzioni dell’istituto della riversibilità la tutela del diritto allo studio degli orfani maggiorenni del lavoratore.

In merito all’indennità di fine rapporto, la sentenza n. 438 richiama espressamente la sentenza n. 225 del 1997, dove la Corte ha affermato che la progressiva eliminazione delle differenze in materia di regime giuridico dell’indennità di fine rapporto spettante ai dipendenti del settore privato e dell’analogo emolumento erogato ai dipendenti pubblici rende non più tollerabile una disparità di trattamento tra le due categorie di lavoratori in tema di sequestrabilità e pignorabilità di quegli emolumenti. E ciò neppure in presenza di un credito della stessa pubblica amministrazione consistente nel risarcimento del cosiddetto danno erariale, in quanto tale credito, nel bilanciamento dei valori, non può prevalere senza alcun limite sul diritto al trattamento di fine rapporto del lavoratore, pubblico o privato che sia.

Sulla scorta di tale precedente, nella sentenza n. 438 si è censurata la previsione concernente la sequestrabilità e la pignorabilità della indennità di fine rapporto spettante ai dipendenti di enti pubblici diversi dallo Stato per il realizzo dei crediti da risarcimento del danno erariale causato da quei dipendenti, non sussistendo alcuna ragione che possa giustificare il più gravoso regime cui sono sottoposti i dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato che, diversamente dai dipendenti statali, possono veder sequestrata e pignorata l’indennità di fine rapporto senza alcun limite.

La sentenza n. 458, partendo dalla constatazione della connotazione unitaria, per natura e funzione, delle varie categorie di indennità di fine rapporto, anche se governate da diversi sistemi di finanziamento e di erogazione dei singoli trattamenti, ha riconosciuto che la disparità di trattamento nella disciplina di fine rapporto – e segnatamente nelle norme che non consentono l’applicabilità delle regole della successione mortis causariservata dalla legge al dipendente non di ruolo rispetto agli altri dipendenti è palese con riguardo a qualsiasi rapporto di lavoro, sia pubblico che privato: ne consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, terzo comma, del d. lgs. C.p.S. n. 207 del 1947, nella parte in cui non prevede, in mancanza dei soggetti ivi indicati, la devoluzione dell’indennità di fine rapporto spettante al dipendente non di ruolo defunto, secondo le regole della successione legittima e testamentaria.

h) Per quel che concerne il diritto tributario, nell’ordinanza n. 181 si è negata la sussistenza di una irragionevole disparità di trattamento nell’esenzione dall’imposta di registro ma non dall’Iva per gli atti connessi allo svolgimento delle attività proprie delle organizzazioni di volontariato: la prospettazione del rimettente non teneva tuttavia alcun conto della profonda diversità di natura e struttura delle due imposte.

i) Assai di frequente, un effettivo scrutinio relativo al rispetto del principio di eguaglianza deve fondarsi sulla individuazione della ratio della disposizione oggetto di censura.

A tal proposito, nella sentenza n. 264 è rintracciabile l’enucleazione del modus procedendi che la Corte adotta. Vi si legge che questo tipo di giudizio , «involgendo la verifica sul corretto uso del potere normativo, implica una analisi sulle ragioni che portano una determinata disciplina ad operare, all’interno del tessuto egualitario dell’ordinamento, quella specifica equiparazione oppure quella specifica distinzione». Ed è soltanto «l’emergere, all’esito di una siffatta verifica, di una carenza di causa o ragione della disciplina introdotta che potrà consentire di ravvisare un vizio di legittimità costituzionale della norma, proprio perché esso si viene a fondare sulla irragionevole omologazione di situazioni diverse». Peraltro, «non potendo lo scrutinio di costituzionalità travalicare in apprezzamenti che sconfinino nel merito delle opzioni legislative, non può ovviamente essere presa in considerazione, agli effetti di un ipotetico contrasto con il canone dell’eguaglianza, “qualsiasi incoerenza, disarmonia o contraddittorietà che una determinata previsione normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar trasparire” (così la […] sentenza n. 5 del 2000)».

Più succintamente, nella sentenza n. 281 si sottolinea come la diversità di trattamento tra situazioni poste a raffronto debba essere valutata avendo riguardo alla ratio della norma censurata: alla luce di tale principio, è da dichiararsi incostituzionale la disposizione che preveda trattamenti differenziati sulla base di un criterio che non collima con le finalità che sono proprie del sistema in cui la norma si pone. D’altronde, la diversità di trattamento tra due fattispecie simili, e la conseguente, eventuale, irragionevolezza, non può essere rimediata assoggettando entrambe le fattispecie ad una disciplina che potrebbe non essere conforme alla ratioe, pertanto, essa stessa intrinsecamente irragionevole – che ha ispirato una determinata previsione (sentenza n. 379).

In questa prospettiva, di particolare rilievo è la sentenza n. 432, che ha avuto ad oggetto un caso di disparità di trattamento derivante da una valutazione della ratio della norma e del novero dei soggetti destinatari della stessa.

Una disposizione legislativa della Regione Lombardia, nell’attribuire il beneficio della circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico regionale alle persone totalmente invalide, lo limitava ai soli cittadini italiani, escludendo così gli stranieri residenti.

La ratio del beneficio era, dunque, riconducibile alla scelta del legislatore regionale di agevolare – attraverso la fruizione gratuita del servizio – l’accesso al sistema dei trasporti pubblici locali in favore di un gruppo di persone accomunate dalla appartenenza alla più grave condizione di invalidità. Ci si muoveva, in sostanza, nell’ambito di una provvidenza dettata da finalità eminentemente sociali, nella specie raccordata, sul piano della «causa» normativa, a valori di solidarietà, non disgiunti dagli intuibili riverberi che le peculiari condizioni dei beneficiari e la natura stessa del beneficio possono in concreto presentare rispetto alle esigenze di vita e di relazione; non ultime quelle connesse alla tutela del diritto alla salute, in presenza di una così grave menomazione.

L’applicazione di questa normativa veniva, tuttavia, espressamente esclusa nei confronti degli stranieri: con ciò compromettendo – secondo il giudice a quo – non soltanto «il generale canone di ragionevolezza […] che può evocarsi come parametro di coerenza della norma legislativa regionale con i principî sanciti a tutela di situazioni riconducibili ad un’identica ratio interpretativa»; ma, anche, la necessaria tutela della salute (art. 32 Cost.), e del lavoro (art. 35, primo comma, Cost.), oltre che la riserva alla legislazione statale circa la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), e circa i principî fondamentali in tema di legislazione concorrente regionale sulla salute.

La Corte ha accolto una siffatta prospettazione, constatato che non era enucleabile dalla norma impugnata altra ratio che non fosse quella di introdurre una preclusione destinata a scriminare, dal novero dei fruitori della provvidenza sociale, gli stranieri in quanto tali.

Sempre in merito ai criteri che possono fondare una legittima differenziazione di trattamento, la sentenza n. 394, riprendendo precedenti statuizioni (ed in particolare quella contenuta nella sentenza n. 166 del 1998), ha stabilito che «il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti fra genitori e figli – legittimi e naturali riconosciuti – identico essendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri».

j) L’attenzione riposta sulla ratio della norma, al fine di valutare la sussistenza di una disparità di trattamento avvicina, inevitabilmente, il giudizio relativo al rispetto del principio di eguaglianza a quello concernente la ragionevolezza-razionalità della norma.

Se ne ha una dimostrazione quando si vadano a considerare eventuali disparità di trattamento correlate a rapporti di durata. Sul presupposto che «lo stesso fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche» (ordinanza n. 216), è da evidenziare che, «nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione)»: unica condizione essenziale è «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto» (sentenza n. 264).

All’uopo viene in rilievo anche la sentenza n. 276, in cui si è ribadito il principio secondo cui «il succedersi nel tempo di fatti ed atti può di per sé rendere legittima l’applicazione di una determinata disciplina rispetto ad altra»: in particolare, «l’elemento temporale può essere legittimo criterio di discrimine se esso intervenga a delimitare le sfere di applicazione di norme nell’ambito del riordino complessivo della disciplina attinente ad una determinata materia» (ciò è quanto si era verificato nel caso in esame, perché le disposizioni censurate rientravano in una più ampia normativa, in parte conseguente al passaggio di competenze dallo Stato alle Regioni).

k) La contiguità tra il giudizio inerente all’uguaglianza e quello relativo alla ragionevolezza è tale che, in non poche fattispecie, risulta pressoché impossibile individuare un discrimen preciso, nella misura in cui il giudizio di ragionevolezza-razionalità contribuisce in maniera determinante a definire una diversità di trattamento giustificata o ingiustificata.

Anche a questo riguardo, la giurisprudenza costituzionale del 2005 offre vari esempi.

La ratio del sistema normativo è stata alla base anche della dichiarazione di infondatezza della censura prospettata nel giudizio concluso con la sentenza n. 338. La disciplina impugnata è stata infatti vista come non in contraddizione con la finalità della contribuzione volontaria e, dunque, non irragionevole: deve escludersi che sia costituzionalmente illegittima l’apposizione di limiti alla retribuzione pensionabile non corrispondenti a quelli operanti in costanza di rapporto di lavoro, ché «non può predicarsi una equiparazione a tutti gli effetti tra contribuzione volontaria e contribuzione obbligatoria» né può reputarsi sussistente una ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori con retribuzione inferiore a detti limiti.

Un altro caso di rilievo si è avuto nel giudizio definito con la sentenza n. 444, in cui si denunciava come lesiva del principio di eguaglianza e come intrinsecamente irragionevole l’assoluta impignorabilità delle pensioni erogate ai notai, sancita dall’art. 12 del r.d.l. n. 1324 del 1923, a fronte di quanto – a seguito della sentenza n. 506 del 2002 della Corte – è previsto, per le pensioni erogate dall’Inps, dall’art. 128 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), e, per le pensioni dei dipendenti da pubbliche amministrazioni, dagli articoli 1 e 2, primo comma, del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (Approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni). La Corte ha constatato che indubbiamente lo status giuridico dei notai non è idoneo a giustificare il differenziato trattamento riservato alle pensioni erogate dalla Cassa nazionale del notariato rispetto a quello previsto per le pensioni dei dipendenti sia pubblici che privati: è evidente, infatti, che, in quanto l’impignorabilità si risolve in una limitazione della garanzia patrimoniale (art. 2740 del codice civile) e in una compressione del diritto dei creditori, nessuna differenza sussiste tra le pensioni spettanti all’una o all’altra categoria di beneficiari sotto il profilo della loro assoggettabilità ad esecuzione forzata. Da ciò l’illegittimità costituzionale della norma censurata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui escludeva del tutto la pignorabilità delle pensioni erogate ai notai, anziché prevedere l’impignorabilità, con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte della pensione necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità nei limiti del quinto della residua parte.

Ancora, nell’ordinanza n. 113, la Corte ha deciso in ordine alla denunciata illegittimità costituzionale dell’art. 137 della legge n. 89 del 1913, «nella parte in cui determina l’ammontare delle ammende notarili», in quanto tale disposizione provocherebbe una situazione di diseguaglianza e di grave pregiudizio all’interno del sistema sanzionatorio, rimanendo del tutto privi di conseguenze disciplinari, ancorché di consistenza irrisoria, comportamenti più gravi di quelli per i quali è prevista la sanzione dell’avvertimento o della censura. Onde respingere la censura, la Corte ha sottolineato che, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, la misura irrisoria delle sanzioni pecuniarie non equivale a trasformare il procedimento disciplinare in una «farsa», perché esso reca in sé comunque un notevole grado di afflittività. Né, d’altra parte, è invocabile la violazione del principio di eguaglianza, in relazione alla dedotta circostanza che solo per la categoria di professionisti in esame la condotta illecita resterebbe priva di una effettiva sanzione, data l’assenza di termini omogenei di comparazione: il sistema disciplinare dei notai, infatti, prevede, oltre alle pene disciplinari dell’avvertimento, della censura, della sospensione e della destituzione, anche la sanzione dell’ammenda, che non è invece contemplata per gli illeciti disciplinari di altre categorie professionali.

Un ambito nel quale la commistione tra i due tipi di giudizio in esame viene in considerazione piuttosto frequentemente è quello del diritto penale. Per costante giurisprudenza della Corte, il potere di configurare le singole ipotesi criminose e di determinarne la pena, come pure quello di abrogare le varie previsioni punitive, rientra nella discrezionalità del legislatore, censurabile, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, soltanto nel caso in cui sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole. Sulla scorta di tale principio, nell’ordinanza n. 261 si è escluso che tale ultima evenienza si verificasse, essendo evidente come il confronto prospettato dal giudice remittente tra la fattispecie impugnata ed il reato di cui all’art. 650 cod. pen. fosse incongruo, attesa l’evidente diversità esistente tra la generica inosservanza dei provvedimenti dell’autorità e la trasgressione dello specifico divieto di rientrare nel territorio nazionale conseguente al provvedimento di espulsione emesso nei confronti dello straniero, diversità che dà ragione del differente trattamento sanzionatorio.

Analogamente, secondo l’ordinanza n. 262, rientra nella discrezionalità del legislatore sia l’individuazione delle condotte punibili, sia la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni: discrezionalità che può essere oggetto di censura, in sede di scrutinio di costituzionalità, soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto o arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza. La scelta del legislatore del 2001 di ripristinare la sanzione penale rispetto alla violazione del censurato dell’art. 109 Tulps, già oggetto di depenalizzazione, non può dirsi manifestamente irrazionale o arbitraria sulla scorta della mera valutazione in ordine all’asserita minore o pari gravità della condotta ivi descritta rispetto a quelle previste dagli articoli 86 e 108 Tulps, assunti a tertia comparationis, e la cui violazione è punita con sanzione amministrativa in base all’art. 17-bis Tulps. Le disposizioni nella specie evocate come termini di comparazione si riferiscono, infatti, ai presupposti per l’esercizio stesso dell’attività alberghiera, che è espressione di libera iniziativa economica, mentre l’obbligo di comunicazione delle generalità delle persone alloggiate imposto dall’art. 109, terzo comma, investe una modalità di svolgimento di tale attività d’impresa che si correla, con immediatezza, a specifiche esigenze di sicurezza pubblica, giacché il predetto obbligo è volto a consentire all’autorità di polizia la più rapida cognizione dei nominativi degli ospiti dell’albergo al fine di garantire, appunto, la sicurezza pubblica: evidente è dunque la disomogeneità delle fattispecie poste a raffronto.

Non mancano, peraltro, applicazioni relative a settori dell’ordinamento ulteriori. Così, la disparità di trattamento tra i dipendenti privati e quelli pubblici – soggetti ad un termine di decadenza per la proposizione, davanti al giudice amministrativo, delle controversie riguardanti rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni – è stata ritenuta, con l’ordinanza n. 213, ragionevolmente giustificata dall’esigenza di contenere gli effetti, temuti dal legislatore come pregiudizievoli per il regolare svolgimento dell’attività giurisdizionale, prodotti dal trasferimento della competenza giurisdizionale al giudice ordinario e dal temporaneo mantenimento di tale competenza in capo ai tribunali amministrativi; d’altronde, «è ampia la discrezionalità del legislatore nell’operare le scelte più opportune – purché non manifestamente irragionevoli e arbitrarie – per disciplinare la successione di leggi processuali nel tempo».

Trattandosi di situazioni eccezionali, fondate su uno specifico e circoscritto apprezzamento del legislatore, non può la Corte estendere tale disciplina oltre i casi espressamente considerati, compiendo valutazioni di fatto e scelte ordinamentali che il legislatore, nell’uso dei poteri che gli competono, non ha inteso fare. In quest’ottica, nell’ordinanza n. 216, la censurata limitazione dell’estensione del beneficio al solo personale che abbia avuto accesso all’impiego pubblico mediante il superamento di tre prove concorsuali, contrariamente a quanto assumeva il rimettente, è stata ritenuta nient’affatto irragionevole, poiché il maggiore n. di prove sostenute è di per sé un elemento non incongruo per differenziare i dipendenti nell’ambito della stessa categoria.

Ancora, non appare manifestamente irragionevole ritenere che i soggetti danneggiati, che hanno residenza, domicilio o sede nell’area colpita dal sisma ed ivi svolgano la loro attività, abbiano subito un pregiudizio complessivo maggiore rispetto agli altri danneggiati e, in relazione a tale circostanza, siano meritevoli essi soli di un particolare beneficio fiscale: fondandosi su questa considerazione, la Corte, nella sentenza n. 275, ha escluso di poter estendere a soggetti diversi da quelli indicati dalle norme denunciate l’ambito di applicazione del beneficio fiscale, anche in considerazione del fatto che il legislatore, da un lato, ha tenuto conto dei vincoli impostigli dalle disponibilità di bilancio e, dall’altro, ha inteso anche perseguire una peculiare politica di sviluppo economico circoscritta alle zone colpite dagli eventi sismici.

Secondo la costante giurisprudenza della Corte, poi, «l’individuazione del concreto ambito di applicazione di un’agevolazione fiscale rientra nella discrezionalità del legislatore, salva la manifesta irragionevolezza»: così si è espressa l’ordinanza n. 87, nella quale si è ulteriormente rilevato – ad escludere la denunciata violazione del principio di eguaglianza – che la giustificazione dell’agevolazione fiscale oggetto del giudizio risiedeva in un intento di incentivazione dell’attività agricola, connesso alla finalità di razionale sfruttamento del suolo cui fa riferimento l’art. 44 della Costituzione, e che in relazione alla suddetta ratio incentivante non appariva manifestamente irragionevole che dal beneficio fossero esclusi coloro che – per il fatto di godere di trattamenti pensionistici – all’evidenza non traevano dal lavoro agricolo la loro esclusiva fonte di reddito.

A tutt’altro proposito, la sentenza n. 320 stabilisce, in continuità con precedenti statuizioni, che non è compatibile con il principio di ragionevolezza l’operato del legislatore che qualifichi un pagamento come non dovuto e nello stesso tempo lo sottragga all’azione di ripetizione.

Sussiste, dunque, una palese violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente uguali, quando si vada riservare un trattamento deteriore a chi abbia erroneamente pagato un’imposta non dovuta rispetto a chi, versando nella medesima situazione, non abbia invece effettuato alcun pagamento.

Infine, nella sentenza n. 243 si è dichiarata non fondata la censura di violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della disparità di trattamento tra Comuni ubicati in zone montane, litoranee, lacuali e termali e quei Comuni che, pur potendo vantare il carattere prevalentemente turistico delle rispettive economie, si trovino diversamente ubicati. In proposito, la Corte ha ribadito che rientra nella discrezionalità del legislatore la valutazione finalizzata a differenziare, sulla base di criteri generali, la composita realtà territoriale, ai fini dell’attribuzione di specifiche qualificazioni della stessa, sia pure con il consueto, generale limite della non palese arbitrarietà ed irragionevolezza. D’altra parte, essendo qualsiasi disciplina destinata, per sua stessa natura, ad introdurre regole e, dunque, ad operare distinzioni, qualunque normativa positiva finisce per risultare necessariamente destinata ad introdurre, nel sistema, fattori di differenziazione: nella specie, la Corte ha conseguentemente ritenuto che i criteri dettati dalla norma impugnata – per il riferimento ad una collocazione del territorio comunale in zone, quali quelle montane, litoranee, lacuali e termali, certamente rivelatrici di una vocazione turistica; nonché per il valore attribuito, nel medesimo senso, ad una significativa ricettività alberghiera – non soltanto non risultavano discriminatori o arbitrari, ma neppure apparivano improntati ad una intrinseca palese irragionevolezza.

2.2. Il principio di ragionevolezza

Come si è accennato nell’ultima parte del paragrafo precedente, il giudizio di ragionevolezza-razionalità di una norma legislativa si interseca sovente con il giudizio su asserite disparità di trattamento. Sussistono comunque – e sono tutt’altro che sporadici – casi nei quali la norma venga fatto oggetto di scrutinio indipendentemente da ogni riferimento a tertia comparationis. È in questo ambito che l’utilizzo dell’art. 3 della Costituzione diviene (può divenire) il parametro alla luce del quale sindacare le scelte operate dal legislatore, attraverso la valutazione della non irragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità che ad esso deve essere riconosciuta (si veda anche supra, parte I, cap. I, par. 12).

In linea generale, può dirsi che, un caso tipico di violazione del principio di ragionevolezza è riscontrabile quando viene dettata una disciplina che, animata da un fine (nella specie, combattere il fenomeno dell’abusivismo), finisce per favorire pratiche opposte (distorsive della concorrenza). Come conseguenza dell’intrinseca, manifesta irragionevolezza della norma può derivare, ovviamente, l’irragionevolezza della disparità di trattamento che essa crea tra i soggetti che ne sono destinatari.

Sul piano contenutistico, ad evitare l’intrinseca irragionevolezza della disposizione può essere anche la posizione di una regola flessibile, derogabile in taluni, seppur limitate, ipotesi (sentenza n. 32).

Queste affermazioni di principio hanno conosciuto applicazione, nel 2005, in molti settori dell’ordinamento.

a) Se è vero che, per essere in armonia con l’art. 3 della Costituzione, la normativa deve essere conforme ad un principio di ragionevolezza «intrinseca», le norme censurate nel giudizio definito dalla sentenza n. 78 non potevano essere ritenute che contrastanti con questo parametro. Esse, infatti, facevano irragionevolmente derivare dalla denuncia per uno dei reati per i quali gli articoli 380 e 381 cod. proc. pen. prevedono l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza conseguenze molto gravi in danno di chi della medesima era soggetto passivo, imponendo il rigetto dell’istanza di regolarizzazione che lo riguardava e l’emissione nei suoi confronti dell’ordinanza di espulsione; conseguenze tanto più gravi qualora s’ipotizzassero denunce non veritiere per il perseguimento di finalità egoistiche del denunciante e si avesse riguardo allo stato di indebita soggezione in cui, nella vigenza delle norme stesse, venivano a trovarsi i lavoratori extracomunitari. Da tali rilievi, è stata dedotta l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate nella parte in cui facevano derivare automaticamente il rigetto della istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla presentazione nei suoi confronti di una denuncia per uno dei reati suddetti.

Una ratio decidendi analoga a quella di cui alla sentenza n. 78 è stata seguita nella sentenza n. 466 onde dichiarare l’illegittimità costituzionale della dispozione che puniva più severamente lo straniero espulso che avesse fatto rientro in Italia, se già denunciato per la contravvenzione di reingresso nel territorio nazionale senza autorizzazione ministeriale (la denuncia – si è ribadito – «è atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce», per cui non è possibile far derivare dalla sola denuncia conseguenze pregiudizievoli per il denunciato, in quanto essa comporta soltanto l’obbligo degli organi competenti «a verificare se e quali dei fatti esposti in denuncia corrispondano alla realtà e se essi rientrino in ipotesi penalmente sanzionate, ossia ad accertare se sussistano le condizioni per l’inizio di un procedimento penale»).

D’altra parte, in linea di principio, la previsione normativa in forza della quale lo straniero, pur regolarmente entrato nel territorio nazionale, è abilitato a trattenersi in esso solo ove si munisca di apposito permesso – da richiedere alla competente autorità amministrativa entro un termine perentorio, sotto minaccia di espulsione – rappresenta, di per sé, espressione non irragionevole della discrezionalità che al legislatore compete nella regolamentazione del fenomeno dei flussi migratori (ordinanza n. 463).

b) In ordine alla configurazione delle fattispecie criminose, la sentenza n. 301 ha affrontato una censura concernente la intrinseca irragionevolezza di norme penali ritenute dal giudice a quo inidonee a salvaguardare il generale interesse alla certezza delle situazioni giuridiche. La Corte ha disatteso questa prospettazione evidenziando, tra l’altro, come eventuali divaricazioni temporali tra condotta materiale e momento consumativi del reato siano riconducibili alla scelta discrezionale del legislatore di configurare determinati eventi come elementi costitutivi del reato, o come condizioni obiettive del reato, ovvero come condizione per la produzione dell’evento costituito dalla lesione o messa in pericolo dell’interesse tutelato dalla norma penale.

Con riferimento alle problematiche più direttamente inerenti alla determinazione delle pene, nella sentenza n. 325, in continuità con un orientamento consolidato, la Corte ha evidenziato che «la determinazione della qualità e della quantità delle sanzioni, e quindi la congruità della pena rispetto alla gravità del reato, rientrano nella discrezionalità del legislatore, salvo il sindacato di costituzionalità su scelte normative palesemente arbitrarie o radicalmente ingiustificate, ovvero contrastanti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, che si traducono in un uso distorto della discrezionalità».

La questione di legittimità costituzionale nella specie sottoposta non rientrava, tuttavia, nell’ambito dei limiti entro cui la Corte ha ritenuto di essere legittimata a sindacare l’esercizio del potere discrezionale del legislatore in tema di corrispondenza tra entità della pena e gravità del reato: è infatti ragionevole ritenere che la violenza sessuale di gruppo, proprio a causa della presenza di più persone riunite, cagioni una lesione particolarmente grave e traumatica della sfera di autodeterminazione della libertà sessuale della vittima; tali caratteristiche differenziano anche sul terreno qualitativo la violenza di gruppo dagli atti di violenza sessuale posti in essere da una sola persona e giustificano la maggior severità del relativo trattamento sanzionatorio. Ne emerge dunque una sostanziale diversità rispetto agli atti di violenza sessuale monosoggettiva, tale da rendere non proponibile una diretta comparazione, rilevante ai fini dell’articolo 3 della Costituzione, tra il trattamento sanzionatorio riservato ai due reati.

Come per la determinazione delle sanzioni, anche per la disciplina dei benefici sussiste, per il legislatore, una discrezionalità limitata dalla non manifesta irragionevolezza. Questo limite è stato ritenuto, nella sentenza n. 278, violato dalla previsione in base alla quale un discrimine per il godimento del c.d. «indultino» veniva individuato nella circostanza dell’ammissione o meno a misure alternative alla detenzione, e ciò soprattutto perché di un siffatto beneficio avrebbero goduto condannati ritenuti non meritevoli di misure alternative e non anche quelli che sono stati giudicati meritevoli di tali misure.

Sulla discrezionalità del legislatore nell’individuazione delle condotte punibili e nella scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, si segnalano anche la sentenza n. 144 e le ordinanze nn. 262 e 401, secondo cui siffatta discrezionalità che può essere oggetto di censura, in sede di scrutinio di costituzionalità, soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto o arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza. L’ordinanza n. 155 ha ribadito, invece, il potere discrezionale del legislatore di disciplinare le cause sopravvenute di non punibilità, mentre l’ordinanza n. 254 ha confermato l’impossibilità per la Corte di sostituirsi al legislatore nell’ampliamento delle tipologie di misure di sicurezza.

c) Affermazioni non dissimili si rintracciano con riferimento alle sanzioni amministrative.

Nell’ordinanza n. 247 si è evidenziato che, se la complessiva disciplina sanzionatoria prevista dal codice della strada tende a soddisfare l’esigenza, connessa alla strutturale pericolosità dei veicoli a motore, di assicurare l’incolumità personale dei soggetti coinvolti nella loro circolazione (conducenti, trasportati, pedoni), appare allora evidente come la salvaguardia di tale esigenza non possa certo giustificare interventi volti ad escludere l’operatività delle sanzioni amministrative accessorie in un caso – quale quello contemplato dalla norma impugnata – connotato dalla reiezione del ricorso proposto avverso il verbale di contestazione dell’infrazione, e quindi, in definitiva, dalla conferma della sua legittimità.

Del resto, poiché neppure l’estinzione dell’illecito amministrativo, in ragione dell’avvenuto pagamento in misura ridotta, consente al giudice alcun intervento modificativo sulla sanzione accessoria (o finanche solo sulla sua entità), non si vede come possa tacciarsi di irragionevolezza la mancata previsione di un intervento siffatto allorché il giudice, addirittura, rigetti il ricorso volto a contestare la legittimità del verbale di contestazione dell’infrazione stradale.

Secondo quanto stabilito con l’ordinanza n. 218, deve poi escludersi che il legislatore, nel configurare la fattispecie sanzionatoria relativa al mancato rispetto della disposizione che impone di regolare adeguatamente la velocità del veicolo nell’attraversamento di un centro abitato fiancheggiato da edifici, abbia esorbitato, nell’esercizio della sua discrezionalità, dai limiti della ragionevolezza e lasciato all’arbitrio dell’agente accertatore dell’infrazione il compito di riempirne il contenuto, dovendosi constatare che il giudizio sulla valutazione della velocità non è ancorato ad astratti valori numerici, bensì assume un connotato relativo, postulando che il concreto apprezzamento della condotta del conducente si svolga proprio in rapporto a quelle determinate circostanze di tempo e di luogo che la fattispecie legale evidenzia come parametri di riferimento per un comportamento prudente.

È anche da notare che l’irragionevolezza di una disposizione legislativa può essere testimoniata anche dal tipo di sanzione amministrativa che essa crea: nella sentenza n. 27, si è infatti censurata la previsione di «una sanzione assolutamente sui generis» (peraltro irragionevolmente assimilabile, in parte, ad altra, concernente però un illecito amministrativo di diversa natura).

d) Sul piano del diritto processuale, nell’ordinanza n. 215 si è sottolineato come, onde conseguire l’obiettivo di un ordinato svolgimento del giudizio, il legislatore, nella sua discrezionalità, ben possa utilizzare gli eventuali condizionamenti di ordine temporale alla proposizione dell’intervento ovvero le preclusioni all’apporto probatorio a sostegno della relativa domanda. Che il legislatore goda di ampia discrezionalità nel disegnare gli istituti processuali è, del resto, principio ampiamente consolidato, e più volte ribadito anche nel 2005 (sentenze nn. 109 e 379, e, con precipuo riguardo all’esecuzione delle sentenze rese nel processo amministrativo, ordinanza n. 122), anche quando ciò incida – scil., non irragionevolmente – sul diritto di difesa (ordinanze nn. 230 e 350).

Alcune scelte operate nella conformazione degli istituti processuali sono state invece ritenute affette da irragionevolezza. Si segnala, al riguardo, la sentenza n. 274, concernente il processo tributario: la compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere, rendendo inoperante il principio di responsabilità per le spese del giudizio, si traduce, ad avviso della Corte, in una intrinseca irragionevolezza, motivata dall’ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni, e, corrispondentemente, dal parimenti ingiustificato pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore e, quindi, costretta a ricorrere alla mediazione (onerosa) di un professionista abilitato alla difesa in giudizio.

e) Per quanto specificamente attiene al diritto (sostanziale) tributario, la sentenza n. 21 ha evidenziato che la previsione di aliquote differenziate per settori produttivi e per tipologie di soggetti passivi rientra pienamente nella discrezionalità del legislatore, se sorretta da non irragionevoli motivi di politica economica e redistributiva. Nella specie si è constatato il ragionevole intento del legislatore delegato di garantire una certa continuità tra il precedente e il nuovo regime dell’Irap, soprattutto in termini redistributivi e di gettito: in particolare, l’aumento provvisorio e calibrato delle aliquote per i settori bancario, finanziario e assicurativo è stato ritenuto pienamente giustificato sotto il profilo degli articoli 3 e 53, primo comma, della Costituzione, essendo esso la conseguenza, da una parte, della valutazione circa il minore impatto del nuovo tributo sui detti settori e, dall’altra, di una scelta di politica redistributiva volta ad assicurare, in ragione del carattere surrogatorio del tributo, la continuità del prelievo e ad evitare, quindi, possibili divergenze tra la precedente ripartizione del carico fiscale e quella che si sarebbe verificata ove nella fase di prima applicazione si fosse adottata una aliquota unica e indifferenziata per tutti i settori produttivi del comparto privato.

Analogamente, sono rimesse alla discrezionalità del legislatore sia l’individuazione delle situazioni significative della capacità contributiva sia la determinazione dell’entità dell’onere tributario, con il limite della non arbitrarietà o irrazionalità della scelta legislativa, non superato nel considerare indice di capacità contributiva l’acquisto di terreni agricoli, ponendo l’imposta a carico di ciascun successivo acquirente, con una aliquota raccordata ai criteri di valutazione dei beni iscritti in catasto tale da avere una contenuta incidenza sul valore del bene (ordinanza n. 23). Nel medesimo senso, anche l’ordinanza n. 87 ha sottolineato, come si è detto, che l’individuazione del concreto ambito di applicazione di una agevolazione fiscale rientra nella discrezionalità del legislatore.

Su singoli profili del rapporto tributario, sono da menzionare anche la sentenza n. 225 e l’ordinanza n. 402. Nella prima si è stabilito che la presunzione di ricavi iuris tantum relativa alla destinazione dei prelievi non risultanti dalle scritture contabili non appare lesiva del canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile. L’ordinanza n. 402, ha invece, rilevato come non sia censurabile, potendosi all’uopo trovare giustificazioni di ordine pratico, che, nel caso di opzione per il rimborso del credito dell’Iva relativo al 1981, il legislatore, nella sua discrezionalità, abbia scelto di non subordinare il condono alla rinuncia del credito e di tener fermo il potere di accertamento.

Non è comunque consentito lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole. L’irragionevolezza discende, segnatamente, dal peculiare trattamento che verrebbe riservato, con la soggezione al termine prescrizionale ordinario, proprio all’ipotesi nella quale l’Amministrazione (lato sensu intesa), sempre soggetta a rigorosi termini di decadenza per attività ben più complesse, è chiamata a compiere una elementare operazione di verifica (non a caso definita dalla legge meramente) formale (sentenza n. 280).

f) Il giudizio sulla ragionevolezza delle scelte operate dal legislatore non può non spingersi alla valutazione circa la giustificatezza dei parametri concretamente individuati nella disciplina di trattamenti economici. È quanto emerge, tra l’altro, nella sentenza n. 220, dove si precisa che, sebbene debba riconoscersi al legislatore la facoltà di ancorare l’indennità spettante ai giudici onorari a parametri indipendenti da quelli, propri della retribuzione, connessi alla qualità e quantità del lavoro svolto, non può negarsi l’irragionevolezza della norma che individui parametri che, oltre a rivelarsi inadeguati ad una corretta ponderazione delle situazioni economiche dei soggetti destinatari dell’indennità, si appalesino non coerenti con la ratio sottesa al sistema.

Per quel che attiene al trattamento pensionistico, il vulnus all’art. 3 (oltre che all’art. 38) della Costituzione è ravvisabile – secondo quanto affermato nella sentenza n. 338 – soltanto ove sia assente una clausola di salvaguardia della posizione acquisita a seguito del raggiungimento dell’anzianità minima contributiva, che segna un limite intrinseco alla discrezionalità del legislatore nella scelta, ad esso riservata, del criterio di individuazione del periodo di riferimento della retribuzione pensionabile.

Come noto, nella valutazione del corretto esercizio della discrezionalità legislativa, non possono non rientrare, poi, se del caso, anche coefficienti di ordine prettamente economico, ad esempio nella considerazione della necessità di porre limiti di spesa (sentenza n. 111), nel bilanciamento tra oneri da sostenere e risparmi che una determinata norma può ingenerare (sentenza n. 191) o nel bilanciamento tra costi di un servizio e tutela degli utenti (sentenza n. 199).

È, in effetti, alla luce della preminente valutazione dell’interesse pubblico che molte disposizioni debbono essere scrutinate. Ciò è quanto si è verificato, peraltro, anche con riferimento ad una fattispecie sostanzialmente diversa da quelle appena sopra menzionate: nella sentenza n. 147, segnatamente, si è ritenuto nient’affatto contraddittorio rispetto all’affermazione della generale libertà dei medici veterinari dipendenti dal Servizio sanitario nazionale di svolgere attività libero-professionale al di fuori delle strutture pubbliche, al di fuori dell’orario di servizio, al di fuori del «plus orario» e al di fuori del lavoro straordinario, che il legislatore regionale abbia ritenuto di porre limitazioni allo svolgimento di tale attività a tutela delle esigenze delle finalità istituzionali delle strutture pubbliche, in misura tale da non svuotare del tutto il contenuto del diritto.

Sempre in ordine all’applicazione del principio di ragionevolezza all’attività amministrativa, con precipuo riguardo al suo possibile collegamento con il principio di buon andamento, si rinvia a quanto verrà detto infra, cap. III, sez. I, par. 5.1.

g) Con riferimento ai rapporti di durata, nella statuizione resa con la sentenza n. 264, la non irragionevolezza della disciplina concernente l’aumento dei canoni di locazione è derivata dall’essere la norma impugnata frutto di una valutazione del legislatore orientata ad un aumento non indiscriminato dei canoni, essendo stati utilizzati al riguardo i criteri, di natura oggettiva, del reddito dell’assegnatario del bene e del valore di mercato degli immobili locati, quest’ultimo assunto a regola di chiusura per temperare l’incremento complessivo del canone derivante dall’applicazione dei coefficienti di rivalutazione. Al non irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa non è dato, peraltro, opporre considerazioni di opportunità volte a porre rimedio a mere incoerenze e disarmonie della normativa censurata, che non possono assurgere a motivo di incostituzionalità della medesima.

h) L’importanza del fattore temporale sulla prognosi in ordine alla ragionevolezza di una disposizione – ben testimoniato, tra l’altro, anche dall’orientamento secondo cui la discrezionalità del legislatore è particolarmente ampia quando trattasi di dettare disposizioni transitorie (sentenza n. 21) – si apprezza, ovviamente, anche (se non soprattutto), con riferimento agli effetti retroattivi che le norme possono avere. Sul punto specifico, si rinvia, comunque, a quanto verrà detto infra, cap. III, sez. I, par. 2.2.

3. Il principio di laicità dello Stato

Con la sentenza n. 168 la Corte, proseguendo nell’itinerario già tracciato e volto a rimuovere le disparità di trattamento tra religione cattolica e altri culti (v. sentenze n. 329 del 1997, n. 508 del 2000, n. 327 del 2002), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 403, primo e secondo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice qualora i medesimi fatti sono commessi «contro un culto ammesso nello Stato».

Nell’accogliere la questione la Corte ha ribadito che «le esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose […] sono riconducibili, da un lato, al principio di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di religione sancito dall’art. 3 Cost., dall’altro al principio di laicità o non-confessionalità dello Stato, che implica, tra l’altro, equidistanza e imparzialità verso tutte le religioni, secondo quanto disposto dall’art. 8 Cost., ove è appunto sancita l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge». Tali esigenze, si afferma, «sono evidentemente presenti anche in relazione alla attuale questione di legittimità costituzionale, che riguarda l’unica fattispecie incriminatrice tra quelle contemplate dal capo dei delitti contro il sentimento religioso che ancora prevede un trattamento sanzionatorio più severo ove le offese siano recate alla religione cattolica»: poiché infatti tutte le norme del capo in esame si riferiscono al «medesimo bene giuridico del sentimento religioso», l’art. 403 censurato appare connotato «dalla “inammissibile discriminazione” sanzionatoria tra la religione cattolica e le altre confessioni religiose, ripetutamente dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte».

4. La condizione giuridica dello straniero

Con riferimento alla condizione giuridica dello straniero, la Corte ha affrontato questioni riferite a vari ambiti normativi, quali il diritto all’unità familiare, l’espulsione dal territorio nazionale, la regolarizzazione, il diritto di fruire dei servizi pubblici. Altre questioni non sono state invece decise nel merito, in conseguenza di vizi riscontrati negli atti introduttivi dei giudizi.

4.1. Il diritto all’unità familiare

Il godimento dei diritti inviolabili dell’uomo non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero: la Corte è tornata ad affermare questo importante principio nelle sentenze n. 224 e n. 432 in tema di ricongiungimento familiare e provvidenze a favore di disabili (nonché nell’ordinanza n. 261).

In particolare, con la sentenza n. 224 la Corte, nel rigettare una questione di costituzionalità avente ad oggetto la disciplina del ricongiungimento familiare contenuta nel Testo unico in materia di immigrazione e asilo (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come modificato in parte qua dalla legge 30 luglio 2002, n. 189), ha affrontato il delicato tema della tutela costituzionale del diritto all’unità familiare e dei suoi limiti (in senso conforme, v. successivamente l’ordinanza n. 464).

La Corte ha escluso che la nuova e più restrittiva disciplina introdotta dalla legge n. 189 del 2002 (che consente il ricongiungimento con i genitori solo nel caso di assenza di altri figli nel paese di origine o provenienza ovvero di impossibilità degli altri figli, per documentati gravi motivi di salute, di provvedere al sostentamento dei genitori ultrasessantacinquenni) costituisca un ostacolo all’esercizio del diritto inviolabile ad una vita familiare – riconosciuto dalla Costituzione anche agli stranieri, pienamente equiparati ai cittadini in relazione al godimento di diritti fondamentali – con argomentazioni che valgono peraltro a definire il nucleo stesso del diritto all’unità familiare.

La Corte osserva infatti che tale diritto «deve ricevere la più ampia tutela con riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in formazione e, quindi, in relazione al ricongiungimento dello straniero con il coniuge e con i figli minori», ma «non ha una estensione così ampia da ricomprendere tutte le ipotesi di ricongiungimento di figli maggiorenni e genitori, in quanto nel rapporto tra figli maggiorenni, ormai allontanatisi dal nucleo di origine, e genitori, l’unità familiare perde la caratteristica di diritto inviolabile costituzionalmente garantito, aprendosi contestualmente margini che consentono al legislatore di bilanciare “l’interesse all’affetto” con altri interessi di rilievo».

In particolare, si ricorda nella sentenza come il legislatore possa «legittimamente porre dei limiti all’accesso degli stranieri nel territorio nazionale effettuando un “corretto bilanciamento dei valori in gioco”, poiché sussiste in materia un’ampia discrezionalità legislativa limitata solo dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli».

Secondo la Corte, tale limite non è superato nella previsione normativa denunciata, in quanto le disposizioni dettate dal decreto legislativo n. 286 del 1998 tutelano il diritto dello straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato a mantenere l’unità del suo nucleo familiare nel caso del coniuge e dei figli minori a carico, limitando «il ricongiungimento alle ipotesi in cui vi sia una effettiva e grave situazione di bisogno di quei familiari che non possono in alcun modo soddisfare autonomamente le proprie esigenze primarie di vita, non avendo nemmeno altri figli nel paese di origine in grado di sostentarli». Il che vale per la Corte ad escludere anche la disparità di trattamento denunciata dal rimettente tra richiedenti che abbiano fratelli e quelli che non li abbiano.

Quanto infine alle «ragioni di solidarietà familiare» invocate dal giudice a quo, la Corte ha affermato che valgono al riguardo le medesime argomentazioni già svolte in riferimento al diritto all’unità familiare, essendo anzi in tal caso ancora più ampio l’ambito di detta discrezionalità, perché «il concetto di solidarietà non implica necessariamente quello di convivenza, essendo ben possibile adempiere il relativo obbligo mediante modalità diverse dalla convivenza».

4.2. L’espulsione dello straniero

Richiamando la sentenza n. 224, quanto ai limiti della tutela costituzionale del diritto all’unità familiare, la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, sollevata in riferimento tra gli altri agli articoli 2, 29 e 30 della Costituzione, «nella parte in cui non estende il divieto di espulsione allo straniero che, pur non in regola con le norme di soggiorno, abbia tutti i familiari regolarmente soggiornanti in Italia e non abbia più alcun legame familiare, sociale, linguistico e culturale con il suo paese d’origine» (ordinanza n. 260). Le ragioni dell’inammissibilità risiedono nella circostanza che la questione «postula una pronuncia additiva concernente situazioni indeterminate e comportante quindi l’esercizio di valutazioni discrezionali estranee alle funzioni di questa Corte e ciò riguardo sia alla vita dello straniero in Italia, sia alla sua estraneità rispetto allo Stato di destinazione di cui è cittadino».

Nell’ordinanza n. 463, la Corte ha ribadito, nel solco di precedenti pronunce, che l’«automatismo espulsivo» non viola l’art. 2 della Costituzione (sotto il profilo dell’obbligo di adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), in quanto «altro non è che un riflesso del principio di stretta legalità che permea l’intera disciplina dell’immigrazione e che costituisce anche per gli stranieri presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell’autorità amministrativa». La questione devoluta alla Corte riguardava il possibile contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione degli articoli 13, comma 2, e 5, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, «nella parte in cui prevedono l’automatica espulsione dello straniero che – essendo legittimamente entrato nel territorio dello Stato – abbia omesso di richiedere il permesso di soggiorno nel termine prescritto, anziché subordinare l’adozione del provvedimento espulsivo alla previa verifica della insussistenza delle condizioni per il rilascio del permesso», come stabilito nel caso di richiesta tardiva di rinnovo del permesso. La Corte ha escluso anche la violazione dell’art. 3 della Costituzione sul rilievo che l’omessa presentazione della richiesta del permesso di soggiorno e la tardiva presentazione della domanda di rinnovo del permesso costituiscono situazioni eterogenee (sia per la diversa rilevanza dell’obbligo rimasto inadempiuto, sia in ragione del tipo di violazione posta in essa) fra loro non comparabili, giungendo per questa via ad escludere la denunciata disparità di trattamento.

Con la sentenza n. 466 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 13-bis, secondo periodo, del decreto legislativo n. 286 del 1998, risultante dalle modifiche introdotte nel testo dall’art. 12 della legge n. 189 del 2002, che punisce con la reclusione da uno a quattro anni (anziché con l’arresto da sei mesi a un anno) lo straniero espulso che abbia fatto rientro in Italia, se già denunciato per la contravvenzione di reingresso nel territorio nazionale senza autorizzazione ministeriale.

La Corte chiarisce, in primo luogo, che successivamente all’ordinanza di rimessione il quadro normativo è stato modificato dal decreto legge n. 241 del 2004, convertito, con modificazioni, nella legge n. 271 del 2004, ma che trattandosi di modifiche che comportano un aggravamento della posizione dell’imputato e quindi non applicabili al processo a quo, ai sensi dell’art. 2, terzo comma, cod. pen. (in questo senso si veda anche, secondo un indirizzo consolidato, l’ordinanza n. 261 di seguito citata), la questione resta individuata nei termini precisati dal rimettente con riguardo appunto alla disposizione «nel testo vigente al momento della commissione del fatto e quale viveva nel quadro normativo allora esistente», quello derivante dalle innovazioni introdotte dalla legge n. 189 del 2002.

Ciò posto la Corte, richiamando la ratio decidendi della sentenza n. 78 (sulla quale v. infra), ha stigmatizzato l’operato del legislatore del 2002 per avere formulato la disposizione censurata «trasformando in delitto una fattispecie contravvenzionale per il solo fatto che lo straniero rientrato in Italia fosse stato denunciato per la contravvenzione di reingresso nel territorio nazionale senza autorizzazione ministeriale».

Nel senso della manifesta infondatezza è stata invece decisa con l’ordinanza n. 261 una diversa questione avente ad oggetto proprio la fattispecie di cui all’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 189 del 2002. Detta norma era censurata dal rimettente, in riferimento agli articoli 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede un trattamento sanzionatorio più severo per lo straniero espulso che violi il divieto di rientro nel territorio dello Stato senza speciale autorizzazione rispetto a quello stabilito dall’art. 650 cod. pen. per il cittadino italiano nel caso di inosservanza di provvedimenti dell’autorità.

La Corte ha ritenuto che «l’evidente diversità esistente tra la generica inosservanza dei provvedimenti dell’autorità e la trasgressione dello specifico divieto di rientrare nel territorio nazionale conseguente al provvedimento di espulsione emesso nei confronti dello straniero» giustifichi la diversità del «trattamento sanzionatorio» e ha sottolineato che «per ciò che riguarda il diritto a permanere sul territorio nazionale la posizione giuridica dello straniero è diversa rispetto a quella del cittadino (art. 16, secondo comma, Cost.)», fermo restando che il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo «non tollera discriminazioni tra cittadino e straniero».

Da segnalare infine che numerose sono le ordinanze di restituzione degli atti adottate a seguito delle sentenze di illegittimità costituzionale n. 222 (immediata esecutività del provvedimento di espulsione) e n. 223 (arresto obbligatorio in flagranza per il reato di inottemperanza all’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale) del 2004 e della sopravvenuta modifica del diritto positivo dovuta all’entrata in vigore del decreto legge n. 241 del 2004, convertito, con modificazioni, nella legge n. 271 del 2004.

La Corte ha peraltro disposto la restituzione degli atti anche in relazione a questioni, con le quali si censurava, in riferimento a vari parametri, la previsione del giudizio direttissimo e la disciplina della espulsione amministrativa dello straniero sottoposto a procedimento penale (sia sotto il profilo del nulla osta all’espulsione dell’autorità giudiziaria che dell’autorizzazione al rientro nel territorio dello Stato dello straniero espulso ai fini dell’esercizio del diritto di difesa), ritenendo necessaria da parte dei giudici a quibus una «nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza», sul rilievo che la sentenza n. 223 del 2004 e la novella legislativa, «pur non incidendo direttamente» su tali aspetti della normativa «hanno comportato mutamenti della cornice sistematica e delle concrete modalità operative dei meccanismi normativi sottoposti a scrutinio di costituzionalità» (v., fra tante, le ordinanze n. 206, n. 362 e n. 365).

4.3 La regolarizzazione del lavoratore extracomunitario

In tema di legalizzazione del lavoro irregolare si segnala la sentenza n. 78 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 7, lettera c), della legge n. 189 del 2002 e dell’art. 1, comma 8, lettera c), del decreto legge n. 195 del 2002 (Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari), convertito, con modificazioni, nella n. 222 del 2002, nella parte in cui non consentono la regolarizzazione del lavoratore extracomunitario denunciato per uno dei reati per i quali gli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale prevedono l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza.

La Corte ha ritenuto fondata la questione in riferimento all’art. 3 della Costituzione giudicando contrario al principio di ragionevolezza «l’automatismo delle conseguenze ricollegate alla sola denuncia» (in tal senso v. già in precedenza la sentenza n. 173 del 1997).

Ha osservato infatti la Corte che «nel nostro ordinamento la denuncia, comunque formulata e ancorché contenga l’espresso riferimento a una o a più fattispecie criminose, è atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce», di tal che è irragionevole una normativa che fa derivare dalla denuncia «conseguenze molto gravi in danno di chi della medesima è soggetto passivo, imponendo il rigetto dell’istanza di regolarizzazione che lo riguarda e l’emissione nei suoi confronti dell’ordinanza di espulsione; conseguenze tanto più gravi qualora s’ipotizzino denunce non veritiere per il perseguimento di finalità egoistiche del denunciante e si abbia riguardo allo stato di indebita soggezione in cui, nella vigenza delle norme stesse, vengono a trovarsi i lavoratori extracomunitari».

4.4. Il diritto alla fruizione dei servizi pubblici

Con la sentenza n. 432 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, della legge della Regione Lombardia 12 gennaio 2002, n. 1 (Interventi per lo sviluppo del trasporto pubblico regionale e locale), come modificata dall’art. 5, comma 7, della legge regionale 9 dicembre 2003, n. 25 (Interventi in materia di trasporto pubblico locale e di viabilità), che non includeva «i cittadini stranieri, residenti nella Regione, fra gli aventi il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea, riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili».

La Corte ha inquadrato la ratio del beneficio previsto dalla norma censurata in una «logica di solidarietà sociale», «riconducibile alla scelta del legislatore regionale di agevolare – attraverso la fruizione gratuita del servizio – l’accesso al sistema dei trasporti pubblici locali in favore di un gruppo di persone accomunate dalla appartenenza alla più grave condizione di invalidità», e ha escluso che esso sia destinato a garantire quel «“nucleo irriducibile” di tutela della salute quale diritto della persona» che deve essere riconosciuto «anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato» (in linea del resto con quanto stabilito in via generale dall’art. 2 del d.lgs. n. 286 del 1998).

Ciò posto, la Corte ha osservato che tuttavia al legislatore statale o regionale è consentito «introdurre regimi differenziati, circa il trattamento da riservare ai singoli consociati, soltanto in presenza di una “causa” normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria».

Ed è sotto questo profilo che, a giudizio della Corte, la disposizione censurata, il cui «scrutinio va circoscritto all’interno della specifica previsione, in virtù della quale la circolazione gratuita viene assicurata non a tutti gli invalidi residenti in Lombardia che abbiano un grado di invalidità pari al 100%, ma soltanto a quelli, fra essi, che godano della cittadinanza italiana», si pone in contrasto con il principio sancito dall’art. 3 della Costituzione. Il requisito della cittadinanza si atteggia infatti nella disposizione in esame «come uno specifico presupposto che condiziona l’ammissione al regime di favor, non diversamente dagli altri specifici requisiti che valgono ad identificare le singole categorie privilegiate», ma, ha affermato la Corte, distinguere, ai fini della applicabilità della misura in questione, cittadini italiani da cittadini di paesi stranieri – comunitari o extracomunitari – ovvero apolidi, finisce per «introdurre nel tessuto normativo elementi di distinzione del tutto arbitrari, non essendovi alcuna ragionevole correlabilità tra quella condizione positiva di ammissibilità al beneficio (la cittadinanza italiana, appunto) e gli altri peculiari requisiti (invalidità al 100% e residenza) che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio e la funzione».

La Corte ha, inoltre, rilevato che l’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, secondo cui «gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste […] per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti», costituisce, a norma dell’art. 1, comma 4, del medesimo decreto legislativo, principio fondamentale dello Stato ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, con la conseguenza che «qualsiasi scelta del legislatore regionale che introducesse rispetto ad esso regimi derogatori – come senz’altro è avvenuto nella disposizione oggetto di impugnativa – dovrebbe permettere di rinvenire nella stessa struttura normativa una specifica, trasparente e razionale “causa giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul piano costituzionale, le “ragioni” poste a base della deroga».

Dalla norma censurata, ha concluso la Corte , non è invece «enucleabile […] altra ratio che non sia quella di introdurre una preclusione destinata a scriminare, dal novero dei fruitori della provvidenza sociale, gli stranieri in quanto tali».

4.5. Questioni non decise nel merito

Fra le questioni non decise nel merito per ragioni processuali (difetto di motivazione sulla rilevanza) meritano una menzione particolare quelle oggetto delle ordinanze n. 126, n. 189 e n. 295, concernenti: a) l’esclusione della regolarizzazione, a seguito di istanza di emersione, dei lavoratori che siano stati destinatari di provvedimenti di espulsione con accompagnamento alla frontiera; b) la disposizione secondo cui «la condanna con provvedimento irrevocabile per alcuni dei reati previsti dalle disposizioni del Titolo III, Capo III, Sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, relativi alla tutela del diritto di autore, e dagli articoli 473 e 474 del codice penale, comporta la revoca del permesso di soggiorno rilasciato allo straniero e l’espulsione del medesimo con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica»; c) la mancata previsione del «ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento di espulsione del questore emesso quando non sia possibile trattenere lo straniero entro un centro di permanenza».


Capitolo II

Diritti e doveri degli individui

 

Sezione I

I rapporti civili

1. La libertà personale

Nelle sentenze nn. 299 e 408, entrambe di illegittimità costituzionale, viene in rilievo la garanzia sancita dall’art. 13, quinto comma, Cost. dei limiti massimi di durata della custodia cautelare.

In particolare, la sentenza n. 299 pone fine ad una tormentata vicenda interpretativa che aveva ad oggetto la portata dell’art. 303, comma 2, del codice di procedura penale.

Ai sensi del comma 2 dell’art. 303 del codice di rito, nell’ipotesi di regressione del procedimento a seguito di annullamento con rinvio, dalla data del provvedimento che dispone il rinvio decorrono nuovamente i termini previsti dal precedente comma 1. Permaneva tuttavia il dubbio circa la compatibilità, ai fini del calcolo dei termini massimi di fase previsti dall’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., della custodia sofferta in pendenza di fasi o gradi del giudizio diversi rispetto alla fase o al grado in cui il procedimento regredisce: così, con riguardo all’ipotesi di annullamento con rinvio, se risultava pacifico che dovesse computarsi la custodia subita nella fase conclusasi con il provvedimento poi annullato, cui occorreva addizionare la privazione di libertà sofferta nella parallela fase di rinvio, ci si chiedeva, invece, se nel computo dovesse o no rientrare anche la custodia subita nelle fasi intermedie, quale il giudizio di Cassazione conclusosi con l’annullamento con rinvio del primo decisum.

La Corte, richiamando la chiave di lettura illo tempore fornita dalla sentenza interpretativa di rigetto n. 292 del 1998, ha affermato che le considerazioni svolte in quella decisione «circa il rispetto dei principî di adeguatezza e di proporzionalità, operanti anche in relazione ai limiti che deve incontrare la durata della custodia cautelare, discendono direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto al perseguimento delle finalità del processo, da un lato, e alle esigenze di tutela della collettività, dall’altro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è ancora stato giudicato colpevole in via definitiva».

Nel quadro della giurisprudenza costituzionale, ha sottolineato ancora la Corte, «le esigenze che impongono, nella logica dell’art. 13 Cost., di privilegiare soluzioni che comportino il minor sacrificio della libertà personale trovano le loro radici nella fondamentale sentenza n. 64 del 1970, che ha aperto la via alla vigente disciplina in tema di termini massimi – di fase, complessivi e finali – della custodia cautelare».

La Corte – allora chiamata a pronunciarsi, tra l’altro, sulla legittimità costituzionale dell’art. 272 del codice di procedura penale del 1930, nella parte in cui limitava «l’operatività dei termini massimi della custodia preventiva alla sola fase istruttoria» e consentiva che, dopo la chiusura dell’istruzione, la custodia non fosse soggetta ad alcun limite – nell’accogliere la questione muoveva infatti dalla constatazione che con l’art. 13, quinto comma, la Costituzione ha voluto evitare che il sacrificio della libertà determinato dalla custodia preventiva «sia interamente subordinato alle vicende del procedimento; ed ha, pertanto, voluto che, con la legislazione ordinaria, si determinassero i limiti temporali massimi della carcerazione preventiva, al di là dei quali verrebbe compromesso il bene della libertà personale, che […] costituisce una delle basi della convivenza civile». Tutto ciò senza che resti preclusa «al legislatore una nuova disciplina della materia, eventualmente differenziata […] anche in relazione alle varie fasi del procedimento, purché, in conformità con l’ultimo comma dell’art. 13 della Costituzione, si assicuri in ogni caso la predeterminazione d’un ragionevole limite di durata della detenzione preventiva».

Dunque, torna a riaffermare la Corte, «per essere conformi a Costituzione i termini massimi devono […] coprire l’intera durata del procedimento, sino alla sentenza definitiva; ove non fossero disciplinati termini massimi di custodia cautelare, il sacrificio della libertà risulterebbe infatti interamente subordinato alle esigenze processuali e ne risulterebbe compromesso il bene fondamentale della libertà personale; ove siano previsti termini massimi in relazione alle varie fasi del procedimento, la relativa disciplina deve essere tale da assicurare in ogni modo un ragionevole limite di durata della custodia, in conformità d’altra parte ai parametri di proporzionalità e adeguatezza interni allo stesso precetto sancito dall’ultimo comma dell’art. 13 Cost.».

Pertanto, «le limitazioni della libertà connesse alle vicende processuali devono rispettare il principio di proporzionalità, posto che contrasterebbe con il giusto equilibrio tra le esigenze del processo e la tutela della libertà una disciplina della detenzione cautelare priva di limiti di durata ragguagliati, da un lato, alla pena prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza e, dall’altro, alla concreta dinamica del processo e alle diverse fasi in cui esso si articola». Invero, «unitamente al principio di adeguatezza, il criterio di proporzionalità tra la gravità della pena prevista per il reato e la durata della custodia lungo l’intiero corso del procedimento ispira l’esigenza di assicurare un ragionevole limite di durata della custodia cautelare in relazione alla sua durata complessiva e alle singole fasi del processo».

In tal senso «processo e fatto di reato sono infatti termini inscindibili del binomio al quale va sempre parametrata la disciplina della custodia cautelare e ad entrambi deve sempre essere ancorata la problematica dei termini entro i quali la durata delle misure limitative della libertà personale può dirsi proporzionata e, quindi, ragionevole», in conformità, tra l’altro, ai valori espressi dall’art. 5, par. 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e tenuto conto che «proporzionalità e ragionevolezza stanno alla base del principio secondo cui, in ossequio al favor libertatis che ispira l’art. 13 Cost., deve comunque essere scelta la soluzione che comporta il minor sacrificio della libertà personale».

Ne deriva che «la tutela della libertà personale che si realizza attraverso i limiti massimi di custodia voluti dall’art. 13, quinto comma, Cost. è quindi un valore unitario e indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari e contingenti vicende processuali, ovvero desunte da una ricostruzione dell’attuale sistema processuale che non consenta di tenere conto, ai fini della garanzia del termine massimo finale di fase, dei periodi di custodia cautelare “comunque” sofferti nel corso del procedimento».

Sulla base di tali principî la Corte ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 303, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dall’art. 304, comma 6, dello stesso codice, i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o in gradi diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito, per contrasto con gli articoli 3 e 13 Cost.

Alla tutela della libertà personale si ispira anche la sentenza n. 408 che ha ad oggetto la disciplina della retrodatazione dei termini di custodia cautelare nel caso di più ordinanze emesse nei confronti dello stesso soggetto in tempi diversi (c.d. divieto di contestazioni a catena).

Ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. il meccanismo della retrodatazione risultava applicabile solo in relazione a fatti diversi, se avvinti da un rapporto di connessione «qualificata» ex art. 12, comma 1, lettere b) e c), cod. proc. pen., e cioè limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, e non anche in relazione a fatti diversi non connessi. Tale esclusione è stata ritenuta dalla Corte del tutto ingiustificata nelle ipotesi in cui gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza, sulla base della considerazione che, in una «cornice normativa attenta a calibrare l’intera disciplina dei termini di durata delle misure limitative della libertà personale, e di quelle custodiali in particolare, sulla falsariga dei valori della adeguatezza e proporzionalità, nessuno spazio può residuare in capo agli organi titolari del “potere cautelare” di scegliere il momento a partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali in caso di pluralità di titoli e di fatti reato cui essi si riferiscono», in perfetta aderenza d’altronde con i valori di certezza e di «durata minima» della custodia cautelare (di cui all’art. 13, primo e quinto comma, Cost., nonché all’art. 5 par. 3 della Convenzione europea dei diritti umani). Nello stesso senso si erano del resto già espresse le Sezioni unite, ma la sentenza di accoglimento è stata imposta dal fatto che il giudice a quo era vincolato dal principio di diritto enunciato dalla sentenza di annullamento con rinvio della Corte di cassazione, che in quel caso aveva seguito l’orientamento opposto.

2. La libertà di circolazione

Con la sentenza n. 66, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera d), della legge 13 giugno 1991, n. 190, che prevede la facoltà dell’ente proprietario della strada di subordinare il parcheggio e la sosta dei veicoli al pagamento di una somma, e dell’art. 7, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, che rimette al Ministro dei lavori pubblici (ora Ministro delle infrastrutture e dei trasporti) il compito di indicare le direttive cui devono attenersi le delibere delle giunte comunali che stabiliscono le aree destinate a parcheggio, fissando le condizioni e le tariffe.

La Corte ha ritenuto infondata la censura proposta in riferimento all’art. 16 Cost., richiamando quanto già affermato nella sentenza n. 264 del 1996 in ordine alla possibilità per il legislatore di «adottare, per ragioni di pubblico interesse, misure che influiscano sul movimento della popolazione» e in particolare di regolare l’uso delle strade, specie con mezzi di trasporto, anche sulla base di esigenze che, «sebbene trascendano il campo della sicurezza e della sanità, attengono al buon regime della cosa pubblica, alla sua conservazione, alla disciplina che gli utenti debbono osservare ed alle eventuali prestazioni che essi sono tenuti a compiere».

La libertà di circolazione è venuta in considerazione anche con riferimento all’art. 120, primo comma, Cost., segnatamente con la sentenza n. 147, per la trattazione della quale v. infra, sez. III, par. 1.

3. La libertà di manifestazione del pensiero

Non decisa nel merito, ma comunque, di rilievo la questione sollevata dal Tribunale di Milano, chiamato a decidere sulla richiesta di registrazione di un periodico destinato alla comunità araba, presentata da un cittadino egiziano iscritto come pubblicista nell’elenco dei giornalisti di nazionalità straniera annesso all’albo dei giornalisti, il quale riteneva l’art. 3 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) in contrasto con gli articoli 2, 3 e 21 Cost., in quanto preclusivo della registrazione di un periodico per il solo fatto che la persona indicata come direttore responsabile non è cittadino comunitario.

La Corte, pur dichiarando manifestamente inammissibile la questione per difetto di legittimazione del rimettente, attesa la natura amministrativa e non giurisdizionale del procedimento disciplinato dalla legge n. 47 del 1948, ha comunque avuto modo di precisare che il procedimento per la registrazione del periodico riguarda l’esercizio di un diritto fondamentale, quale è la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), che «non può comunque rimanere privo di tutela giurisdizionale», in ossequio al «principio, che caratterizza la stessa essenza dello stato democratico di diritto, secondo cui «non v’è posizione giuridica tutelata di diritto sostanziale, senza che vi sia un giudice davanti al quale essa possa essere fatta valere» (sentenza n. 212 del 1997) nell’ambito di «un procedimento di natura giurisdizionale». Nel corso di tale procedimento «potrà sempre essere proposto incidente di costituzionalità (sentenza n. 26 del 1999)» (ordinanza n. 170).

4. I principî costituzionali in materia penale

Per quanto attiene al diritto penale materiale, le questioni giunte all’attenzione della Corte hanno riguardo principalmente il principio di offensività, il trattamento sanzionatorio e la finalità della pena (in collegamento con la personalità della responsabilità penale).

4.1. Il principio di offensività

Con la sentenza n. 265 la Corte ha, in particolare, approfondito (nel solco tracciato da precedenti pronunce: sentenze nn. 360 del 1995, 263 e 519 del 2000) i due livelli del principio costituzionale di offensività, operante rispettivamente sul terreno della previsione normativa, cioè dell’obbligo del legislatore di prevedere fattispecie di reato che esprimano un contenuto lesivo (offensività in astratto), e su quello dell’applicazione giurisprudenziale, cioè quale criterio interpretativo che impone al giudice di accertare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o interesse tutelato.

Nel sollevare la questione il giudice a quo denunciava il contrasto dell’art. 707 del codice penale con i principî di materialità e, soprattutto, di offensività del reato, riconducibili all’art. 25, secondo comma, Cost., anche in collegamento con gli articoli 13 e 27, primo, secondo e terzo comma, Cost.

Nell’escludere la violazione del principio di materialità la Corte ha rimarcato che «la fattispecie in esame è caratterizzata non solo da una condotta positiva, rappresentata, appunto, dal possesso – ovviamente cosciente e volontario – di chiavi o di “strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature”, ma anche dalla presenza di un requisito “negativo”, costituito […] dalla mancanza di elementi idonei a giustificare l’attuale destinazione di tali oggetti».

Quanto al secondo profilo di censura la Corte, dopo aver precisato che ad essere evocato dal giudice rimettente è il principio di offensività in astratto, ha affermato che «l’analisi dell’insieme degli elementi costitutivi della contravvenzione in esame consente di delineare in termini sufficientemente determinati l’oggettività giuridica della norma»: se si considera infatti da un lato, che «il soggetto attivo deve essere persona già condannata per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio», dall’altro, che «la condotta si sostanzia nel fatto che l’agente “è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature”, senza essere in grado di giustificarne l’attuale destinazione», risulta evidente che la fattispecie in esame mira «a prevenire, sotto forma di reato di pericolo, la commissione di delitti contro il patrimonio», essendo «non irragionevole la previsione che quel determinato soggetto, colto in possesso di quei determinati strumenti, stia per commettere reati contro il patrimonio mediante violenza sulle cose».

Tuttavia – aggiunge la Corte – poiché «la particolare configurazione della contravvenzione in esame lascia aperta la possibilità che si verifichino casi in cui alla conformità del fatto al modello legale non corrisponde l’effettiva messa in pericolo dell’interesse tutelato», «il giudice chiamato a fare applicazione della norma dovrà […] operare uno scrutinio particolarmente rigoroso circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto, verificando la specifica attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o forzare serrature […], e valutando – soprattutto quando gli strumenti di cui l’imputato è colto in possesso non denotino di per sé tale univoca destinazione – le circostanze e le modalità di tempo e di luogo che accompagnano la condotta, dalle quali desumere l’attualità e la concretezza del pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio». Ne deriva la «possibilità di condurre in sede di applicazione della norma un incisivo controllo circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto».

Conclude la Corte che «l’individuazione della materialità della condotta incriminata e dell’interesse tutelato dall’art. 707 cod. pen., nonché la conseguente possibilità di condurre in sede di applicazione della norma un incisivo controllo circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto dimostrano l’infondatezza delle censure sollevate in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.».

4.2. La discrezionalità del legislatore nella determinazione del trattamento sanzionatorio

La giurisprudenza della Corte è consolidata nel ritenere circoscritto il sindacato di costituzionalità su scelte operate dal legislatore nella configurazione delle fattispecie e nella determinazione del relativo trattamento sanzionatorio, con riferimento in particolare alla congruità della pena rispetto alla gravità del reato, ai casi in cui esse si rivelino palesemente arbitrarie o radicalmente ingiustificate, ovvero contrastanti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza.

Nel ribadire tale indirizzo la sentenza n. 325 ricorda come «le sentenze di accoglimento per avere il legislatore superato il limite della ragionevolezza sono state pronunciate in situazioni in cui l’arbitrarietà delle scelte legislative derivava dal diretto confronto tra fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio (sentenze n. 102 del 1985, n. 341 del 1994 e n. 287 del 2001), ovvero in casi in cui era prevista la medesima pena sia per il delitto consumato (omicidio), sia per il tentativo del medesimo delitto (commesso da un militare contro un superiore: sentenza n. 26 del 1979)».

Sulla base di tali premesse la Corte ha ritenuto non irragionevole la previsione della sanzione penale per l’omessa o ritardata comunicazione dei nominativi degli ospiti di un albergo, in luogo della mera sanzione amministrativa come invece stabilito in caso di esercizio dell’attività senza licenza, senza previa dichiarazione all’autorità di pubblica sicurezza o in spregio del divieto del questore (ordinanza n. 262) e l’esclusione dell’attenuante dei «casi di minore gravità», prevista per il delitto di violenza sessuale, al delitto di violenza sessuale di gruppo (così la sopra menzionata sentenza n. 325), nonché il diverso (e più grave) trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 189 del 2002, per lo straniero espulso che violi il divieto di rientro nel territorio dello Stato senza speciale autorizzazione rispetto a quello stabilito dall’art. 650 cod. pen. per il cittadino italiano nel caso di inosservanza di provvedimenti dell’autorità (ordinanza n. 261, v., anche supra, cap. I, par. 4.2).

Con riferimento alla prima decisione (ordinanza n. 262) la Corte si è limitata a sottolineare, al fine di evidenziare la disomogeneità delle norme in comparazione, che le disposizioni evocate come tertium riguardano «i presupposti per l’esercizio stesso dell’attività alberghiera, che è espressione di libera iniziativa economica, mentre l’obbligo di comunicazione delle generalità delle persone alloggiate imposto dall’art. 109, terzo comma, [oggetto di censura] investe una modalità di svolgimento di tale attività d’impresa che si correla, con immediatezza, a specifiche esigenze di sicurezza pubblica, giacché il predetto obbligo è volto a consentire all’autorità di polizia la più rapida cognizione dei nominativi degli ospiti dell’albergo al fine di garantire, appunto, la sicurezza pubblica nell’ambito dei compiti d’istituto individuati dall’art. 1 TULPS», il che giustifica il più rigoroso trattamento sanzionatorio previsto dalla norma censurata.

Quanto alla seconda decisione (sentenza n. 325), la Corte ha ritenuto che l’esigenza di prevedere per la violenza sessuale di gruppo un’autonoma ipotesi di reato rispetto alla violenza sessuale monosoggettiva e di sanzionarla con una pena più severa trova ragione «nella constatazione che l’aggressione commessa da più persone riunite, oltre a comportare una più intensa lesione del bene della libertà sessuale a causa della prevedibile reiterazione degli atti di violenza, vanifica le possibilità di difesa e di resistenza della vittima e la espone a forme di degradazione e di reificazione che rendono più grave e profondo il trauma psichico che comunque consegue a qualsiasi episodio di violenza sessuale». E’ dunque ragionevole ritenere che «la violenza sessuale di gruppo, proprio a causa della presenza di più persone riunite, cagioni una lesione particolarmente grave e traumatica della sfera di autodeterminazione della libertà sessuale della vittima» così da differenziarsi «anche sul terreno qualitativo» dagli atti di violenza sessuale posti in essere da una sola persona e da «giustificare la maggior severità del relativo trattamento sanzionatorio».

Sotto il diverso profilo della «irragionevole equiparazione, ai fini dell’applicazione della sanzione, di situazioni tra loro diseguali» si segnala, invece, in tema di legalizzazione del lavoro irregolare, la sentenza n. 144 (v. anche supra, cap. I, par. 4.3), con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, del decreto legge 22 febbraio 2002, n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di emersione di attività detenute all’estero e di lavoro irregolare), convertito in legge dall’art. 1 della legge 23 aprile 2002, n. 73, «nella parte in cui non ammette la possibilità di provare che il rapporto di lavoro irregolare ha avuto inizio successivamente al primo gennaio dell’anno in cui è stata constatata la violazione».

Secondo la Corte, la disposizione censurata, non consentendo al datore di lavoro di fornire la prova che il rapporto di lavoro irregolare ha avuto inizio in una data diversa da quella del primo gennaio dell’anno in cui è stata accertata la violazione, e che, dunque, ha avuto una durata inferiore rispetto a quella presunta dalla legge, equipara irragionevolmente, ai fini del trattamento sanzionatorio, situazioni tra loro diseguali, quali quelle che fanno capo a soggetti che utilizzano lavoratori irregolari da momenti diversi e per i quali la constatazione della violazione sia in ipotesi avvenuta nella medesima data.

Richiamando una consolidata giurisprudenza secondo cui rientra nella discrezionalità del legislatore anche individuare cause estintive del reato, ovvero cause sopravvenute di non punibilità legate a condotte lato sensu riparatorie la Corte ha dichiarato manifestamente infondata con l’ordinanza n. 155 una questione di legittimità costituzionale con la quale si censurava la disciplina (art. 9, comma 10, lettera c, e comma 14, lettera b, della legge n. 289 del 2002, come modificato dall’art. 5-bis del decreto legge n. 282 del 2002, convertito, con modificazioni, nella legge n. 272 del 2003), che esclude il condono tributario – e, conseguentemente, anche il beneficio della non punibilità per determinati reati, che conseguirebbe al perfezionamento della procedura – nel caso di avvenuto esercizio dell’azione penale, della quale il contribuente ha avuto formale conoscenza entro la data di presentazione della dichiarazione per la definizione automatica. La scelta di porre come limite all’operatività della causa estintiva l’esercizio dell’azione penale, infatti, «appare espressiva dell’intento di negare la possibilità di una sottrazione “a basso costo” alla responsabilità penale» per chi ha commesso reati in ordine ai quali sono state già acquisite prove sufficienti per il giudizio, mentre l’ulteriore elemento preclusivo, costituito dalla «formale conoscenza» dell’esercizio dell’azione penale da parte del contribuente è all’evidenza quella di evitare che il contribuente perfezioni un condono destinato, a sua insaputa, all’inefficacia.

4.3. I principî di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena

Nell’ordinanza n. 296 la Corte, nel rigettare una questione di costituzionalità dell’art. 168, comma 1, n. 2, del codice penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che il giudice, investito della richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena per sopravvenienza di condanne per fatti commessi anteriormente alla concessione del beneficio, determini – tenuto conto del periodo di sospensione condizionale trascorso e della condotta in esso tenuta dal condannato, avuto riguardo ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. – la misura residua in cui la pena sospesa deve essere eseguita, ha delineato con nettezza gli elementi di sostanziale diversità esistenti tra l’istituto della sospensione condizionale della pena e quello, assunto a tertium comparationis, dell’affidamento in prova al servizio sociale, giungendo ad escludere per questa via anche la dedotta violazione dell’art. 27, primo e terzo comma, della Costituzione.

Più precisamente, secondo la Corte, la sospensione condizionale della pena «si traduce in una semplice “astensione a tempo” dall’esecuzione della pena» che, (perlomeno fino alle modifiche recate dalla legge n. 145 del 2004 che ha introdotto la possibilità di subordinare il beneficio alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività) «non implica alcuna limitazione della libertà personale del condannato» e che trova il suo presupposto in una prognosi favorevole sulla futura condotta del condannato; l’affidamento in prova al servizio sociale è invece «una forma di esecuzione della pena, alternativa rispetto alla detenzione in carcere», che fa perno «sull’imposizione di regole di condotta (“prescrizioni”)» le quali, «nella duplice ottica di incentivare la risocializzazione del condannato e di neutralizzare i fattori di recidiva, incidono sotto vari profili sulla libertà personale».

Ora, ha affermato la Corte, poiché la prognosi sulla futura condotta del condannato «può essere formulata solo quando la pena complessivamente inflitta al condannato non superi i limiti stabiliti dal legislatore», nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui egli gode nella conformazione dell’istituto stesso, «nessuna violazione dei principì di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena può essere […] ravvisata in riferimento ad una disciplina che – nel caso di sopravvenienza di sentenze di condanna per fatti anteriormente commessi a pena che, cumulata con quella sospesa, determini il superamento degli anzidetti limiti e, con esso, la caduta del presupposto per la concessione del beneficio – ripristini l’esecuzione della pena già sospesa, senza prevedere alcuna “detrazione” per il periodo di sospensione trascorso, che è un periodo di “non esecuzione” di alcuna sanzione penale».

Il principio della funzione rieducativa della pena è stato evocato, unitamente all’art. 3 della Costituzione, anche in numerose questioni aventi ad oggetto il beneficio della sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva previsto dalla legge 1° agosto 2003 n. 207 (cosiddetto «indultino»).

Con un primo gruppo di ordinanze si dubitava, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, lettera d), della legge n. 207 del 2003, nella parte in cui sulla base del tenore letterale (la sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva non si applica «quando la persona condannata è stata ammessa alle misure alternative alla detenzione») consente l’accesso al beneficio a chi ha subito la revoca di precedenti misure alternative, per fatti concludenti quindi poco affidabile, «precludendolo invece a chi è già stato ammesso ad altri benefici penitenziari e pertanto sicuramente più meritevole».

La Corte ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni sollevate, in quanto indirizzate ad ottenere l’avallo interpretativo a favore della soluzione che gli stessi giudici ritenevano «con argomenti non implausibili» conforme a Costituzione (ordinanza n. 112): i giudici infatti prendevano le mosse da una interpretazione della disposizione impugnata (in linea con diverse pronunce della Corte di cassazione) secondo cui al beneficio non possono essere ammessi i condannati nei confronti dei quali sia stata disposta la revoca di una precedente misura e chiedevano di dichiarare illegittima la norma se interpretata in modo contrario.

La Corte, successivamente investita di una questione di costituzionalità con la quale si censurava proprio l’esclusione dal beneficio dei soggetti ammessi ad una misura alternativa per contrasto con l’art. 3 (irragionevolezza) e con l’art. 27, terzo comma, Cost. (per violazione del principio della funzione rieducativa della pena), ha dichiarato, con la sentenza n. 278, l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 1, comma 3, lettera d), della legge n. 207 del 2003, estendendo ai condannati già ammessi a misure alternative la possibilità di accesso al beneficio, ove ricorrano gli altri requisiti stabiliti dalla legge.

La questione è stata ritenuta fondata per l’irragionevole disparità di trattamento che si determina tra imputati ai fini dell’ammissione al beneficio. Nella sentenza si osserva che «è bensì vero che rientra nella discrezionalità del legislatore modulare in vario modo i benefici da concedere ai condannati, con l’unico limite della non manifesta irragionevolezza, ma questo limite, nella specie, risulta violato, non potendo la circostanza dell’ammissione o meno a misura alternative alla detenzione costituire un discrimine per il godimento dell’”indultino”», tanto più «ove si tenga presente che di quest’ultimo verrebbero a godere condannati ritenuti non meritevoli di misure alternative e non anche quelli che sono stati giudicati meritevoli di tali misure».

Successivamente è stata disposta la restituzione degli atti ai giudici a quibus per l’esame della perdurante rilevanza, alla luce della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, di questioni aventi ad oggetto l’art. 1, comma 3, lettera d), e sollevate, in riferimento tra gli altri anche all’art. 79, comma primo, della Costituzione, in data antecedente a tale pronuncia (ordinanze n. 346, n. 351, n. 356 e n. 358).

Infine, con l’ordinanza n. 255 (v. anche supra, cap. I, par. 1), la Corte, nel ritenere giustificata la mancata previsione della possibilità per il magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la detenzione domiciliare a condannato a pena residua superiore a quattro anni nel caso in cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale, ha sottolineato come tale misura sia «concepita come alternativa rispetto al differimento dell’esecuzione della pena» e costituisca «uno strumento intermedio e più duttile tra il mantenimento della detenzione in carcere e la piena liberazione del condannato (conseguente al rinvio)».

5. I principî costituzionali in materia processuale

I principî costituzionali in materia processuale rappresentano un settore su cui la Corte interviene con particolare frequenza. Nel corso del 2005, possono segnalarsi diverse statuizioni relative al diritto di azione, al diritto di difesa, ma anche alla difesa dei non abbienti ed alla riparazione per ingiusta detenzione.

5.1 Il diritto di azione

Il fondamento di qualsiasi arbitrato per il combinato disposto degli articoli 24, comma 1, e 102, comma 1, della Costituzione, è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, comma 1, Cost.) e non in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa.

Richiamando questo consolidato indirizzo, la Corte, con la sentenza n. 221, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 del regio decreto legge 28 agosto 1930, n. 1345, convertito nella legge 6 gennaio 1931, n. 80, in quanto prevede un arbitrato rituale obbligatorio per la risoluzione delle controversie relative alla costruzione o all’esercizio dell’acquedotto del Monferrato e all’applicazione dello stesso decreto legge. La Corte ha precisato che «l’illegittimità costituzionale della norma censurata […] risiede nella circostanza che essa preclude alle parti la possibilità di adire il giudice statuale, essendo totalmente irrilevanti, viceversa, i profili relativi sia al regime del lodo sia alla composizione del collegio: purché a ciascuna delle parti sia assicurata la libertà di sottrarsi all’arbitrato previsto dalla legge o da una fonte eteronoma, ben può essere prevista la non impugnabilità del lodo per errores in iudicando ovvero una certa composizione (purché rispettosa del principio di eguaglianza delle parti: cfr. sentenza n. 33 del 1995) del collegio arbitrale, in quanto la garanzia costituzionale attiene alla libertà di scelta dello strumento dell’arbitrato e non già, assicurata che sia tale consapevole e libera scelta, a peculiari modalità di svolgimento dell’arbitrato stesso».

Infine, investita di una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto una disposizione della legge finanziaria del 2001, in tema di trattamento economico dei magistrati, la Corte (sentenza n. 282) ha affermato che «la garanzia prevista dagli articoli 24 e 113 della Costituzione si riferisce al diritto di agire nella sede giurisdizionale e non nella sede amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica».

5.2. Il diritto di difesa

Sul diritto di difesa vanno segnalate, in particolare, la sentenza n. 144 in tema di emersione di lavoro irregolare e l’ordinanza n. 291 in tema di liberazione anticipata.

La sentenza n. 144 va menzionata per quanto riguarda il problema della compatibilità con il diritto di difesa di discipline che introducono presunzioni assolute, con esclusione della possibilità di fornire prova contraria.

Nella specie, la Corte – chiamata a scrutinare in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, l’art. 3, comma 3, del decreto legge 22 febbraio 2002, n. 12, convertito in legge dall’art. 1 della legge 23 aprile 2002, n. 73, il quale punisce l’impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture o altra documentazione obbligatorie, con la sanzione amministrativa dal 200% al 400% dell’importo per ciascun lavoratore irregolare del costo del lavoro, calcolato sulla base dei vigenti contratti collettivi nazionali per il periodo compreso tra l’inizio dell’anno e la data di constatazione della violazione – ha precisato che «il decreto legge n. 12 del 2002 si inserisce nel quadro degli interventi normativi volti ad incentivare l’emersione del lavoro irregolare attraverso la previsione di agevolazioni di carattere fiscale e previdenziale». Con la norma impugnata, rileva la Corte, viene introdotta «una sanzione ulteriore, rispetto a quelle già previste, per l’utilizzo di lavoratori irregolari», la cui base di calcolo tuttavia «prescinde dalla durata effettiva del rapporto di lavoro per essere ancorata ad un meccanismo di tipo presuntivo».

In tal modo, «il legislatore ha evidentemente inteso determinare un ulteriore inasprimento del trattamento sanzionatorio per coloro che continuino ad impiegare lavoratori irregolarmente, nonostante che siano stati introdotti meccanismi agevolati di varia natura per incentivare l’emersione del lavoro sommerso», ma il meccanismo previsto dalla disposizione censurata è «tale da non consentire al datore di lavoro di fornire la prova che il rapporto di lavoro irregolare ha avuto inizio in una data diversa da quella del primo gennaio dell’anno in cui è stata accertata la violazione, e che, dunque, ha avuto una durata inferiore rispetto a quella presunta dalla legge».

La suddetta «presunzione assoluta determina la lesione del diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione, dal momento che preclude all’interessato ogni possibilità di provare circostanze che attengono alla propria effettiva condotta e che pertanto sono in grado di incidere sulla entità della sanzione che dovrà essergli irrogata» e «determina, altresì, la irragionevole equiparazione, ai fini del trattamento sanzionatorio, di situazioni tra loro diseguali, quali quelle che fanno capo a soggetti che utilizzano lavoratori irregolari da momenti diversi e per i quali la constatazione della violazione sia in ipotesi avvenuta nella medesima data».

Di qui l’illegittimità costituzionale della norma censurata, «nella parte in cui non ammette la possibilità di provare che il rapporto di lavoro irregolare ha avuto inizio successivamente al primo gennaio dell’anno in cui è stata constatata la violazione».

Attestandosi nel solco di una giurisprudenza consolidata, la Corte con l’ordinanza n. 291, in tema di liberazione anticipata, ha invece ribadito «la piena compatibilità con il diritto di difesa dei modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito» (caratterizzati cioè da una decisione de plano seguita da una fase a contraddittorio pieno, «attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum»).

Nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli articoli 3, 24 e 27 della Costituzione, dell’art. 69-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, aggiunto dall’art. 1, comma 2, della legge 19 dicembre 2002, n. 277, nella parte in cui stabilisce che «il magistrato di sorveglianza provveda con rito senza formalità sulla concessione della liberazione anticipata al condannato detenuto in carcere o in misura alternativa», la Corte ha altresì affermato che la previsione di una procedura a contraddittorio differito, in materia di liberazione anticipata, trova del resto giustificazione «alla luce delle peculiarità e delle particolari esigenze operative dello specifico istituto: istituto che, tra l’altro – per diffuso convincimento – si differenzia, già sul piano strutturale, dal complesso delle misure alternative alla detenzione in senso stretto […], traducendosi in una mera riduzione quantitativa della pena, finalizzata a “premiare” il condannato che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione, cui non si accompagna alcun regime “alternativo” a quello carcerario».

In questo ambito può essere altresì ricordata la sentenza n. 32, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 10, del decreto legislativo n. 58 del 1998, censurato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui assoggetta al segreto d’ufficio l’intera documentazione in possesso della CONSOB in ragione dell’attività di vigilanza.

La Corte sottolinea in primo luogo la peculiarità del caso concreto da cui ha preso origine la questione di legittimità, evidenziandone le differenze rispetto al precedente specifico rappresentato dalla sentenza n. 460 del 2000, laddove era stata denunciata la previsione di un divieto di accesso anche nei procedimenti disciplinari a carico di soggetti sottoposti alla vigilanza della stessa Commissione. Nel caso in esame, viceversa, «viene in considerazione il diritto, asseritamente violato dalla norma censurata, di accedere alla documentazione inerente ad un procedimento svolto nei confronti di una società soggetta alla vigilanza della CONSOB e conclusosi con un provvedimento di archiviazione, in relazione al quale è già intervenuta una pronuncia giurisdizionale che ha riconosciuto alla medesima società il diritto di accesso». E’, perciò, chiaro che «non viene in discussione il diritto di difendersi secondo le regole del processo civile, il quale postulerebbe l’acquisizione di atti a fini probatori disposta in favore di tutte le parti, ma il diverso interesse a ottenere la disponibilità di tutta la documentazione raccolta dalla CONSOB […] onde poterne far uso successivamente in un giudizio civile».

La Corte, evidenziando che, nella specie, «l’accesso viene richiesto non per difendersi da un provvedimento sanzionatorio della CONSOB bensì per trasferire gli atti del procedimento amministrativo – conclusosi favorevolmente per il soggetto ad esso sottoposto – nel processo civile intentato nei confronti del medesimo soggetto da chi, proprio da quegli stessi fatti, si ritiene danneggiato», ha ritenuto insussistente la violazione del diritto di difesa, sul rilievo che «la caducazione, che si chiede alla Corte di disporre, del regime di segreto sui documenti acquisiti dalla CONSOB nell’espletamento della sua attività di vigilanza andrebbe ad esclusivo vantaggio di una sola delle parti del giudizio civile […] e finirebbe per introdurre, in un rapporto processuale conformato dal principio di parità, un trattamento irragionevolmente differenziato tra le parti».

Parimenti, la norma de qua non è viziata da irragionevolezza, poiché la disciplina dell’accesso ai documenti acquisiti dalla CONSOB non si traduce in un divieto assoluto: «il legislatore, per meglio garantire la funzione di vigilanza della CONSOB, finalizzata […] alla tutela della stabilità dei mercati finanziari, ha sì introdotto un regime di segreto sugli atti acquisiti nell’esercizio di quella funzione, ma ha previsto deroghe», con la conseguenza che «la limitazione stabilita per la ostensione di atti acquisiti nell’attività di vigilanza non appare manifestamente irragionevole o arbitraria».

5.3. La difesa dei non abbienti

In tema di patrocinio a spese dello Stato vanno segnalate le ordinanze n. 54 e n. 350.

Con la prima la Corte ha dichiarato manifestamente infondate per erroneità del presupposto interpretativo le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 6 e 10 della legge 30 luglio 1990, n. 217, ora sostituiti dagli articoli 99 e 112 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui non prevedono, nel caso in cui sia stata disposta la revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, la possibilità di impugnare il provvedimento davanti al tribunale o alla corte di appello ai quali appartiene il giudice che ha disposto la revoca del beneficio. Contrariamente all’assunto del rimettente, ha osservato la Corte, è possibile ricavare dal sistema una interpretazione adeguatrice, secondo la quale è sempre esperibile, nei confronti dei provvedimenti di revoca della ammissione al patrocinio a spese dello Stato emessi dal giudice competente, il ricorso al presidente del tribunale o della corte di appello, i cui provvedimenti sono ricorribili per cassazione ovvero, in caso di revoca richiesta dall’ufficio finanziario, direttamente il ricorso per cassazione; interpretazione che, essendo stata recepita dalla giurisprudenza di legittimità, costituisce peraltro diritto vivente.

Con la seconda la Corte ha invece escluso che l’art. 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui stabilisce che, nei casi di patrocinio a spese dello Stato, i compensi spettanti ai difensori, ai consulenti ed agli ausiliari del giudice siano ridotti della metà, ove si tratti di procedimenti civili ed amministrativi, contrasti con gli articoli 3 e 24 della Cost. La Corte ha, in primo luogo, ricordato il proprio costante orientamento secondo cui «la garanzia costituzionale del diritto di difesa non esclude, quanto alle sue modalità, la competenza del legislatore a darvi attuazione sulla base di scelte discrezionali non irragionevoli», ribadendo altresì che «la intrinseca diversità dei modelli del processo civile e di quello penale non consente alcuna comparazione» tra le rispettive discipline.

In applicazione di tale principio la Corte ha, quindi, ritenuto che «la diversità di disciplina fra la liquidazione degli onorari e dei compensi nel processo civile e nel processo penale trova fondamento nella diversità delle situazioni comparate (da una parte gli interessi civili, dall’altra le situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio dell’azione penale)» e che «la circostanza dedotta secondo cui il sistema di liquidazione degli onorari civili impone al difensore di prestare la propria opera per un compenso inferiore al minimo previsto, che, normalmente, costituirebbe infrazione ai doveri deontologici e fatto suscettibile di sanzione disciplinare, è costituzionalmente irrilevante ove si tenga presente che il sistema di liquidazione è imposto da una norma di legge, che, come tale, può legittimamente derogare anche ai minimi tariffari».

Risultano, infine, inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza (ordinanze n. 251 e 482) due questioni di costituzionalità concernenti l’art. 91 del decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002 e l’art. 1, comma 9, della legge n. 217 del 1990, sollevate in riferimento agli articoli 3, 24 e 27, secondo comma, Cost., laddove stabiliscono che l’ammissione al patrocinio dei non abbienti è esclusa per l’imputato, l’indagato e il condannato per reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

5.4. La riparazione per l’ingiusta detenzione

L’ordinanza n. 59 merita di essere segnalata per la particolarità della vicenda processuale da cui trae origine. Il processo, iniziato nel vigore del codice di procedura penale del 1930, si era concluso con sentenza istruttoria di proscioglimento nel giugno del 1990. Nel 2001 l’imputato, che aveva subito carcerazione preventiva per i fatti dai quali era stato prosciolto, chiedeva la riparazione per ingiusta detenzione. Il giudice, rilevando che la richiesta risultava tardiva a norma dell’art. 315, sollevava questione di legittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui prevede che il termine per proporre la richiesta di equo indennizzo decorre da quando la sentenza di non doversi procedere ex art. 378 cod. proc. pen. del 1930 è divenuta inoppugnabile, anziché dal giorno in cui è stata notificata all’imputato o comunque questo ne ha avuto effettiva conoscenza. Secondo il rimettente la situazione in esame era analoga a quella esaminata dalla Corte con la sentenza n. 446 del 1997, concernente il decorso del termine a seguito di decreto di archiviazione: da qui il denunciato contrasto con gli articoli 3 e 24 Cost.

La Corte nel dichiarare manifestamente infondata la questione osserva che nei procedimenti pendenti in istruzione formale alla data del 24 ottobre 1989, destinati a proseguire nell’osservanza della normativa precedente, il giudice deve far notificare a norma dell’art. 372 del cod. proc. pen. 1930 l’avviso dell’avvenuto deposito degli atti e dei documenti del processo al difensore dell’imputato per consentire ad entrambi, nel termine di cinque giorni, di prendere visione e di estrarre copia degli atti e dei documenti e di presentare istanze e memorie ritenute opportune, con obbligo per il giudice, alla scadenza del termine, di provvedere entro quindici giorni ad adottare i provvedimenti conseguenti necessari, ivi compresa la sentenza di proscioglimento di cui al successivo art. 378.

Secondo la Corte, la parte avente diritto alla riparazione era dunque «posta nelle condizioni – con l’impiego della normale diligenza – di venire a conoscenza del momento in cui il giudice effettua il deposito della sentenza – anche se questi non osserva il termine, pacificamente ordinatorio, per tale deposito», a differenza di quanto accadeva nella situazione che ha dato luogo alla declaratoria di illegittimità costituzionale del 1997, nella quale la parte nei cui confronti era stata disposta l’archiviazione non aveva invece alcuna possibilità di conoscere con tempestività il momento in cui il diritto all’equa riparazione era sorto e diveniva azionabile.


Sezione II

I rapporti etico-sociali

1. Il diritto alla salute

Sul diritto alla salute va in primo luogo richiamata la sentenza n. 432 (già citata nelle parti dedicate rispettivamente al principio personalistico e alla condizione giuridica dello straniero) nella quale la Corte, ricordando di aver reiteratamente puntualizzato che «il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è “costituzionalmente condizionato” dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di “un nucleo irrinunciabile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto”», ha affermato che «questo “nucleo irriducibile” di tutela della salute quale diritto della persona deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso».

Dunque «anche lo straniero presente irregolarmente nello Stato “ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili ed urgenti, secondo i criteri indicati dall’art. 35, comma 3 (del d.lgs. n. 286 del 1998), trattandosi di un diritto fondamentale della persona che deve essere garantito, così come disposto, in linea generale, dall’art. 2 dello stesso decreto legislativo n. 286 del 1998” (v. sentenza n. 252 del 2001)».

La tutela del diritto alla salute è stata evocata anche in una questione di costituzionalità avente ad oggetto la disciplina della detenzione domiciliare e decisa nel senso della manifesta infondatezza con ordinanza n. 255.

Il rimettente censurava, in riferimento tra gli altri all’art. 32 della Costituzione, l’art. 47-ter, comma 1-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dall’art. 4 della legge 27 maggio 1998, n. 165, lamentando che il magistrato di sorveglianza non possa disporre in via provvisoria la misura della detenzione domiciliare nel caso disciplinato dal comma 1-ter del medesimo articolo (ovvero quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 cod. pen.).

La Corte, premesso che «la scelta di riservare l’applicazione della misura de qua al solo giudice collegiale (il tribunale di sorveglianza, che comprende anche esperti non togati, ai sensi dell’art. 70 della legge n. 354 del 1975), escludendo “anticipazioni” in via urgente da parte del giudice monocratico (magistrato di sorveglianza)» è da ritenersi non manifestamente irrazionale ed arbitraria, «anche in una cornice di sistema», ha precisato in riferimento alla dedotta violazione dell’art. 32 della Costituzione «che, nella specie, si discute di ipotesi di rinvio facoltativo della esecuzione della pena, che presuppongono condizioni di salute del condannato non a tal segno inconciliabili con la detenzione carceraria da escludere – com’è, invece, per le ipotesi di rinvio obbligatorio – ogni possibile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della collettività: tanto è vero che – alla stregua di una previsione la cui legittimità costituzionale non è posta in discussione dal giudice a quo – ove la pericolosità sociale del condannato risultasse incompatibile, non solo con la liberazione pura e semplice, ma anche con la detenzione domiciliare, l’esecuzione della pena nelle forme ordinarie dovrebbe comunque essere attuata o proseguita».

Va infine menzionata l’ordinanza n. 254 in tema di misure di sicurezza. Il rimettente dubitava, in riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli articoli 205, secondo comma, n. 2, e 222, primo comma, del codice penale, nella parte in cui impongono al giudice di disporre nei confronti dell’imputato socialmente pericoloso prosciolto per totale infermità di mente la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, privilegiando le esigenze di controllo della pericolosità rispetto a quelle di cura e di riabilitazione anche nel caso in cui la pericolosità potrebbe esser fronteggiata mediante il ricovero in una adeguata struttura terapeutica psichiatrica di tipo contenitivo.

Nell’evocare la tutela del diritto alla salute, il rimettente evidenziava in particolare come il ricovero in una struttura terapeutica psichiatrica di tipo contenitivo «consentirebbe all’imputato di fruire dei trattamenti terapeutici più adeguati sotto il profilo psichiatrico».

La questione è stata dichiarata manifestamente inammissibile sul duplice rilievo che «esulano dalla sfera dei poteri della Corte interventi di carattere normativo, in quanto comportano scelte discrezionali che rientrano nella esclusiva competenza del legislatore» e che il rimettente, pur richiamando la sentenza n. 253 del 2003, con la quale si è consentito al giudice di disporre, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza idonea a contemperare le esigenze di cura con quelle di controllo della pericolosità sociale, non ha esposto «le ragioni per cui nel caso di specie la misura della casa di cura e di custodia non sarebbe adeguata e non chiarisce i motivi per i quali la libertà vigilata sarebbe in concreto insufficiente».

2. La tutela della famiglia

Le decisioni che hanno avuto ad oggetto i rapporti familiari hanno riguardato principalmente la tutela dei minori, quella dei disabili e quella degli incapaci, nonché la disciplina della famiglia di fatto.

2.1. La tutela del minore e il principio di «responsabilità genitoriale»

La tutela dei rapporti familiari e del minore è al centro di due importanti pronunce che riconfermano l’attenzione prestata dai giudici a quibus e dalla Corte a questioni complesse involgenti conflitti spesso apparentemente insanabili in tema di diritto di famiglia.

La sentenza n. 385, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli articoli 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, «nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima», si colloca in particolare nel solco di quell’indirizzo già seguito in passato dalla Corte e volto a garantire parità di trattamento fra figure genitoriali (padre e madre; genitori naturali e adottivi) e fra categorie di lavoratori.

Il giudice rimettente aveva sollevato, in riferimento agli articoli 3, 29, secondo comma, 30, primo comma, e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 70 e 72 del d.lgs. n. 151 cit., «nella parte in cui non consentono al padre libero professionista, affidatario in preadozione di un minore, di beneficiare – in alternativa alla madre – dell’indennità di maternità durante i primi tre mesi successivi all’ingresso del bambino nella famiglia».

La Corte ha accolto la questione, rilevando principalmente che le disposizioni impugnate – ancorché inserite in un provvedimento legislativo che, tenendo conto della evoluzione legislativa e della giurisprudenza costituzionale in materia di tutela della genitorialità, ha perseguito la finalità di porre sullo stesso piano, da un lato, entrambi i genitori che svolgono attività lavorativa e, dall’altro, i genitori adottivi o affidatari e i genitori biologici – tuttavia, nel non aver esteso, nell’ipotesi di affidamento preadottivo e di adozione di minori, ai padri liberi professionisti la possibilità di ottenere l’indennità di maternità in alternativa alla madre, li ha ingiustamente discriminati.

«Tale discriminazione rappresenta un vulnus sia del principio di parità di trattamento tra le figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e della tutela del minore»: invero, ha affermato la Corte, se il fine precipuo dell’istituto di cui si tratta, in caso di adozione e affidamento, «è rappresentato dalla garanzia di una completa assistenza al bambino nella delicata fase del suo inserimento nella famiglia, il non riconoscere l’eventuale diritto del padre all’indennità costituisce un ostacolo alla presenza di entrambe le figure genitoriali».

E’ necessario, invece, «garantire un’effettiva parità di trattamento fra i genitori  nel preminente interesse del minore  che risulterebbe gravemente compromessa ed incompleta se essi non avessero la possibilità di accordarsi per un’organizzazione familiare e lavorativa meglio rispondente alle esigenze di tutela della prole, ammettendo anche il padre ad usufruire dell’indennità di cui all’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001 in alternativa alla madre».

«Il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore-padre un’adeguata tutela», afferma la Corte, rimane peraltro comunque riservato al legislatore, «nel rispetto dei principî sanciti da questa Corte».

Al preminente interesse del minore e al «principio di responsabilità genitoriale» espresso dall’art. 30 Cost., già indicato nella sentenza n. 166 del 1998 come «il fondamento di quell’insieme di regole, che costituiscono l’essenza del rapporto di filiazione e si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole, regole che debbono trovare uniforme applicazione indipendentemente dalla natura, giuridica o di fatto, del vincolo che lega i genitori», si richiama anche la sentenza n. 394.

Nel dichiarare non fondata «nei sensi di cui in motivazione» la questione di legittimità costituzionale degli articoli 261, 147 e 148, 2643 n. 8, 2652, 2653 e 2657 del codice civile, «nella parte in cui non consentono la trascrizione del titolo che riconosce il diritto di abitazione del genitore affidatario della prole naturale, che non sia titolare di diritti reali o di godimento sull’immobile assegnato», la Corte ha evidenziato che «il diritto del genitore affidatario di prole naturale ad ottenere la trascrizione del provvedimento di assegnazione non necessita di un’autonoma previsione, dal momento che risponde alla stessa ratio di tutela del minore ed è strumentale a rafforzarne il contenuto: il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli e di garantire loro la permanenza nel medesimo ambiente in cui hanno vissuto con i genitori deve essere assolto tenendo conto, prima che delle posizioni di terzi, del diritto che alla prole deriva dalla responsabilità genitoriale prevista dall’art. 30 della Costituzione e tesa a favorire il corretto sviluppo della personalità del minore».

In particolare, la Corte ha affermato che «se la ratio sottesa all’istituto dell’assegnazione della casa familiare e alla trascrizione del relativo provvedimento è da ravvisarsi nel preminente interesse morale e materiale dei figli, la conservazione del vincolo di destinazione impresso all’abitazione domestica deve essere garantita agli stessi a prescindere dalle circostanze della nascita»: in altri termini «i figli legittimi, di genitori che abbiano ottenuto la separazione, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed i figli naturali debbono poter fare assegnamento su un identico trattamento e vedersi garantiti gli stessi strumenti di tutela, anche nei confronti di terzi controinteressati».

La Corte ha quindi ritenuto conformi a Costituzione le norme censurate sulla base della suggerita «interpretazione sistematica delle disposizioni a tutela della filiazione».

2.2. La tutela del minore nella disciplina dell’adozione

La Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 29-bis, introdotto dalla l. 31 dicembre 1998, n. 476, 31, secondo comma, 35, primo comma, 36, primo e secondo comma, e 44 della l. 4 maggio 1983, n. 184, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3 e 30 Cost. (ordinanza n. 347).

Il Tribunale per i minorenni di Cagliari aveva sollevato questione di legittimità costituzionale delle disposizioni sopra menzionate, «nella parte in cui escludono la possibilità di ottenere la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale, in casi particolari, a favore di singoli, e quindi di perfezionare l’adozione internazionale in Italia, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, per irragionevole preclusione dell’adozione da parte di singoli a favore di bambini in stato di abbandono, dell’art. 30 della Costituzione, per violazione del diritto del minore in stato di abbandono, italiano e straniero, ad essere allevato in ambiente idoneo, dell’art. 2 della Costituzione per sottrazione del minore straniero alle garanzie offerte dalla legge italiana, e discriminazione rispetto al minore italiano».

Secondo il remittente «l’adozione internazionale ammetterebbe l’adozione in casi particolari, non legittimante (e quindi consentibile anche a persone non coniugate ai sensi dell’art. 44, terzo comma), solo nel caso previsto dall’art. 44, primo comma, lettera a), della legge n. 184 del 1983, e ciò sulla base del richiamo operato dall’art. 31, secondo comma, individuando, in una disposizione di esclusivo carattere procedurale, il presupposto implicito dell’ammissibilità di una sia pur limitata adozione internazionale “in casi particolari”».

La Corte ha affermato l’erroneità del presupposto interpretativo posto a base della questione, osservando che «l’adozione in casi particolari, che ha effetti più limitati dell’adozione legittimante, non presenta aspetti di eccezionalità o almeno peculiarità tali da impedirne l’estensione agli stranieri» e che «da nessuna disposizione del capo I del titolo III della legge n. 184 del 1983, come integralmente sostituito dall’art. 3 della legge n. 476 del 1998, è desumibile la preclusione esplicita all’adozione “in altre ipotesi” ritenuta dal Tribunale rimettente». Ne consegue che il rilascio del certificato di idoneità all’adozione di stranieri in casi particolari deve ritenersi consentito ogni qualvolta sussistano le condizioni di cui all’art. 44 e che, «in fase di dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero di adozione, deve essere compiuta la valutazione dei presupposti dell’adozione in casi particolari, come regolati dal titolo IV, capo I, della legge n. 184 del 1983».

Tale «interpretazione, costituzionalmente corretta» ha concluso la Corte «riconduce ad unità il sistema, consentendo di ritenere ammissibile l’adozione internazionale negli stessi casi in cui è ammessa l’adozione nazionale legittimante o in casi particolari».

2.3. La tutela dei disabili all’interno della famiglia

Con la sentenza n. 233 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nella parte in cui non prevede il diritto di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di gravità a fruire del congedo ivi indicato, nell’ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio handicappato perché totalmente inabili.

La tutela della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (l. 5 febbraio 1992, n. 104), che la norma denunciata concorre ad attuare, postula infatti anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie, il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di ‘handicap’, interventi fra cui si inscrive il diritto al congedo straordinario in questione: esso, tuttavia, rimane privo di concreta attuazione proprio in situazioni che necessitano di un più incisivo e adeguato sostegno, come si verifica quando la presenza del genitore totalmente invalido e privo di autonomia irragionevolmente esclude che possano beneficiare dell’agevolazione il fratello o la sorella conviventi del soggetto diversamente abile, benché questi si diano cura di entrambi.

La Corte ha quindi ritenuto che, ai fini della tutela prevista nella norma, la scomparsa del genitore deve essere considerata alla stregua dell’accertata impossibilità dello stesso ad occuparsi del soggetto handicappato, essendo questa una situazione che esige la medesima protezione di quella esplicitata nella norma.

2.4. La tutela dell’incapace

Nella sentenza n. 440, la Corte, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 404, 405, nn. 3 e 4, e 409 del codice civile, in riferimento agli articoli 2, 3, 4, 41, primo comma, e 42 Cost., ha evidenziato il diverso ambito di operatività dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e degli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, evidenziando come la complessiva disciplina inserita dalla legge n. 6 del 2004 affidi al giudice «il compito di individuare l’istituto che, da un lato, garantisca all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie e, dall’altro, limiti nella minore misura possibile la sua capacità; e consente, ove la scelta cada sull’amministrazione di sostegno, che l’ambito dei poteri dell’amministratore sia puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto». In altri termini, solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione, il giudice può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabilitazione e dell’interdizione, che attribuiscono uno status di incapacità, estesa per l’inabilitato agli atti di straordinaria amministrazione e per l’interdetto anche a quelli di amministrazione ordinaria».

Nella medesima pronuncia la Corte ha, altresì, ritenuto non fondata la questione relativa agli articoli 413, ultimo comma, e 418, ultimo comma, del codice civile, in riferimento agli articoli 2, 3, 4, 41, primo comma, 42 e 101 Cost., per erroneità del presupposto interpretativo circa l’insussistenza nel sistema di meccanismi processuali di composizione di eventuali conflitti fra giudice tutelare, cui sono attribuiti i provvedimenti in tema di amministrazione di sostegno, e tribunale in composizione collegiale, cui sono attribuiti quelli in tema di interdizione ed inabilitazione. Al contrario, ad avviso della Corte, non solo i provvedimenti di entrambi gli organi sono impugnabili dinanzi alla Corte di Appello – rispettivamente con il reclamo contro il decreto del giudice tutelare e con l’appello contro la sentenza del tribunale – ma le norme censurate prevedono anche specifici strumenti di raccordo fra i due procedimenti, in forza dei quali l’incapace non rimane, comunque, privo di tutela.

2.5. La tutela della famiglia di fatto

Infine, nell’ambito della tutela riconosciuta alla convivenza more uxorio, va menzionata una questione con la quale si censurava, in riferimento agli articoli 2 e 3 Cost., l’art. 1, comma 6, della legge 25 luglio 1997, n. 238 (Modifiche ed integrazioni alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, in materia di indennizzi ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati), nella parte in cui non prevede che i benefici in essa previsti spettino anche al convivente more uxorio, contagiato dal soggetto emotrasfuso.

Il rimettente denunciava la violazione dell’art. 2 e 3 Cost. perché la disciplina censurata non garantirebbe adeguata protezione ai vincoli affettivi e solidaristici che caratterizzano la convivenza di fatto e che trovano riconoscimento fra i diritti inviolabili dell’uomo, ledendo altresì il diritto alla salute nel suo nucleo irriducibile di tutela della persona, nonché per l’irragionevolezza del diverso trattamento riservato al convivente more uxorio rispetto al coniuge.

Con l’ordinanza n. 461, la Corte ne ha dichiarato la manifesta inammissibilità per omessa motivazione in ordine ai criteri di individuazione della norma applicabile, in ragione del complesso fenomeno di successione di leggi nel tempo che ha determinato una variazione nel tempo nella portata della tutela.


Sezione III

I rapporti economici

1. La tutela del lavoro

In materia di tutela del lavoro merita di essere segnalata, in primis, la sentenza n. 192, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità dell’art. 22, primo comma, del decreto legge 3 febbraio 1970, n. 7, convertito nella legge 11 marzo 1970, n. 83, censurato nella parte in cui prevede un termine di decadenza di soli centoventi giorni – decorrenti dalla notifica o dal momento di conoscenza del provvedimento – dall’azione giudiziaria nei confronti dei provvedimenti definitivi relativi alla mancata inclusione negli elenchi dei lavoratori agricoli subordinati a tempo determinato. La Corte ha, infatti, giudicato insussistente la lamentata ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla generalità degli altri lavoratori subordinati, per i quali l’ordinamento previdenziale non pone analoga preclusione, «sulla base del principio già altre volte enunciato […] relativo alla impossibilità di istituire confronti tra sistemi previdenziali diversi, in quanto i diversi sistemi hanno una loro specificità, e la circostanza che le relative discipline non siano uniformi non lede di per sé il principio di uguaglianza».

Secondo la Corte, non solo «il sistema degli elenchi nominativi dei lavoratori dipendenti dell’agricoltura […] è giustificato dall’obiettiva difficoltà di rilevamento della effettività della prestazione in un settore peculiare come quello agricolo», ma appare «parimenti giustificata e ragionevole la previsione di un termine di decadenza per la contestazione dei provvedimenti di cancellazione o di non inclusione», che si pone quale finalità la «esigenza di accertare nel più breve tempo possibile la sussistenza del diritto all’iscrizione ed alle conseguenti prestazioni, avuto riguardo alla circostanza che l’atto di iscrizione negli elenchi costituisce presupposto per l’accesso alle prestazioni previdenziali collegate al solo requisito assicurativo».

Di rilievo è anche la sentenza n. 276, che ha esaminato, ritenendola infondata, la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 38 Cost., dell’art. 45, comma 6, della legge 17 maggio 1999, n.144 e dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 28 febbraio 2000, n. 81, censurati laddove, secondo il tribunale rimettente, attribuirebbero determinati benefici a soggetti «che abbiano maturato un’anzianità in lavori socialmente utili eseguiti in un certo periodo (nella specie, dodici mesi di anzianità dal 1 gennaio 1998 al 31 dicembre 1999), senza tener conto dell’effettivo momento in cui, in linea di fatto, i progetti hanno iniziato il loro svolgimento».

La Corte, richiamando la propria costante giurisprudenza secondo cui «il succedersi nel tempo di fatti ed atti può di per sé rendere legittima l’applicazione di una determinata disciplina rispetto ad altra e ciò anche con particolare riguardo alla valutazione di anzianità pregresse» (v., nell’anno considerato, la sentenza n. 155), ha evidenziato come «l’elemento temporale può essere legittimo criterio di discrimine se […] intervenga a delimitare le sfere di applicazione di norme nell’ambito del riordino complessivo della disciplina attinente ad una determinata materia». Nella specie, «le disuguaglianze denunciate non derivano dalla formulazione delle norme impugnate, bensì da evenienze connesse alla loro concreta applicazione e finiscono, quindi, per sostanziarsi in inconvenienti di mero fatto irrilevanti ai fini dello scrutinio di costituzionalità».

Nella materia lavoristica in senso lato può essere inserita anche la sentenza n. 220 che affronta il problema della determinazione dell’indennità spettante ai giudici onorari aggregati. Con tale pronuncia la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 8, comma 3, della legge 22 luglio 1997, n. 276, che stabilisce una riduzione del 50% dell’indennità fissa di cui sopra qualora il giudice sia titolare di un reddito da pensione o da lavoro superiore a lire 5 milioni lordi mensili. Dopo aver premesso che «può certamente riconoscersi al legislatore la facoltà di ancorare siffatta indennità, entro i limiti della non irragionevolezza, a parametri indipendenti da quelli propri della retribuzione, connessi alla quantità e qualità del lavoro svolto», la sentenza de qua ha ritenuto che, per quanto «la modulazione della misura dell’indennità in funzione inversa rispetto al reddito dell’avente diritto non è di per sé lesiva dell’art. 3 della Costituzione», la norma impugnata «risulta, tuttavia, irragionevole in quanto non considera […] l’intera situazione reddituale risultante dalla dichiarazione dei redditi dei giudici onorari aggregati, ma solo quella riferibile a redditi da lavoro o da pensione, in tal modo rendendosi non coerente con la ratio […] di garantire un’indennità di importo maggiore solo a chi già non goda di altri redditi di livello adeguato».

Con riferimento all’attività svolta dai dipendenti del settore pubblico, la Corte, con la sentenza n. 322, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 secondo cui il personale docente, dichiarato inidoneo alla propria funzione per motivi di salute, ma idoneo ad altri compiti, collocato fuori ruolo o utilizzato diversamente, può chiedere di transitare nei ruoli dell’amministrazione scolastica o di altra amministrazione statale o ente pubblico, e, qualora non transiti in altro ruolo, viene mantenuto in servizio per un periodo massimo di cinque anni dal provvedimento di collocamento fuori ruolo o di utilizzazione in altri compiti, decorso il quale si procede alla risoluzione del rapporto di lavoro; la norma è stata censurata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, in quanto introdurrebbe una disciplina svantaggiosa per i soli docenti e non per le altre due categorie di personale che operano nella scuola, dirigenti e personale amministrativo, tecnico e ausiliario – personale ATA.

La Corte, dopo aver svolto un rapido excursus sulla normativa di settore nonché sulla propria precedente giurisprudenza, ha evidenziato la presenza nell’ordinamento del pubblico impiego di un principio generale «in forza del quale il personale inidoneo al servizio per ragioni di salute, prima di essere dispensato, deve essere posto nelle condizioni di continuare a prestare servizio nell’assolvimento di compiti e funzioni compatibili con le sue condizioni», mentre «soltanto nel caso in cui non sia possibile tale utilizzazione, o per ragioni di carattere oggettivo o per scelta dell’interessato, ne è disposto il collocamento a riposo d’autorità». Peraltro, prosegue la sentenza, le tre categorie di personale che operano nel mondo della scuola non sono equiparabili, come viceversa ritiene il tribunale rimettente, dal momento che «si tratta di categorie che presentano sostanziali diversità di funzioni, che giustificano la differenziata valutazione operata dal legislatore – con scelta discrezionale non irragionevole – in ordine al collocamento fuori ruolo e all’assegnazione a compiti diversi da quelli inerenti alla qualifica di appartenenza originaria».

Nello stesso settore, l’ordinanza n. 216 ha affrontato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 14-bis, del decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853, convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 1985, n.17, censurato, in rapporto agli articoli 3, 36, 51 e 97 Cost., nella parte in cui, nell’estendere i benefici normativi ed economici previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 1 giugno 1972, n. 319 al personale di concetto delle soppresse carriere ordinarie, tecniche ed amministrative, che abbia sostenuto concorsi di accesso alle carriere con almeno tre prove scritte nelle materie professionali ed abbia svolto mansioni analoghe a quelle degli impiegati delle ex carriere speciali, non ha incluso tra le categorie beneficiarie l’intero personale della carriera di concetto.

La Corte, richiamando i propri precedenti in materia, ha ribadito che «la norma censurata ha carattere del tutto derogatorio rispetto al sistema», in quanto si fonda «su un apprezzamento discrezionale del legislatore, che ha inteso estendere ad alcune categorie di pubblici dipendenti i ricordati benefici sulla base di due presupposti, costituiti dall’articolazione del concorso di accesso su tre prove scritte e dall’analogia o identità delle mansioni svolte rispetto a quelle degli appartenenti alle carriere speciali»: la limitazione solo a tali categorie, specifica la Corte, «contrariamente a quanto assume il remittente, non è affatto irragionevole, poiché il maggiore n. di prove sostenute è di per sé un elemento non incongruo per differenziare i dipendenti nell’ambito della stessa categoria». Considerando, poi, che le prove di concorso de quibus sono state tre solo sino all’entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1970, n. 1077 e che quindi, «il riferimento alle tre prove si risolve in un riferimento temporale […], può essere richiamato il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo il quale lo stesso fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche».

Sempre nella materia del pubblico impiego deve essere inquadrata la sentenza n. 149 avente ad oggetto, tra le altre, la questione di legittimità del decreto legislativo 21 maggio 2000, n. 146, laddove stabilisce, nel quadro della disciplina delle modalità di progressione nel ruolo e di permanenza nelle qualifiche, anche l’innalzamento dei limiti di età per il personale in servizio nel ruolo direttivo del Corpo di polizia penitenziaria. Secondo il Tribunale amministrativo rimettente, la disciplina de qua sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. «in quanto non prevederebbe, in via transitoria, per il personale (già in servizio) del ruolo direttivo del Corpo di polizia penitenziaria, la medesima possibilità di innalzamento del limite di età per il collocamento a riposo, assicurata per il personale di pari qualifica del corrispondente ruolo della Polizia di Stato».

Dopo aver ricostruito il quadro normativo in cui si inserisce il provvedimento contestato, la Corte ha dichiarato infondata la questione, poiché «il rimettente invoca, come tertium comparationis, l’art. 27 del decreto legislativo 5 ottobre 2000, n. 334, il quale detta una disciplina transitoria, di carattere derogatorio, che, in quanto tale, non può costituire parametro utile ai fini del giudizio di illegittimità costituzionale per ingiustificata disparità di trattamento della disciplina generale che regola la fattispecie sottoposta all’esame del giudice a quo». La Corte ha, altresì, insistito sulla «sostanziale differenza esistente tra gli ordinamenti della Polizia di Stato e della Polizia penitenziaria, anche per quanto concerne le fonti delle relative discipline, e [sulle] diversità esistenti sotto il profilo strutturale e funzionale tra il rispettivo personale».

Sulle peculiarità dell’ordinamento del personale della Polizia di Stato, ma con riferimento all’ordinamento del personale dell’Arma dei Carabinieri, si è pronunciata anche la sentenza n. 442 di non fondatezza della questione di legittimità dell’art. 36, primo comma, cpv. XX, della legge 1 aprile 1981, n. 121 e dell’art. 2 del d.P.R. 24 aprile 1982, n. 339.

La Corte ha, in primis richiamato i propri precedenti in materia, ed in particolare l’ordinanza n. 324 del 1993, secondo cui la legge n. 121 del 1981, pur avendo normativamente unificato dal punto di vista funzionale le forze di polizia, «ha nello stesso tempo lasciati immutati i rispettivi ordinamenti […], nell’evidente presupposto della disomogeneità del personale facente parte di quelle forze», alcune delle quali, come appunto l’Arma dei carabinieri, mantengono lo status militare, mentre altre, come la Polizia di Stato, hanno acquisito lo status di personale civile.

Pertanto, secondo la sentenza qui in esame, «se può esservi identità di funzioni (di polizia) tra Polizia di Stato e Arma dei carabinieri (ad es. ai fini dell’unitarietà del coordinamento tecnico operativo e della direzione unitaria delle forze di polizia…), non può esservi commistione alcuna tra i rispettivi ordinamenti del personale e, dunque, anche sul regime attinente a momenti particolari del rapporto di lavoro, quali, ad esempio, quelli connessi alle diverse situazioni di inidoneità al servizio, parziale o totale, temporanea o permanente»: infatti, «la distinzione degli ambiti ordinamentali propri del personale appartenente all’Arma dei carabinieri […] e la Polizia di Stato, rinviene ulteriori conferme nella restante normativa che, in varia misura, disciplina aspetti comuni ai rapporti di impiego delle (diverse) Forze di polizia», in particolare nella legge 6 marzo 1992, n. 216 e nei successivi decreti legislativi 12 maggio 1995, n. 197, n. 198 e n. 199. Alla luce di ciò, «l’esistenza di un quadro di piena autonomia tra l’ordinamento della Polizia di Stato e quello degli appartenenti all’Arma dei carabinieri, pur nella possibile coincidenza di funzioni di sicurezza pubblica, rende […] razionale la delimitazione dell’ambito di operatività delle norme impugnate al solo personale della Polizia di Stato e non anche dell’Arma dei carabinieri, nei cui confronti il legislatore si è mosso seguendo percorsi diversi e più specifici, sulla base di valutazioni discrezionali non prive di ragionevolezza».

A tematiche relative all’attività lavorativa prestata alle dipendenze di strutture pubbliche va ricondotta anche la sentenza n. 147, che affronta la questione di legittimità dell’art. 2 della legge della Regione Piemonte 3 gennaio 1997, n. 4, con riferimento, in particolare, per ciò che qui interessa, agli articoli 3, 4 e 35 Cost.. La norma de qua vieta al veterinario l’attività professionale nell’ambito territoriale dell’azienda sanitaria di appartenenza e gli impedisce di essere titolare di uno studio privato, intervenendo, pertanto, in una materia, la tutela della salute, che rientra nella competenza legislativa concorrente ed in relazione alla quale il legislatore statale ha dettato i principî fondamentali mediante l’art. 36, comma 1, del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, secondo cui «il personale veterinario ha la facoltà di esercitare l’attività libero-professionale, fuori dei servizi e delle strutture dell’unità sanitaria locale, purchè tale attività non sia prestata con rapporto di lavoro subordinato, non sia in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali dell’unità sanitaria stessa, né incompatibile con gli orari di lavoro, secondo modalità e limiti previsti dalla legge regionale».

Secondo la Corte, la legge della Regione Piemonte sottoposta al suo controllo «dà esplicita attuazione a quanto previsto da tale norma» e le limitazioni allo svolgimento dell’attività libero-professionale dei veterinari «non determinano alcuna illegittima preclusione allo svolgimento dell’attività lavorativa, con conseguente violazione degli articoli 4 e 35 della Costituzione, dal momento che […] dal riconoscimento dell’importanza costituzionale del lavoro non deriva l’impossibilità di prevedere condizioni e limiti per l’esercizio del relativo diritto, purchè essi siano preordinati alla tutela di altri interessi e di altre esigenze sociali parimenti fatti oggetto di protezione costituzionale».

Pertanto, «le limitazioni all’attività libero-professionale, oltre a non essere assolute, perché operanti solo nel territorio della USL presso la quale il veterinario svolge il suo servizio […] appaiono connesse all’esigenza di garantire che non siano compromesse le finalità istituzionali nel settore della assistenza e della vigilanza zooiatrica che la USL svolge», con la conseguenza che non appare contraddittorio, «rispetto all’affermazione della generale libertà dei medici veterinari dipendenti dal Servizio sanitario nazionale di svolgere attività libero-professionale al di fuori delle strutture pubbliche, al di fuori dell’orario di servizio, al di fuori del “plus orario” e al di fuori del lavoro straordinario […], che il legislatore regionale abbia ritenuto di porre limitazioni allo svolgimento di tale attività a tutela delle esigenze delle finalità istituzionali delle strutture pubbliche».

Con riferimento all’attività professionale notarile, la Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 137 della legge 16 febbraio 1913, n. 89, contestato, in riferimento agli articoli3, 54, 97 e 11 Cost., «nella parte in cui determina l’ammontare delle ammende notarili» (ordinanza n. 113).

La decisione si inscrive nel solco dei numerosi precedenti con i quali è stata affrontata la medesima questione: in ciascuno di essi la Corte, pur constatando l’irrisorietà della misura, «ha ritenuto preclusa ogni possibilità di intervento, poiché la determinazione dei precetti così come il tipo e l’entità delle rispettive sanzioni costituiscono scelte spettanti alla discrezionalità del legislatore».

Nel caso in esame, i giudici costituzionali hanno, altresì, rimarcato che, «contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, la misura irrisoria delle sanzioni pecuniarie non equivale a trasformare il procedimento disciplinare in una “farsa”, perché esso reca in sé comunque un notevole grado di afflittività».

Secondo la Corte, infine, «non è nemmeno invocabile la violazione del principio di uguaglianza, in relazione alla dedotta circostanza che solo per la categoria di professionisti in esame la condotta illecita resterebbe priva di una effettiva sanzione, data l’assenza di termini omogenei di comparazione» e ciò in quanto «il sistema disciplinare dei notai prevede oltre alle pene disciplinari dell’avvertimento, della censura, della sospensione e della destituzione, anche la sanzione dell’ammenda, che non è invece contemplata per gli illeciti disciplinari di altre categorie professionali».

Un ulteriore profilo riconducibile alla tutela del lavoro, sub specie di diritto all’ottenimento di qualifiche professionali, è quello affrontato nella sentenza n. 409. In essa, la Corte ha deciso nel senso della non fondatezza la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 22 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 (Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione).

Il remittente sosteneva che la norma censurata, in quanto dotata di efficacia retroattiva, fosse lesiva dell’affidamento nella equipollenza ai diplomi universitari dei diplomi non universitari rilasciati da istituzioni diverse in determinate situazioni o in possesso di soggetti parti di rapporti di lavoro nella qualità di assistenti sociali.

Onde disattendere la cesura, la Corte ha operato la ricostruzione della normativa in tema di attribuzione della qualifica di assistente sociale, partendo dall’art. 12, ultimo comma, della legge 21 febbraio 1980, n. 28, che attribuiva al Governo la delega ad emanare norme per rivedere gli ordinamenti, tra l’altro, delle scuole dirette a fini speciali universitarie e delle scuole di perfezionamento e di specializzazione. In attuazione della delega veniva emanato il d.P.R. 10 marzo 1982, n. 162, il cui art. 9 così recitava: «con decreti del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della pubblica istruzione, di concerto con il Ministro di grazia e giustizia ed i Ministri interessati, possono essere determinati i diplomi delle scuole dirette a fini speciali che, in relazione a specifici profili professionali, hanno valore abilitante per l’esercizio delle corrispondenti professioni ovvero di titolo per l’accesso a determinati livelli funzionali del pubblico impiego per i quali non sia previsto il diploma di laurea». Contestualmente, l’art. 19 (recante la rubrica «Convalida dei titoli conseguiti nel precedente ordinamento») prescriveva che i decreti presidenziali di cui al precedente art. 9 avrebbero dovuto contenere «disposizioni transitorie per disciplinare il passaggio dal precedente al nuovo ordinamento e le condizioni e le modalità per ammettere all’esercizio delle corrispondenti attività professionali coloro che hanno conseguito il titolo in base al precedente ordinamento».

Nell’intento di ricondurre nell’ambito dell’istruzione universitaria la formazione degli assistenti sociali, doveva, dunque, tenersi conto della vicenda sia normativa sia di fatto che si era svolta, considerando la varietà di origine delle scuole e dei corsi per assistenti sociali via via istituiti, oltre che da università, anche da altri enti pubblici, nonché da organizzazioni private. Conseguentemente, il successivo d.P.R. 15 gennaio 1987, n. 14, dopo aver dettato la regola che «il diploma rilasciato dalle scuole dirette a fini speciali universitarie costituisce l’unico titolo abilitante per l’esercizio della professione di assistente sociale» (art. 1), stabiliva l’equipollenza a tale diploma di diverse situazioni nate nel corso degli anni, attribuendo – in particolare – la stessa efficacia giuridica: ai diplomi di coloro che erano in servizio, al momento dell’entrata in vigore della legge, alle dipendenze di amministrazioni o enti pubblici o vi avevano lavorato per cinque anni (art. 4); ai diplomi, comunque conseguiti, convalidati entro tre anni – termine poi prorogato per un anno (d.P.R. 5 luglio 1989, n. 280) – dalle scuole speciali universitarie (art. 5); ai diplomi rilasciati, fino al completamento dei corsi, agli allievi già iscritti, da scuole dichiarate idonee con decreto del Ministro della pubblica istruzione che avrebbe vigilato avvalendosi eventualmente delle università (art. 6).

La legge 19 novembre 1990, n. 341, ha previsto la soppressione o la trasformazione delle scuole dirette a fini speciali (art. 7), ma non ha modificato la disciplina delle indicate equipollenze né ha inciso sul regime scaturente dalla normativa emanata fino ai d.P.R. n. 14 del 1987 e n. 280 del 1989. La successiva legge 23 marzo 1993, n. 84, istitutiva dell’albo e dell’ordine degli assistenti sociali, non soltanto non ha cambiato la suddetta normativa, ma l’ha espressamente richiamata.

Sulla scorta della ricostruzione diacronica fornita, la Corte ha evidenziato come le equivalenze al possesso del diploma universitario di altre posizioni – equivalenze volute dal legislatore al fine di soddisfare aspettative nate in un’epoca nella quale le attività rientranti successivamente nella professione di assistente sociale non erano state oggetto di specifica, organica disciplina – concernessero l’esercizio della professione di assistente sociale, ma non tale qualifica come titolo abilitante al prosieguo degli studi.

D’altra parte, la riforma dell’ordinamento universitario, con l’istituzione delle lauree di primo livello e delle lauree specialistiche, ha ricevuto la sua prima attuazione solo con il d.m. 3 novembre 1999, n. 509, di talché è evidente che nella normativa precedente non potessero esservi norme che ad essa facessero riferimento: non poteva quindi esistere un contesto normativo tale da giustificare l’affidamento che l’equipollenza di situazioni valesse anche al diverso fine della considerazione delle situazioni stesse quali titoli abilitanti per il prosieguo degli studi.

Ora, giacché la disposizione interpretata da quella oggetto di censura concerneva i diplomi di assistente sociale come titoli «validi ai fini dell’accesso ai corsi di laurea specialistica, ai master ed agli altri corsi di formazione post-base di cui al decreto ministeriale 3 novembre 1999, n. 509, del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica», doveva evidenziarsi la non omogeneità della finalità (esercizio della professione di assistente sociale) riguardo alla quale era stata riconosciuta l’equipollenza delle posizioni in questione al diploma rilasciato in ambito universitario, rispetto a quella (accesso a corsi di istruzione universitaria superiore) prevista dalla norma interpretata. D’altra parte, non poteva ritenersi intrinsecamente irragionevole il fatto che l’accesso ad un corso di laurea specialistica (o ad altri corsi di istruzione superiore) venisse ristretto a coloro i quali fossero già titolari di un diploma universitario.

A conclusione della rassegna relativa alla tutela del lavoro, possono segnalarsi due pronunce – largamente coincidenti tra loro – che hanno avuto ad oggetto le modalità di accesso alle professioni, segnatamente attraverso lo svolgimento di concorsi. Trattasi delle ordinanze nn. 419 e 420, che hanno dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli articoli 3, 24, 97 e 113 della Costituzione, dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, alla luce dell’interpretazione di detta disposizione fornita dalla giurisprudenza amministrativa in pronunce, che i rimettenti reputavano «diritto vivente», che hanno escluso l’obbligo di esplicita motivazione per i giudizi espressi in sede di valutazione degli esami di abilitazione professionale. La manifesta inammissibilità era già stata dichiarata per identiche questioni, in quanto esse si traducevano in un tentativo di ottenere l’avallo a favore di una determinata interpretazione della disposizione impugnata (ordinanza n. 466 del 2001; altra declaratoria di manifesta inammissibilità era contenuta nella ordinanza n. 233 del 2001).

A tale impostazione la Corte si attenuta nel decidere le nuove questioni sollevate, sottolineando, peraltro, che nel frattempo la giurisprudenza amministrativa aveva mostrato di fornire un panorama ulteriormente articolato di possibili soluzioni interpretative, «spaziando dalla tesi che esclude l’applicabilità del censurato art. 3 alle operazioni di mero giudizio conseguenti a valutazioni tecniche, in quanto attività in tesi non provvedimentali, a quella che invece ritiene applicabile l’obbligo di motivazione previsto dalla disposizione censurata anche ai giudizi valutativi».

2. La previdenza

In materia di previdenza deve essere ricordata in primo luogo la sentenza n. 191, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con il principio di ragionevolezza, dell’art. 9, commi 5, 6 e 7, del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, che consente di impugnare i provvedimenti di rettifica adottati dall’INAIL nel vigore dell’art. 55, comma 5, della legge 9 marzo 1989, n. 88 di ristrutturazione dell’Istituto, che ne ammetteva l’adozione senza limiti di tempo, al fine di far valere retroattivamente la violazione del termine decadenziale – di dieci anni – introdotto dalla nuova disciplina. Sul punto la Corte rileva che, per quanto il divieto di retroattività della legge non sia stato elevato a precetto costituzionale, salva la previsione dell’art. 25 Cost. per la materia penale, tuttavia «la retroattività deve comunque trovare giustificazione sul piano della ragionevolezza e non può trasmodare in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori». Su tali basi, la conclusione è che «nel caso di specie, l’irragionevolezza della disposizione – sia per quanto si riferisce ai casi prescritti o definiti con sentenza passata in giudicato, sia per quanto riguarda i casi non prescritti o non definiti da giudicato – è di tutta evidenza, in quanto è l’istituto stesso della decadenza che per sua natura non tollera applicazioni retroattive, non potendo logicamente configurarsi una ipotesi di estinzione del diritto (o, come nella specie, del potere) per mancato esercizio da parte del titolare, in assenza di una previa determinazione del termine entro il quale il diritto debba essere esercitato».

Interessante appare, poi, l’ordinanza n. 1, relativa al controllo di legittimità dell’art. 2, terzo comma, del d.P.R.30 giugno 1965, n. 1124, aggiunto dall’art. 12 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, censurato, in riferimento agli articoli 3, primo comma e 38, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui esclude dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, gli infortuni in itinere in ogni caso di interruzione non necessitata dal normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro e non solo quando l’interruzione determini l’insorgenza di una situazione di rischio diversa da quella occasionata dallo svolgimento delle mansioni lavorative, così da comportare il venir meno dell’occasione di lavoro prevista dall’art.2. primo comma, del citato d.P.R..

Nella specie, la Corte, nel dichiarare manifestamente infondata la questione sollevata, ha colto l’occasione per definire la portata del concetto di infortunio in itinere, rilevando come, «prima ancora di verificare la sussistenza di questa condizione negativa perché l’infortunio non sia indennizzabile, occorre che la soluzione di continuità nel tragitto compiuto dal lavoratore dalla propria abitazione al luogo di lavoro, e viceversa, abbia la connotazione e la consistenza di una vera e propria interruzione, per definire la quale occorre tener conto della giurisprudenza ordinaria […] secondo la quale una breve sosta, che non alteri le condizioni di rischio per l’assicurato, non integra l’ipotesi dell’interruzione».

Richiamando in toto la precedente giurisprudenza in materia, la sentenza n. 433 ha ritenuto costituzionalmente illegittimi gli articoli 30 e 31 della legge 6 luglio 1939, n. 1035 nella parte in cui, ai fini del trattamento pensionistico di reversibilità, non equiparano ai minorenni gli orfani maggiorenni iscritti ad università o ad istituti superiori pareggiati per tutta la durata del corso legale e, comunque, non oltre il ventiseiesimo anno di età. La Corte ha ricordato il consolidato indirizzo secondo cui «la regola generale della non confrontabilità dei sistemi previdenziali ai fini dell’art. 3 Cost. […] incontra un limite nei casi in cui dal confronto emerga una evidente irragionevolezza». Pertanto, sulla base di tale principio – e preso atto del riconoscimento, nei diversi ordinamenti previdenziali, del diritto alla pensione di reversibilità non solo agli orfani minorenni ma anche agli orfani maggiorenni infraventiseienni impegnati in corsi universitari, per tutta la durata legale – si è pervenuti alla declaratoria di illegittimità costituzionale «di norme che, come quelle impugnate, non prevedevano la parificazione fra le due categorie di orfani, in tal modo irragionevolmente escludendo dalle funzioni dell’istituto della reversibilità la tutela del diritto allo studio degli orfani maggiorenni del lavoratore».

Sempre in tema previdenziale, debbono in questa sede essere ricordate due pronunce di illegittimità che hanno affrontato il profilo dei limiti alla pignorabilità dei trattamenti pensionistici e di fine rapporto.

La sentenza n. 444 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 12 del regio decreto legge 27 maggio 1923, n. 1324, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 1925, n. 473, nella parte in cui esclude la pignorabilità per ogni credito dell’intero ammontare della pensione erogata dalla Cassa nazionale del notariato, anziché prevedere l’impignorabilità, con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte della pensione necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità nei limiti del quinto della residua parte. Come già osservato nella sentenza n. 155 del 1987, richiamata in motivazione, lo status giuridico dei notai, infatti, «non è idoneo a giustificare il differenziato trattamento riservato alle pensioni erogate dalla Cassa nazionale del notariato rispetto a quello previsto per le pensioni dei dipendenti sia pubblici che privati», dal momento che, «in quanto l’impignorabilità si risolve in una limitazione della garanzia patrimoniale […] e in una compressione del diritto dei creditori, nessuna differenza sussiste tra le pensioni spettanti all’una ed all’altra categoria di beneficiari sotto il profilo […] della loro assoggettabilità ad esecuzione forzata».

La seconda pronuncia è la sentenza n. 438, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, dell’art. 4 della legge 8 giugno 1996, n. 424, nella parte in cui prevede, per i dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato, la sequestrabilità e la pignorabilità delle indennità di fine rapporto di lavoro, per crediti da danno erariale, senza osservare i limiti stabiliti dall’art. 545 del codice di procedura civile. Innestandosi nel solco tracciato dal precedente costituito dalla sentenza n. 225 del 1998, la Corte ha ribadito che se «la progressiva eliminazione delle differenze in materia di regime giuridico dell’indennità di fine rapporto spettante ai dipendenti del settore privato e dell’analogo emolumento erogato ai dipendenti pubblici rende non più tollerabile una disparità di trattamento fra le due categorie in tema di sequestrabilità e pignorabilità degli emolumenti», ciò vale anche, e a maggior ragione, per i dipendenti di enti pubblici diversi dallo Stato, dal momento che «le varie categorie di indennità di fine rapporto proprie del settore pubblico hanno un carattere unitario – pur se governate da diversi meccanismi di provvista e di erogazione dei singoli trattamenti – in considerazione dell’analoga natura di retribuzione differita collegata ad una concorrente funzione previdenziale e della comune correlazione alle contribuzioni versate dai lavoratori e dalle rispettive pubbliche amministrazioni». Pertanto, non sussiste alcuna ragione che possa giustificare il più gravoso regime cui sono sottoposti i dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato che, diversamente dai dipendenti statali, possono veder sequestrata e pignorata l’indennità di fine rapporto senza alcun limite.

Sulla connotazione unitaria, per natura e funzione, delle varie categorie di indennità di fine rapporto si è espressa anche la sentenza n. 458, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, terzo comma, del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 4 aprile 1947, n. 207, nella parte in cui non prevede che l’indennità di fine rapporto spettante al dipendente non di ruolo defunto, in mancanza dei soggetti ivi indicati (ossia coniuge, figli minorenni e parenti entro il secondo grado se viventi a carico), si devolva secondo le norme che disciplinano la successione mortis causa. Eseguendo un rapido excursus dei numerosi precedenti in materia, la Corte ha ribadito che «gli emolumenti comunque riconosciuti al lavoratore alla fine del rapporto [hanno] natura di retribuzione differita a fini previdenziali e di conseguenza, […] debbono ritenersi già entrati a far parte del patrimonio del dipendente al momento della sua morte» e spettano agli eredi non iure proprio ma iure ereditario. Così, «la progressiva caducazione di tutte le norme limitative dell’attribuzione iure successionis dell’indennità di fine rapporto per tutte le varie tipologie di lavoro subordinato sottolinea la singolarità della situazione denunciata dal rimettente ed evidenzia ancor più il vulnus dell’art. 3 della Costituzione».

Sempre in tema di previdenza, la sentenza n. 439 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 5 marzo 1990, n. 45, censurato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui dispone che, nei confronti dei soggetti che si sono avvalsi della facoltà di ricongiunzione, non si applica la norma (art. 21 della legge 29 gennaio 1986, n. 21) che prevede il diritto alla restituzione dei contributi a favore dei dottori commercialisti che cessano dalla iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza senza aver maturato i requisiti per il diritto a pensione, o dei loro eredi. Mentre la ricongiunzione, infatti, è istituto di carattere generale, ancorché diversamente disciplinato per lavoratori dipendenti e liberi professionisti, l’istituto della restituzione dei contributi, invece, è di carattere eccezionale, previsto solo a favore di determinate categorie di professionisti. La domanda di ricongiunzione, irrevocabile con la formale accettazione o con il versamento, anche parziale, dell’importo dovuto, determina l’unificazione irreversibile di somme di diversa provenienza e la creazione di una posizione previdenziale nuova: la riconducibilità della domanda ad una libera scelta dell’assicurato e il carattere eccezionale della restituzione dei contributi fanno sì che, qualora la facoltà di ricongiunzione venga esercitata, non possa essere affermata l’irragionevolezza della scelta legislativa di far rivivere la regola generale, ossia quella dell’inesistenza di un diritto alla restituzione.

In tema di trattamento pensionistico di rilievo appare, altresì, la sentenza n. 281, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 219, comma quarto, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui non prevede che il beneficio dell’aumento del servizio effettivo fino al massimo di cinque anni spetti anche alle dipendenti dimissionarie delle Ferrovie dello Stato non coniugate e con prole a carico: se, infatti, «siffatto beneficio previdenziale attribuito alle lavoratrici coniugate…trova la propria giustificazione […] nel perseguimento del valore rappresentato dalla essenziale funzione familiare della donna, espressamente tutelato, nell’ambito dei rapporti di lavoro, dall’art. 37 della Costituzione […], l’attribuzione del beneficio alle sole donne coniugate…risulta palesemente lesiva del principio di eguaglianza, per l’ingiustificata disparità di trattamento che ne deriva rispetto alla categoria generale delle dipendenti civili dello Stato, non essendo dubbio che proprio il rapporto di filiazione costituisca una delle espressioni più significative della funzione familiare della donna, alla cui tutela la norma è esclusivamente rivolta».

La Corte, infine, con la sentenza n. 338, ha preso in esame un interessante caso affrontato dalla Cassazione: un assicurato, cessato dal rapporto di lavoro nel giugno 1988 e ammesso dall’INPS alla prosecuzione volontaria della contribuzione per raggiungere il requisito contributivo richiesto per la pensione di anzianità, ha convenuto in giudizio l’Istituto per ottenere la riliquidazione della pensione di anzianità con riferimento alla retribuzione effettiva, senza i limiti, applicati dall’Istituto, del massimale di cui alla Tabella F allegata all’art. 2 del decreto legge 29 luglio 1981, n. 402, convertito nella legge 26 settembre 1981, n. 537. La Cassazione ha sollevato questione di legittimità del menzionato articolo 2 nella parte in cui, successivamente all’elevazione dei limiti della retribuzione pensionabile e all’entrata in vigore della legge 11 marzo 1988, n. 67, impedisce che, in sede di determinazione ed aggiornamento periodico della retribuzione di riferimento per la prosecuzione contributiva volontaria, questa possa superare l’importo della retribuzione media corrispondente alla più elevata delle classi di contribuzione della citata tabella F e il valore inerente al riferimento, nell’art. 2, comma quinto, al limite massimo di retribuzione pensionabile vigente nel periodo cui si riferisce il versamento.

La Corte, dopo aver citato i numerosi propri precedenti in materia e ricordato che «la disciplina succedutasi a partire dal d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488 […] riguardante il sistema di determinazione della retribuzione pensionabile si è ispirata a finalità diverse (semplificazione del sistema, garanzia di una più favorevole base di calcolo per la liquidazione della pensione o, al contrario, attenuazione del disavanzo del sistema previdenziale), che il legislatore ha perseguito in base a scelte rimesse alla sua discrezionalità politica e, dunque, soggette al sindacato di legittimità costituzionale nella misura in cui esse diano luogo a risultati palesemente irrazionali o comunque contrari ai principî costituzionali che regolano la materia», ha ritenuto insussistente la violazione degli articoli 3 e 38 Cost., in quanto «l’imposizione di limiti tabellari alla retribuzione pensionabile non contrasta, di per sé, con la garanzia previdenziale e, per altro verso, non è costituzionalmente imposto, ad ogni effetto, il principio di equiparazione tra contribuzione volontaria e obbligatoria», e ciò «anche in considerazione della diversità della posizione del lavoratore in attività rispetto a quella del lavoratore che, cessato dal servizio, non ha ancora raggiunto l’anzianità contributiva minima».

3. L’autonomia privata e l’iniziativa economica

Piuttosto variegati sono stati gli interventi attinenti alla libertà di iniziativa economica ed all’autonomia privata. Si segnalano, in particolare, decisioni relative alla disciplina dei rapporti contrattuali, a quella degli esercizi commerciali ed ai rapporti societari.

3.1. I rapporti contrattuali

In materia di trasporto debbono essere ricordate due pronunce, la sentenza n. 199 e la sentenza n. 7, che, per quanto rese su argomenti affatto differenti quali la responsabilità del vettore nel trasporto marittimo e la forma del contratto di trasporto di merci per conto terzi, sono tuttavia accomunate dall’esito della declaratoria di incostituzionalità in parte qua della norma censurata.

Nel primo caso, ad essere impugnato è stato l’art. 423, comma primo, del codice della navigazione, ritenuto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione nella parte in cui non esclude il limite del risarcimento dovuto dal vettore marittimo in ipotesi di responsabilità determinata da dolo o colpa grave sua o dei suoi dipendenti o preposti. (sentenza n. 199).

Dopo una rapida disamina della normativa vigente nei settori del trasporto aereo, ferroviario e su strada, la Corte sottolinea come «con la sola esclusione del trasporto marittimo, per ogni tipo di trasporto oggetto di disciplina speciale (rispetto a quella codicistica) il legislatore – nel derogare, con la previsione del limite del risarcimento del vettore, alla regola, di cui all’art. 1693 cod. civ., della responsabilità ex recepto – ha sempre fatto oggetto di espressa e distinta disciplina l’ipotesi in cui la perdita o l’avaria delle cose trasportate dipenda da dolo o da colpa grave del vettore o dei suoi dipendenti o preposti: ipotesi considerata ora per escludere tout court l’applicabilità del limite (trasporto aereo e trasporto su strada), ora per raddoppiare l’importo di quel limite (trasporto per ferrovia)». Su tali basi viene pronunciata l’incostituzionalità della norma censurata, anche perchè «la disciplina della responsabilità del vettore marittimo [non] può dirsi talmente peculiare, e gravosa per il vettore, da giustificare per sé l’assoggettamento al limite di risarcimento anche dell’ipotesi di dolo o colpa grave».

Con la seconda pronuncia (sentenza n. 7), la Corte ha, viceversa, ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 26, ultimo comma, della legge 6 giugno 1974, n. 298, come modificato dall’art. 1 del decreto legge 29 marzo 1993, n. 82, convertito, con modificazioni, nella legge 27 maggio 1993, n. 162, in combinato disposto con l’art. 3 del decreto legge 3 luglio 2001, n. 256, convertito, con modificazione, nella legge 20 agosto 2001, n. 334, laddove prevede, ove le parti abbiano scelto per la stipula la forma scritta, la nullità del contratto di autotrasporto per la mancata annotazione sulla copia del contratto dei dati relativi agli estremi dell’iscrizione all’albo e dell’autorizzazione al trasporto di cose per conto terzi: dopo aver ricostruito i numerosi interventi normativi che si sono succeduti negli anni, innestandosi sulla originaria disciplina del 1974, individuando, in tutti, il fine «di impedire situazioni di concorrenza sleale in un settore vitale dell’economia, nel contempo evitando che la differente forza contrattuale delle parti si traducesse, nei singoli rapporti, in una svendita delle prestazioni offerte dagli autotrasportatori», la Corte ha sottolineato che «l’irragionevolezza della norma è di tutta evidenza ove si consideri non soltanto che – a seguito del decreto legge n. 256 del 2001.. – è privo di senso consentire alle parti di stipulare oralmente un contratto che, se stipulato in forma scritta, incorre in una radicale nullità per l’assenza (per giunta in una copia) di certe, estrinseche annotazioni, ma anche che la sanzione della nullità prevista per l’assenza di quelle estrinseche annotazioni non è correlata ad alcun apprezzabile fine, ma costituisce un eccesso del mezzo utilizzato rispetto al fine dichiarato della repressione dell’abusivismo» e favorisce pratiche distorsive della concorrenza, consentendo agevoli elusioni delle tariffe obbligatorie.

In parallelo con la pronuncia da ultimo citata deve essere analizzata la sentenza n. 283 che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, secondo comma, del decreto legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella legge 19 dicembre 1984, n. 863, censurato, in riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione, nella parte in cui – nel regime precedente l’entrata in vigore del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61 – prescriveva che il contratto di lavoro a tempo parziale dovesse essere stipulato in forma scritta, richiesta ad substantiam, e che, in caso contrario, il contratto fosse nullo, senza possibilità di conversione in contratto di lavoro a tempo pieno, ha fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma de qua: secondo la Corte, la nullità per vizio di forma, pur non dando luogo a conversione automatica del rapporto a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, non travolge integralmente il contratto ma determina, in ragione dell’inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale e in applicazione della disciplina ordinaria della nullità parziale, di cui all’art. 1419, primo comma, cod. civ., la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, «perché […] la mancanza della forma scritta ad substantiam non può comportare la radicale dissoluzione del rapporto senza contraddire irrimediabilmente» la finalità di protezione della parte contrattuale debole, ossia il lavoratore, che la norma in tema di forma scritta si prefiggeva.

In materia locatizia, la sentenza n. 264 ha, in particolare, ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 97 Cost., dell’art. 32, commi 1, 2 e 4, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, laddove stabilisce un aumento del canone di locazione degli immobili di proprietà dello Stato ad uso abitativo, prendendo a riferimento il reddito del nucleo familiare del conduttore nell’anno 1993 e prevedendo che, se nel 1993 tale reddito fosse compreso fra 40 e 80 milioni di lire, il canone venisse raddoppiato e, nel caso fosse superiore agli 80 milioni, fosse quintuplicato. Dopo aver richiamato il precedente rappresentato dalla sentenza n. 88 del 1997, la Corte ha affermato che «si tratta di un intervento legislativo il quale, orientato secondo la finalità di incremento delle entrate statali anche in vista del riequilibrio delle gravi sperequazioni createsi rispetto ai corrispettivi pagati in favore di locatori privati, modula comunque il suo impatto secondo modalità, non irragionevoli, di temperamento degli effetti sul rapporto di locazione in corso, sia diversificando gli incrementi in base alla consistenza del reddito dei conduttori, sia prevedendo la possibilità di recedere dal rapporto stesso, sia consentendo l’adempimento in più soluzioni». E ancora: «la disciplina denunciata è frutto di una valutazione del legislatore orientata ad un aumento non indiscriminato dei canoni, essendo stati utilizzati al riguardo i criteri, di natura oggettiva, del reddito dell’assegnatario del bene e del valore di mercato degli immobili locati. […] Si tratta, quindi, di un non irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa».

Parimenti, sempre secondo la stessa pronuncia, deve essere disattesa la censura dell’art. 5, comma 7-bis del decreto legge 2 ottobre 1995, n. 415, convertito, con modificazioni, nella legge 29 novembre 1995, n. 507, secondo cui il canone di locazione rideterminato nel 1995 viene aggiornato negli anni successivi in base all’intera variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati accertata dall’ISTAT: infatti, il diverso trattamento in tema di rivalutazione annuale del canone non è irragionevole e discriminatorio rispetto al regime degli aggiornamenti del canone nei rapporti di locazione fra privati, alla luce della maggior durata dei rapporti di locazione degli immobili di proprietà statale e stante la non omogeneità fra le situazioni poste a confronto.

Infine, è opportuno in questa sede ricordare l’ordinanza n. 25, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del decreto legge 20 giugno 2002, n. 122, convertito nella legge 1 agosto 2002, n. 185, il quale, stabilendo che «avverso il decreto con cui il giudice dell’esecuzione abbia provveduto in ordine alla sospensione dell’esecuzione, previa verifica in capo al conduttore dei requisiti richiesti, è ammessa opposizione al tribunale, che giudica in composizione collegiale con le modalità di cui all’art. 618 del codice di procedura civile», viene censurato nella parte in cui non prevede che detta opposizione sia proposta entro il termine di cui all’art. 617 cod. proc. civ..

La Corte, respingendo la premessa ermeneutica del remittente secondo cui «l’opposizione alla sospensione disciplinata dal decreto legge n. 122 del 2002 sarebbe sostanzialmente identica a quella promuovibile nell’ambito di una ordinaria procedura esecutiva avverso il provvedimento di sospensione emesso dal giudice dell’esecuzione», ha sottolineato che «la sospensione disposta dal giudice dell’esecuzione ai sensi degli articoli 623 e 624 cod. proc. civ. costituisce strumento di coordinamento del processo esecutivo con giudizi di cognizione destinati ad incidere sull’esecuzione (opposizioni ex articoli 615 e 618 cod. proc. civ., contestazioni ex art. 512 cod. proc. civ.) ovvero previsti dalla legge quali fasi del processo esecutivo, laddove quella di cui al decreto legge n. 122 del 2002 costituisce una vera e propria (se pur temporanea) negazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata», con la conseguenza che «la disomogeneità dell’oggetto dell’opposizione de qua e di quella agli atti esecutivi comporta che il riferimento all’art. 618 cod. proc. civ. operato dal decreto legge n. 122 del 2002, non giustifica l’adozione dell’intera disciplina dell’opposizione agli atti esecutivi come tertium comparationis, ma […] costituisce un mero richiamo ad una data disciplina del procedimento e del provvedimento conclusivo di esso nonché del regime di tale provvedimento».

3.2. Gli esercizi commerciali

La sentenza n. 243 ha risolto il giudizio di legittimità costituzionale, sollevato dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto, degli articoli 2 e 3 della legge della Regione Veneto 28 dicembre 1999, n. 62 con cui si individuano i Comuni a prevalente economia turistica e le città d’arte ai fini delle deroghe agli orari di vendita. Secondo il giudice a quo, le disposizioni, incidendo sulla libertà di iniziativa economica, sarebbero venute ad interferire su una materia, quale la tutela della concorrenza, riservata alla competenza esclusiva dello Stato; inoltre, i criteri previsti ai fini del riconoscimento della qualità di Comune «ad economia prevalentemente turistica», sarebbero risultati del tutto incongrui ed irragionevoli

La Corte ha dichiarato non fondata la censura di violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della disparità di trattamento tra Comuni ubicati in zone montane, litoranee, lacuali e termali e quei Comuni che, pur potendo vantare il carattere prevalentemente turistico delle rispettive economie, si trovino diversamente ubicati. In proposito, la Corte ha ribadito che rientra nella discrezionalità del legislatore la valutazione finalizzata a differenziare, sulla base di criteri generali, la composita realtà territoriale, ai fini dell’attribuzione di specifiche qualificazioni della stessa, sia pure con il consueto, generale limite della non palese arbitrarietà ed irragionevolezza. D’altra parte, «essendo qualsiasi disciplina destinata, per sua stessa natura, ad introdurre regole e, dunque, ad operare distinzioni, qualunque normativa positiva finisce per risultare necessariamente destinata ad introdurre, nel sistema, fattori di differenziazione» (v. sentenza n. 89 del 1996).

Da quanto rilevato, se ne è dedotto che il giudice rimettente, nel denunciare la disparità di trattamento tra Comuni, aveva omesso di considerare che i criteri dettati dalla norma, non soltanto non risultavano discriminatori o arbitrari, ma neppure apparivano improntati ad una intrinseca palese irragionevolezza. Peraltro, il Tribunale rimettente aveva travalicato in apprezzamenti che sconfinavano nel merito delle opzioni legislative, contrapponendo, ai criteri dettati nella norma censurata, canoni e valutazioni che esulavano, evidentemente, da profili di legittimità costituzionale.

3.3. I rapporti societari

Con la sentenza n. 481 la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità degli articoli 2409, 2476, comma terzo, e 2477, comma quarto, del codice civile, censurati, per ciò che qui interessa, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, laddove escludono, ovvero limitano, l’ammissibilità del ricorso alla procedura sul controllo giudiziario ex art. 2409 cod. civ. sulla gestione delle società a responsabilità limitata. Infatti, osserva la pronuncia, il combinato disposto delle prime due norme non viola il parametro invocato, in quanto la lamentata disparità di trattamento fra i soci di una società a responsabilità limitata e i soci di una società per azioni non sussiste, «diverse essendo all’evidenza le situazioni soggettive, per ciò solo che diverse sono le società alle quali partecipano, degli uni e degli altri». Parimenti infondata è la censura rivolta all’art. 2477, comma quarto, cod. civ. nella parte in cui discrimina fra sindaci e soci di una società a responsabilità limitata quanto alla legittimazione alla denuncia al tribunale, dal momento che «è evidente l’inconsistenza di una censura la cui fondatezza presupporrebbe la sostanziale assimilabilità di soci e sindaci».


Sezione IV

I rapporti politici

1. Il diritto di voto

La Corte è stata chiamata a scrutinare, nel corso di un giudizio in via principale, una norma (l’art. 1, comma 2) della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 11 dicembre 2003, n. 21 (Norme urgenti in materia di enti locali, nonché di uffici di segreteria degli assessori regionali) che «stabilisce che, ai fini del raggiungimento del quorum del cinquanta per cento richiesto per la validità dell’elezione del Sindaco nei Comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti qualora sia presentata una sola lista ovvero un solo gruppo di liste collegate, non sono computati gli elettori “iscritti nell’anagrafe degli elettori residenti all’estero”».

Il ricorrente ne denunciava il contrasto sotto vari profili con il principio di eguaglianza del voto (art. 48 Cost.), nonché con le norme statutarie sulla competenza legislativa in materia elettorale, che non attribuirebbero alla Regione Friuli-Venezia Giulia alcuna competenza legislativa in materia.

Con sentenza n. 173 la Corte ha dichiarato non fondata la questione in riferimento ad entrambi i parametri evocati.

In particolare, rinviando per gli aspetti concernenti la competenza regionale alla trattazione specifica sul tema, va segnalato che la Corte ha escluso la violazione dell’art. 48 Cost. sotto il profilo della mancata «salvaguardia del corpo elettorale», rilevando che secondo una giurisprudenza consolidata «il principio di eguaglianza del voto, sancito dall’art. 48, secondo comma, della Costituzione, non è finalizzato ad una generica salvaguardia del corpo elettorale, ma è diretto “ad assicurare la parità di condizione dei cittadini nel momento in cui il voto viene espresso”, senza riguardare fasi anteriori o successive a tale momento (ordinanze n. 260 del 2002 e n. 160 del 1996, sentenza n. 107 del 1996)», sicché «la determinazione del quorum partecipativo prevista dalla norma censurata non incide, concernendo una condizione di validità del voto, sull’espressione dello stesso, ma attiene ad un momento precedente e non rientra quindi nella previsione dell’art. 48, secondo comma».

Quanto al secondo profilo, della limitazione dell’effettività del diritto di voto mediante l’astensione, la Corte ha poi osservato che «in presenza della prescrizione dello stesso art. 48, secondo cui l’esercizio del diritto di voto “è dovere civico”, il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico», e ciò «a prescindere dal rilievo che l’astensione nel voto è diversa dalla mancata partecipazione al voto».

Infine, nel ritenere infondato anche il terzo profilo di censura prospettato in riferimento all’art. 48 Cost. (con il quale il rimettente si doleva del fatto che gli elettori residenti all’estero, qualora si recassero a votare, verrebbero «estromessi dal computo degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune, ma verrebbero comunque computati nel n. dei votanti, con innalzamento di questo secondo quorum»), la Corte ha ritenuto «logico che i cittadini iscritti nell’anagrafe dei residenti all’estero, qualora esprimano il voto, vengano computati tra i votanti»: invero, ha osservato la Corte, «l’introduzione di un regime speciale per gli elettori residenti all’estero, ai fini del calcolo del quorum di partecipazione alle elezioni in oggetto, lungi dal costituire una lesione del principio di eguaglianza del voto, persegue una logica di favore verso il puntuale rinnovo elettorale degli organi degli enti locali».

Tale regime, del resto, «trova la sua giustificazione nell’alto tasso di emigrazione che caratterizza alcune aree della Regione Friuli-Venezia Giulia, il quale potrebbe determinare il mancato raggiungimento del quorum richiesto, con conseguente annullamento delle elezioni e successivo commissariamento del Comune in attesa dell’indizione di nuove elezioni che peraltro, ai sensi dell’art. 7 della legge regionale 21 aprile 1999, n. 10 (Norme in materia di elezioni comunali e provinciali, nonché modifiche alla legge regionale 9 marzo 1995, n. 14), si possono svolgere soltanto in un turno unico annuale».

2. Rinvio

Alle decisioni precipuamente concernenti i rapporti politici potrebbero ricollegarsi altre statuizioni rese nel corso del 2005, in ordine alle quali sono però altri i profili che appaiono prevalenti. Possono all’uopo segnalarsi la sentenza n. 456, sul diritto di elettorato passivo, e l’ordinanza n. 39, sull’applicazione dell’art. 51 della Costituzione (ma in relazione alla parità di accesso al pubblico impiego), entrambe trattate nella prima sezione capitolo seguente.


Sezione V

I doveri di solidarietà

1. Le prestazioni patrimoniali

Nel corso del 2005, la Corte è intervenuta a più riprese in materia tributaria, sia nell’ottica dei rapporti tra privati e pubblici poteri sia in quella relativa all’autonomia degli enti territoriali infrastatuali.

Rinviando, per quest’ultimo profilo, a quanto si dirà infra, cap. III, sez. II, par. 7, deve sottolinearsi come, nell’affrontare la materia tributaria, la Corte abbia avuto occasione di porre principî concernenti la portata dell’art. 23 della Costituzione.

Ciò è particolarmente evidente nella sentenza n. 303, dove si è negato fondamento al dubbio di costituzionalità riferito all’art. 3, comma 78, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che, nel consentire il riordino, mediante regolamento governativo di delegificazione, della materia dei giochi e delle scommesse relativi alle corse dei cavalli, per quanto atteneva agli aspetti organizzativi, funzionali, fiscali e sanzionatori, nonché al riparto dei relativi proventi, avrebbe conferito al Governo, in violazione del principio della riserva relativa di legge in materia fiscale il potere di individuare i soggetti passivi dell’imposta concernente le suddette scommesse ed avrebbe perciò omesso di fissare limiti all’arbitrio dell’autorità governativa.

Nella specie, ha osservato la Corte, la norma censurata, non prevedendo alcuna specifica direttiva in ordine ai soggetti passivi di imposta, lasciava immutata la disciplina legislativa concernente gli elementi strutturali del suddetto tributo e, quindi, imponeva al regolamento di delegificazione di mantenere gli stessi soggetti passivi indicati dalla legislazione preesistente. Restava di conseguenza esclusa la denunciata violazione del principio della riserva relativa di legge in tema di prestazioni patrimoniali imposte, sancito dall’art. 23 Cost. Il giudice a quo aveva dunque l’obbligo di individuare i soggetti passivi dell’imposta in base alle leggi vigenti in materia.

Con la sentenza n. 66 (v. anche supra sez. I, par. 2) la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera d), della legge 13 giugno 1991, n. 190, che prevede la facoltà dell’ente proprietario della strada di subordinare il parcheggio e la sosta dei veicoli al pagamento di una somma, e dell’art. 7, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, che rimette al Ministro dei lavori pubblici (ora Ministro delle infrastrutture e dei trasporti) il compito di indicare le direttive cui devono attenersi le delibere delle giunte comunali che stabiliscono le aree destinate a parcheggio, fissando le condizioni e le tariffe, sollevata, in riferimento agli articoli 76, 16 e 23 della Costituzione.

La Corte ha in particolare escluso la violazione dell’art. 23 Cost. sulla base del rilievo che «il pagamento per la sosta del veicolo sfugge sia alla nozione di tributo che a quella di prestazione patrimoniale imposta», ma «è configurabile piuttosto come corrispettivo, commisurato ai tempi e ai luoghi della sosta, di una utilizzazione particolare della strada, rimessa ad una scelta dell’utente non priva di alternative». Al riguardo nella sentenza si osserva che, «ai fini dell’individuazione delle prestazioni patrimoniali imposte, non costituiscono profili determinanti né le formali qualificazioni delle prestazioni né la fonte negoziale o meno dell’atto costitutivo né l’inserimento di obbligazioni ex lege in contratti privatistici (sentenza n. 215 del 1998)», dovendosi invece riconoscere «un peso decisivo agli aspetti pubblicistici dell’intervento delle autorità ed in particolare alla disciplina della destinazione e dell’uso di beni o servizi, per i quali si verifica che, in considerazione della loro natura giuridica, della situazione di monopolio pubblico o della essenzialità di alcuni bisogni di vita soddisfatti da quei beni o servizi, la determinazione della prestazione sia unilateralmente imposta con atti formali autoritativi, che, incidendo sostanzialmente sulla sfera dell’autonomia privata, giustificano la previsione di una riserva di legge».

Al di là di queste affermazioni, di carattere generale, la Corte ha deciso anche questioni più specifiche, relativamente alle quali possono individuarsi tre categorie di statuizioni, relative ai vari aspetti della disciplina dei tributi, ai benefici fiscali ed al condono fiscale.

1.1. La disciplina dei tributi

Sono sei le decisioni che è d’uopo menzionare relativamente a svariati aspetti della disciplina di singoli tributi.

La Corte dirime, con la sentenza n. 21, i dubbi di costituzionalità delle Commissioni tributarie provinciali di Milano, Bergamo, Cuneo e Genova nei confronti degli articoli 6, 7 e 45, comma 2, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, come modificato dall’art. 6, comma 17, lettera b), della legge 23 dicembre 1999, n. 488, nella parte in cui fissano in via transitoria, per i soggetti di cui agli articoli 6 (banche e altri enti e società finanziari) e 7 (imprese di assicurazione) del medesimo decreto legislativo, aliquote più elevate rispetto a quella ordinaria del 4,25 per cento e, segnatamente, a quelle agevolate previste a favore dei soggetti che operano nei settori agricolo e delle cooperative della piccola pesca e loro consorzi.

I giudici rimettenti evocano essenzialmente il principio di eguaglianza e di proporzionalità del prelievo alla capacità contributiva in quanto la norma denunciata comporterebbe, a carico delle banche, degli altri enti e società finanziari e delle imprese di assicurazione, un maggior prelievo fiscale, a parità di capacità contributiva, misurata quest’ultima secondo il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, a sua volta calcolato – al fine di ottenere una base imponibile confrontabile tra i vari settori e le varie attività produttive – con regole diverse stabilite dal legislatore in relazione al tipo di attività. Il tutto, senza che ricorrano transitorie esigenze di gradualità nel passaggio dal regime fiscale anteriore all’istituzione dell’Irap a quello successivo. Queste, infatti, sarebbero già soddisfatte dall’art. 45, commi da 3 a 6, del d.lgs. n. 446 del 1997 e dal decreto ministeriale 5 maggio 1998, che, attraverso la cosiddetta clausola di salvaguardia, prevedono una riduzione dell’Irap dovuta nei primi tre anni di applicazione dell’imposta, ove quest’ultima abbia comportato un incremento del prelievo fiscale, rispetto al regime precedente, superiore a certi limiti percentuali ed assoluti.

Le censure, in sostanza, muovono dal presupposto per cui la struttura dell’Irap esigerebbe, per intrinseca necessità logica e normativa, l’unicità dell’aliquota da applicarsi all’imponibile, data la confrontabilità, nell’ambito di tutto il settore privato, della misura del valore aggiunto prodotto, con la conseguenza della irragionevolezza di qualsiasi differenziazione, anche transitoria, di aliquote per settori e, quindi, della violazione del principio di capacità contributiva.

La Corte disattende tali prospettazioni, sottolineando, per converso, che la previsione di aliquote differenziate per settori produttivi e per tipologie di soggetti passivi rientra pienamente nella discrezionalità del legislatore, se sorretta da non irragionevoli motivi di politica economica e redistributiva.

A regime, tale discrezionalità è esercitata dalle Regioni entro limiti prefissati ed a partire da una certa data, ai sensi dell’art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 446 del 1997, in base al quale le regioni, a decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del decreto, hanno la facoltà di variare l’aliquota fino ad un massimo di un punto percentuale, con potere di differenziare la variazione per settori di attività e per categorie di soggetti passivi. In tal caso, la differenziazione delle aliquote trova la sua giustificazione, fisiologica e avulsa da esigenze intertemporali, nei diversi obiettivi di politica economica e redistributiva che le regioni stesse intendano perseguire nell’àmbito della loro autonomia finanziaria.

Con riferimento alla prima applicazione del tributo, tali ragioni trovano il loro specifico fondamento nel carattere dell’Irap di tributo sostitutivo di altri tributi e prestazioni imposte e, quindi, nel ragionevole intento del legislatore delegato di garantire una certa continuità tra il precedente e il nuovo regime, soprattutto in termini redistributivi e di gettito.

L’aumento provvisorio e calibrato delle aliquote per i settori bancario, finanziario e assicurativo è dunque pienamente giustificato, essendo esso la conseguenza, da una parte, della valutazione circa il minore impatto del nuovo tributo sui detti settori e, dall’altra, di una scelta di politica redistributiva volta ad assicurare, in ragione del carattere surrogatorio del tributo, la continuità del prelievo e ad evitare, quindi, possibili divergenze tra la precedente ripartizione del carico fiscale e quella che si sarebbe verificata ove nella fase di prima applicazione si fosse adottata una aliquota unica e indifferenziata per tutti i settori produttivi del comparto privato. Ciò tanto più vale se si considera che la discrezionalità del legislatore è particolarmente ampia quando trattasi di dettare disposizioni transitorie (v., ex plurimis, le ordinanze n. 131 del 1988 e n. 66 del 1994).

Viene, infine, ricordata l’ordinanza n. 426 del 2002 in cui la Corte, negando l’illegittimità costituzionale di un’unica aliquota, non ha, per ciò stesso, inteso escludere la legittimità costituzionale di aliquote differenziate per settori.

Altra censura prospettata dai rimettenti è quella relativa al citato art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 446 del 1997, per violazione del principio della generalità dell’obbligo contributivo, perché, con la norma denunciata, a parità di gettito complessivo dell’imposta nel settore privato, il minor gettito derivante dall’applicazione, in favore dei soggetti operanti nel settore agricolo e delle cooperative della piccola pesca e loro consorzi, di un’aliquota inferiore a quella ordinaria del settore privato, comporterebbe l’attribuzione esclusivamente ai soggetti di cui agli articoli 6 e 7 dello stesso d.lgs. del peso della copertura finanziaria della predetta agevolazione.

Ad avviso della Corte, tale lettura del principio di generalità dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche è erronea, perché non considera il necessario collegamento con la capacità contributiva postulato dallo stesso art. 53, primo comma, della Costituzione e perché, di conseguenza, impedirebbe ogni politica redistributiva del carico fiscale, ogni differenziazione di aliquote ed ogni agevolazione, pur se rispettose dei principî di eguaglianza, ragionevolezza e capacità contributiva.

A parte ciò, l’erroneità di quanto presupposto dai rimettenti è dimostrata non solo dall’autonomia delle ragioni giustificatrici della differenziazione delle aliquote di ciascun settore (neutralizzazione sia del maggiore impatto del nuovo tributo sui settori agricolo e della piccola pesca, sia del minore impatto sui settori bancario, finanziario ed assicurativo), ma anche dalla diversa durata dei periodi transitori previsti per i menzionati settori. Non v’è, perciò, alcuna correlazione biunivoca tra il differenziale virtuale di gettito complessivo nei settori ad aliquota agevolata ed il differenziale virtuale di gettito complessivo nei settori ad aliquota maggiorata.

Va dunque esclusa qualsiasi lesione del principio dell’obbligo di tutti di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva.

Di altro tenore è la seconda decisione rilevante, e cioè l’ordinanza n. 23, che si sofferma, in particolare, sui limiti che incontra la discrezionalità del legislatore. Vi si dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 21 febbraio 1977, n. 36, nella parte in cui prevede che, nel caso di atti traslativi di terreni agricoli stipulati a titolo oneroso da soggetti non imprenditori agricoli, l’imposta di registro si applichi con l’aliquota del 15% anziché con quella dell’8% prevista dall’articolo 1 della suddetta tariffa per gli imprenditori agricoli. Per respingere la denunciata lesione del principio di uguaglianza, del principio della capacità contributiva, del diritto di accesso alla proprietà privata è sufficiente, alla Corte, richiamare le stesse ragioni per le quali è stata già dichiarata, con ordinanza n. 449 del 1998, manifestamente infondata la analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, secondo comma, della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, sul rilievo che sono rimesse alla discrezionalità del legislatore sia l’individuazione delle situazioni significative della capacità contributiva sia la determinazione dell’entità dell’onere tributario, con il limite della non arbitrarietà o irrazionalità della scelta legislativa, non superato nel caso di specie.

Altra decisione da segnalare è la sentenza n. 225, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, n. 2), del d. P. R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui prevede che i prelevamenti effettuati nell’ambito dei rapporti bancari siano posti, come ricavi, a base delle rettifiche ed accertamenti dell’amministrazione finanziaria, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili. Il rimettente muove, infatti, dall’apodittico assunto della non deducibilità delle componenti negative dal maggior reddito d’impresa accertato in base alla norma impugnata, assunto smentito dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in caso di accertamento induttivo, si deve tenere conto – in ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori ricavi ma anche della incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati: così interpretata, la norma si sottrae alla censura di violazione dell’art. 53 Cost., risolvendosi, quanto alla destinazione dei prelievi non risultanti dalle scritture contabili, in una presunzione di ricavi iuris tantum (suscettibile, cioè, di prova contraria attraverso la indicazione del beneficiario dei prelievi), non lesiva del principio di ragionevolezza, non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile. Neppure è, infine, violato il principio di eguaglianza in danno dei titolari di conti bancari, essendo la disponibilità di tali conti elemento idoneo a legittimare il rilievo meramente probatorio attribuito al prelievo non giustificato di somme.

Con la sentenza n. 280, poi, la Corte dichiara la incostituzionalità dell’art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (e successive modificazioni), nella parte in cui non fissa un termine decadenziale per la notifica da parte del concessionario al contribuente della cartella recante il ruolo derivante dalla liquidazione delle imposte dovute in base alla dichiarazione dei redditi, così compromettendo «il diritto del contribuente all’effettiva conoscenza dell’iscrizione a ruolo, procrastinandola a tempo indeterminato e ledendo, in tal modo, il diritto di difesa del contribuente».

La Corte rileva che la norma censurata disciplina, con la notifica della cartella di pagamento al contribuente, l’atto finale di un procedimento che prende le mosse, a seguito della presentazione della dichiarazione, da un’attività dell’amministrazione finanziaria diretta, «avvalendosi di procedure automatizzate», alla «liquidazione delle imposte, dei contributi e dei premi dovuti, nonché dei rimborsi spettanti in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti d’imposta». Peraltro, in più occasioni, era stato rilevato che il procedimento era congegnato in modo da lasciare il contribuente troppo a lungo esposto alla pretesa del fisco per l’assenza di un termine perentorio entro il quale dovesse avvenire la notifica della cartella di pagamento ed è stato ribadito (ordinanza n. 352 del 2004) «che è conforme a Costituzione, e va dall’interprete ricercata, soltanto una ricostruzione del sistema che non lasci il contribuente esposto, senza limiti temporali, all’azione esecutiva del fisco» ed ha osservato che l’esigenza, pur costituzionalmente inderogabile, di rinvenire un termine decadenziale non poteva essere soddisfatta interpretando il termine fissato dall’art. 17 del d.P.R. n. 602 del 1973 per attività interne all’amministrazione (formazione e consegna dei ruoli all’Intendente) come comprensivo anche delle successive attività previste dagli articoli 24 (consegna al concessionario) e 25 (notifica della cartella al contribuente) del medesimo d.P.R. n. 602 del 1973.

Nel ribadire tale principio, la Corte non può che trarne la conseguenza della illegittimità costituzionale dell’art. 25, come modificato dal citato d.lgs. n. 193 del 2001, non essendo consentito, dall’art. 24 Cost., lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole. Irragionevolezza che discende dal peculiare trattamento che verrebbe riservato, con la soggezione al termine prescrizionale ordinario, proprio all’ipotesi nella quale l’Amministrazione sempre soggetta a rigorosi termini di decadenza per attività ben più complesse, è chiamata a compiere una elementare operazione di verifica formale.

Peraltro, essendo del tutto ovvio che alla Corte è preclusa la possibilità di determinare essa tale termine, competendo la sua individuazione alla ragionevole discrezionalità del legislatore, la pronuncia di illegittimità costituzionale rende indispensabile un sollecito intervento legislativo con il quale si colmi ragionevolmente la lacuna che si va a creare. Ma la Corte non può esimersi dal rilevare che la ragionevolezza del termine che verrà stabilito dal legislatore, ferma la sua natura decadenziale, discenderà dalla adeguata considerazione del carattere estremamente elementare dell’attività di liquidazione e della successiva attività di iscrizione nei ruoli. Così come, nel fissare il termine la cui mancanza qui si dichiara incostituzionale, il legislatore non potrà non considerare che il vigente art. 43, comma primo, del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede che l’avviso di accertamento – quale atto conclusivo di un ben più complesso procedimento – sia notificato a pena di decadenza entro il 31 dicembre del quarto anno successivo alla presentazione della dichiarazione, e che solo entro tale limite temporale il contribuente è obbligato a conservare la documentazione sulla base della quale ha redatto la dichiarazione.

Infine, due decisioni hanno avuto riguardo alla disciplina fiscale delle aziende faunistico-venatorie.

Nella sentenza n. 110 si decide la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 22 giugno 1991, n. 230, nella parte in cui dispone, al n. 16 della tariffa delle tasse sulle concessioni regionali, che per «le aziende faunistico-venatorie per ogni 100 lire di tassa è dovuta una soprattassa di lire 100, che dovrà essere versata contestualmente alla tassa». La Corte, premesso che la delega legislativa conferita al Governo con l’art. 3 della legge 16 maggio 1970, n. 281 e successive modifiche, stabilisce che, «in caso di provvedimenti o atti già assoggettati a tassa di concessione regionale di ammontare diverso in ciascuna regione, l’ammontare del tributo da indicare nella nuova tariffa sarà pari al 90 per cento del tributo di ammontare più elevato, e comunque non inferiore al tributo di ammontare meno elevato», ritiene la questione sollevata sulla base di un presupposto erroneo, e cioè quello secondo cui l’importo di lire 6.065 per ettaro o frazione di ettaro, fissato con la norma censurata quale nuovo importo della tassa sulle concessioni regionali per le aziende faunistico-venatorie, costituisca già il 90 per cento del tributo regionale più elevato precedentemente vigente, mentre l’ammontare più elevato tra le tasse sulle concessioni regionali per le aziende faunistico-venatorie vigenti nelle diverse regioni era, al momento dell’emanazione del decreto legislativo 22 giugno 1991, n. 230, quello stabilito dalla Regione Liguria pari a lire 21.000 per ettaro o frazione di ettaro, sicché al legislatore delegato era consentito fissare l’ammontare del nuovo tributo entro il limite massimo di lire 18.900 (pari al 90% di lire 21.000) per ettaro o frazione di ettaro, importo non superato con la norma denunciata neppure ove si considerino la tassa e la soprattassa in esame come un tributo unitario e, quindi, si sommi alla tassa di lire 6.065 per ettaro o frazione di ettaro la soprattassa di lire 100 per ogni 100 lire di tassa dovuta.

Nella sentenza n. 266, invece, si evidenzia che, dalla lettura coordinata della norma di delega (art. 3, comma 1, della legge n. 281 del 1970, nel testo sostituito dall’art. 4 della legge n. 158 del 1990) e di quella oggetto di censura, emanata in sua attuazione (n. d’ordine 16 della tariffa approvata con decreto legislativo n. 230 del 1991), non emerge alcun elemento idoneo a porre una distinzione tra tassa e soprattassa ed a rendere quest’ultima qualificabile come tributo distinto, unici essendo per ambedue i prelievi sia il presupposto dell’imposizione (concessione di costituzione di azienda faunistico-venatoria), sia l’ente impositore (Regione), sia il soggetto passivo della prestazione (concessionario), sia, infine, la modalità di riscossione (versamento contestuale di tassa e soprattassa), costituendo la soprattassa, nonostante il nomen iuris, solo un maggiore importo della tassa stessa, con specifica salvezza dello specifico vincolo quantitativo imposto dal comma 2, lettera c), dello stesso art. 3 della legge n. 281 del 1970. Non è, pertanto, fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, della nota al n. d’ordine 16 della tariffa annessa al decreto legislativo 22 giugno 1991, n. 230, nella parte in cui dispone che, per le aziende faunistico-venatorie, per ogni 100 lire di tassa è dovuta una soprattassa di lire 100, che dovrà essere versata contestualmente alla tassa.

1.2. I benefici fiscali

Con riferimento alle discipline attinenti ai benefici fiscali, si segnalano quattro decisioni.

La Corte, nella sentenza n. 320, condivide il dubbio di costituzionalità dell’art. 39 della legge 21 novembre 2000, n. 342, nella parte in cui, pur affermando che i fondi pubblici di agevolazione istituiti da leggi dello Stato e delle Regioni, anche se gestiti da soggetti privati, non sono soggetti ad imposta (art. 88, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica, 22 dicembre 1986, n. 917), prevede, poi, che non si fa luogo al rimborso di imposte già pagate.

Ricorda la Corte che in epoca antecedente alla entrata in vigore della legge n. 342 del 2000 era insorto in sede giurisprudenziale un contrasto interpretativo in ordine all’assoggettabilità dei fondi pubblici di agevolazione all’imposta sul reddito, anche se l’orientamento prevalente, specie del giudice di legittimità, era nel senso dell’applicabilità ai suddetti fondi dell’art. 88, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986 che escludeva la soggezione all’imposta dello Stato e degli enti pubblici nella stessa norma specificati.

Il legislatore, proprio al fine di superare un oneroso contenzioso, ha scelto, con la legge n. 342 del 2000, la soluzione alla quale era pervenuta la giurisprudenza di legittimità stabilendo che «i fondi pubblici di agevolazione […] devono intendersi riconducibili nell’ambito applicativo dell’articolo 88, comma 1».

Sia il testo della norma sia lo scopo dalla stessa perseguito di risolvere le incertezze interpretative sorte in passato sul trattamento tributario dei fondi di agevolazione, non consentono di dubitare sul carattere interpretativo della norma de qua peraltro espressamente affermato sia dai citati lavori preparatori che dalla stessa amministrazione finanziaria.

Stante, dunque, l’indubbia efficacia retroattiva della prima parte della norma impugnata, la funzione del secondo periodo è con evidenza quella di limitare gli effetti economico-finanziari di tale retroattività, escludendo la ripetibilità delle imposte già (indebitamente) pagate.

Ma proprio siffatta limitazione si pone in palese contrasto con il parametro costituzionale evocato dalla Corte rimettente. L’intrinseca contraddittorietà della disposizione si riflette del resto in una palese violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente uguali, venendo a riservarsi un trattamento deteriore a chi abbia erroneamente pagato un’imposta non dovuta rispetto a chi, versando nella medesima situazione, non abbia invece effettuato alcun pagamento. Di conseguenza, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 39 della legge 21 novembre 2000, n. 342, nella parte in cui dispone che «non si fa luogo a rimborso di imposte già pagate».

Affermazioni di ordine generale sono contenute soprattutto nella sentenza n. 275. Con essa si dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi primo, secondo e terzo, del decreto legge 13 febbraio 1981, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 aprile 1981, n. 128, nella parte in cui dispone che non si applica ai soggetti non residenti, né domiciliati, né aventi sede nei territori dei Comuni colpiti dal sisma il beneficio fiscale di cui all’art. 10 del decreto legge 5 dicembre 1980, n. 799, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 1980, n. 875, secondo il quale, per l’anno 1980, sono esclusi dall’ILOR e non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini dell’IRPEF e dell’IRPEG i redditi percepiti da soggetti danneggiati dagli eventi sismici e prodotti nei Comuni disastrati o danneggiati dal sisma.

Il rimettente basa essenzialmente la propria censura di irragionevolezza delle norme denunciate sulla contraddittorietà di queste rispetto alla ratio delle provvidenze di cui all’art. 10 del decreto legge n. 799 del 1980 per il fatto che le norme sopravvenute, limitando l’applicazione del beneficio ai soggetti danneggiati residenti o domiciliati nei territori colpiti dagli eventi sismici, contrastano con l’originario intento del legislatore di attribuire in via generale il beneficio stesso a tutti i danneggiati dal sisma, ovunque abbiano residenza, domicilio o sede.

Il giudice a quo omette, però, di considerare che le denunciate norme modificatrici debbono valutarsi in riferimento alla loro ratio e non a quella della norma da esse modificata. E, a tal fine, occorre tener conto del combinato disposto della norma attributiva del beneficio e delle successive norme che la limitano, vagliandone la legittimità costituzionale in coerenza con il costante orientamento di questa Corte, secondo cui «le disposizioni legislative che prevedono agevolazioni e benefici tributari di qualsiasi specie, quali che ne siano le finalità, hanno di norma carattere derogatorio e costituiscono il frutto di scelte del legislatore soggette a controllo di costituzionalità nei limiti della palese arbitrarietà od irrazionalità» (v., ex plurimis, sentenze n. 346 del 2003 e n. 431 del 1997).

Su questa base normativa, non appare manifestamente irragionevole ritenere che i soggetti danneggiati, che hanno residenza, domicilio o sede nell’area colpita dal sisma ed ivi svolgano la loro attività, abbiano subìto un pregiudizio complessivo maggiore rispetto agli altri danneggiati e, in relazione a tale circostanza, siano meritevoli essi soli del menzionato beneficio fiscale. È conseguentemente precluso a questa Corte estendere a soggetti diversi da quelli indicati dalle norme denunciate l’àmbito di applicazione del suddetto beneficio fiscale (v., ex plurimis, in applicazione di analoghi principî, le ordinanze n. 27 del 2001 e n. 10 del 1999).

La Corte ritiene, inoltre, che, con le norme denunciate, il legislatore, da un lato, ha tenuto conto dei vincoli impostigli dalle disponibilità di bilancio e, dall’altro, ha inteso anche perseguire una peculiare politica di sviluppo economico circoscritta alle zone colpite dagli eventi sismici.

Da notare è anche la decisione di manifesta infondatezza, contenuta nell’ordinanza n. 181, concernente l’art. 8 della legge 11 agosto 1991, n. 266, denunciata nella parte non prevede anche l’esenzione dall’Iva, oltre che dall’imposta di registro, per gli acquisti, da parte delle organizzazioni di volontariato, di beni immobili da utilizzare per lo svolgimento delle loro attività. Il rimettente ravvisa una irragionevole disparità di trattamento, con conseguente violazione del principio di capacità contributiva, nel fatto che la norma impugnata, non esentando dall’Iva gli atti connessi allo svolgimento delle attività proprie delle organizzazioni di volontariato, di fatto condizioni la concessione dell’agevolazione fiscale, nel caso di acquisto di beni immobili, alla circostanza – del tutto estranea alla ratio dell’agevolazione – che il venditore sia o meno assoggettato all’Iva.

Ad avviso della Corte, siffatta prospettazione, fondata sulla mera considerazione del peso economico del tributo, non tiene tuttavia alcun conto del fatto che mentre soggetti passivi dell’imposta di registro sono tutte le parti contraenti, trattandosi di imposta applicata all’atto, all’Iva sono invece assoggettati coloro che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili con obbligo di rivalsa nei confronti del cessionario o del committente. Appare, perciò, coerente con tale differenziazione che un’esenzione fiscale disposta in considerazione dell’attività svolta da determinati soggetti (le organizzazioni di volontariato) riguardi esclusivamente l’imposta di registro gravante sugli atti da questi compiuti e l’Iva relativa alle prestazioni dai medesimi eseguite, ma non anche, in caso di acquisto di beni, l’imposta sul valore aggiunto cui è assoggettato altro contribuente, cioè il cedente, il quale svolge un’attività diversa da quella considerata dalla norma di esenzione.

Infine, con specifico riguardo all’incentivazione dell’attività agricola, l’ordinanza n. 87 dichiara la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità avente ad oggetto l’art. 58, comma 2, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, nella parte in cui, prevedendo che, ai fini dei benefici d’imposta sui terreni agricoli, si considerano coltivatori diretti a titolo principale «le persone fisiche iscritte negli appositi elenchi comunali e soggette al corrispondente obbligo dell’assicurazione per invalidità, vecchiaia e malattia», esclude che della norma agevolativa possano giovarsi coloro che siano cancellati dai suddetti elenchi a seguito del conseguimento della pensione.

La Corte, dopo aver sottolineato che l’individuazione del concreto ambito di applicazione di un’agevolazione fiscale rientra nella discrezionalità del legislatore, salva la manifesta irragionevolezza (cfr., ex plurimis, sentenza n. 431 del 1997, ordinanze n. 7 del 2002, n. 27 del 2001), osserva che la giustificazione dell’agevolazione fiscale di cui si tratta risiede in un intento di incentivazione dell’attività agricola, connesso alla finalità di razionale sfruttamento del suolo cui fa riferimento l’art. 44 della Costituzione, e che, in relazione alla suddetta ratio incentivante, non appare manifestamente irragionevole che dal beneficio siano esclusi coloro che – per il fatto di godere di trattamenti pensionistici – all’evidenza non traggono dal lavoro agricolo la loro esclusiva fonte di reddito (ordinanza n. 336 del 2003).

1.3. Il condono fiscale

Tre ordinanze riguardano fenomeni di regolarizzazione di illegittimità concernenti la corresponsione di tributi.

La Corte dichiara manifestamente infondata, con l’ordinanza n. 402, la questione concernente l’art. 28, quarto comma, primo e secondo periodo, del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, «nella parte in cui prevede la non applicazione per l’anno 1981 ed eventualmente per i precedenti anni, della definizione automatica solo a carico di coloro che hanno presentato la dichiarazione 1981 a credito con richiesta di computazione del credito in detrazione nell’anno successivo e nella parte in cui tale definizione è ammessa qualora in sede di dichiarazione integrativa si rinunzi all’eventuale residuo credito che, in ogni caso deve superare lire 200.000 per periodo di imposta e, se inferiore, deve essere integrato fino alla predetta somma». La disparità di trattamento denunciata trova, infatti, giustificazione nella diversità delle situazioni poste a raffronto dal rimettente, vale a dire di opzione per il rimborso del credito dell’Iva relativo al 1981, ovvero di opzione per il computo nell’anno 1982 dell’intera eccedenza, avuto riguardo alle differenti modalità di realizzazione del credito del contribuente ed alla loro diversa influenza sul perseguimento delle finalità proprie del condono c.d. «tombale» previsto dall’art. 28 del decreto legge n. 429 del 1982: la scelta del legislatore, nella prima ipotesi, meno frequente, di non subordinare il condono alla rinuncia del credito e di tener fermo il potere di accertamento, e di condizionare invece, nella seconda ipotesi, l’accesso al condono alla rinunzia al credito dell’Iva, piuttosto che riconoscere il credito stesso previa verifica della sua sussistenza, comportante una onerosa e più diffusa attività di controllo, è diretta a non frustrare la finalità perseguita, propria del condono «tombale» in esame, di definizione semplificata, spedita e globale delle pendenze tributarie.

L’evocazione a parametro dell’art. 53, primo comma, della Costituzione, concernente la disciplina sostanziale dei tributi, è, poi, non pertinente, riguardando la denunciata normativa sul condono la disciplina della definizione delle pendenze tributarie.

La ordinanza n. 340 si pronuncia nel senso della manifesta infondatezza delle questioni concernenti gli articoli 9, commi 9 e 10, e 15, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, per le parti riguardanti gli effetti del condono nella materia tributaria. Il giudice a quo, infatti, muove da un erroneo presupposto interpretativo, ritenendo che il perfezionamento del condono precluderebbe all’amministrazione finanziaria la possibilità di effettuare accertamenti tributari per contestare la debenza del rimborso e renderebbe incontestabili le somme richieste dai contribuenti quale rimborso dell’Iva anche nella ipotesi in cui il rimborso si basi sulla fatturazione di operazioni inesistenti e l’importo dell’Iva non sia mai stato versato. Invero, dalla semplice lettura delle norme denunciate, dalla natura del condono, nonché dalla giurisprudenza di legittimità, emerge un esito interpretativo diverso, vale a dire che le disposizioni censurate vanno intese nel senso che il condono non influisce di per sé sull’ammontare delle somme chieste a rimborso, non impone al contribuente la rinuncia al credito e non impedisce all’erario di accogliere tali richieste, allorché la pretesa al rimborso sia riscontrata fondata; non impedisce l’accertamento dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso, data la natura propria del condono, che incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti; mentre, infine, nell’ipotesi di operazioni inesistenti, le disposizioni censurate non impongono affatto all’erario di procedere al rimborso, nel casi di intervenuto condono fiscale, né inibiscono accertamenti diretti a dimostrare l’inesistenza dell’invocato diritto al rimborso.

Infine, secondo il decisum dell’ordinanza n. 305, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, modificato dall’art. 5-bis del decreto legge 24 dicembre 2002, n. 282, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27, e dell’art. 1, comma 2-decies, del decreto legge 24 giugno 2003, n. 143, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 212, nella parte in cui consentono l’applicabilità del condono fiscale anche alle pene pecuniarie. Rileva, a tal proposito, la Corte che, successivamente all’ordinanza di rimessione, con l’ordinanza n. 433 del 2004, è stata dichiarata manifestamente infondata analoga questione concernente l’art. 12 della legge n. 289 del 2002, in quanto devono intendersi escluse dall’ambito di applicazione di tale articolo le pene pecuniarie, le quali non possono essere equiparate alle altre entrate dello Stato.

2. La difesa della patria

Nell’ambito di un giudizio in via principale avente ad oggetto leggi regionali sul servizio civile, la Corte, con la sentenza n. 431, ha ribadito quanto già affermato nella sentenza n. 228 del 2004, dove si era sottolineato come la difesa della Patria avesse una estensione più ampia dell’obbligo di prestare servizio militare, e che – di conseguenza – il titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento statale nella disciplina del servizio civile nazionale – inteso «quale modalità operativa concorrente ed alternativa alla difesa dello Stato, con mezzi ed attività non militari»– poteva essere rinvenuto nell’art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione, che riserva alla legislazione esclusiva dello Stato non solo la materia «Forze armate», ma anche la «difesa», che ben può tradursi nella prestazione di «comportamenti di impegno sociale non armato».

Al riguardo, la Corte ha ritenuto che non tutti gli aspetti dell’attività svolta dai giovani in servizio civile ricadano nell’area della potestà legislativa statale poiché, fatte salve le specificità direttamente connesse alla struttura organizzativa del servizio e alle regole previste per l’accesso ad esso, lo svolgimento concreto di attività che toccano i più diversi ambiti materiali, come l’assistenza sociale, la tutela dell’ambiente, la protezione civile restano soggette alla disciplina dettata dalla legislazione regionale o dalla normativa degli enti locali.

Inoltre, nell’esercizio delle funzioni amministrative spettanti agli organi centrali, deve essere garantita la partecipazione degli altri livelli di governo coinvolti, attraverso strumenti di leale collaborazione, nonché la possibilità per le Regioni e le Province autonome di istituire e disciplinare, nell’autonomo esercizio delle proprie competenze legislative, un proprio servizio civile regionale o provinciale, distinto da quello nazionale, in attuazione del principio di solidarietà espresso dall’art. 2 della Costituzione.


Sezione VI

La tutela dei diritti nella giurisdizione

1. Il procedimento civile

La giurisprudenza costituzionale sul procedimento civile si è arricchita, nel corso del 2005, di numerose statuizioni, che hanno coperto molteplici ambiti e diversi tipi di procedimento.

1.1. Notificazioni

Fra le numerose pronunce di rilievo emesse nel corso dell’anno 2005 in materia di processo civile debbono essere in primis menzionate due ordinanze in tema di procedura notificatoria, nelle quali la Corte ha ribadito la propria consolidata giurisprudenza che ritiene «ormai presente nell’ordinamento processuale civile, fra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il notificante deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario e va individuato – nelle notificazioni effettuate a mezzo dell’ufficiale giudiziario – nel momento della consegna dell’atto allo stesso ufficiale giudiziario» (ordinanza n. 118). Parimenti, l’ordinanza n. 154, resa in un giudizio di legittimità avente ad oggetto il combinato disposto degli articoli 645, secondo comma, 647 e 165 del codice di procedura civile, censurato nella parte in cui fa decorrere il termine di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo dalla notificazione dell’opposizione, anziché dalla restituzione dell’originale o di altro atto cui possa collegarsi la conoscenza dell’inizio del decorso del termine, ha affermato che «l’applicazione al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo del citato principio in tema di momento perfezionativo della notificazione comporta la conseguenza che fin dal momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario il notificante può compiere le attività, fra cui l’iscrizione a ruolo, che presuppongono la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, ferma restando, in ogni caso, la decorrenza del termine finale dalla consegna al destinatario».

La Corte ha seguito l’orientamento già espresso con la propria precedente giurisprudenza anche con l’ordinanza n. 310, secondo la quale «le presunzioni legali di conoscenza [su cui] si fondano le forme di notificazione che non assicurano la conoscenza reale degli atti – quale quella prevista dall’art. 143, primo comma, cod. proc. civ. – non contrastano con l’art. 24 della Costituzione se non quando il bilanciamento, discrezionalmente operato dal legislatore, tra l’interesse del notificante al compimento della notificazione e l’interesse del destinatario all’effettiva conoscenza dell’atto notificato risulti manifestamente irragionevole».

Sempre in tema di notificazioni altra pronuncia di rilievo è la sentenza n. 480, che ha dichiarato non fondata, nei sensi specificati in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 480, comma terzo, del codice di procedura civile, contestato, in riferimento agli articoli 3, 24, secondo comma, e 111 della Costituzione, nella parte in cui consentirebbe al debitore – qualora il creditore precettante abbia dichiarato la sua residenza o eletto domicilio in un luogo nel quale non si trovano cose del debitore da sottoporre ad esecuzione forzata – non solo di proporre opposizione a precetto davanti al giudice del luogo di notifica del precetto, ma anche di notificare l’atto di opposizione presso la cancelleria di tale giudice. La Corte ha ritenuto che la lettera della norma, per quanto non cristallina, non sia tale da precludere una interpretazione rispettosa del principio del contraddittorio e del diritto di difesa: «il debitore precettato, infatti, ben può proporre la sua opposizione al giudice del luogo di notifica del precetto ogni volta che deduca (anche implicitamente) l’inesistenza di suoi beni in altro luogo, ma egli può notificare la sua opposizione presso la cancelleria di tale giudice solo quando il creditore precettante abbia del tutto omesso la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio; ove tale dichiarazione o elezione vi sia, anche se in luogo che, secondo il debitore, mai potrebbe essere quello “dell’esecuzione”, la notificazione dell’opposizione deve necessariamente farsi nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto. Ciò è imposto dall’art. 24, secondo comma, Cost. (e dall’art. 111, secondo comma, Cost.), dal momento che non può consentirsi che il creditore resti all’oscuro dell’opposizione, proposta davanti a un giudice individuato dal debitore sul presupposto – che il creditore potrebbe, e deve essere messo in grado di confutare – dell’inesistenza di beni nel luogo della sua residenza o del suo domicilio eletto».

Di pari interesse appare la sentenza n. 441, pronunciata in materia di giudizio di ottemperanza, con la quale la Corte ha ribadito il principio per cui, nella fase di instaurazione del rapporto processuale, lo strumento della comunicazione è idoneo, al pari della notificazione, ad assicurare quelle garanzie di conoscenza e di ufficialità necessarie per il rispetto dei principî della difesa in giudizio ex art. 24, secondo comma, Cost., e del contraddittorio, quale presupposto del giusto processo, a condizione che la stessa assicuri una informazione completa e tempestiva del ricorso che ne forma oggetto. «L’assimilazione della comunicazione alla notificazione nei termini che precedono – ha proseguito la Corte – consente tra l’altro di estendere alla prima i principî in ordine alla effettività dell’avvenuta conoscenza dell’atto da parte del destinatario, anche nel caso di trasmissione a mezzo posta».

1.2. Introduzione del giudizio e competenza

Numerosi sono stati i casi in cui la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in tema di competenza per territorio.

Così, l’ordinanza n. 124 ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1 della legge 13 aprile 1988, n. 117 sulla responsabilità civile dei magistrati, censurato nella parte in cui, stabilendo che l’azione di risarcimento danni contro lo Stato deve essere esercitata dinanzi al Tribunale del capoluogo del distretto della Corte di Appello da determinarsi a norma dell’art. 11 del codice di procedura penale, non prevede che il medesimo Tribunale sia competente anche per le cause successivamente o cumulativamente proposte che alle prime siano connesse per oggetto o per titolo, nonché per le cause anche autonomamente proposte che siano relative a fatti commessi da altri in concorso con magistrati o a fatti commessi da altri soggetti e da magistrati che, con condotte collegate o anche indipendenti, abbiano determinato il danno. La Corte ha nella specie richiamato la propria consolidata giurisprudenza secondo cui «l’esigenza del simultaneus processus non è elevata a regola costituzionale, ma si configura quale mero espediente processuale, finalizzato all’economia dei giudizi ed alla prevenzione del pericolo di giudicati contraddittori, sicchè la sua inattuabilità non riguarda né il diritto di azione né quello di difesa, una volta che la pretesa sostanziale del soggetto interessato possa essere fatta valere nella competente, pur se distinta, sede giudiziaria con pienezza di contraddittorio e difesa».

Che il simultanues processus non sia oggetto di garanzia costituzionale è stato, altresì, ribadito nell’ordinanza n. 215, nella quale è stata affrontata la questione di legittimità dell’art. 268, secondo comma, del codice di procedura civile, che, secondo il tribunale rimettente, violerebbe gli articoli 24, 111 e 3 della Costituzione nella parte in cui non consente al terzo interveniente di compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna parte e, in particolare, non consente alle parti, tutte, in caso di intervento principale o litisconsortile successivo allo scadere dei termini dell’art. 184 c.p.c., di depositare documenti e indicare nuovi mezzi di prova rispetto alla domanda formulata con l’atto di intervento. Nel dichiarare infondata la questione, la Corte ha affermato che «il sistema delle preclusioni nel giudizio civile […] si configura come regola funzionale alla concreta attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo» ed il terzo che ritenga «che da un giudizio inter alios possano derivare pregiudizi alla propria posizione sostanziale ha, in alternativa all’intervento, la piena facoltà di proporre un autonomo giudizio. […] In questo contesto, gli eventuali condizionamenti di ordine temporale alla proposizione dell’intervento ovvero le preclusioni all’apporto probatorio a sostegno della relativa domanda, si rivelano strumenti certamente razionali utilizzabili dal legislatore per conseguire l’obiettivo di un ordinato svolgimento del giudizio». Con riferimento, poi, «all’asserita lesione dell’art. 111 Cost., l’applicazione senza eccezioni del sistema delle preclusioni, lungi dal causare lesione all’evocato principio di parità delle parti, […] ne costituisce coerente attuazione, proprio al fine di evitare che il terzo possa trarre vantaggio dalla scelta di intervenire tardivamente».

In materia di competenza per territorio merita di essere menzionata anche la sentenza n. 194, con la quale la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 25, comma 1, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, secondo cui la competenza per territorio, nei procedimenti camerali relativi alle materie del diritto societario e di intermediazione finanziaria, spetta al giudice del luogo ove la società ha la sede legale, dal momento che la specificità del rito camerale (caratterizzato da particolare rapidità) fa si che non si possa ritenere sussistente fra lo stesso ed il procedimento ordinario la omogeneità necessaria a rendere comparabili le rispettive discipline.

Infine, la sentenza n. 410 ha ritenuto non fondata, nei sensi indicati in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 637, primo comma, cod. proc. civ., censurato, con riguardo agli articoli 24 e 111 della Costituzione, «nella parte in cui esclude – secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione – la rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per territorio oltre i casi dell’art. 28 cod. proc. civ.» nella fase senza contraddittorio del procedimento per decreto ingiuntivo. La Corte ha osservato che non solo la lettera della norma, specie in combinato con l’art. 640 dello stesso codice, non esclude la rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza territoriale «semplice», ma che a tale interpretazione, costituzionalmente orientata, non si oppone il consolidato orientamento giurisprudenziale richiamato dal rimettente secondo cui spetta solo all’ingiunto sottoporre l’eccezione di incompetenza per territorio derogabile, con il successivo atto di opposizione, indicando nel contempo il giudice ritenuto competente; non può, infatti, «parlarsi di un orientamento tale, per costanza ed univocità, da giustificare la dichiarazione di illegittimità costituzionale», poiché, «in realtà, l’unica decisione expressis verbis dedicata alla questione» è una risalente pronuncia della Suprema Corte (costituita dalla sentenza 6 febbraio 1969, n. 400), resa in relazione ad una sentenza d’appello che aveva accolto una domanda di revocazione ex art. 395, n. 2, cod. proc. civ. fondata sulla falsità del luogo di emissione di una cambiale per la quale era stato chiesto decreto ingiuntivo ad un giudice altrimenti territorialmente incompetente.

Nel caso qui in esame, la Corte si è limitata a constatare come la ratio decidendi di quell’isolata pronuncia, resa in relazione ad una fattispecie molto peculiare, non impedisce al rimettente un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata.

1.3. Imparzialità e terzietà del giudice

Nel ribadire la costante giurisprudenza secondo cui «le leggi non si dichiarano incostituzionali se esiste la possibilità di dare loro un significato che le renda compatibili con i precetti costituzionali e ciò assume particolare rilevo qualora, come nella fattispecie, l’opzione interpretativa che consente tale risultato sia stata ripetutamente condivisa dalle sezioni unite della Corte di Cassazione», la Corte, con la ordinanza n. 115, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità degli articoli 52, 53 e 54 del codice di procedura civile, censurati, in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione, in quanto non consentono allo stesso giudice ricusato di dichiarare inammissibile l’istanza di ricusazione che appaia manifestamente e immediatamente viziata. La Corte ha sottolineato che, nonostante l’apparente rigidità della formula usata, la disciplina censurata «riconosce al giudice della causa – obbligato, in ogni caso, a dar corso all’istanza di ricusazione trasmettendo il relativo fascicolo al giudice competente – il potere di delibare preventivamente i presupposti formali di una valida ricusazione ai fini della sospensione del giudizio, per cui, un’istanza di ricusazione presentata senza rispettare le condizioni ed i termini prescritti non produce la sospensione del processo».

Interessante appare, anche, la sentenza n. 460 (analizzata più diffusamente infra), con cui è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, primo comma, n. 4, del codice di procedura civile, contestato, in riferimento agli articoli 24 e 111 Cost., laddove non prevede l’obbligo di astensione dal partecipare al giudizio di opposizione per il magistrato che abbia fatto parte del collegio che ha deliberato la sentenza dichiarativa di fallimento, concludendo che «l’obbligo di astensione […] presuppone […] che il procedimento svolgentesi davanti al medesimo ufficio giudiziario sia solo apparentemente “bifasico”, mentre in realtà esso – per le caratteristiche decisorie e potenzialmente definitive del provvedimento che chiude la prima fase e per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi nel rispetto del principio del contraddittorio, ancorché realizzato con modalità deformalizzate – si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di “altro grado del processo”».

1.4. Il procedimento di esecuzione forzata

In materia di esecuzione forzata deve essere ricordata la sentenza n. 379, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 567, commi secondo e quarto, del codice di procedura civile, censurato, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, «nella parte in cui non prevede che il certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari possa ritenersi sostitutivo soltanto dell’estratto del catasto e di certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato» e «non estende la sanzione di estinzione per inattività di cui all’art. 630, secondo comma, cod. proc. civ., per omesso o ritardato deposito dell’estratto delle mappe censuarie e/o del certificato di destinazione urbanistica, …da allegare al ricorso contenente istanza di vendita in caso di tempestivo deposito di completo certificato notarile sostitutivo». La Corte, dopo aver premesso che «non è revocabile in dubbio che l’art. 567 cod. proc. civ. è affetto da una antinomia, in quanto prevede, da un lato la necessità, a pena di estinzione, della produzione di una documentazione comprensiva di mappe censuarie e certificato di destinazione urbanistica e, dall’altro, della sufficienza, per evitare l’estinzione, di una certificazione notarile che non comprende né le mappe né il certificato di destinazione urbanistica», stabilisce che «tale evidente antinomia potrebbe comporsi nel senso sollecitato dall’ordinanza di rimessione solo se anche le mappe censuarie ed il certificato di destinazione urbanistica fossero indispensabili affinché la procedura esecutiva prosegua utilmente».

Sul punto, la sentenza conclude nel senso della non indispensabilità: «quanto all’estratto delle mappe censuarie,…la funzione di tale documento, consistente nell’individuazione della dislocazione del bene sul territorio, non è essenziale in tale fase della procedura, essendo in essa necessario soltanto stabilire l’appartenenza del bene al debitore e l’eventuale esistenza di atti, iscritti o trascritti, opponibili alla procedura esecutiva e destinati ad essere travolti…dal c.d. effetto purgativo della vendita forzata». Parimenti, «quanto al certificato di destinazione urbanistica, la intrinseca precarietà di quanto da esso risultante esclude inequivocabilmente che, in questo stadio della procedura esecutiva, esso sia indispensabile per la sua prosecuzione».

La questione sollevata viene dichiarata infondata, «in quanto essa sollecita una pronuncia che, al fine di risolvere una contraddizione interna dell’art. 567 cod. proc. civ., estenderebbe ad un’ipotesi (quella in cui il creditore sia ricorso all’opera del notaio) – ragionevolmente disciplinata, ai fini dell’estinzione – quanto previsto, ma in contrasto con la ratio di tale istituto, per l’altra ipotesi di creditore che non si avvalga dell’opera del notaio, laddove anche tale ultima ipotesi, sulla base di una lettura sistematica della disciplina in questione, può essere interpretata in modo che – escludendosi la dichiarabilità dell’estinzione per la mancata produzione dell’estratto delle mappe censuarie e del certificato di destinazione urbanistica – sia risolto ogni contrasto con i principî costituzionali».

In sede di decisione di un’opposizione di terzo all’esecuzione, il Tribunale di Venezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 619, 163, n. 7, 164, primo comma, 166 e 167, secondo comma, del codice di procedura civile per violazione del disposto dell’art. 3 Cost.. L’ordinanza n. 389 ha dichiarato infondata la questione «per l’apoditticità della premessa […] cioè che – in forza dell’applicabilità «all’udienza davanti al giudice dell’esecuzione fissata a norma dell’art. 619» dell’art. 183 cod. proc. civ., sancita dall’art. 185 disp. att. cod. proc. civ. e dovendo tale udienza essere in tutto equiparata all’udienza di prima comparizione di cui all’art. 180 del codice di procedura civile – sarebbero applicabili, a ritroso, sia il termine decadenziale di cui all’art. 167, secondo comma, per la proponibilità della domanda riconvenzionale sia […] la norma (art. 163, numero7, in relazione all’art. 164 cod. proc. civ.) secondo il quale il convenuto deve essere avvertito dall’attore in opposizione dell’esistenza di detto termine». In realtà, secondo la Corte, tale impostazione non è accettabile poiché sembra presupporre che sia coperto da garanzia costituzionale, quale modello tendenzialmente vincolante per il legislatore, il processo ordinario di cognizione ed omette di considerare le peculiarità dell’udienza de qua, che «si svolge davanti ad un giudice individuato dal legislatore esclusivamente in ragione della sua qualità di giudice dell’esecuzione, e pertanto del tutto a prescindere dall’eventualità che egli sia competente per il merito dell’opposizione».

1.5. Il giudizio di cassazione

Con la sentenza n. 109 la Corte, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 301 e 377, comma secondo, del codice di procedura civile, censurati, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, secondo comma e 111 Cost., nella parte in cui non attribuiscono rilevanza, nel giudizio di cassazione, alla morte dell’unico difensore verificatasi sopo la proposizione del ricorso e prima dell’udienza di discussione, ha stabilito che «il problema della necessità di garantire l’esercizio del diritto di difesa, nel giudizio di cassazione, alla parte colpita da un evento che quel diritto pregiudica, non riguarda soltanto il ricorrente, ma anche colui nei cui confronti il ricorso sia stato proposto, così come esso implica la soluzione di delicate questioni – derivanti dal fatto che quello di cassazione è ab initio un processo di avvocati – quanto ai meccanismi di riattivazione del giudizio. Non competendo a questa Corte – ma, nell’ambito della sua discrezionalità, al legislatore – la necessariamente articolata soluzione dei problemi implicati dal riconoscere rilevanza, nel giudizio di cassazione, ad eventi lato sensu interrottivi, la questione di legittimità costituzionale de qua deve essere dichiarata inammissibile».

 

1.6. Le controversie in materia di circolazione stradale

In materia di circolazione stradale deve in primis essere menzionata la sentenza n. 27, che ha ritenuto illegittimo l’art. 126-bis, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, introdotto dall’art. 7 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 nel testo risultante all’esito della modifica apportata dall’art. 7, comma 3, lettera b), del decreto legge 27 giugno 2003, n. 151, convertito nella legge 1 agosto 2003, n. 214, nella parte in cui dispone che: «nel caso di mancata identificazione [del conducente], la segnalazione [all’anagrafe nazionale degli abilitati alla guida] debba essere effettuata a carico del proprietario del veicolo, salvo che lo stesso non comunichi, entro trenta giorni dalla richiesta, all’organo di polizia che procede, i dati personali e della patente del conducente», anziché, «nel caso di mancata identificazione di questi, il proprietario del veicolo, entro trenta giorni dalla richiesta, deve fornire, all’organo di polizia che procede, i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione».

La Corte ha giudicato fondate le censure di violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della irragionevolezza della disposizione, «nel senso che essa dà vita ad una sanzione assolutamente sui generis, giacché la stessa – pur essendo di natura personale – non appare riconducibile ad un contegno direttamente posto in essere dal proprietario del veicolo e consistente nella trasgressione di una specifica norma relativa alla circolazione stradale». La sentenza perviene a tale conclusione ricostruendo il contenuto della disposizione censurata alla luce della disciplina generale del sistema sanzionatorio previsto per gli illeciti amministrativi dalla legge n. 689 del 1981, che fissa i principî fondamentali di personalità della responsabilità amministrativa e di solidarietà fra proprietario del veicolo e autore della violazione. Vero è, sottolinea la Corte, che la responsabilità del proprietario, per le violazioni commesse da chi era alla guida, «costituisce, nel sistema delle sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme relative alla circolazione stradale, un principio di ordine generale»; nondimeno, ciò vale in primo luogo laddove si versi in tema di sanzioni aventi il carattere della patrimonialità, mentre nella fattispecie di cui all’art. 126-bis, «assume preponderante rilievo il carattere schiettamente personale della sanzione che viene direttamente ad incidere sull’autorizzazione alla guida». Pertanto, «proprio la peculiare natura della sanzione […], al pari della sospensione della patente incidente anch’essa sulla legittimazione passiva alla conduzione di ogni veicolo, fa emergere l’irragionevolezza della scelta legislativa di porre la stessa a carico del proprietario del veicolo che non sia anche responsabile dell’infrazione stradale», con la conseguenza che la norma de qua è illegittima «nella parte in cui assoggetta il proprietario del veicolo alla decurtazione dei punti della patente quando ometta di comunicare all’autorità amministrativa procedente le generalità del conducente».

Sempre in materia di circolazione stradale, si registrano altre due sentenze, coeve, in tema di art. 204-bis del Nuovo codice della strada, la n. 468 e la n. 471. Nel dichiarare infondata la questione di legittimità del combinato disposto di tale articolo con l’art. 126-bis, censurato laddove stabilisce che la contestazione si intende definita con il pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta e il trasgressore può proporre ricorso al giudice di pace solo in quanto non sia stato effettuato il pagamento, la sentenza n. 468 ha escluso sia la violazione dell’art. 3 Cost., dal momento che il beneficio è riconosciuto al contravventore in funzione deflattiva dei procedimenti contenziosi e, proprio in ragione delle finalità deflattive dell’istituto, la situazione di chi non si avvale del rimedio del gravame per lucrare il beneficio è diversa da quella di chi si avvale del rimedio, sia la violazione dell’art. 24 Cost., in quanto la scelta tra il pagare in misura ridotta e l’impugnare, invece, il verbale, è il risultato di una libera determinazione dell’interessato, il quale non subisce condizionamenti poiché, laddove opti per l’esercizio del diritto di azione, non è destinato, necessariamente, a subire un aggravamento della sanzione (il Giudice di pace, nella sua discrezionalità, ha la possibilità di determinarne l’importo anche nel minimo previsto, e cioè in misura corrispondente a quella ridotta).

Parimenti, la sentenza n. 471 ha ritenuto non fondata la questione avente ad oggetto le medesime norme suindicate, censurate, in riferimento agli stessi parametri, sul rilievo che «solo quando l’infrazione stradale sia stata commessa dal soggetto unico titolare ed utilizzatore del veicolo, è possibile ritenere che costui, nel pieno e consapevole esercizio del proprio diritto di difesa, abbia la scelta se procedere al pagamento in misura ridotta e accettare la decurtazione dei punti dalla patente ovvero proporre ricorso giurisdizionale per ottenere l’annullamento della contestazione. Ove non ricorra, viceversa, la descritta coincidenza di posizioni, tale scelta non potrà essere operata in piena libertà perché sarà condizionata dal comportamento di un terzo, portatore di un interesse che può essere anche configgente con quello dell’autore della violazione».

La Corte, effettuando un’interpretazione sistematica della disciplina censurata, ha evidenziato che «una volta definita la vicenda relativa alla sanzione pecuniaria, in virtù del pagamento in misura ridotta effettuato da taluno dei soggetti coobbligati solidalmente per la stessa […] nessuna norma preclude al conducente del veicolo, autore materiale dell’infrazione stradale, di adire le vie giudiziali per escludere l’applicazione a suo carico della sanzione “personale” suddetta», che non riveste più carattere «meramente “accessorio” ma assume valore di sanzione principale per il contravventore, per tale motivo presentandosi come l’unica suscettibile di contestazione in sede giudiziaria».

In materia di trattamento sanzionatorio conseguente alle infrazioni al Codice della strada, l’ordinanza n. 247 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità del già citato art. 204-bis censurato nella parte in cui, nel disciplinare il ricorso esperibile avverso il verbale di contestazione di una infrazione stradale, impone che solo con l’accoglimento del ricorso si possa annullare la sanzione accessoria. La Corte, dopo aver sottolineato che le sanzioni accessorie, per loro natura, accedono a quelle principali «(di talchè le une e le altre, per così dire, simul stabunt, simul cadent)», evidenzia come «la complessiva disciplina sanzionatoria prevista dal codice della strada…tenda a soddisfare […] l’esigenza, connessa alla strutturale pericolosità dei veicoli a motore, di assicurare l’incolumità personale dei soggetti coinvolti nella loro circolazione», con la conseguenza che «la salvaguardia di tale esigenza non [può] giustificare interventi volti ad escludere l’operatività delle sanzioni amministrative accessorie in un caso – quale quello contemplato dalla norma impugnata – connotato dalla reiezione del ricorso proposto avverso il verbale di contestazione dell’infrazione, e, quindi, in definitiva, dalla conferma della sua legittimità».

Hanno affrontato la disciplina dettata dal codice della strada, ma analizzandone profili di natura sostanziale, anche l’ordinanza n. 218 e la sentenza n. 66 (quest’ultima già analizzata nelle parti relative alla libertà di circolazione e alle prestazioni patrimoniali).

Nel primo caso, il giudice a quo, chiamato a pronunciarsi in un giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione emessa dal prefetto nei confronti del conducente di motoveicolo cui era stata ascritta l’infrazione di cui al’art. 141, comma 3, del codice della strada per aver omesso di regolare la velocità in modo da non costituire pericolo nell’attraversamento di un centro abitato, dubitava della legittimità del menzionato articolo «nella parte in cui non è previsto alcun criterio legale di riferimento per la configurabilità dell’infrazione» de qua. La Corte, nel dichiarare manifestamente infondata la questione, ha evidenziato che «il sistema normativo sulla circolazione, essendo ispirato al principio di salvaguardia della sicurezza stradale in vista della protezione dell’incolumità personale, impone agli utenti della strada di conformare la propria condotta anzitutto alle comuni regole di prudenza e diligenza, pur in assenza di specifica segnaletica di pericolo»: la norma censurata si inserisce in questo quadro, imponendo al conducente di tenere una velocità adeguata in situazioni di particolare esposizione al pericolo, quali quelle che possono concretizzarsi nei tratti di strada a visibilità limitata, nelle curve, in prossimità delle intersezioni e delle scuole etc., con la conseguenza che, «lungi dall’essere priv[a] di criteri indicativi della condotta alla quale è tenuto l’utente della strada, presenta invece un contenuto sufficientemente determinato, giacchè l’obbligo di adeguare la velocità alla situazione contingente, sebbene si atteggi in modo elastico, risulta tuttavia percepibile chiaramente dal conducente proprio in base ad elementi e circostanze di fatto tratti dalla comune esperienza della circolazione stradale e che ne circoscrivono i margini di applicazione».

Con la sent.. n. 66, la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità dell’art. 2, comma 1, lettera d), della legge delega per la revisione delle norme sulla circolazione stradale 13 giugno 1991, n. 190 e dell’art. 7, comma 1, lettera f), del Nuovo codice della strada che consentono di subordinare la sosta dei veicoli al pagamento di una somma di denaro. Non sussiste, secondo la Corte, alcuna violazione dell’art. 16 Cost., che «non preclude al legislatore la possibilità di adottare, per ragioni di pubblico interesse, misure che influiscano sul movimento della popolazione. In particolare, l’uso delle strade può essere regolato sulla base di esigenze che, sebbene trascendano il campo della sicurezza e della sanità, attengono al buon regime della cosa pubblica, alla sua conservazione, alla disciplina che gli utenti devono osservare», con la conseguenza che «le limitazioni in esame sono giustificate in funzione di altri interessi pubblici egualmente meritevoli di tutela, quali quelli attinenti al buon regime della cosa pubblica». Del pari, non si rinviene alcuna violazione dell’art. 23 Cost., dal momento che «il pagamento per la sosta del veicolo sfugge sia alla nozione di tributo che a quella di prestazione patrimoniale imposta; esso è configurabile piuttosto, come corrispettivo, commisurato ai tempi e ai luoghi della sosta, di una utilizzazione particolare della strada, rimessa ad una scelta dell’utente, non priva di alternative».

1.7. Le controversie in materia di spese di giustizia

La Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 117 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, censurato, in riferimento agli articoli 3, 24, secondo comma, 35, primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il difensore designato dal giudice in sostituzione del difensore di ufficio non reperito o non comparso possa chiedere la liquidazione di spese ed onorari per l’attività professionale svolta in luogo del difensore sostituito. La Corte ha ritenuto erroneo il presupposto interpretativo del rimettente – secondo cui sarebbe impedito al difensore di ufficio, nominato dal giudice in sostituzione dell’originario difensore, di chiedere la liquidazione dei compensi per l’opera autonomamente svolta –, in quanto l’art. 97, comma 4, del codice di procedura penale, prevede che al difensore designato in sostituzione si applicano le disposizioni dell’art. 102 dello stesso codice, secondo cui «il sostituto esercita i diritti ed assume i doveri del difensore» (ordinanza n. 8).

Con le sentenze n. 52 e n. 53 sono state dichiarate non fondate questioni con le quali si censurava, in riferimento agli articoli 3 e 76 Cost., l’attribuzione all’ufficio giudiziario in composizione monocratica anziché collegiale della competenza a decidere rispettivamente sulle opposizioni ai provvedimenti di rigetto dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ovvero di revoca del decreto di ammissione già accordato (art. 99, comma 3, del decreto legislativo n. 113 del 2002), nonché sulle opposizioni ai decreti di liquidazione dei compensi agli ausiliari del magistrato (art. 170 del medesimo decreto legislativo).

La Corte è giunta ad escludere, in particolare, il denunciato eccesso di delega sulla base della considerazione che, poiché tra i criteri direttivi contenuti nella legge di delegazione (legge n. 50 del 1999) vi era quello di «garantire la coerenza logica e sistematica della normativa», il legislatore delegato, senza con ciò eccedere dal coordinamento formale, ha introdotto la composizione monocratica in luogo di quella collegiale al fine di adeguare la disciplina del processo in questione alla riforma, operata dal decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, in base alla quale il giudice monocratico è la regola, mentre quello collegiale costituisce un’eccezione. A ciò non costituisce ostacolo, secondo la Corte, la disposizione dell’art. 50-bis cod. proc. civ., il quale, nell’elencare in via di eccezione, rispetto al successivo art. 50-ter, le cause in cui il tribunale decide in composizione collegiale, richiama i procedimenti in camera di consiglio disciplinati dagli articoli 737 e seguenti del codice di rito, salvo che sia altrimenti disposto, giacché il procedimento camerale disciplinato dall’art. 29 della legge 15 giugno 1942, n. 794, al quale rinvia la norma impugnata, non rientra tra quelli di cui agli articoli 737 e seguenti del codice.

Nella sentenza n. 52 la Corte, chiamata a scrutinare la disciplina anche in riferimento all’art. 3 Cost., ha affermato che «nessuna irragionevolezza è ravvisabile nella scelta del legislatore di affidare la cognizione di un provvedimento amministrativo ad un giudice monocratico» (in senso analogo v. le ordinanze n. 289 e 334, in tema di opposizioni ai decreti di liquidazione dei compensi agli ausiliari del magistrato).

Delicati problemi connessi al rispetto dei principî e criteri direttivi fissati nella legge-delega in materia sono stati affrontati anche nella sentenza n. 174 in relazione alla disciplina della procedura di restituzione e di vendita dei beni sequestrati. I profili di censura prospettati da diversi rimettenti erano molteplici e investivano sia la legge-delega (per denunciata carenza di criteri e principî direttivi) che le norme delegate (per mancato rispetto dei criteri e principî direttivi). La Corte, nel dichiararne l’infondatezza, ha sottolineato in particolare che, ai fini del riordino e dell’armonizzazione delle norme legislative e regolamentari nelle materie elencate dalle leggi annuali di semplificazione, non occorrono i criteri direttivi di merito specifici per ciascuna materia delegata, poiché i limiti di intervento del Governo nell’attuazione dell’opera di riordino della disciplina esistente sono fissati dal legislatore delegante attraverso principî e criteri direttivi, che, nella specie, sono rinvenibili nell’elenco del comma 2 dell’art. 7 della legge n. 50 del 1999, anche mediante il rinvio ai criteri fissati dall’art. 20 della legge n. 59 del 1997.

Con riferimento all’asserito contrasto delle norme delegate con i criteri e i principî direttivi posti dalla legge delega (in particolare, per aver disciplinato la procedura di restituzione non compresa nelle materie della delega) la Corte ha poi precisato che non è necessario che tale procedura sia richiamata espressamente nelle materie della delega, poiché i provvedimenti menzionati nell’allegato 1, n. 9) della legge n. 50 del 1999 sono destinati solo a delimitare la materia oggetto del riordino, in relazione alla quale il criterio di tassatività risulterebbe in contrasto con lo stesso titolo attribuito alla procedura suddetta. Invero, secondo un criterio di interpretazione logico-sistematico, la restituzione e la vendita, sono strettamente intrecciate, posto che il mancato buon esito della prima è il presupposto affinché si possa procedere alla seconda ed essendo entrambe sono collegate alla materia delle spese di giustizia, il cui ampio raggio è delimitato dai cosiddetti campione civile e penale di cui al n. 10) dell’allegato 1.

Nel rigettare le censure formulate in riferimento agli articoli 3 e 97 Cost. la Corte ha inoltre affermato, secondo un consolidato orientamento, che «il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, pur essendo riferibile anche agli organi dell’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo; mentre tale principio è estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale, che nella specie viene viceversa in rilievo».

1.8. Le procedure concorsuali

In materia di procedure concorsuali merita di essere segnalata la sentenza n. 301, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 82, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e 202 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, censurato nella parte in cui consente che la dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza successiva al decreto di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa di una banca sia pronunciata dopo un anno dalla data di emissione del decreto. Non sussiste, infatti, secondo la Corte, alcuna ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina dei limiti temporali per la dichiarazione di fallimento, per la evidente non comparabilità delle due situazioni messe a confronto dal rimettente in relazione al dies a quo dell’auspicato termine annuale per la dichiarazione dello stato di insolvenza, atteso che il giudice a quo assimila all’emissione del decreto di liquidazione coatta amministrativa sia l’iscrizione nel registro delle imprese della cessazione dell’attività dell’impresa individuale, sia la cancellazione dal registro delle imprese della società esercente un’impresa collettiva, sia la pubblicizzazione della perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile di una società fallita. Ma, mentre in tali ultimi tre casi viene portato a conoscenza dei terzi un fatto che esclude la sussistenza di un’attività imprenditoriale, nel caso della liquidazione coatta amministrativa ha inizio una procedura concorsuale, diretta solo alla liquidazione dei rapporti dell’impresa, con la conseguenza che la sopravvenuta sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza interviene in una procedura concorsuale già aperta.

Non è riscontrabile neppure alcuna intrinseca irragionevolezza nelle norme de quibus, che, a differenza di quanto ritenuto dal rimettente, non sono inidonee a salvaguardare il generale interesse alla certezza delle situazioni giuridiche: infatti, «se si considera che la società in liquidazione coatta amministrativa non è cancellata dal registro delle imprese e che l’accertamento della sussistenza dello stato di insolvenza al momento del decreto di liquidazione coatta amministrativa ben può essere basato su indagini effettuate dal commissario liquidatore, appare non irragionevole la scelta del legislatore di consentire, durante la pendenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa, l’emissione, senza limiti di tempo, di una sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza».

Deve in questa sede essere menzionata anche la già citata sentenza n. 460, con la quale la Corte si è pronunciata sulla natura del giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento ex art. 18 del regio decreto n. 267 del 1942; nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, primo comma, n. 4, del codice di procedura civile, censurato nella parte in cui non prevede l’obbligo di astensione dal partecipare al giudizio opposizione per il magistrato che abbia fatto parte del collegio che ha deliberato la sentenza dichiarativa di fallimento, la Corte ha affermato che «la fase dell’opposizione assume certamente valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae: non soltanto la sentenza dichiarativa di fallimento, ove non opposta, è idonea a passare in giudicato, non soltanto le condizioni che legittimano il provvedimento sono oggetto di rivalutazione in sede di opposizione, ma proprio la gravità delle conseguenze (non di rado irreversibili) derivanti dalla dichiarazione di fallimento rende evidente come la “sommarietà” della cognizione camerale vada intesa nel senso non già di “parzialità” o “superficialità”, bensì di “deformalizzazione”». Su tali basi la Corte ha dichiarato non fondata la sollevata questione, concludendo che «l’obbligo di astensione […] presuppone […] che il procedimento svolgentesi davanti al medesimo ufficio giudiziario sia solo apparentemente “bifasico”, mentre in realtà esso […] si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di “altro grado del processo”».

2. Il procedimento penale

La giurisprudenza costituzionale del 2005 nel settore del processo penale è stata contrassegnata da tre importanti decisioni: le sentenze n. 299 e n. 408 in tema di libertà personale, nelle quali la Corte ha affrontato il delicato problema della portata della garanzia prevista dall’art. 13, quinto comma, della Costituzione in ordine ai «limiti massimi della carcerazione preventiva», con riferimento in particolare alla disciplina del calcolo dei termini massimi di fase di custodia cautelare in caso di regresso del procedimento e al c.d. divieto di contestazioni a catena; nonché, la sentenza n. 63 in tema di prova testimoniale, con cui la Corte, in ossequio al principio di tutela della persona sancito dall’art. 2 della Costituzione, ha esteso al maggiorenne infermo di mente la garanzia, prevista per il minore infrasedicenne e per il minore, del ricorso alle modalità «protette» di assunzione della testimonianza.

La Corte ha inoltre esaminato, fra le altre, questioni concernenti la disciplina delle indagini preliminari, delle intercettazioni telefoniche (di comunicazioni di conversazioni di parlamentari), dei riti alternativi, delle nuove contestazioni dibattimentali, della prova e ancora, sebbene meno numerose rispetto all’anno precedente, questioni relative al procedimento davanti al giudice di pace. I parametri costituzionali in riferimento ai quali le questioni sono state sollevate sono essenzialmente costituiti dal «giusto processo» (secondo i diversi principî sanciti dall’art. 111 della Costituzione), dal diritto di difesa, dal principio di uguaglianza e di ragionevolezza.

E’ importante segnalare che anche in materia penale la Corte ha fatto un ampio ricorso a decisioni di manifesta inammissibilità per la natura interpretativa delle questioni sollevate, richiamando in più occasioni i giudici a quibus al dovere di interpretare la disciplina censurata in modo conforme a Costituzione (ordinanze n. 112, n. 211, n. 245, n. 306, n. 361, n. 381, n. 399).

2.1. Il giusto processo

Il principio della ragionevole durata del processo, espressamente sancito nell’art. 111, secondo comma, della Costituzione, può essere vulnerato «solamente» da «norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza, non essendo in altro modo definibile la durata ragionevole del processo se non in funzione della ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso e ne determinano i tempi». E’ quanto ha affermato la Corte decidendo, con la sentenza n. 148, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 97, quarto comma, del codice di procedura penale, censurato, in riferimento agli articoli 3, 111, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede che, nel corso del giudizio, possa essere designato come sostituto del difensore dell’imputato soltanto un avvocato iscritto nell’elenco di cui al secondo comma dello stesso articolo (ovvero dell’elenco predisposto dai consigli dell’ordine forense di ciascun distretto di corte d’appello).

Il rimettente si doleva di dover rinviare il processo ad una successiva udienza, al fine di non incorrere nella nullità prevista ai sensi dell’art. 178, lettera c), del codice di procedura penale, avendo constatato l’assenza del difensore dell’imputato e la mancanza di altro avvocato iscritto all’albo. La Corte ha osservato che la norma impugnata ha lo scopo di «assicurare all’imputato una difesa dotata di certi standard qualitativi, ritenuti evidentemente idonei dal legislatore a garantire l’effettività del diritto di difesa», secondo una valutazione non irragionevole e peraltro neppure censurata dal rimettente. Il fatto che «il ritardo nella definizione del processo che può, in ipotesi, derivare dal meccanismo di sostituzione del difensore previsto dalla norma» non risulti ingiustificato, in quanto voluto a tutela di un diritto garantito dalla Costituzione, «basta» secondo la Corte «ad escludere la lesione del principio di ragionevole durata del processo».

Per un richiamo al principio della ragionevole durata del processo in relazione a possibili epiloghi regressivi del procedimento penale si segnala, invece, l’ordinanza n. 236 nella quale la Corte, investita di questioni con le quali si censurava la disciplina che, in caso di modifica dell’imputazione in sede dibattimentale, preclude all’imputato di accedere al rito abbreviato in relazione alla nuova imputazione, ha ribadito che nell’attuale sistema la ripartizione della competenza a celebrare i riti alternativi tra giudice dell’udienza preliminare e giudice del dibattimento «risponde essenzialmente […] a ragioni di speditezza processuale, ragioni oggi assistite dal principio costituzionale della ragionevole durata del processo (ordinanza n. 486 del 2002)». A prescindere dalla praticabilità di soluzioni diverse, ha sottolineato la Corte, «la richiesta dell’attuale rimettente di trasmissione degli atti al pubblico ministero è comunque incongrua rispetto ad un sistema ora complessivamente improntato, per esigenze di speditezza e di economia, all’opposto principio di non regressione del procedimento» (per un cenno in questo senso v. anche l’ordinanza n. 452, infra 2.2).

Sui principî del contraddittorio e della parità tra le parti, di cui al secondo comma dell’art. 111 della Costituzione, va menzionata invece l’ordinanza n. 245 in tema di giudizio abbreviato non subordinato ad integrazione probatoria.

Il difensore dell’imputato aveva depositato nel corso dell’udienza preliminare il fascicolo delle investigazioni difensive, contenente il verbale dell’assunzione delle dichiarazioni rese da un teste, e aveva contestualmente chiesto il rito abbreviato. Il giudice per le indagini preliminari, su eccezione del pubblico ministero che lamentava di essere in tal modo privato della possibilità di controesaminare il teste, sollevava quindi questione di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 5, del codice di procedura penale per contrasto con l’art. 111, secondo comma, della Costituzione.

La Corte ha affermato «il principio secondo il quale a ciascuna delle parti va comunque assicurato il diritto di esercitare il contraddittorio sulle prove addotte ‘a sorpresa’ dalla controparte», in modo da «contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del contraddittorio», e ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile per non avere il rimettente esplorato la concreta praticabilità delle soluzioni pure offerte dall’ordinamento al fine di porre rimedio alla denunciata anomala sperequazione tra accusa e difesa (si richiamano al riguardo le sentenze n. 238 del 1991, n. 16 del 1994, n. 203 del 1992 circa la possibilità di disporre differimenti delle udienze).

Nell’ordinanza n. 307 la Corte, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità degli articoli 335, comma 1, e 407, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti nei confronti dell’imputato in epoca anteriore alla sua iscrizione nel registro degli indagati e successiva al momento nel quale ha comunque assunto la qualità di persona nei cui confronti sono svolte le indagini, ha escluso che la disciplina censurata si ponga in contrasto l’art. 111, terzo comma, della Costituzione, sotto il profilo che la ritardata iscrizione conculcherebbe il diritto della persona accusata di essere, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico.

Secondo la Corte, «dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato non scaturisce, difatti, alcun diretto obbligo informativo dell’organo dell’accusa nei confronti dell’indagato»: «l’anzidetto obbligo informativo del pubblico ministero si connette, per contro, nell’ambito delle indagini preliminari, solo al compimento di un “atto garantito”, ossia di un atto che – dovendo essere compiuto alla presenza del difensore – presuppone l’invio dell’informazione di garanzia (art. 369 del codice di procedura penale)».

Infine nell’ordinanza n. 137 si ribadisce, in linea con altri precedenti in termini, che l’art. 111, quinto comma, della Costituzione, nell’individuare «una deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio “per effetto di provata condotta illecita”, (ha) inteso riferirsi alle sole “condotte illecite” poste in essere “sul” dichiarante (quali la violenza, la minaccia o la subornazione), e non anche a quelle realizzate “dal” dichiarante stesso in occasione dell’esame in contraddittorio (quale, principalmente, la falsa testimonianza): e ciò alla luce sia della ratio del precetto costituzionale, che del suo necessario coordinamento con la previsione del secondo periodo del quarto comma del medesimo art. 111, che immediatamente lo precede».

La questione di costituzionalità, concernente l’art. 500, comma 4, del codice di procedura penale, era stata sollevata sul presupposto che gli articoli 3 e 111, quinto comma, della Costituzione imporrebbero di equiparare, in relazione al regime della acquisizione al fascicolo del dibattimento, le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dal testimone che in dibattimento risulti sottoposto a violenza, minaccia o subornazione, a quelle rese da chi in dibattimento scelga liberamente di deporre il falso o di tacere.

2.2. Le indagini preliminari

La disciplina delle indagini preliminari è stata oggetto di scrutinio di costituzionalità sotto il particolare aspetto delle conseguenze che derivano in punto di utilizzabilità degli atti di indagine dalla ritardata iscrizione della persona indagata nel registro delle notizie di reato. Questioni analoghe erano già state sottoposte all’esame della Corte, ma non decise nel merito per ragioni processuali (ordinanze n. 94 del 1998, 337 del 1996, n. 477 del 1994).

I dubbi di legittimità investivano detta disciplina sotto il duplice profilo: a) della mancata previsione della inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti nei confronti di un determinato soggetto dopo che è emersa la sua qualità di persona sottoposta alle indagini, ma prima della formale iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato (cioè degli atti che si collocano temporalmente «a monte» della iscrizione nel registro e quindi del termine delle indagini); b) della mancata previsione della inutilizzabilità degli atti investigativi compiuti dopo la scadenza del termine delle indagini, computato a partire dal momento in cui l’iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata (ovvero degli atti che si collocano temporalmente «a valle» della scadenza di tale termine).

Secondo i rimettenti, dalla ritardata iscrizione, non sanzionata dalla inutilizzabilità degli atti, sarebbero derivate nell’uno e nell’altro caso la violazione del principio di uguaglianza e del diritto di difesa, nonché la compromissione del diritto dell’imputato ad essere messo in condizione di conoscere tempestivamente l’esistenza di indagini a suo carico e a vedersi garantita una ragionevole durata del processo.

La Corte ha dichiarato rispettivamente la manifesta inammissibilità della questione, prospettata in riferimento alla mancata previsione dell’inutilizzabilità degli atti che si collocano temporalmente «a valle» della scadenza del termine delle indagini (ordinanza n. 306) e la manifesta infondatezza della questione con la quale si censurava la mancata previsione della inutilizzabilità degli atti che si collocano temporalmente «a monte» della iscrizione nel registro e quindi del termine delle indagini (ordinanza n. 307).

Nella prima decisione, la Corte ha ritenuto la questione prospettata di natura meramente interpretativa, sottolineando come non sia ravvisabile un indirizzo giurisprudenziale consolidato «sia in ordine alla concreta sindacabilità del dies a quo, dal quale far decorrere il termine di durata delle indagini preliminari, sia in ordine ai riflessi suscettibili di derivarne, quanto all’inutilizzabilità degli atti di indagine».

Nella seconda ordinanza la Corte è pervenuta ad una declaratoria di manifesta infondatezza, movendo dal rilievo che lo stesso giudice rimettente poneva a premessa fondante del quesito di costituzionalità l’affermazione (qualificata come «principio ampiamente condiviso») secondo cui la qualità di persona sottoposta alle indagini non discende dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato, ma, ove non emerga direttamente dalla notitia criminis, si acquisisce prima e a prescindere dall’iscrizione, in ragione della «direzione soggettiva» concretamente assunta dall’attività investigativa. Invero, se l’iscrizione nel registro delle notizie di reato ha una «valenza meramente ricognitiva, e non già costitutiva dello status di persona sottoposta alle indagini è di tutta evidenza come le garanzie difensive che la legge accorda a quest’ultima, in relazione ai singoli atti compiuti, debbano ritenersi pienamente operanti anche in assenza dell’iscrizione» sicché «il tardivo espletamento della formalità non può essere considerato fonte di pregiudizio al diritto di difesa». Come a dire che la garanzia difensiva va assicurata comunque, pena l’invalidità degli atti investigativi compiuti.

Del pari insussistente è stata, di conseguenza, ritenuta la denunciata disparità di trattamento fra indagati (tempestivamente o tardivamente iscritti) perché nell’ipotesi in cui il pubblico ministero procrastini indebitamente l’iscrizione nel registro, il problema che può porsi, secondo la Corte, attiene unicamente all’artificiosa dilazione del termine di durata massima delle indagini preliminari, e quindi alla possibile elusione della sanzione di inutilizzabilità che colpirebbe, ai sensi dell’art. 407, comma 3, del codice di procedura penale, gli atti di indagine collocati temporalmente «a valle» della scadenza del predetto termine, computato a partire dal momento in cui l’iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata; profilo questo che, oggetto dell’ordinanza n. 306, tuttavia resta per la Corte estraneo al thema decidendum della pronuncia in esame.

Infine la Corte ha ritenuto infondata anche la censura riferita all’art. 111, terzo comma, Cost., sotto il profilo che la ritardata iscrizione conculcherebbe il diritto della persona accusata di essere, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, sul rilievo che «dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato non scaturisce, difatti, alcun diretto obbligo informativo dell’organo dell’accusa nei confronti dell’indagato».

Sempre sul versante delle garanzie da assicurare alla persona che riveste sostanzialmente la qualità di indagato, la Corte, con l’ordinanza n. 348, ha dichiarato manifestamente infondata, nel solco di un non lontano precedente in termini (ordinanza n. 176 del 1999), la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 335, 409 e 410, comma 3, del codice di procedura penale, censurato, in riferimento all’art. 24, comma secondo, della Costituzione, nella parte in cui – a seguito di opposizione alla richiesta di archiviazione ex art. 410 cod. proc. pen. – non consente al giudice per le indagini preliminari di invitare il pubblico ministero che abbia chiesto l’archiviazione di un procedimento penale, formalmente a carico di ignoti, ma dal quale possa evincersi il nome della persona sottoposta ad indagini, ad iscrivere il nome della persona alla quale il reato è attribuito nel registro delle notizie di reato di cui all’art. 335 cod. proc. pen. prima dell’udienza ex art. 409, comma 2, cod. proc. pen.

Nell’ordinanza si ribadisce che l’art. 415, comma 2, cod. proc. pen. espressamente prevede che il giudice «se ritiene che il reato sia da attribuire a persona già individuata ordina che il nome di questa sia iscritta nel registro delle notizie di reato», sicché, a prescindere dal «tipo» di archiviazione richiesta dal pubblico ministero, spetta in ogni caso al giudice il potere – ove nel procedimento non figurino persone formalmente sottoposte alle indagini – di disporre, nella ipotesi in cui non ritenga di poter accogliere la richiesta di archiviazione, l’iscrizione, nel registro delle notizie di reato, del nominativo del soggetto cui il reato sia a quel momento da attribuire.

Alla disciplina della chiusura delle indagini preliminari si riferisce invece l’ordinanza n. 452, con la quale sono state decise nel senso della manifesta inammissibilità e della manifesta infondatezza tre diverse questioni di costituzionalità.

Con la prima questione veniva denunciata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 415-bis e 416, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui tali norme «non esplicitano», rispettivamente, né l’obbligo, a carico del pubblico ministero, di non esercitare l’azione penale mediante deposito della richiesta di rinvio a giudizio prima del compiuto decorso del termine di venti giorni di effettivo ed integrale deposito degli atti di indagine espletati a far data dalla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., né la sanzione di nullità per tale inadempienza.

Nel prospettare la questione il giudice per le indagini preliminari rimettente muoveva dall’asserita esistenza di un «diritto vivente», in forza del quale non risulterebbe configurabile alcuna nullità per l’ipotesi di richiesta di rinvio a giudizio inoltrata dall’organo dell’accusa prima del compimento effettivo del termine di deposito degli atti. La Corte, dopo aver sottolineato l’erroneità di tale presupposto, «smentito tanto dall’esistenza di diverse, contrarie soluzioni della giurisprudenza di merito, quanto dai principî generali affermati dalla giurisprudenza di legittimità, in ordine agli effetti della violazione del termine minimo di comparizione dell’imputato», «da ritenersi – al pari di quello stabilito nel comma 3 dell’art. 415-bis, cod. proc. pen. – preordinato all’esercizio del diritto di difesa», ha rilevato come il giudice a quo non abbia curato di analizzare preventivamente «un profilo decisivo della quaestio iuris posta al suo esame: se, cioè, il mancato rispetto del termine di legge per il deposito degli atti da parte del pubblico ministero, prima dell’inoltro della richiesta di rinvio a giudizio, possa o meno integrare una nullità di ordine generale a regime intermedio, riguardante “l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato”, ai sensi dell’art. 178, lettera c), cod. proc. pen.».

Di qui la manifesta inammissibilità della questione, avendo il rimettente omesso di esercitare «tutti i poteri interpretativi che la legge gli riconosce», onde pervenire ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina censurata.

Lo stesso rimettente aveva sollevato poi due questioni concernenti l’art. 418 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede un preliminare vaglio di «validità, diretta o derivata, della richiesta di rinvio a giudizio», nonché nella parte in cui non prevede, in presenza di una richiesta di rinvio a giudizio formalmente valida, un «vaglio di preliminare di ammissibilità» della medesima, lamentando per un verso l’irragionevolezza della obbligatoria fissazione dell’udienza preliminare pur in presenza di una richiesta di rinvio a giudizio affetta da nullità rilevabile d’ufficio e, per altro verso, sia la violazione del principio di ragionevole durata del processo, sia l’elusione del principio di soggezione del giudice solo alla legge, risultando impedita la declaratoria immediata di tali patologie in capo al giudice.

La Corte ha dichiarato infondate le questioni in relazione a tutti i parametri evocati, sottolineando, in primo luogo, che «al fondo della scelta legislativa della necessaria fissazione dell’udienza preliminare in esito all’inoltro della richiesta di rinvio a giudizio – ancorché ritenuta nulla o inammissibile – sta l’evidente intento di valorizzare la garanzia del contraddittorio attraverso la doverosa celebrazione dell’udienza» e, in secondo luogo, che l’udienza preliminare, lungi dal potersi qualificare come epilogo «superfluo o diseconomico», «impedisce, in realtà, ogni compressione del contraddittorio, inteso, anche quale “diritto delle parti all’ascolto” e, dunque, come possibilità di consentire la discussione in sede di udienza, pure in ordine al profilo di evidente nullità».

Con riferimento in particolare alla asserita violazione dell’art. 111 Cost. si sottolinea nell’ordinanza che «il meccanismo invocato in via additiva dal rimettente, oltre a non costituire scelta costituzionalmente obbligata, non può ritenersi soluzione destinata a produrre sempre e comunque effetti acceleratori, comportando infatti, in ogni caso, un epilogo regressivo del procedimento, a prescindere dai diversi esiti suscettibili di derivare dal contraddittorio».

2.3. La custodia cautelare

Tre sono state le pronunce nell’anno considerato in tema di custodia cautelare su altrettanti aspetti di estremo interesse: l’interrogatorio di garanzia della persona in stato di custodia cautelare (ordinanza n. 230), il computo dei termini massimi di fase di custodia cautelare in caso di regresso del procedimento (sentenza n. 299), il divieto di contestazioni a catena (sentenza n. 408).

Rinviando per la trattazione specifica delle sentenze n. 299 e 408 alla parte relativa alla libertà personale, si rammenta in questa sede che in dette pronunce viene in rilievo la garanzia sancita dall’art. 13, quinto comma, Cost. in ordine ai limiti massimi di durata della custodia cautelare e che, in particolare, con la sentenza n. 299 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 303, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dall’art. 304, comma 6, dello stesso codice, i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o in gradi diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito, e con la sentenza n. 408 è stata invece dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 297, terzo comma, del medesimo codice, nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedenza ordinanza.

Con la questione decisa con l’ordinanza n. 230 veniva invece prospettata la violazione del principio di uguaglianza e del diritto di difesa.

Nel profilare la quaestio il giudice a quo riteneva estensibile anche alla fase dibattimentale la ratio posta a fondamento delle declaratorie di incostituzionalità con cui l’obbligo di procedere all’interrogatorio dell’imputato in vinculis entro cinque giorni dall’esecuzione dell’ordinanza applicativa della misura carceraria – originariamente previsto solo nel corso delle indagini preliminari – era stato dapprima esteso fino alla trasmissione degli atti al giudice del dibattimento (sentenza n. 77 del 1997) e, di seguito, fino all’apertura del dibattimento (sentenza n. 32 del 1999).

Sulla base di tale premessa il rimettente censurava, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, gli articoli 294, comma 1, e 302 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono l’obbligo dell’interrogatorio di garanzia della persona in stato di custodia cautelare anche dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento.

La Corte ha rimarcato l’erroneità del presupposto interpretativo sotteso alla formulazione del dubbio di costituzionalità, sottolineando come l’interrogatorio «di garanzia» presenti «connotazioni difensive ben diverse, non soltanto a seconda dello stadio raggiunto dal procedimento […] ma anche in rapporto alle specifiche “attribuzioni” del giudice chiamato ad intervenire in quello specifico “segmento” del procedimento». Richiamando quanto già affermato nella sentenza n. 32 del 1999, la Corte ha rilevato che nella fase del giudizio il «costante controllo sulla indispensabilità del permanere della misura», che l’interrogatorio dovrebbe per sé solo assicurare si realizza appieno in virtù della «fisiologica coesistenza e assorbimento delle funzioni cautelari in quelle di merito»: invero «il giudice del dibattimento, quale giudice che “attualmente” potrà procedere all’esame dell’imputato in vinculis su ogni elemento dell’imputazione e sulle condizioni legittimanti lo status custodiae, ha in ogni momento della fase la possibilità di verificare sia la legittimità dello status, sia la permanenza delle condizioni che determinarono l’adozione della misura custodiale»; ferma restando – conclude la Corte – «la possibilità per l’imputato di rendere dichiarazioni in ogni stato del dibattimento, a norma dell’art. 494 cod. proc. pen., o di attivare i rimedi impugnatori de libertate, con il correlativo contraddittorio camerale».

2.4. Le intercettazioni telefoniche

Nella sentenza n. 163 la Corte ha affrontato il delicato tema delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni alle quali partecipi occasionalmente un membro del Parlamento (c.d. intercettazioni indirette o casuali) – materia che si iscrive nell’ambito della tutela accordata alla funzione parlamentare dall’art. 68, comma terzo, Cost. – escludendo che il meccanismo autorizzatorio previsto ai fini dell’utilizzazione delle intercettazioni in parola dalla legge n. 140 del 2003 («Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione, nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato») sia destinato ad operare anche a fronte della mera «riferibilità» al membro del Parlamento dei contenuti della conversazione intercettata, fuori dei casi di una sua partecipazione personale e diretta (v. più diffusamente nella parte relativa alle immunità parlamentari).

2.5. La prova testimoniale

Con la sentenza n. 63 la Corte ha esteso al maggiorenne infermo di mente, chiamato a testimoniare nell’ambito di processi penali per reati sessuali, la garanzia – prevista per il minore infrasedicenne e, rispettivamente, per il minore dall’art. 398, comma 5-bis, e dall’art. 498, comma 4-ter, cod. proc. pen. – del ricorso alle modalità «protette» di assunzione della prova testimoniale contemplate nelle norme menzionate, quando il giudice ne riscontri in concreto la necessità o l’opportunità.

La Corte ha ritenuto la disciplina censurata (articoli 498, comma 4-bis, 398, comma 5-bis, 498, comma 4-ter, del codice di procedura penale) contrastante con gli articoli 2 e 3 Cost., perché lesiva delle esigenze di tutela della personalità particolarmente fragile dell’infermo di mente, chiamato a testimoniare nell’ambito di processi penali per reati sessuali: invero, ha osservato la Corte, «rendere testimonianza in un procedimento penale, nel contesto del contraddittorio, su fatti e circostanze legati all’intimità della persona e connessi a ipotesi di violenze subìte, è sempre esperienza difficile e psicologicamente pesante» e «può tradursi in un’esperienza fortemente traumatizzante e lesiva della personalità» quando «chi è chiamato a deporre è persona particolarmente vulnerabile, più di altre esposta ad influenze e a condizionamenti esterni, e meno in grado di controllare tale tipo di situazioni». Né «d’altra parte l’adozione, in questi casi, di speciali modalità “protette” di assunzione della prova, quanto a luogo, ambiente, tempo, assistenza di persone che conoscano il teste o di esperti, nonché a modi concreti di procedere all’esame» si pone in contrasto «con altre esigenze proprie del processo, ma, al contrario, concorre altresì ad assicurare la genuinità della prova medesima, suscettibile di essere pregiudicata ove si dovesse procedere ad assumere la testimonianza con le modalità ordinarie».

In considerazione della «varietà possibile di situazioni», l’apprezzamento in concreto delle condizioni e delle circostanze che impongano o consiglino il ricorso, anche nel caso dell’infermo di mente, alle modalità previste dal legislatore nel caso di testimonianza del minore o del minore infrasedicenne deve, secondo la Corte, «essere rimesso al giudicante».

2.6. L’assenza e la contumacia dell’imputato

In concomitanza con il recente decreto legge n. 17 del 2005 (Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna), convertito nella legge 20 aprile 2005, n. 60, emanato a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Affaire Sejdovic c. Italie, la Corte torna significativamente a ribadire, con l’ordinanza n. 125, la «distinzione concettuale tra imputato contumace ed imputato assente», escludendo che la previsione della notifica dell’avviso di deposito con l’estratto del provvedimento conclusivo del giudizio al contumace e non anche all’imputato assente violi l’art. 3 della Costituzione, per disparità di trattamento rispetto al diverso regime previsto per la sentenza emessa a seguito del giudizio abbreviato (da notificarsi, ai sensi dell’art. 442, comma 4, cod. proc. pen., «all’imputato che non sia comparso»).

Nel lontano precedente espressamente richiamato (sentenza n. 18 del 1976), con cui era stata ritenuta esente da vizi di costituzionalità in relazione al dibattimento l’omologa norma del codice di procedura penale del 1930, la Corte aveva sottolineato come «il contumace, a differenza dell’assente, non ha manifestato alcuna volontà negativa in ordine alla comparizione e alla presenza in udienza e potrebbe, in caso estremo, anche ignorare l’esistenza del giudizio o la data del dibattimento», il che «spiega perché mentre e’ prevista la notifica, per estratto, della sentenza all’imputato contumace, non sia invece prescritto analogo adempimento per l’imputato assente».

Quanto alla diversa (e più ampia) garanzia prevista in favore dell’imputato assente in relazione al rito abbreviato, la Corte, da un lato, evidenzia i caratteri ampiamente derogatori che, in ragione della sua natura di procedimento speciale, connotano tale rito rispetto al giudizio ordinario, dall’altro, rileva che «la stessa distinzione concettuale tra imputato contumace ed imputato assente […] ben può comportare scelte differenziate, ai fini che qui rilevano, ove correlata ad un modello processuale che, come il giudizio abbreviato, si celebra in camera di consiglio, in una fase processuale che precede il dibattimento e secondo uno schema procedimentale idealmente caratterizzato dalla massima concentrazione».

2.7. I riti alternativi

Nella giurisprudenza della Corte è prevalso anche in passato un orientamento di favore nei confronti dei riti speciali; le numerose decisioni sui riti alternativi al dibattimento hanno in genere confermato le esigenze di semplificazione e di rapidità che ispirano le varie forme di definizione anticipata del procedimento e nello stesso tempo le giustificano sul piano costituzionale, sempre che risultino rispettate le garanzie essenziali del giusto processo.

In questa direzione, nell’anno preso in considerazione, significativa appare l’ordinanza n. 57 nella quale la Corte ha affermato che la richiesta di accesso al giudizio abbreviato rientra (anche dopo le modifiche apportate a tale rito dalla legge n. 479 del 1999) «tra gli atti così detti personalissimi, che il legislatore ha riservato in via esclusiva all’imputato, in quanto determina effetti particolarmente incisivi sulla sfera giuridica del soggetto, sia sul terreno sostanziale che su quello processuale» e ha quindi escluso che la disciplina censurata (art. 438, commi 3 e 5, del codice di procedura penale), nella parte in cui non prevede che la facoltà di richiedere il giudizio abbreviato possa essere esercitata anche dal difensore dell’imputato irreperibile non munito di procura speciale, violi gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione.

Più direttamente incentrata sul sistema degli avvertimenti all’imputato sulla facoltà di chiedere i riti alternativi è invece la questione decisa con ordinanza n. 309 nel senso della manifesta infondatezza. Oggetto della questione è l’art. 419, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare debba contenere, a pena di nullità, l’avvertimento che l’imputato, qualora ne ricorrano i presupposti, può presentare, prima delle conclusioni delle parti, richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena. Il rimettente riteneva ingiustificata la diversità della disciplina censurata rispetto a quella prevista dall’art. 552, comma 1, lettera f) per il procedimento a citazione diretta.

La Corte, in una articolata ordinanza nella quale ricostruisce l’evoluzione della disciplina (dal suo assetto originario alle più recenti modifiche introdotte dalla legge n. 479 del 1999) e parallelamente passa in rassegna le varie pronunce che in relazione allo specifico tema in esame si sono susseguite nel tempo, afferma che, eliminata la struttura bifasica che sino alla legge n. 479 del 1999 aveva caratterizzato il decreto di citazione a giudizio del pubblico ministero, il mantenimento nell’art. 552, comma 1, lettera f), cod. proc. pen. dell’avvertimento a pena di nullità circa la facoltà di chiedere i riti alternativi, presumibilmente dovuto «a un difetto di coordinamento» delle novelle legislative (d.lgs. n. 51 del 1998 e l. n. 479 del 1999), non risulta più assistito «da alcuna ragione di rilievo costituzionale».

Al riguardo si ribadisce, nel solco di precedenti decisioni, che «l’omessa previsione dell’avvertimento a pena di nullità circa la facoltà di chiedere i riti alternativi non viola gli articoli 3 e 24 Cost., in quanto, essendo il termine di decadenza posto all’interno di fasi quali il dibattimento o l’udienza preliminare, l’informazione circa la facoltà di chiedere i riti è comunque assicurata dalla presenza obbligatoria e dall’assistenza del difensore».

Secondo la Corte è perciò da escludere che il rispetto dei principî desumibili dall’art. 3 della Costituzione imponga di adottare per il decreto di fissazione dell’udienza preliminare una disciplina analoga a quella dell’art. 552 del codice di procedura penale.

Una interessante questione concernente il procedimento per decreto e, in particolare, il rispetto del termine di sei mesi (ritenuto da una consolidata giurisprudenza di legittimità di natura ordinatoria) per la presentazione della richiesta di decreto penale di condanna è stata dichiarata manifestamente inammissibile per indeterminatezza del petitum (ordinanza n. 188). Il quesito di costituzionalità riguardava il possibile contrasto tra la corrente interpretazione della norma sottoposta a scrutinio e il diritto di difesa, nonché il principio della ragionevole durata del processo e quello del diritto dell’imputato di essere tempestivamente informato dell’accusa a suo carico di cui all’art. 111, secondo e terzo comma, Cost.

La Corte non ha esaminato nel merito la questione osservando come il rimettente si fosse limitato a devolvere alla Corte «sia la scelta del tipo di sanzione da configurare, in presenza del superamento del limite temporale stabilito dall’art. 459, comma 1, del codice di rito; sia la scelta dell’atto o degli atti su cui essa dovrebbe produrre effetti; sia, infine, la scelta delle conseguenze che, quale epilogo delle già indicate opzioni, dovrebbero scaturire sul piano processuale».

2.8. Il procedimento di esecuzione

Con l’ordinanza n. 211 la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile una questione sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Corte di cassazione sul presupposto che la norma impugnata (art. 573 cod. proc. pen.) non consenta al giudice dell’esecuzione di concedere la sospensione condizionale della pena quale «provvedimento conseguente» alla revoca per abolitio criminis della sentenza di condanna che aveva costituito in sede di cognizione la causa ostativa al riconoscimento di detto beneficio.

La Corte ha osservato che la questione nasce da un contrasto interpretativo interno alla stessa giurisprudenza riguardo alla portata da annettere alla formula «provvedimenti conseguenti», che figura nell’art. 673, comma 1, del codice di rito, contrasto che la rimettente ritiene erroneamente di risolvere non attraverso il consolidamento della opzione ermeneutica ritenuta conforme a Costituzione, se del caso devolvendo alle Sezioni unite la composizione del contrasto stesso, ma sollevando un dubbio di costituzionalità sull’interpretazione contraria al fine di ottenere un avallo a favore di una interpretazione contro un’altra.

La Corte ha quindi ritenuto assorbito ogni ulteriore rilievo, con riguardo in particolare alla effettiva possibilità di assumere la disciplina di cui all’art. 671, comma 3, cod. proc. pen. – in forza della quale il giudice dell’esecuzione può concedere la sospensione condizionale della pena nel caso di applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato in sede esecutiva – come parametro normativo di raffronto nella materia in esame, ai fini della verifica del rispetto del principio di uguaglianza. Possibilità del resto già negata, in ossequio ai «principî di rigida ripartizione delle attribuzioni tra giudice del fatto e giudice della pena e di intangibilità del giudicato», nell’ordinanza n. 360 del 2002 con riferimento a questione sostanzialmente analoga, sia pure in presenza «di un quadro interpretativo giurisprudenziale diverso dall’attuale».

2.9. Il procedimento davanti al giudice di pace

Le decisioni che hanno avuto ad oggetto norme che disciplinano il procedimento davanti al giudice di pace, numericamente inferiori rispetto al 2004, si collocano nel solco delle precedenti. La Corte, nel rigettare questioni di costituzionalità proposte in riferimento a diversi aspetti della disciplina in esame (riti alternativi, conclusione delle indagini preliminari, formulazione dell’imputazione, citazione a giudizio), ne ha ribadito l’assoluta peculiarità, sottolineando come tale procedimento, connotato da «finalità di snellezza, semplificazione e rapidità», configuri «un modello di giustizia, non comparabile con il procedimento per i reati di competenza del tribunale» (ordinanza n. 85), e comunque tale «da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario» (ordinanza n. 228).

Sulla base di tali rilievi di ordine generale sono state dichiarare manifestamente infondate censure mosse a varie norme del d.lgs. n. 274 del 2000 in riferimento agli articoli 3 e 24 (per disparità di trattamento e lesione del diritto di difesa), nonché in riferimento agli articoli 76 e 77 (per violazione dei principî e criteri direttivi della legge delega n. 468 del 1999) Cost.

Così con l’ordinanza n. 228 (e successivamente con l’ordinanza n. 312) la Corte ha ritenuto non contrastante con i summenzionati parametri l’art. 2 del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non consente il ricorso ai riti alternativi e, in particolare, all’applicazione della pena su richiesta delle parti nel procedimento davanti al giudice di pace.

In particolare, in riferimento all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., la Corte ha evidenziato che «il decreto legislativo n. 274 del 2000 contempla forme alternative di definizione, non previste dal codice di procedura penale, che si innestano in un procedimento che concerne reati di minore gravità, con un apparato sanzionatorio del tutto autonomo, in cui il giudice deve favorire la conciliazione delle parti», ponendo l’accento sulla considerazione che «l’istituto del patteggiamento, così come delineato nel codice di procedura penale, mal si concilierebbe con il costante coinvolgimento della persona offesa nel procedimento davanti al giudice di pace, anche con riferimento alle forme alternative di definizione del procedimento».

Quanto al denunciato eccesso di delega la Corte, richiamando la propria giurisprudenza secondo cui «i principî e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte operate dal legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge-delega», ha sottolineato che «l’art. 17, comma 1, della legge n. 468 del 1999 si limita a raccomandare al legislatore delegato di “tenere conto”, quale modello di riferimento, del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, nonché a prevedere lo svolgimento del giudizio in forma semplificata (lettera l), la introduzione di forme di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta e di ipotesi di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie o risarcitorie, nonché l’obbligo del giudice di procedere al tentativo di conciliazione (lettere f, g e h)» e che «in attuazione di tali principî il legislatore delegato ha delineato un procedimento già di per sé caratterizzato da una accentuata semplificazione rispetto al procedimento davanti al giudice monocratico». Secondo la Corte, dunque, «è proprio la struttura complessiva del procedimento davanti al giudice di pace, accompagnata da specifiche forme di definizione alternativa, che consente di escludere che la omessa previsione del patteggiamento integri una violazione della legge-delega».

Nella medesima direzione si segnalano le ordinanze n. 85 e n. 415, nonché le ordinanze n. 86 e n. 333, con cui hanno trovato conferma precedenti decisioni di manifesta infondatezza rese rispettivamente in tema di avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis cod. proc. pen.) e di citazione a giudizio davanti al giudice di pace (sotto il profilo della omessa previsione dell’avviso all’indagato della possibilità di estinguere il reato attraverso condotte riparatorie ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000).

In relazione all’aspetto affatto diverso dei complessi raccordi fra ricorso immediato della persona offesa, prerogative del pubblico ministero e poteri del giudice adito, la Corte – investita di questioni con le quali i rimettenti lamentavano, evocando gli articoli 3, 24, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, che il giudice, pur ritenendo ammissibile il ricorso nonostante il parere contrario del pubblico ministero, non avrebbe la possibilità di convocare le parti in udienza, come previsto dall’art. 27 del d.lgs. n. 274 del 2000, non avendo l’organo dell’accusa formulato l’imputazione che deve essere trascritta nel decreto, e sarebbe quindi costretto a disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero con il conseguente profilarsi di una situazione di stallo – ha dichiarato le questioni proposte manifestamente inammissibili, non avendo i giudici a quibus verificato la praticabilità delle soluzioni offerte dall’ordinamento al fine di superare i denunciati vizi di costituzionalità (ordinanze n. 361e n. 381).

Invero, in un caso almeno il rimettente palesava di non ritenere praticabili soluzioni diverse, quali la diretta formulazione dell’imputazione da parte dello stesso giudice di pace, ovvero la trascrizione dell’«addebito» contenuto nel ricorso, ovvero ancora l’ordine al pubblico ministero di formulare l’imputazione, in analogia a quanto disposto dall’art. 17, comma 4, del d.lgs. non 274 del 2000 in caso di richiesta non accolta di archiviazione. La Corte tuttavia, nel richiamare all’attenzione del rimettente la circostanza che l’art. 17, comma 4, del decreto legislativo n. 274 del 2000 potrebbe trovare applicazione anche nel caso in cui il giudice, dopo aver trasmesso gli atti al pubblico ministero perchè proceda con le forme ordinarie, ritenga di non condividere una eventuale richiesta di archiviazione da quest’ultimo formulata, stigmatizza l’operato del giudice a quo per non aver utilizzato «tutti i poteri interpretativi che la legge gli riconosce, specie in un contesto in cui sulla disciplina sottoposta a censura si confrontano contrastanti indirizzi giurisprudenziali di legittimità non ancora stabilizzati» (ordinanza n. 361).

Manifestamente infondata è stata invece dichiarata (sempre con l’ordinanza n. 381) una questione di costituzionalità che, pur iscrivendosi nell’ambito della stessa tematica, assume una propria specifica autonomia per i delicati problemi di compatibilità che la disciplina del ricorso immediato (nei suoi aspetti evocativi di una «azione privata»), pone in riferimento all’art. 112 Cost. Il rimettente censurava infatti l’art. 25 del decreto legislativo n. 274 del 2000, sul presupposto che, «in caso di ricorso della persona offesa, il pubblico ministero sarebbe obbligato a formulare l’imputazione a semplice richiesta del ricorrente, senza avere la possibilità di svolgere indagini per valutare i fatti e verificarne la fondatezza, si che gli sarebbe sottratto “l’effettivo esercizio dell’azione penale”, che avrebbe nel ricorrente l’unico “dominus”».

La Corte disattende la prospettazione del rimettente rilevando come, a norma dell’art. 21, comma 2, lettere f) e h), del decreto legislativo n. 274 del 2000, il ricorso della persona offesa deve contenere, a pena di inammissibilità,«la descrizione, in forma chiara e precisa, del fatto che si addebita alla persona citata in giudizio, con l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati» e «l’indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta, nonché delle circostanze su cui deve vertere l’esame dei testimoni e dei consulenti tecnici» e che pertanto ««sulla base di tali elementi il pubblico ministero è posto in grado di svolgere gli opportuni controlli sul contenuto del ricorso – anche alla luce dei documenti e delle altre eventuali fonti di prova che il ricorrente è tenuto ad indicare nel ricorso stesso, cioè in un momento anticipato rispetto al rito ordinario – al fine di sciogliere l’alternativa, prevista dall’art. 25 del citato decreto legislativo, tra il parere contrario alla citazione per inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso e la formulazione dell’imputazione». E’ evidente quindi, si sottolinea nell’ordinanza, che «tale disciplina non sottrae al pubblico ministero “l’effettivo esercizio dell’azione penale” e non si pone in contrasto con l’art. 112 Cost., dal momento che il rappresentante della pubblica accusa, pur senza svolgere direttamente alcuna indagine, è tenuto a formulare l’imputazione solo in presenza di una richiesta di citazione a giudizio della persona offesa ritenuta dallo stesso pubblico ministero, all’esito della verifica sui contenuti del ricorso, non inammissibile e non manifestamente infondata».

3. Il contenzioso tributario

In materia di contenzioso tributario si segnala la sentenza n. 274, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 per contrasto con il principio di ragionevolezza: la norma, stabilendo che, in caso di estinzione del giudizio per definizione delle pendenze tributarie o per qualsiasi altra causa di cessazione della materia del contendere, le spese restano a carico della parte che le ha anticipate, rende inoperante il principio, cui è improntato il processo tributario, di responsabilità per le spese di giudizio, principio in forza del quale la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese, salvo il potere di compensazione della commissione tributaria.

Secondo la Corte, «la compensazione ope legis nel caso di cessazione della materia del contendere […] si traduce in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento (il ritiro dell’atto, nel caso dell’amministrazione, o l’acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni e, corrispondentemente, in un del pari ingiustificato pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore».


Capitolo III

L’ordinamento della Repubblica

 

Sezione I

L’ordinamento dello Stato

1. Il Parlamento

La giurisprudenza costituzionale è intervenuta su vari aspetti connessi alle funzioni ed alla collocazione nel sistema del Parlamento e dei parlamentari. L’insieme più cospicuo di decisioni riguarda la prerogativa dell’insindacabilità delle opinioni espresse da parte dei parlamentari; non mancano, tuttavia, statuizioni concernenti altri profili.

1.1. La disciplina dell’elettorato passivo dei parlamentari

Nella sentenza n. 456, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, secondo periodo, della legge della Regione Puglia 4 novembre 2004 n. 20 (Nuove norme in materia di riordino delle Comunità montane), nella parte in cui prevedeva che «la carica di presidente dell’organo esecutivo [era] incompatibile con quella di parlamentare».

Onde argomentare una siffatta declaratoria, la Corte ha ribadito che l’art. 65 della Costituzione – stabilendo che «la legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore» – pone una precisa riserva di legge statale e che, quindi, è precluso al legislatore regionale, anche se fornito, come nel caso di specie, di potestà legislativa residuale in materia di ordinamento delle Comunità montane, di determinare le cause di incompatibilità (oltre che di ineleggibilità) con l’ufficio di deputato o di senatore (sentenze nn. 127 del 1987 e del 1966).

1.2. L’insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari

Le pronunce della Corte che nel 2005 hanno deciso conflitti ex art. 68, primo comma, della Costituzione si inseriscono nel quadro della precedente giurisprudenza, per lo più nel senso della continuità.

In particolare, nelle sentenze nn. 28 e 164 la Corte, dopo aver ribadito che, «in caso di dichiarazioni rese extra moenia, ai fini della sussistenza del nesso funzionale è necessario vi sia quantomeno una sostanziale corrispondenza di significati tra tali dichiarazioni e le opinioni precedentemente espresse in Parlamento, nell’esercizio di attività parlamentari tipiche», ha escluso che la garanzia prevista dal primo comma dell’art. 68 della Costituzione possa ritenersi operante in forza della mera riconducibilità delle dichiarazioni rese extra moenia e degli atti tipici ad una medesima «unità tematica». Al riguardo, ha infatti affermato la Corte, «è sufficiente osservare che l’unità tematica finirebbe, per la sua latitudine e genericità, col rendere del tutto evanescente quella corrispondenza, sia pure sostanziale, tra le due categorie di atti richiesta dalla costante giurisprudenza di questa Corte e, quindi, la stessa necessità del nesso funzionale»: invero, «neppure l’interpretazione più lata della garanzia della insindacabilità potrebbe indurre a ritenere che un atto parlamentare contenente la denuncia di un fatto possa rendere immuni dichiarazioni che contengono valutazioni su un fatto diverso».

Il problema se le dichiarazioni rese da un parlamentare «fuori dell’ambito parlamentare» possano considerarsi coperte dalla garanzia della insindacabilità, qualora divulghino e riproducano atti compiuti, nell’esercizio di funzioni parlamentari, da membri del Parlamento diversi dal loro autore (già risolto in senso negativo dalla sentenza n. 347 del 2004, peraltro richiamata dalla più recente sentenza n. 164 sopra menzionata), è tornato a porsi all’attenzione della Corte con riferimento, in particolare, ad atti tipici posti in essere da altro parlamentare appartenente al medesimo gruppo (sentenza n. 193) o al medesimo partito (sentenza n. 235).

Nel conflitto deciso dalla sentenza n. 193, la Camera, «nel mentre sollecita[va] una revisione in termini generali dell’indirizzo espresso» dalla sentenza n. 347 del 2004, osservava che la Corte «non ha mai avuto occasione di pronunciarsi sul caso (costituente una species dell’altro) del parlamentare che esterni l’oggetto di atto tipico di altro membro del suo gruppo» e al riguardo, richiamando la sentenza n. 298 del 2004, poneva l’accento sul ruolo attribuito dal diritto positivo al gruppo parlamentare, come «riflesso istituzionale del pluralismo politico». La Corte ha rilevato che «le due ipotesi – nelle quali si articola il caso della riproduzione extra moenia di dichiarazioni altrui – hanno tuttavia in comune un elemento che, in quanto logicamente preliminare, impedisce in questa sede – oltre che il sollecitato riesame della prima e più generale questione (riproduzione di atti di un qualsiasi altro parlamentare) – l’esame della specifica questione riguardante l’appartenenza (dell’autore originario e dell’esternatore extra moenia) al medesimo gruppo parlamentare: entrambe le ipotesi, infatti, richiedono che vi sia, quanto meno ed in ogni caso, una sostanziale corrispondenza tra le dichiarazioni rese extra moenia e quelle rese – da un altro qualsiasi parlamentare ovvero da altro parlamentare del medesimo gruppo – intra moenia», circostanza che la stessa Corte esclude si verifichi nella specie.

La mancanza di una corrispondenza sostanziale di contenuti ha dunque lasciato impregiudicata la questione in esame. A conclusioni analoghe è giunta la sentenza n. 235, sia pure, in questo caso, per l’impossibilità di accertare, in assenza dei resoconti delle audizioni di fronte al Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato indicate dalla Camera a sostegno dell’insindacabilità, la sostanziale corrispondenza di contenuti.

In argomento va menzionata, peraltro, anche la sentenza n. 146, nella quale a venire in rilievo ai fini della applicabilità del primo comma dell’art. 68 della Costituzione erano, tra gli altri, anche atti ispettivi posti in essere dalla persona offesa nel procedimento penale da cui originava il conflitto: la Corte, nel ribadire quanto affermato in via generale dalla sentenza n. 347 del 2004, ha osservato che «risulterebbe davvero singolare che l’esistenza del “nesso funzionale” – ai fini dell’applicazione della guarentigia di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione – fosse ricavabile da atti parlamentari tipici posti in essere non già dall’autore delle dichiarazioni asseritamene offensive, ma dal destinatario di esse».

La sentenza n. 176 si segnala invece sotto due diversi profili.

La Corte ha, in primo luogo, ribadito che «la qualifica di attività parlamentare non [è] subordinata al suo estrinsecarsi necessariamente in atti tipici della funzione o alla sua localizzazione e che sono quindi coperte dall’immunità anche le divulgazioni all’esterno del Parlamento di opinioni espresse nello svolgimento di attività qualificabili come parlamentari» (nella specie, l’atto del quale le esternazioni, oggetto dell’imputazione, avrebbero rappresentato la mera divulgazione, era costituito dall’intervento, dello stesso parlamentare che aveva rilasciato le dichiarazioni asseritamente diffamatorie, in sede di discussione in Assemblea sul rilascio dell’autorizzazione a procedere nei propri confronti).

Per altro verso, invece, la Corte, disattendendo la tesi della difesa del Senato «secondo la quale l’immunità di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione avrebbe, in riferimento ai senatori a vita, un’ampiezza maggiore di quella attribuita ai parlamentari eletti», ha affermato che essa «non trova riscontro in alcuna norma costituzionale, né essa può essere desunta dalla asserita maggior importanza del titolo d’investitura dei senatori a vita rispetto a quello dei senatori eletti», sicché è alla stregua dei criteri elaborati in via generale dalla giurisprudenza costituzionale «che deve essere accertata e valutata l’esistenza degli elementi di fatto alla quale è subordinato il riconoscimento dell’immunità».

Infine, nella sentenza n. 223, la Corte, onde riconoscere la sussistenza della garanzia di cui al primo comma dell’art. 68 della Costituzione, pone l’accento sulle peculiarità che connotano il procedimento per l’autorizzazione all’esecuzione di provvedimenti limitativi della libertà personale prevista dal terzo comma del medesimo articolo, giungendo ad affermare che le dichiarazioni rese all’esterno della sede del Parlamento dal deputato o senatore destinatario della misura cautelare da autorizzare – mentre è in corso il procedimento ma prima di essere ascoltato dalla Giunta (o di avere altrimenti esercitato al riguardo le sue funzioni parlamentari) – per sostenere che la richiesta del giudice non può essere accolta, essendo ispirata da intento persecutorio, «risultano collegate alla pendenza di quel procedimento parlamentare – e a quanto l’interessato potrà dire in Parlamento – sì da restarne in tal senso qualificate».

La Corte ha osservato che «l’autorizzazione è l’atto conclusivo di un particolare procedimento parlamentare, che si apre con l’arrivo alla Camera di appartenenza della richiesta di autorizzazione all’esecuzione di una misura limitativa della libertà personale di un suo membro, formulata dal giudice che l’ha disposta, e prosegue con l’immediata trasmissione degli atti da parte del Presidente di quella Camera alla competente Giunta, la quale procede nei modi e nei tempi stabiliti dai regolamenti parlamentari».

Secondo la Corte, «siffatta peculiare disciplina connota incisivamente il procedimento parlamentare in esame, specie per quanto concerne la sua apertura (determinata non da una libera scelta della Camera o del Senato, ma dall’iniziativa di un organo appartenente ad altro potere dello Stato) ed il suo svolgimento (rigidamente scandito da termini ristretti e tassativi, in vista della sua obbligatoria conclusione con una proposta da sottoporre all’Assemblea)», con la conseguenza che «questi specifici caratteri» non possono non riverberarsi sulle dichiarazioni che, mentre è in corso il procedimento, il deputato o senatore destinatario eventualmente renda all’esterno.

Ne deriva che esse «devono ritenersi per ciò solo coperte dalla garanzia di insindacabilità prevista dal primo comma dell’art. 68 della Costituzione, a differenza delle altre dichiarazioni rese extra moenia da parlamentari al di fuori di una puntuale relazione con il procedimento di cui al secondo comma dello stesso articolo, che di tale garanzia possono fruire solo ove ricorrano gli ulteriori requisiti elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte».

Le tematiche concernenti la prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione sono state oggetto anche di due giudizi sollevati in via incidentale.

Nel primo, deciso con l’ordinanza n. 136, si è dichiarata la manifesta infondatezza di questioni identiche a quelle già dichiarate infondate con la sentenza n. 120 del 2004, con la quale si era osservato che l’art. 3 della legge 20 giugno 2003, n. 140, nonostante la più ampia formulazione lessicale, può considerarsi di attuazione, in quanto finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, senza innovare affatto rispetto alla predetta disposizione costituzionale, ma limitandosi a rendere esplicito il contenuto della disposizione medesima.

L’ordinanza n. 311 ha invece dichiarato manifestamente inammissibile per omessa motivazione in ordine ai parametri costituzionali evocati, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 8, della legge 20 giugno 2003, n. 140, nella parte in cui «obbliga il giudice ad uniformarsi alla delibera del Parlamento, assolvendo il convenuto da ogni responsabilità in merito ai fatti per cui è causa, in ragione di un privilegio privo di ogni giustificazione istituzionale». Nel testo dell’ordinanza di rimessione, il dubbio di costituzionalità era prospettato in modo meramente assertivo, tanto più in quanto le argomentazioni svolte dal giudice a quo riguardavano esclusivamente il conflitto di attribuzione sollevato con lo stesso atto, conflitto dichiarato ammissibile con ordinanza di questa Corte n. 56 del 2005.

1.3. Le immunità previste dal secondo comma dell’art. 68: le intercettazioni «indirette»

Chiamata a giudicare in un giudizio in via incidentale, come già con la sentenza n. 120 del 2004, della legittimità costituzionale della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), la Corte nella sentenza n. 163 ha affrontato il delicato tema delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni alle quali partecipi occasionalmente un membro del Parlamento (c.d. intercettazioni indirette o casuali).

La questione era stata sollevata dalla Corte di cassazione che censurava, in riferimento agli articoli 3, 24 e 112 della Costituzione, l’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e l’art. 7 della legge n. 140 del 2003.

La norma «a regime» (l’art. 6) sottoposta a scrutinio di costituzionalità, disciplina le intercettazioni, effettuate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, di conversazioni o comunicazioni «alle quali hanno preso parte membri del Parlamento» («intercettazioni usualmente qualificate come “indirette” o “casuali”, in quanto si presuppone che la captazione avvenga nella cornice di un’attività investigativa che non ha ab origine come destinatario il parlamentare»), stabilendo che il giudice per le indagini preliminari, qualora, su istanza di una parte processuale e sentite le altre parti, ritenga necessario utilizzare le intercettazioni in parola, debba richiedere, nei dieci giorni successivi alla relativa decisione, l’autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene (o apparteneva al momento in cui le conversazioni o comunicazioni sono state intercettate), e che, in caso di diniego dell’autorizzazione, la documentazione delle intercettazioni debba essere distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego, e tutti i verbali e le registrazioni di comunicazioni acquisiti in violazione del disposto dello stesso art. 6 debbano essere dichiarati inutilizzabili dal giudice, in ogni stato e grado del processo.

La Corte di Cassazione muoveva dalla «premessa interpretativa per cui – alla luce tanto della valenza attribuibile alla formula verbale «prendere parte», che della ratio di tutela della riservatezza del parlamentare sottesa alla disciplina considerata – la norma sarebbe destinata a trovare applicazione non soltanto nel caso di captazione fortuita di conversazioni o comunicazioni cui il membro del Parlamento abbia preso parte personalmente; ma anche quando l’intercettazione abbia ad oggetto conversazioni o comunicazioni di altra persona che si sia limitata a riferire, quale mero «nuncius», un messaggio del parlamentare»; di qui la rilevanza della questione nel giudizio a quo, nel quale si discuteva della «legittimità di una misura cautelare personale fondata esclusivamente sui risultati di intercettazioni «casuali» di telefonate che il ricorrente – privo della qualità di parlamentare – avrebbe effettuato in veste, per l’appunto, di semplice latore di messaggi provenienti da un senatore».

Tuttavia la Corte rimettente, pur escludendo, per altro verso, che la sfera di operatività della disciplina censurata possa essere circoscritta – nell’ottica di un’interpretazione «costituzionalmente orientata» – ai soli casi in cui, a seguito dell’intercettazione, il parlamentare assuma la qualità di persona sottoposta alle indagini, riteneva che la disciplina stessa eccedesse «l’ambito della tutela accordata alla funzione parlamentare dall’art. 68, terzo comma, Cost.: tutela consistente nella previsione per cui, senza l’autorizzazione della Camera alla quale appartengono, i membri del Parlamento non possono essere sottoposti “ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni”». A giudizio della rimettente «a fronte sia del dato letterale (l’impiego del verbo “sottoporre”), che dell’“impianto complessivo” della norma costituzionale – da cui trasparirebbe l’intento di offrire al parlamentare una speciale protezione per atti da lui direttamente compiuti o che lo riguardano personalmente – l’anzidetta tutela dovrebbe ritenersi infatti limitata alle sole intercettazioni “dirette”: senza che possa invocarsi, in senso contrario, l’inciso “in qualsiasi forma”, trattandosi di locuzione riferibile esclusivamente alle diverse modalità di captazione dei messaggi e ai differenti mezzi di comunicazione intercettati».

La collocazione della disciplina denunciata al di fuori della tutela accordata alla funzione parlamentare dall’art. 68, comma terzo, della Costituzione, era poi alla base del prospettato contrasto con gli articoli 3 (per disparità di trattamento sotto vari profili), 24 (per l’irreparabile pregiudizio del diritto di difesa non soltanto della parte civile, ma anche dello stesso imputato, avuto riguardo all’ipotesi in cui le conversazioni intercettate risultassero idonee a scagionarlo o potessero essere comunque «rilette», a seguito di successive acquisizioni, in senso a lui favorevole) e 112 (per la compressione dell’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale che deriverebbe dall’impossibilità di utilizzare i risultati del mezzo investigativo in oggetto) della Costituzione.

Il dubbio di costituzionalità si estendeva anche all’art. 7 della legge n. 140 del 2003, nella parte in cui rende applicabili le disposizioni dell’art. 6 ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della suddetta legge, allorché – come nel giudizio a quo – le intercettazioni non siano già state utilizzate in giudizio

La Corte ha dichiarato la questione inammissibile perché sollevata sulla base di una premessa interpretativa, che fonda il giudizio di rilevanza, «non condivisibile e comunque sostanzialmente contraddittoria rispetto al tenore complessivo del quesito».

In particolare, sotto il primo profilo, la Corte ha rilevato che, «contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza di rimessione, alla stregua del comune significato dell’espressione, “prende parte” ad una conversazione o comunicazione chi interloquisce in essa non colui su mandato del quale uno degli interlocutori interviene, sia pure nella veste di mero portavoce». Nel proporre il quesito di costituzionalità la rimettente avrebbe trascurato, secondo la Corte, «un argomento di segno contrario alla soluzione interpretativa proposta, ricavabile dall’iter parlamentare della legge n. 140 del 2003: vale a dire l’avvenuta soppressione, ad opera del Parlamento, della previsione – contenuta nel testo originario dei progetti di legge – che estendeva il regime dell’autorizzazione anche alle intercettazioni, effettuate nel corso di procedimenti riguardanti terzi, di conversazioni o comunicazioni nelle quali si fosse semplicemente “fatta menzione” di membri del Parlamento». Invero, «ancorché il “far menzione” di un parlamentare sia indubbiamente concetto più ampio e generico rispetto al fungere da portavoce del medesimo, la caduta della previsione ora ricordata potrebbe essere comunque letta come indice dell’intento del legislatore ordinario di escludere che il meccanismo autorizzatorio sia destinato a scattare anche a fronte della mera “riferibilità” al membro del Parlamento dei contenuti della conversazione intercettata, fuori dei casi di una sua partecipazione personale e diretta ad essa».

Sotto diverso profilo, inoltre, «il percorso interpretativo, dal quale l’ordinanza di rimessione deriva il giudizio di rilevanza, si presenta intrinsecamente contraddittorio rispetto a quello che sorregge la successiva affermazione della non manifesta infondatezza della questione». Ed infatti, si sottolinea al riguardo nella sentenza, il giudice rimettente dapprima motiva la rilevanza della questione «facendo leva su una interpretazione lata della norma impugnata – quanto alla formula “prendere parte” – giustificandola essenzialmente con l’esigenza di assicurare una garanzia piena, e non dimidiata, all’interesse da essa protetto» e sostiene invece subito dopo la non manifesta infondatezza della stessa «sulla scorta di una interpretazione restrittiva della norma costituzionale di riferimento» (art. 68, terzo comma, Cost.).

1.4. Esercizio della giurisdizione e svolgimento dei lavori parlamentari

Con la sentenza n. 451, la Corte è tornata a pronunciarsi sul problema della rilevanza dell’impedimento – consistente nella affermata necessità di partecipare ai lavori parlamentari – addotto dal parlamentare a giustificazione dell’assenza dal processo, decidendo due conflitti di attribuzione sollevati dalla Camera dei deputati nei confronti dell’autorità giudiziaria.

I provvedimenti impugnati sono stati adottati nell’ambito degli stessi processi penali nel corso dei quali erano state pronunciate le ordinanze del giudice dell’udienza preliminare annullate, in accoglimento di un analogo conflitto, con la sentenza n. 225 del 2001 e concernenti «le medesime situazioni processuali».

La Corte, nel riprendere e ribadire diverse argomentazioni contenute nella sentenza n. 225, chiarisce «che la posizione dell’imputato membro del Parlamento di fronte alla giurisdizione penale non è assistita da speciali garanzie costituzionali, salvo quelle (estranee al caso di specie) stabilite dall’art. 68 della Costituzione, per cui – al di fuori di queste tassative ipotesi – per l’imputato parlamentare operano le generali regole del processo, con le relative sanzioni e gli ordinari rimedi processuali», e che nondimeno, «ove l’imputato, come nel caso in esame, deduca di essere impedito ad intervenire all’udienza dovendo esercitare il suo diritto-dovere di partecipare ai lavori parlamentari, fra l’esigenza di speditezza dell’attività giurisdizionale e quella di tutela delle attribuzioni parlamentari, aventi entrambe fondamento costituzionale, si può determinare un’interferenza suscettibile di incidere sulle attribuzioni costituzionali di un soggetto estraneo al processo penale e, in particolare, sull’interesse della Camera di appartenenza a che ciascuno dei suoi componenti sia libero di regolare la propria partecipazione ai lavori parlamentari nel modo ritenuto più opportuno». In tal caso il giudice penale «ha l’onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari».

Ciò posto e sottolineato che «il prosieguo del giudizio penale – dopo l’annullamento, da parte di questa Corte, delle ordinanze del giudice dell’udienza preliminare – sotto nessun profilo può considerarsi come “giudizio di ottemperanza” del giudicato costituzionale, ostando a tale configurazione le differenze oggettive e soggettive esistenti fra il processo costituzionale e quello penale», la Corte ha proceduto ad esaminare i provvedimenti giurisdizionali impugnati (ordinanze e sentenze) alla luce delle motivazioni addotte, per ciascuno, dall’autorità giurisdizionale, distinguendo le parti in cui siano presenti affermazioni lesive delle attribuzioni della Camera ricorrente da quelle coinvolgenti valutazioni esclusivamente processuali, come tali di esclusiva spettanza del Tribunale.

In accoglimento parziale dei ricorsi la Corte ha quindi dichiarato che non spettava all’autorità giudiziaria affermare: a) che il Giudice dell’udienza preliminare non aveva alcun obbligo di attivarsi per acquisire la prova dell’impedimento e che era a tal fine irrilevante la lettera di convocazione del capo del gruppo parlamentare; b) che sussiste impedimento soltanto quando in Parlamento siano previste votazioni e sia provata l’effettiva presenza dell’imputato ai lavori parlamentari. Le ordinanze impugnate sono state di conseguenza annullate in parte qua, ad eccezione di una annullata nella sua totalità perché sorretta da una motivazione costituita esclusivamente dalle affermazioni lesive.

La Corte ha invece ritenuto estranee al conflitto le medesime ordinanze per le parti della motivazione che si riferivano a profili strettamente processuali, «il cui sindacato compete esclusivamente al giudice del processo penale»: così, ad esempio, in relazione all’ordinanza con la quale era stata rigettata l’istanza volta ad ottenere la «rimozione automatica» di tutti gli atti processuali successivi all’udienza nella quale l’impedimento dell’imputato era già stato accertato con la sentenza n. 225 del 2001, ordinanza nella quale l’autorità giudiziaria aveva fatto riferimento alla natura e alla rilevanza delle attività processuali compiute nell’udienza poi annullata per legittimo impedimento, giungendo a negare l’esistenza di un «effetto diffusivo» di tale annullamento sugli atti processuali successivi; ancora, in relazione all’ordinanza con la quale era stata tra l’altro respinta l’eccezione di nullità del decreto che aveva disposto il giudizio e nella quale parte della motivazione si concentrava sull’art. 420 del codice di procedura penale, che attribuisce rilevanza al legittimo impedimento dell’imputato solo in sede di prima udienza; infine, in relazione all’ordinanza con cui era stata rigettata un’ulteriore richiesta di dichiarare la nullità del decreto che aveva disposto il giudizio in esecuzione della sentenza n. 225 del 2001 e nella quale l’autorità giudiziaria aveva formulato alcune valutazioni sui limiti soggettivi ed oggettivi del giudicato formatosi con la sentenza n. 225, e in particolare sui limiti concernenti l’incidenza di tale giudicato sul processo penale.

Non affette da «vizi rilevabili in sede di conflitto di attribuzione» sono state invece ritenute le sentenze, in quanto non contenenti alcuna nuova, autonoma valutazione delle situazioni oggetto del conflitto, né affermazioni lesive delle prerogative del Parlamento.

In merito alle eventuali conseguenze processuali dell’annullamento parziale, la Corte, premesso che alla stregua della sentenza n. 225 del 2001 e della sentenza n. 263 del 2003 «gli effetti caducatori della dichiarazione di non spettanza devono limitarsi ai provvedimenti, o alle parti di essi, che siano stati riconosciuti lesivi degli interessi oggetto del giudizio costituzionale per conflitto di attribuzione», ha affermato che per le ordinanze «fondate su distinte linee argomentative, taluna delle quali di tipo processuale e quindi estranea al giudizio per conflitto di attribuzione», «la pronunzia caducatoria deve essere limitata alle parti di cui è stata affermata la lesività», spettando «poi al giudice penale rilevare, alla stregua delle norme che disciplinano il processo, l’eventuale esistenza di ulteriori effetti derivanti dai vizi accertati».

2. La funzione normativa

Nel corso del 2005, sono state molte le pronunce che hanno avuto riguardo a profili inerenti alle fonti del diritto, sia nell’ottica definitoria che in quella della loro collocazione nel sistema. Limitandosi, in questa sede, alle principali statuizioni, possono passarsi in rassegna le affermazioni relative alla riserva di legge, alle leggi di interpretazione autentica ed alle (altre) leggi retroattive, alla delegazione legislativa, alla decretazione d’urgenza ed alla delegificazione. Altre fonti sono state prese in considerazione in pronunce sulle quali ci si è soffermati altrove, donde un doveroso rinvio.

2.1. La riserva di legge

Le questioni concernenti la natura delle varie riserve di legge contemplate nel testo costituzionale sono trattate nelle sedes materiae specifiche. Pare comunque opportuno passare in rassegna, sia pure sinteticamente, le principali affermazioni rese dalla Corte relativamente ai profili formali e sistematici.

Sono state, in particolare, quattro le riserve di legge sulle quali la Corte si è maggiormente soffermata.

La decisione più significativa a tal proposito è da individuarsi nella sentenza n. 66. Tra i molteplici parametri tesi a fondare il dubbio di costituzionalità relativo alle disposizioni che consentono di subordinare la sosta dei veicoli al pagamento di una somma di denaro, il giudice a quo aveva invocato anche l’art. 16 della Costituzione, leso per violazione della riserva di legge e per il difetto dei motivi di sanità e sicurezza che soltanto potrebbero giustificare una limitazione del diritto di circolazione.

Onde respingere la censura, la Corte ha rilevato, per un verso, che le lamentate limitazioni al diritto di circolazione risultavano comunque poste con lo strumento della legge, e, per l’altro, che il precetto di cui all’art. 16 «non preclude al legislatore la possibilità di adottare, per ragioni di pubblico interesse, misure che influiscano sul movimento della popolazione».

Il medesimo giudice a quo aveva lamentato la violazione di un’altra riserva di legge, quella che l’art. 23 della Costituzione prevede in materia di prestazioni patrimoniali imposte.

L’infondatezza di questa questione è stata argomentata, da parte della Corte, sul rilievo che «rientrano nella nozione di prestazione patrimoniale imposta anche prestazioni di natura non tributaria e aventi funzione di corrispettivo, quando per i caratteri e il regime giuridico dell’attività resa, sia pure su richiesta del privato, a fronte della prestazione patrimoniale appare prevalente l’elemento della imposizione legale». In effetti, ai fini dell’individuazione delle prestazioni patrimoniali imposte, «non costituiscono profili determinanti né le formali qualificazioni delle prestazioni né la fonte negoziale o meno dell’atto costitutivo né l’inserimento di obbligazioni ex lege in contratti privatistici», mentre deve invece riconoscersi «un peso decisivo agli aspetti pubblicistici dell’intervento delle autorità ed in particolare alla disciplina della destinazione e dell’uso di beni o servizi, per i quali si verifica che, in considerazione della loro natura giuridica, della situazione di monopolio pubblico o della essenzialità di alcuni bisogni di vita soddisfatti da quei beni o servizi, la determinazione della prestazione sia unilateralmente imposta con atti formali autoritativi, che, incidendo sostanzialmente sulla sfera dell’autonomia privata, giustificano la previsione di una riserva di legge» (sentenza n. 236 del 1994).

Sulla scorta di tali considerazioni di ordine generale, con riguardo alla disciplina oggetto del giudizio, la Corte ha evidenziato come il pagamento per la sosta del veicolo sfuggisse sia alla nozione di tributo che a quella di prestazione patrimoniale imposta, essendo piuttosto configurabile come corrispettivo, commisurato ai tempi e ai luoghi della sosta, di una utilizzazione particolare della strada, rimessa ad una scelta dell’utente non priva di alternative, donde l’impossibile sussunzione nella nozione di «prestazione patrimoniale imposta» e la correlativa esclusione del necessario rispetto della garanzia di cui all’art. 23 della Costituzione.

Riprendendo alcuni precedenti piuttosto risalenti, la Corte che avuto modo di ribadire, nella sentenza n. 456, che l’art. 65 della Costituzione – stabilendo che «la legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore» – pone una precisa riserva di legge statale e che, quindi, è precluso al legislatore regionale, anche se fornito (come era nel caso di specie), di potestà legislativa residuale (in materia di ordinamento delle Comunità montane), di determinare le cause di incompatibilità (oltre che di ineleggibilità) con l’ufficio di deputato o di senatore.

Nella sentenza n. 33, una delle censure proposte dalla Regione ricorrente in via principale riguarda una disposizione della legge 10 marzo 2000, n. 62 (Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione), asseritamente lesiva della riserva di legge prevista dall’art. 119 Cost., in quanto demandava al Presidente del Consiglio dei ministri il potere di stabilire i criteri di ripartizione tra le Regioni e le Province autonome delle somme da destinare al sostegno della spesa sostenuta dalle famiglie per l’istruzione, senza porre alcun limite alla discrezionalità dell’esecutivo. La Corte ha dichiarato infondata la questione evidenziando che la disposizione censurata, non solo prevedeva che la ripartizione dovesse individuare i beneficiari del finanziamento straordinario in relazione alle condizioni reddituali delle famiglie, ma disponeva altresì che a tal fine dovesse farsi riferimento all’art. 27 della legge n. 448 del 1998, disposizione, quest’ultima, in cui poteva riscontrarsi il richiamo dei requisiti di cui al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 109, concernente la definizione di criteri unificati di valutazione della situazione economica di soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate. Tanto bastava per ritenere che «la riserva di legge posta dall’art. 119 Cost., peraltro relativa alla garanzia dell’autonomia finanziaria regionale – che non risulta[va] in alcun modo alterata dalla previsione di un finanziamento straordinario –, [fosse] stata nella specie osservata».

In due ipotesi (sentenza n. 53 ed ordinanza n. 289), l’evocazione nell’atto di promuovimento di una riserva (assoluta) di legge è stata funzionale a «rafforzare la dedotta violazione dell’art. 76 della Costituzione»; in entrambi i casi, la constatata inesistenza di una violazione da parte del decreto legislativo dei limiti imposti dalla legge di delega ha precluso ogni indagine circa la natura della riserva assoluta di legge (nella specie, quella di cui all’art. 25 della Costituzione, in relazione alla competenza del giudice).

Finalmente, deve evidenziarsi che l’esistenza di una riserva assoluta di legge in materia penale è stata alla base della pronuncia di manifesta inammissibilità di cui all’ordinanza n. 187, nella quale la Corte ha escluso di poter dar corso al richiesto intervento additivo e di sistema in malam partem.

2.2. Le leggi di interpretazione autentica e le (altre) leggi retroattive

Per quel che concerne l’efficacia delle leggi nel tempo, un particolare interesse è rivestito da due statuizioni relative a norme di interpretazione autentica. Una terza decisione ha avuto invece precipuamente ad oggetto una legge retroattiva.

Con la sentenza n. 282, la Corte ha operato lo scrutinio di una norma di interpretazione autentica in tema di trattamento economico dei magistrati (art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388).

Ad avviso della Corte, «la riconosciuta natura effettivamente interpretativa di una legge non esclude che da essa possano derivare violazioni costituzionali». Invero, «al di fuori della materia penale (dove il divieto di retroattività della legge è stato elevato a dignità costituzionale dall’art. 25 Cost.), l’emanazione di leggi con efficacia retroattiva da parte del legislatore incontra una serie di limiti che questa Corte ha da tempo individuato, e che attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (da ultimo, sentenze n. 376 del 2004, n. 291 del 2003 e n. 446 del 2002)». In particolare, «al legislatore è precluso intervenire, con norme aventi portata retroattiva, «per annullare gli effetti del giudicato» (sentenza n. 525 del 2000): se vi fosse un’incidenza sul giudicato, la legge di interpretazione autentica non si limiterebbe a muovere, come ad essa è consentito, sul piano delle fonti normative, attraverso la precisazione della regola e del modello di decisione cui l’esercizio della potestà di giudicare deve attenersi, ma lederebbe i principî relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (cfr. sentenze n. 374 del 2000 e n. 15 del 1995)».

La portata retroattiva della disposizione nella specie denunciata non era comunque tale da riguardare e da porre nel nulla anche gli effetti di sentenze passate in giudicato basate su un’interpretazione difforme da quella poi imposta dal legislatore. Ciò in quanto a norma censurata, nel contemplare la perdita di efficacia delle «decisioni di autorità giurisdizionali», quindi delle decisioni impugnate o impugnabili, non andava ad incidere sulle decisioni irrevocabili o passate in giudicato (il silenzio del legislatore doveva ritenersi «significativo di un’implicita salvezza del giudicato»).

Nella sentenza n. 409 si è analizzata una disposizione interpretativa, la cui efficacia retroattiva, oltre ad evidenziare una intrinseca irragionevolezza, era causa, ad avviso del rimettente, di illegittimità in quanto produceva la lesione del principio dell’affidamento ingeneratosi nel vigore della normativa precedente in materia di attribuzione della qualifica di assistente sociale.

La Corte ha preliminarmente osservato che, «al di fuori della materia penale, rientrante nel precetto dell’art. 25, secondo comma, Cost., ciò che conta precipuamente ai fini del giudizio di legittimità costituzionale di una legge retroattiva non è l’esistenza dei presupposti, del resto discutibili e discussi, per l’emanazione di una legge interpretativa, quanto piuttosto la non irragionevolezza della sua efficacia retroattiva e l’inesistenza di violazioni di altri principî costituzionali»: in effetti, «il legislatore può porre norme che retroattivamente precisino il significato di altre norme preesistenti, ovvero impongano una delle possibili varianti di senso del testo originario, purché compatibile con il tenore letterale di esso»; ed «in tali casi il problema da affrontare riguarda non tanto la natura della legge, quanto piuttosto i limiti che la sua portata retroattiva incontra alla luce del principio di ragionevolezza e del rispetto di altri valori ed interessi costituzionalmente protetti». Ne deriva che, sotto il profilo dei limiti che si frappongono ad una normazione retroattiva, «l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica – essenziale elemento dello Stato di diritto – non può essere leso da disposizioni retroattive, che trasmodino in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori» (nella specie, la norma impugnata, censurata per la sua efficacia retroattiva, non poteva essere considerata irragionevole nel contesto della normativa esistente, perché il significato da essa attribuito alla disposizione interpretata rientrava «nelle varianti di senso a quest[a] attribuibili nella sua letterale formulazione»).

Le problematiche inerenti alle leggi interpretative presentano, come è chiaro, alcuni elementi di forte comunanza con quelle relative alla retroattività delle leggi. Per la chiarezza delle affermazioni ivi contenute, sul punto si segnala, la sentenza n. 191. Oggetto del giudizio erano norme che avevano introdotto un termine decadenziale per l’esercizio, da parte dell’Inail, dei poteri amministrativi di accertamento e rettifica dell’errore commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione delle prestazioni, salvi i casi di dolo o colpa grave dell’assicurato. Contestualmente, erano state impugnate le norme che di far valere retroattivamente la violazione del termine decadenziale introdotto dalla nuova disciplina. Dato atto che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «il divieto di retroattività della legge non è stato elevato a precetto costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 della Costituzione», la Corte ha tuttavia sottolineato – al fine di procedere ad una declaratoria di illegittimità costituzionale – che «la retroattività deve comunque trovare giustificazione sul piano della ragionevolezza e non può trasmodare in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori»: nel caso di specie, l’irragionevolezza della disposizione era «di tutta evidenza, in quanto è l’istituto stesso della decadenza che per sua natura non tollera applicazioni retroattive, non potendo logicamente configurarsi una ipotesi di estinzione del diritto (o, come nella specie, del potere) per mancato esercizio da parte del titolare, in assenza di una previa determinazione del termine entro il quale il diritto (o il potere) debba essere esercitato».

La portata retroattiva di una disposizione è stata oggetto di scrutinio anche nella sentenza n. 320. Nella specie, veniva impugnato l’art. 39 della legge 21 novembre 2000, n. 342, in materia di applicabilità dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche allo Stato ed agli altri enti pubblici, che, per un verso, prevedeva l’esclusione dalla soggezione all’imposta sul reddito delle persone giuridiche dei determinati fondi pubblici di agevolazione, mentre, per altro verso, sottraeva i pagamenti indebiti alla azione di ripetizione.

Siffatta limitazione della portata retroattiva della disposizione impugnata (che qualificava un pagamento come non dovuto e nello stesso tempo lo sottraeva all’azione di ripetizione) è stata alla base della declaratoria di illegittimità costituzionale per incompatibilità con il principio di ragionevolezza.

 

2.3. Il referendum abrogativo (rinvio)

In merito al referendum di cui all’art. 75 della Costituzione, nel 2005 la Corte ha reso sei pronunce, di cui cinque (sentenze nn. 45, 46, 47, 48 e 49) in sede di ammissibilità delle richieste concernenti la legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). Su di esse, si rinvia a quanto detto supra, parte I, cap. V.

Una sesta decisione è rappresentata dalla ordinanza n. 198, che ha deciso nella fase dell’ammissibilità il conflitto radicatosi in ordine alla data di indizione della consultazione referendaria. Questa decisione è stata oggetto di analisi supra, parte I, cap. IV.

2.4. La delegazione legislativa

Assai numerose, e di notevole importanza, sono state le statuizioni che, nel corso del 2005, hanno riguardato il procedimento di delegazione legislativa.

Tra i profili maggiormente caratterizzanti, possono segnalarsi: (a) i contenuti minimi che la legge di delega deve recare; (b) i rapporti intercorrenti tra la nozione di «principio fondamentale» ex art. 117, terzo comma, e quella di «principio e criterio direttivo» ex art. 76 della Costituzione; (c) l’esatta individuazione dei principî e criteri direttivi, onde operare lo scrutinio di legittimità costituzionale del decreto delegato; (d) l’interpretazione da seguire nel ricostruire i rapporti tra legge di delega e decreto legislativo; (e) i margini di azione che i principî e criteri direttivi lasciano al legislatore delegato; (f) i particolari margini che sussistono nel caso in cui la delega abbia ad oggetto il «coordinamento» di diversi atti normativi attraverso l’emanazione di un testo unico; (g) il mancato (o l’incompleto) esercizio della delega.

a) Circa i contenuti minimi della delega, si segnala, tra tutte, la sentenza n. 66, che ha avuto ad oggetto l’art. 2, comma 1, lettera a), della legge delega per la revisione delle norme sulla circolazione stradale 13 giugno 1991, n. 190 (Delega al Governo per la revisione delle norme concernenti la disciplina della circolazione stradale) e l’art. 7, comma 1, lettera f), del legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), che consentono di subordinare la sosta dei veicoli al pagamento di una somma di denaro.

Tra i profili di incostituzionalità si denunciava il contrasto con l’art. 76 Cost., per essere stata del tutto omessa la determinazione dei principî e dei criteri direttivi e di valutazione sia in ordine alla individuazione delle zone che possono essere sottoposte all’onere del pagamento di una somma per il parcheggio sia in ordine alle tariffe applicabili; ed inoltre perché, in assenza di delega del Parlamento, l’indicazione di tali criteri sarebbe stata demandata dal Governo al Ministro dei lavori pubblici (ora Ministro delle infrastrutture e dei trasporti).

Le censure sono state dichiarate fondate. Rifacendosi a precedenti affermazioni, la Corte ha sottolineato che la legge di delegazione n. 190 del 1991, abilitando in generale il Governo ad adottare disposizioni, aventi valore di legge, intese a «rivedere e riordinare […] la legislazione vigente concernente la disciplina […] della circolazione stradale», ha identificato direttamente, quale base di partenza dell’attività delegata, il codice della strada vigente, cioè il testo unico delle norme sulla circolazione stradale approvato con il d.P.R. 15 giugno 1959, n. 393.

Sulla scorta di questa constatazione, si è dedotto che «la revisione e il riordino, ove comportino l’introduzione di norme aventi contenuto innovativo rispetto alla disciplina previgente, necessitano della indicazione di principî e di criteri direttivi idonei a circoscrivere le diverse scelte discrezionali dell’esecutivo, mentre tale specifica indicazione può anche mancare allorché le nuove disposizioni abbiano carattere di sostanziale conferma delle precedenti (sentenza n. 354 del 1998)». Nel caso di specie, era quest’ultima ipotesi a ricorrere, «in quanto il previgente codice della strada conteneva già una disposizione del tutto analoga a quella del decreto legislativo in esame, introdotta dall’art. 15 della legge 24 marzo 1989, n. 122 (Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate, nonché modificazioni di alcune norme del testo unico sulla disciplina della circolazione stradale, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 15 giugno 1959, n. 393), che ha modificato l’art. 4 del testo unico n. 393 del 1959, attribuendo ai comuni la facoltà di stabilire aree destinate al parcheggio, sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di controllo della durata anche senza custodia del veicolo, e di fissare le relative condizioni e tariffe». La sostanziale identità delle due norme consentiva allora di affermare che la disposizione contenuta nel nuovo codice della strada era in realtà meramente ricognitiva e confermativa della precedente.

b) La sentenza n. 50 ha affrontato il tema dei rapporti intercorrenti tra i «principî fondamentali» di cui all’art. 117, terzo comma, ed i «principî e criteri direttivi» di cui all’art. 76 della Costituzione. Ad avviso della Corte, «la nozione di “principio fondamentale”, che costituisce il discrimine nelle materie di competenza legislativa concorrente tra attribuzioni statali e attribuzioni regionali, non ha e non può avere caratteri di rigidità e di universalità, perché le “materie” hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo». Se è il legislatore «che opera le scelte che ritiene opportune, regolando ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali che l’interprete deve valutare nella loro obiettività, senza essere condizionato in modo decisivo da eventuali autoqualificazioni», ne consegue che «il rapporto tra la nozione di principî e criteri direttivi, che concerne il procedimento legislativo di delega, e quella di principî fondamentali della materia, che costituisce il limite oggettivo della potestà statuale nelle materie di competenza concorrente, non può essere stabilito una volta per tutte»: già nella sentenza n. 359 del 1993, la Corte aveva, del resto affermato che legge delegata potevano essere stabiliti i principî fondamentali di una materia, «stante la diversa natura ed il diverso grado di generalità che detti principî possono assumere rispetto ai “principî e criteri direttivi” previsti in tema di legislazione delegata dall’art. 76 della Costituzione». Tali affermazioni non sono state smentite dalle sentenze n. 303 del 2003 e n. 280 del 2004, quest’ultima riguardante una delega avente ad oggetto non la determinazione bensì la ricognizione di principî fondamentali già esistenti nell’ordinamento e quindi da esso enucleabili.

In definitiva, «la lesione delle competenze legislative regionali non deriva dall’uso, di per sé, della delega, ma può conseguire sia dall’avere il legislatore delegante formulato principî e criteri direttivi che tali non sono, per concretizzarsi invece in norme di dettaglio, sia dall’aver il legislatore delegato esorbitato dall’oggetto della delega, non limitandosi a determinare i principî fondamentali».

Questa impostazione è stata seguita, in particolare, nel decidere circa la questione relativa all’art. 1, comma 2, lettera a), della legge n. 30 del 2003, sollevata in riferimento agli articoli 76 e 117, terzo comma, della Costituzione: la prescrizione di «snellimento e semplificazione delle procedure di incontro tra domanda ed offerta di lavoro» è stata ritenuta «sufficientemente specifica per soddisfare l’esigenza di determinatezza che un criterio direttivo deve possedere per non essere in contrasto con l’articolo 76 Cost.» e, nel contempo, si è constatato che essa «non fissa norme di dettaglio».

Riprendendo le affermazioni di cui alla sentenza n. 50, nella sentenza n. 205 si è ribadito, da un lato, che «ben può lo Stato, in materie di competenza concorrente, dettare i principî fondamentali per mezzo di leggi delegate» e, dall’altro lato, che la legge delega può essere oggetto di impugnazione se i principî ed i criteri direttivi fissati sono essi stessi, tenuto «conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e delle ragioni e finalità poste a fondamento della legge di delegazione», invasivi della sfera di competenza regionale.

Analogamente, la sentenza n. 270 ha confermato questo orientamento, evidenziando comunque la necessità del «rispetto del limite dei principî fondamentali che la normazione statale esplicantesi nelle forme indicate dall’art. 76 Cost. incontra nei diversi ambiti materiali individuati dal terzo comma dell’art. 117 Cost.».

Anche la sentenza n. 384 si è posta sulla medesima linea tracciata dalla sentenza n. 50 (stante anche la parziale identità degli atti impugnati). Nella sentenza n. 384, peraltro, si è provveduto anche a dichiarare l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 (Razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, a norma dell’articolo 8 della legge 14 febbraio 2003, n. 30), in quanto prevedevano organi prima non esistenti», attinenti soprattutto all’organizzazione della sanità, cioè ad una materia estranea alla delega e di competenza legislativa concorrente (la violazione della legge di delega si associava, dunque, ad una illegittima intrusione da parte dello Stato nella sfera di competenza regionale).

c) Per quel che concerne l’individuazione dei principî e criteri direttivi, in più di una occasione la Corte ha affrontato censure basate sull’asserita violazione dell’art. 76, dichiarandole infondate in ragione della inesatta indicazione della portata dei principî e criteri direttivi.

Nel giudizio concluso con la sentenza n. 32, il remittente deduceva la violazione dell’art. 76 Cost., in riferimento all’art. 1 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 1994), in base al quale era stato emanato il decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria).

La disposizione del decreto legislativo che assoggettava al segreto d’ufficio l’intera documentazione in possesso della Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) in ragione dell’attività di vigilanza, donde il giudice a quo ricavava il contrasto con l’art. 1, comma 1, della legge n. 52 del 1996, che tra i principî e criteri generali includeva quello della piena trasparenza e della imparzialità dell’azione amministrativa.

Per decidere tale questione, doveva prendersi in considerazione la circostanza che la delega in questione fosse volta a dare attuazione alla direttiva 93/22/Cee del Consiglio del 10 maggio 1993 relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari. A questo atto era dunque necessario riportarsi; e proprio facendo leva su quanto previsto in sede comunitaria si escludeva che l’ambito oggettivo del principio (di piena trasparenza) sancito dalla legge di delega potesse estendersi alla materia per la quale il decreto legislativo aveva previsto il segreto d’ufficio.

Profili inerenti alla violazione dei limiti posti dalla legge di delega da parte del decreto legislativo sono stati sollevati anche nel giudizio deciso con le sentenze nn. 110, 194 e 266.

Nella sentenze nn. 110 e 266, la Corte ha constatato l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muoveva il giudice a quo, e che, una volta corretto, eliminava ogni motivo di censura riguardante l’asserita violazione dell’art. 76 (nonché dell’art. 70) della Costituzione. La ratio dell’introduzione del principio all’interno della legge di delega è stata alla base della negazione del vizio di eccesso di delega nel giudizio concluso con la sentenza n. 194.

Nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale instaurato in via principale deciso con la sentenza n. 285, una Regione aveva impugnato, per violazione dell’art. 76 Cost., le disposizioni in materia di finanziamento contenute in taluni articoli del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 (Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), dal momento che «la legge delega non prevedeva tra i criteri direttivi anche la possibilità di stralciare la quota del Fondo unico per lo spettacolo per disporne separatamente», né prevedeva «di modificare i criteri di selezione dei soggetti destinatari dei contributi».

La Corte ha ritenuto la censura infondata, in quanto incentrata su di una lettura parziale ed incompleta del dato normativo. In effetti, pur in una disposizione di delega notevolmente sintetica come l’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 (Delega per la riforma dell’organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché di enti pubblici), specie considerando la notevole complessità della normativa vigente nelle cinque differenziate materie rispetto alle quali la delega legislativa era stata conferita, emergevano alcuni elementi che indicavano con certezza come la delega nel settore cinematografico potesse essere intesa nel senso di riguardare anche le disposizioni relative al finanziamento del settore, ivi compresa la rideterminazione dei requisiti per accedere ad essi: anzitutto la delega non era meramente di riordinamento, ma era relativa al «riassetto» del settore; in secondo luogo, l’art. 10, comma 2, prevedeva che i decreti delegati non potessero determinare «nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato»; in terzo luogo, soprattutto, l’art. 10, comma 2, lettera c), individuava come principî e criteri direttivi anche il «miglioramento dell’efficacia degli interventi concernenti […] le attività culturali, anche allo scopo di conseguire l’ottimizzazione delle risorse assegnate» e la «chiara indicazione delle politiche pubbliche di settore, anche ai fini di una significativa e trasparente impostazione del bilancio».

d) «I principî e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte operate dal legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega»: così si è espressa l’ordinanza n. 228, che, rilevato, per un verso, come il legislatore delegante avesse raccomandato al legislatore delegato di «tenere conto», quale modello di riferimento nella struttura del procedimento penale di fronte al giudice di pace, del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, nonché a prevedere lo svolgimento del giudizio in forma semplificata, la introduzione di forme di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta e di ipotesi di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie o risarcitorie, nonché l’obbligo del giudice di procedere al tentativo di conciliazione, e rilevato, per altro verso, che in attuazione di tali principî il legislatore delegato aveva delineato un procedimento già di per sé caratterizzato da una accentuata semplificazione rispetto al procedimento davanti al giudice monocratico, ha escluso che la omessa previsione del patteggiamento nel procedimento di fronte al giudice di pace integrasse una violazione della legge delega. Alla ratio decidendi espressa nell’ordinanza n. 228 si è integralmente rifatta l’ordinanza n. 312, per decidere una analoga questione di legittimità costituzionale.

Similmente, la Corte ha seguito questo principio per dichiarare infondate le due questioni sollevate nei giudizi decisi con la sentenza n. 481: entrambe censuravano, denunciando un eccesso di delega, la disciplina disegnata dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 (Riforma organica della disciplina delle società di capitale e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366), in tema di controllo giudiziario sulla società a responsabilità limitata.

Secondo il primo rimettente, doveva escludersi che la procedura di cui all’art. 2409 cod. civ. fosse comunque – e cioè anche ad iniziativa del collegio sindacale obbligatoriamente nominato ex art. 2477, comma terzo, cod. civ. – esperibile nei confronti di una società a responsabilità limitata; l’altro giudice a quo riteneva, invece, che il collegio sindacale, ma non anche i soci, potesse promuovere il controllo giudiziario previsto dall’art. 2409 cod. civ.: l’eccesso di delega veniva, conseguentemente, ravvisato ora nell’esclusione totale, ora nella limitazione dell’operatività dell’art. 2409, sostenendosi altresì, da parte della seconda ordinanza, che la limitazione sarebbe stata tale da comportare una ingiustificata disparità di trattamento a danno dei soci della società a responsabilità limitata rispetto ai soci di una società per azioni e, comunque, rispetto al collegio sindacale.

Entrambe le ordinanze di rimessione imputavano al legislatore delegato la violazione del criterio di cui all’art. 4, comma 2, lettera a), n. 4, con il quale il legislatore delegato era impegnato a «prevedere la denunzia al tribunale, da parte dei sindaci o, nei casi di cui al comma 8, lettera d), nn. 2 [consiglio di sorveglianza] e 3 [comitato preposto al controllo interno sulla gestione], dei componenti di altro organo di controllo, di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori»: criterio volto, in una disciplina che prevede «un ampliamento dell’autonomia statutaria», ad individuare «limiti e condizioni in presenza dei quali sono applicabili a società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio norme inderogabili» (così il comma 2, lettera a). Da tale criterio – e da quello (art. 5, comma 2, lettera g) che prevedeva il controllo giudiziario per le società cooperative non inquadrabili nella c.d. cooperazione costituzionalmente riconosciuta – i rimettenti desumevano che il legislatore delegato era vincolato esclusivamente ad estendere la legittimazione attiva e l’ambito oggettivo del controllo giudiziario come previsto dall’art. 2409 cod. civ.; norma che, in quanto espressamente citata dall’art. 5, comma 2, lettera g), doveva rimanere «inalterata».

Ad avviso della Corte, anche a tacere la circostanza che la legittimazione riconosciuta ai sindaci poteva intendersi riferita (nella legge delega) alle società per azioni che «fanno ricorso al mercato del capitale di rischio» («caratterizzate da un maggior grado di imperatività»: art. 4, comma 1), doveva, infatti, considerarsi che l’art. 2, lettera f) fissava, come generale, il principio per cui la società a responsabilità limitata e la società per azioni debbono costituire «due modelli societari» distinti. A siffatto principio generale faceva da corollario quello della previsione, per la società a responsabilità limitata, di «un autonomo ed organico complesso di norme» (art. 3, comma 1, lettera a), e cioè una impostazione della disciplina radicalmente divergente da quella adottata dal codice civile anteriormente alla riforma, e che trovava la sua compiuta manifestazione negli articoli 2486, comma secondo, 2487, comma secondo, e 2488, commi terzo e quarto, cod. civ.

L’insieme di queste considerazioni rendeva chiaro che non era da accogliere la censura relativamente alla mancata previsione dell’applicabilità dell’art. 2409 cod. civ. alle società a responsabilità limitata: la ratio della delega risiedeva, infatti, proprio nell’enucleazione di caratteristiche peculiari per questo tipo di società.

Sempre in ordine alla interpretazione dei principî e criteri direttivi, merita un cenno l’ordinanza n. 1, con la quale si è affermato che, quando uno dei criteri direttivi posti dalla legge delega consiste nel recepimento dei principî giurisprudenziali consolidati in una determinata materia, l’esigenza del rispetto di tale criterio di delega (art. 76 della Costituzione) richiede di interpretare la disposizione censurata, posta dal legislatore delegato, in modo che sia in armonia con la giurisprudenza in materia.

e) Sui rapporti tra legge di delega e decreto legislativo, relativamente ai margini di azione che debbono riconoscersi al secondo, nella sentenza n. 174 si è ribadito che l’art. 76 della Costituzione «non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante; va escluso, infatti, che le funzioni del legislatore delegato siano limitate ad una mera “scansione linguistica” delle previsioni dettate dal delegante, essendo consentito al primo di valutare le situazioni giuridiche da regolamentare e di effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di “riempimento” che lega i due livelli normativi, rispettivamente, della legge di delegazione e di quella delegata» (così, ex plurimis, sentenze n. 199 del 2003 e n. 308 del 2002).

Questa impostazione è stata integralmente ripresa nell’ordinanza n. 213, dove si è ulteriormente rilevato che il giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante si esplica attraverso il confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, tenendo conto delle finalità che, attraverso i principî ed i criteri enunciati, la legge delega si prefigge con il complessivo contesto delle norme da essa poste e tenendo altresì conto che le norme delegate vanno interpretate nel significato compatibile con quei principî e criteri, in quanto la delega legislativa non fa venir meno ogni discrezionalità del legislatore delegato, che risulta più o meno ampia a seconda del grado di specificità dei principî e criteri direttivi fissati nella legge delega; sicché, «per valutare di volta in volta se il legislatore delegato abbia ecceduto tali – più o meno ampi – margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia ad essa rispondente».

Alla luce di tali principî, si è nella specie affermato che il legislatore delegato aveva fatto corretto uso del potere conferitogli dal Parlamento, allorché aveva individuato nella decadenza dal diritto di azione una «misura processuale» idonea a conseguire l’obiettivo di evitare il «sovraccarico di lavoro» che, per i tribunali amministrativi regionali, si sarebbe determinato conservando temporaneamente la giurisdizione sul pubblico impiego ed acquisendo quella in materie correlate ai servizi pubblici ed al governo del territorio, di talché il legislatore delegato aveva fatto ragionevole uso della discrezionalità insita nel potere legittimamente conferitogli dal Parlamento, preoccupandosi del «sovraccarico del contenzioso» presso il giudice ordinario, sia prevedendo strumenti processuali originali sia evitando di gravarlo del contenzioso relativo a diritti sorti anteriormente alla data fissata dalla legge per la «devoluzione», e preoccupandosi, altresì, del sovraccarico del contenzioso per i tribunali amministrativi (all’ordinanza n. 213 ha fatto richiamo, per decidere analoghe questioni, anche l’ordinanza n. 382).

f) Tra le problematiche che più di frequente sono state poste alla Corte nel corso del 2005, si annovera certamente quella dell’esatto contenuto che è proprio della nozione di «coordinamento».

Con la sentenza n. 52, la Corte si è pronunciata in merito alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, comma 3, del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia), nella parte in cui dispone che nel processo di opposizione avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ovvero di revoca del decreto di ammissione già accordato, l’ufficio giudiziario procede in composizione monocratica anziché collegiale.

Si denunciava, in particolare, la violazione dell’art. 76 della Costituzione, per avere il legislatore delegato ecceduto dalla delega conferita con l’art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – legge di semplificazione 1998), come modificato dall’art. 1 della legge 24 novembre del 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – legge di semplificazione 1999). Ciò in quanto non si sarebbe rinvenuto tra i criteri direttivi della legge di delega la previsione della facoltà di modificare la distribuzione di compiti tra giudice monocratico e collegiale, né la volontà di armonizzazione della materia con la sopravvenuta riforma del giudice unico.

Nel negare fondamento alla censura, la Corte ha evidenziato che tra i criteri direttivi individuati nella delega assumeva rilievo quello previsto dalla lettera d), comma 2, dell’ art. 7: «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo».

Se l’obiettivo era quello della coerenza logica e sistematica della normativa, il coordinamento non poteva essere solo formale (come, del resto, aveva sottolineato lo stesso Consiglio di Stato nel parere espresso nel corso della procedura di approvazione del testo unico). Inoltre, se l’obiettivo era quello di ricondurre a sistema una disciplina stratificata negli anni, con la conseguenza che i principî erano quelli già posti dal legislatore, non era necessario che fosse espressamente enunciato nella delega il principio già presente nell’ordinamento, essendo sufficiente il criterio del riordino di una materia delimitata. Entro questi limiti il testo unico poteva innovare per raggiungere la coerenza logica e sistematica e, come nel caso di specie, prevedere la composizione monocratica, anziché collegiale del giudice, applicando al processo in questione il principio generale affermato con la riforma del 1998, al fine di rendere la disciplina più coerente nel suo complesso e in sintonia con l’evolversi dell’ordinamento (si noti, peraltro, che le finalità di riordino e semplificazione contemplate nella legge di delega non possono condurre a ravvisare la violazione della delega per aver il legislatore delegato semplificato poco rispetto a quello che avrebbe potuto, trattandosi di scelte di merito rimesse alla discrezionalità del legislatore: sentenza n. 174).

Né a diversa conclusione poteva indurre l’art. 50-bis cod. proc. civ. (inserito dall’art. 56 del decreto legislativo n. 51 del 1998), il quale, nell’elencare in via di eccezione, rispetto al successivo art. 50-ter, le cause in cui il tribunale decide in composizione collegiale, ha richiamato (al secondo comma) i procedimenti in camera di consiglio disciplinati dagli articoli 737 e seguenti del codice di rito, salvo che sia altrimenti disposto: infatti, il procedimento camerale disciplinato dall’art. 29 della legge n. 794 del 1942, al quale rinvia la norma impugnata, non rientra tra quelli di cui agli articoli 737 e seguenti del codice (a tal fine era sufficiente considerare che il provvedimento non è impugnabile, mentre l’art. 739 cod. proc. civ. prevede espressamente il reclamo).

La ratio decidendi della sentenza n. 52 è stata ribadita nella sentenza n. 53, relativa alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 170 del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113, come riprodotto nel decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), in riferimento all’art. 76 della Costituzione, per avere il legislatore delegato – al comma 2 del suddetto articolo – trasferito la competenza dal giudice in composizione collegiale al giudice in composizione monocratica, così introducendo una innovazione radicale senza rispettare i limiti della delega.

La violazione dell’art. 76 della Costituzione sarebbe derivata dall’impossibilità di ricondurre l’innovazione nell’ambito del coordinamento formale, né in quello delle modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica – ai sensi della lettera d), comma 2, dell’art. 7 della legge delega – alla luce del richiamo al dcreto legislativo n. 51 del 1998 che ha introdotto il giudice unico, contenuto nella relazione governativa.

Anche in questo caso, la Corte ha dichiarato le censure infondate. Per la questione avente ad oggetto l’art. 170 del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113, sono state riproposte le medesime considerazioni svolte nella sentenza n. 52 relativamente alla nozione di coordinamento.

Contestualmente, era stato denunciato l’art. 7 della legge di delega 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – legge di semplificazione 1998), come modificato dall’art. 1 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – legge di semplificazione 1999), in riferimento all’art. 76 della Costituzione, non prevedendo la norma impugnata i limiti e l’oggetto della delega in una materia, quale quella riguardante la competenza del giudice, coperta da riserva assoluta di legge ai sensi dell’art. 25 della Costituzione.

Onde respingere la questione, è stato evidenziato che la norma prevedeva l’emanazione di testi unici intesi a riordinare le materie elencate nelle leggi annuali di semplificazione (comma 1, lettera b) mediante il richiamo dei relativi provvedimenti normativi; materie che, per il testo unico in tema di spese di giustizia, risultavano dall’allegato 1 della stessa legge, nn. 9, 10 e 11, attraverso l’individuazione, tra i tanti, dei cosiddetti campione penale e civile (n. 10), che regolavano anche le spese concernenti gli ausiliari del giudice. La materia oggetto di riordino risultava, quindi, delimitata dalla normativa richiamata negli allegati, mentre i limiti di intervento del legislatore delegato erano segnati dai principî e criteri direttivi fissati dall’art. 7, comma 2 (tali affermazioni sono state riproposte nella sentenza n. 174, che ha ulteriormente precisato che i provvedimenti richiamati nell’allegato 1 servono solo a delimitare la materia oggetto di riordino, senza ritenere tassativo il richiamo dei singoli articoli, e nelle ordinanze nn. 289 e 334).

Sia pure incidentalmente, il tema del coordinamento normativo è stato affrontato anche dalla sentenza n. 303, la quale ha evidenziato che, «in mancanza di princípi e criteri direttivi che giustifichino la riforma» della normativa preesistente, la delega «deve essere intesa in un senso minimale, tale da non consentire, di per sé, l’adozione di norme delegate sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo».

Aspetto connesso al coordinamento normativo è, come ovvio, quello della abrogazione delle disposizioni precedenti. Sul punto, sebbene a proposito di una delegazione di tipo diverso rispetto a quelle appena menzionate, può citarsi nuovamente la sentenza n. 50, secondo cui «l’inclusione, tra i principî direttivi, dell’abrogazione delle norme incompatibili è soltanto l’esplicitazione di un principio generale già esistente nell’ordinamento».

g) Nella sentenza n. 149 si è posto il problema del mancato (recte, incompleto) esercizio di una delega legislativa, da cui il giudice a quo muoveva per denunciare la violazione dell’art. 76 della Costituzione. Sul punto, la Corte ha replicato, in consonanza con i propri precedenti, che «l’esercizio incompleto della delega non comporta di per sé violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione (sentenze n. 218 del 1987 e n. 41 del 1975), salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione», circostanza che doveva essere esclusa in ordine alle disposizioni concretamente in esame.

2.5. La decretazione d’urgenza

Relativamente esigue, ma non per questo di scarso rilievo sono state le pronunce che la Corte ha reso con riferimento alla produzione normativa mediante decretazione d’urgenza. Due decisioni (entrambe adottate giudizi instaurati in via principale) hanno avuto ad oggetto ai presupposti delineati dall’art. 77 della Costituzione, mentre la terza ha riguardato i rapporti tra il decreto legge non convertito e la legge di sanatoria degli effetti prodotti.

Nella sentenza n. 62, una delle questioni poste nel ricorso di una Regione avverso un decreto legge concerneva la mancanza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza idonei a legittimare l’intervento del Governo, e quindi la violazione dell’art. 77 della Costituzione: la Regione osservava che il decreto disciplinava attività destinate ad essere completate solo entro il 2008, e che non vi era urgenza di provvedere per la inerzia del Parlamento, il quale aveva in itinere l’approvazione di una legge di delega sull’argomento oggetto di normazione, lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, dal contenuto più rispettoso delle autonomie regionali.

La censura è stata disattesa in quanto, non solo non era evidente, nella specie, la mancanza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, che legittimano il ricorso al decreto legge, ma, al contrario, appariva evidente come l’esigenza di prevedere una adeguata disciplina idonea a consentire la realizzazione delle opere, allo stato mancanti, necessarie per un corretto smaltimento dei rifiuti radioattivi, evitando pericoli per la salute e per l’ambiente, configurasse un valido presupposto per un intervento d’urgenza: anche se poi il completamento delle procedure e delle opere necessarie potesse richiedere tempi non brevi: l’urgenza, infatti, «riguarda il provvedere, anche quando occorra tempo per conseguire il risultato voluto».

I presupposti legittimanti l’emanazione di un decreto legge sono stati valutati anche nella sentenza n. 272, nella quale la Corte ha disatteso la questione proposta da una Regione, evidenziando, in primo luogo, che «il sindacato sull’esistenza dei presupposti della necessità e dell’urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti legge, può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti stessi» e, in secondo luogo, che nella specie, non sussisteva il denunciato vizio, «in quanto la necessità di introdurre nell’ordinamento interno misure regolatrici, volte a dare attuazione agli obblighi comunitari relativi al regime delle quote latte, [aveva reso] non manifestamente implausibile la valutazione governativa, posta a base degli interventi, in ordine al ricorso alla decretazione d’urgenza».

Nella medesima decisione, la Corte ha negato anche che la legittimità dei decreti legge impugnati fosse condizionata dalla necessità dell’intervento della Conferenza permanente nella fase di adozione dei decreti legge ovvero delle leggi di conversione: ciò in quanto non è individuabile un fondamento costituzionale all’obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni.

Tutt’altro tema è stato quello affrontato con l’ordinanza n. 443, in cui si è dichiarata manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 4 del decreto legge 12 novembre 2002, n. 253, nella parte in cui stabiliva che il decreto medesimo «entra[sse] in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana». Il citato decreto legge n. 253 del 2002 era decaduto per mancata conversione in legge nel termine costituzionale di sessanta giorni, dunque, per effetto della decadenza, la norma censurata dal giudice rimettente non era più applicabile in quanto tale nel giudizio a quo.

Sebbene la legge 27 dicembre 2002, n. 289 avesse fatti salvi gli effetti delle disposizioni abrogate (ivi compresa l’immediata entrata in vigore delle stesse), essa non era stata oggetto di specifica censura da parte del giudice rimettente, che si era limitato a sollevare la questione di legittimità costituzionale del solo art. 4 del decreto legge n. 253 del 2002, pur mostrando di conoscere l’esistenza della norma abrogatrice e di quella di sanatoria.

A fondamento della decisione di tipo processuale, la Corte ha sottolineato, a tal proposito, che, per giurisprudenza costante, «la legge di sanatoria non può essere considerata “idoneo equipollente” della conversione e non può farsi luogo pertanto a trasferimento sulle norme di quest’ultima di una questione di legittimità costituzionale di norme contenute in un decreto legge decaduto per mancata conversione»; nel caso di specie, poi, l’eterogeneità della disposizione di sanatoria rispetto alle norme di riferimento era resa ancor più manifesta dalla circostanza che quest’ultima era intervenuta prima della decadenza del decreto legge e non presupponeva, quindi, l’inutile decorso del termine costituzionale per la conversione in legge, ma l’abrogazione di alcune norme dello stesso: la mancata specifica censura della disposizione di sanatoria, a prescindere da ogni valutazione giuridica su di essa, precludeva, dunque, ogni scrutinio nel merito della questione.

2.6. La delegificazione

Di rilievo sono state alcune affermazioni rese con riferimento al procedimento di delegificazione, e ciò specialmente nella sentenza n. 303, con cui la Corte ha deciso due questioni di legittimità costituzionale che si incentravano precipuamente su questo modello di normazione. La prima questione si articolava sull’assunto che la norma denunciata, nel consentire il riordino, mediante regolamento governativo di delegificazione, della materia dei giochi e delle scommesse relativi alle corse dei cavalli, per quanto attiene agli aspetti organizzativi, funzionali, fiscali e sanzionatori, nonché al riparto dei relativi proventi, avrebbe conferito al Governo, in violazione del principio della riserva relativa di legge in materia fiscale e degli altri parametri costituzionali evocati, il potere di individuare i soggetti passivi dell’imposta concernente le suddette scommesse ed avrebbe perciò omesso di fissare limiti all’arbitrio dell’autorità governativa. Contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, tuttavia, la norma di delegificazione, non prevedendo alcuna specifica direttiva in ordine ai soggetti passivi di imposta, lasciava immutata la disciplina legislativa concernente gli elementi strutturali del suddetto tributo e, quindi, imponeva al regolamento di delegificazione di mantenere gli stessi soggetti passivi indicati dalla legislazione preesistente, restando di conseguenza esclusa la denunciata violazione del principio della riserva relativa di legge in tema di prestazioni patrimoniali imposte, sancito dall’art. 23 Cost., e degli altri evocati parametri costituzionali (tale ricostruzione è stata poi ribadita con la pronuncia di manifesta infondatezza di cui all’ordinanza n. 359).

La seconda questione, di carattere generale, aveva ad oggetto l’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, nella parte in cui stabilisce che le leggi ordinarie, nell’autorizzare l’esercizio della potestà regolamentare governativa in materie non coperte da riserva assoluta di legge, possono limitarsi ad indicare le «norme generali regolatrici della materia», anziché più restrittivi «princípi e criteri direttivi», analoghi a quelli prescritti dall’art. 76 Cost. per la delega al Governo dell’esercizio della funzione legislativa. La censura veniva dichiarata inammissibile, in quanto il giudice a quo aveva omesso «sia di esplicitare le ragioni per le quali ritiene di porsi in contrasto con l’unanime opinione dottrinale secondo cui (data anche l’evidente differenza semantica tra i termini “norma” e “principio”) le “norme generali regolatrici della materia” hanno, tendenzialmente, una funzione delimitativa più stringente rispetto ai “principî e criteri direttivi”; sia di precisare le “norme generali regolatrici della materia” delegificata affette dal dedotto vizio di genericità e delle quali [avrebbe dovuto] fare applicazione nel giudizio principale».

Sempre con riferimento alla delegificazione, è da segnalare come la sentenza n. 30 abbia confermato il principio (già espresso nella sentenza n. 376 del 2002), secondo cui essa può riguardare «disposizioni di leggi statali regolanti oggetti a qualsiasi titolo attribuiti alla competenza dello Stato».

2.7. Le fonti esterne (rinvio)

Tra le affermazioni più significative concernenti il diritto comunitario, si segnalano la sentenza n. 406, concernente la portata dell’art. 117, primo comma, della Costituzione come fonte attraverso la quale il diritto comunitario si impone rispetto alla legislazione interna (v. supra, parte I, cap. II, par. 4, e infra, sez. I, par. 2) e le ordinanze nn. 241 e 268, relativamente al valore delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. supra, parte I, cap. I, par. 11.2).

Per quanto attiene alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e segnatamente alla collocazione della stessa nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale, possono menzionarsi la sentenza n. 224 e l’ordinanza n. 464 (sulle quali, v. supra, parte I, cap. I, par. 7).

3. Il Presidente della Repubblica

Circa i poteri del Presidente della Repubblica, sono da segnalare le ordinanze nn. 354 e 357, di ammissibilità di conflitti interorganici, entrambe già trattate supra, parte I, cap. IV.

4. Il Governo

La giurisprudenza del 2005 non presenta rilevanti affermazioni relative alla collocazione istituzionale del Governo o di membri di esso, se si fa eccezione per alcune pronunce, rese in sede di ammissibilità di un conflitto tra poteri dello Stato, per le quali è d’uopo rinviare a quanto detto supra, parte I, cap. IV.

5. La pubblica amministrazione

Nel corso del 2005, la Corte costituzionale ha affrontato a più riprese questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento alla asserita violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, sancito dall’art. 97 della Costituzione. La Corte si è pronunciata anche in merito ad alcuni profili dello status dei funzionari pubblici, nonché all’accesso ai pubblici uffici. Un settore particolare in cui si sono avute pronunce è quello dell’amministrazione sanitaria.

5.1. Il principio di buon andamento

Con riferimento al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, possono individuarsi, in particolare, quattro diverse categorie di affermazioni rese, concernenti rispettivamente (a) la mancata violazione del principio, (b) l’estraneità del principio alla materia disciplinata dalla norma impugnata e (c) il collegamento rintracciabile tra il principio del buon andamento e quello di ragionevolezza. In un solo caso (d), la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di una disposizione per contrasto con l’art. 97, primo comma, della Costituzione.

a) La sentenza n. 32 ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento, tra gli altri parametri, all’art. 97 della Costituzione, dell’art. 4, comma 10, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, nella parte in cui assoggetta al segreto d’ufficio l’intera documentazione in possesso della Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) in ragione dell’attività di vigilanza.

In proposito, la Corte ha sottolineato come il contrasto della disposizione censurata con il generale interesse alla conoscenza dell’attività amministrativa, che dà forma ai canoni di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, fosse stato evocato dal remittente sotto il profilo della lesione della posizione sostanziale di base in ipotesi «non più o altrimenti tutelabile». Una volta riconosciuto il diritto di accesso al provvedimento conclusivo del procedimento svolto dalla Consob, si è ritenuto che l’impossibilità di accedere alla documentazione in riferimento alla quale esso è stato adottato contemperi non irragionevolmente l’interesse del destinatario del provvedimento e le garanzie delle quali l’attività di vigilanza deve essere circondata per risultare funzionale alle finalità cui essa è preordinata, sicché la disposizione censurata appare ispirata proprio ad un criterio di buon andamento dell’amministrazione e di imparzialità dell’azione amministrativa.

Il principio di buon andamento è stato oggetto di valutazione anche nella sentenza n. 191, resa a proposito della norma che introduce un termine decadenziale – peraltro di peculiare ampiezza – per l’esercizio, da parte dell’Inail, dei poteri amministrativi di accertamento e rettifica dell’errore commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione delle prestazioni, salvi i casi di dolo o colpa grave dell’assicurato (art. 9, commi 1, secondo periodo, e 3, del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38).

Sull’assunto che la comparazione tra i maggiori oneri presumibilmente derivanti dalla introduzione del termine decadenziale ed i risparmi conseguenti alla probabile riduzione del contenzioso è senz’altro riservata alla discrezionale valutazione del legislatore e, quindi, censurabile solamente nei limiti di una manifesta irragionevolezza (che nella specie non era sicuramente dato di ravvisare), la Corte ha osservato che il pur ampio termine di cui si trattava assolveva una obiettiva funzione acceleratoria riguardo all’esercizio dei poteri attribuiti all’Inail e, pertanto, rappresentava uno strumento volto, sia pure indirettamente, ad accrescere l’efficienza dell’Istituto e dunque a favorire il buon andamento della sua azione, senza incidere, ovviamente, nel caso di errore non tempestivamente rettificato, sulle eventuali responsabilità individuali.

Nel decidere in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 3, della legge della Regione Marche 17 luglio 1996, n. 26 (Riordino del servizio sanitario regionale), il quale dispone che, fino alla definizione degli accordi di cui all’art. 5, comma 4, di detta legge (negoziazione, da parte delle Aziende Usl, dei servizi e delle prestazioni con le altre Aziende Usl e ospedaliere, con istituzioni sanitarie private accreditate e con professionisti), restano valide le modalità di accesso alle prestazioni così come disciplinate dall’art. 19 della legge 11 marzo 1988, n. 67, e cioè che, in via provvisoria, resta fermo l’obbligo della preventiva autorizzazione per l’accesso alle strutture sanitarie non pubbliche, entro i limiti ed i termini stabiliti da quest’ultima norma, la sentenza n. 200 ha rilevato che la natura negoziale di questi accordi escludeva il preteso carattere di arbitrarietà delle scelte poste in essere in questo settore dalle amministrazioni competenti, cosicché appariva insussistente anche la censura formulata in riferimento ai canoni di buon andamento e imparzialità prescritti dall’art. 97 della Costituzione.

La sentenza n. 264 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), che, nelle sue varie disposizioni, e segnatamente nei commi 1, 2 e 4 denunciati, stabilisce un aumento del canone di locazione degli immobili di proprietà dello Stato ad uso abitativo, prendendo a riferimento il reddito del nucleo familiare del conduttore nell’anno 1993 e prevedendo che se nel 1993 tale reddito fosse compreso tra 40 e 80 milioni il canone venisse raddoppiato e quintuplicato nel caso in cui fosse superiore agli 80 milioni.

I criteri legali di determinazione dell’incremento dei canoni, con il temperamento rappresentato dal limite di aumento non superiore alla media dei prezzi praticati in regime di mercato per immobili aventi caratteristiche analoghe, rispondono ad esigenze di uniformità di disciplina dei rapporti implicati, tanto più rilevanti allorché (come era nel caso di specie) investano il complesso dei beni patrimoniali che lo Stato deve gestire su tutto il territorio nazionale: una disciplina così conformata non può quindi vulnerare i principî di imparzialità e buon andamento di cui all’evocato art. 97 della Costituzione.

Nel giudicare sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 43, secondo comma, della legge 10 aprile 1954, n. 113 (Stato degli Ufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica), nella parte in cui – disciplinando la cessazione volontaria dell’ufficiale dal servizio permanente – non prevede che l’Amministrazione della difesa possa riammettere in servizio l’ufficiale cessato a domanda dal servizio permanente effettivo e collocato in congedo, la Corte ha negato che l’assoluta irreversibilità della situazione nascente dalla volontaria cessazione dal servizio si ponesse in violazione del principio di ragionevolezza e di quello di buon andamento (ordinanza n. 430).

La Corte ha evidenziato che la normativa sul rapporto di impiego degli ufficiali delle Forze armate in servizio permanente, nel regolare la cessazione dal servizio permanente a domanda dell’interessato, ignora del tutto l’istituto della riammissione in servizio, nel senso che non detta un’autonoma disciplina né contiene, in proposito, norme di rinvio a quella vigente per il personale civile dello Stato, e questo silenzio del legislatore viene non implausibilmente inteso dal giudice remittente come disconoscimento dei presupposti essenziali perché possa disporsi la ricostituzione del rapporto d’impiego con l’ufficiale che sia cessato dal servizio a domanda. La mancata previsione di questa possibilità rinviene la propria ratio nel particolare status dell’ufficiale in servizio permanente, per il quale il legislatore prevede peculiari forme di selezione attitudinale, di addestramento e di formazione professionale, in connessione con i compiti che la Repubblica assegna alle Forze armate.

Sulla scorta di questi rilievi, e premesso che non è consentito al controllo di costituzionalità di travalicare nel merito delle opzioni legislative, la Corte ha escluso che la norma denunciata fosse manifestamente irragionevole o arbitraria o contrastasse con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, tenuto conto che al legislatore ordinario spetta un’ampia discrezionalità nella materia dell’inquadramento e dell’articolazione delle carriere degli ufficiali, e che la riammissione in servizio di colui che abbia cessato di far parte, in seguito a sua domanda, di un’amministrazione, non costituisce un istituto caratterizzante l’impiego pubblico in tutte le sue diverse articolazioni.

b) In varie decisioni, la Corte ha precisato – in continuità con una giurisprudenza ampiamente consolidata – l’ambito di operatività del principio del buon andamento.

Così, la sentenza n. 174 e l’ordinanza n. 122 hanno ribadito che, in base ad un costante orientamento, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione è estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale nel suo complesso e i provvedimenti che ne costituiscono espressione, essendo riferibile anche agli organi dell’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo.

L’ordinanza n. 113 ha invece confermato l’estraneità dei principî costituzionali contenuti negli articoli 54 e 97 Cost, alla materia delle sanzioni disciplinari, sia in relazione alla previsione dei precetti sia in ordine alle conseguenti sanzioni; mentre l’ordinanza n. 216 ha evidenziato come il principio del buon andamento non sia invocabile al fine di conseguire miglioramenti economici da parte del personale dipendente della pubblica amministrazione.

L’ambito entro il quale il principio del buon andamento può essere invocato è stato oggetto di analisi anche nella sentenza n. 244.

Con riferimento all’art. 17 della legge della Regione Molise 8 luglio 2002, n. 12 (Riordino e ridefinizione delle comunità montane), impugnato nella parte in cui attribuisce «ai poteri del Presidente della Giunta regionale lo scioglimento, la sospensione e il commissariamento del consiglio della Comunità montana», il giudice a quo riteneva che la mancata previsione di un limite temporale di durata della supplenza dell’organo commissariale straordinario, nonché la mancanza di una «scansione procedimentale» e di «particolari garanzie», si ponesse in contrasto con «il principio della riserva di legge in materia di organizzazione amministrativa» e con i principî di imparzialità e buon andamento, di cui all’art. 97 della Costituzione.

La Corte ha disatteso tale prospettazione, evidenziando l’inconferenza del riferimento all’art. 97, in quanto non sussiste un legame di implicazione necessaria tra la mancanza di «scansioni procedimentali» e «particolari garanzie» (non meglio precisate), ed il rispetto delle regole di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.

c) Nella sentenza n. 243, la Corte ha sottolineato che – come già più volte affermato – la violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione (richiamato dal giudice rimettente unitamente a quello, di non chiara prospettazione, di «proporzionalità dell’azione amministrativa») non può essere invocato se non per l’arbitrarietà e la manifesta irragionevolezza della disciplina denunciata: sotto questo profilo, l’art. 97 della Costituzione si combina con il riferimento all’art. 3 Cost. ed implica lo svolgimento di un giudizio di ragionevolezza sulla legge censurata – gli articoli 2 e 3 della legge della Regione Veneto 28 dicembre 1999, n. 62 (Individuazione dei Comuni a prevalente economia turistica e delle città d’arte ai fini delle deroghe agli orari di vendita) – con il principio di buon andamento dell’amministrazione, si era limitata ad addurre il difetto della ragionevolezza e della «coerenza interna» della stessa, senza tuttavia chiarire come tali censure – illustrate, poi, sotto il profilo della presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione – finiscano per rifluire, nel caso concreto, sul contenuto particolare dell’organizzazione della pubblica amministrazione e sul principio di buon andamento dell’azione amministrativa che la ispira. Peraltro, alla luce di quanto evidenziato relativamente alla specifica censura sulla violazione dell’art. 3 della Costituzione, nel caso in esame i limiti imposti alla discrezionalità del legislatore dall’art. 97 non erano stati superati, atteso che la disciplina legislativa denunciata non attribuiva un arbitrario privilegio ad alcuni Comuni, né appariva manifestamente irragionevole.

d) Nella sentenza n. 277, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 31 della legge della Regione Lazio 27 febbraio 2004, n. 2, che disciplinava l’affidamento alla società Lazio Service s.p.a. dei servizi di supporto alle strutture di diretta collaborazione del Consiglio regionale, previste regolamento di organizzazione del Consiglio stesso.

Ad avviso della Corte, la promozione della costituzione della società di servizi della quale la Regione si avvaleva per «esternalizzare» lo svolgimento di attività di servizio effettuate al suo interno, anche impegnando lavoratori socialmente utili, stipulando una convenzione di durata quinquennale, non arrecavano alla Regione, sul piano economico, alcun particolare vantaggio; inoltre i soggetti esterni alla pubblica amministrazione destinati ai servizi di supporto alle strutture in esame, di cui la norma impugnata prevede l’«esternalizzazione», erano per definizione legati con rapporto fiduciario particolarmente intenso agli organi di indirizzo politico della Regione, come era comprovato dall’art. 11 del regolamento di organizzazione del Consiglio, in base al quale tali collaboratori esterni erano assunti per una durata massima di 5 anni, che non poteva mai oltrepassare la scadenza della legislatura: ma la disposizione censurata comportava che dal 1° gennaio 2004 la fine della legislatura non determinasse più, come per il passato, la cessazione del rapporto di lavoro di diritto privato dei soggetti esterni addetti alle strutture di diretta collaborazione del Consiglio regionale, perché ormai divenuti dipendenti a tempo indeterminato della società Lazio Service s.p.a. Ne conseguiva la preclusione, per gli organi di vertice dei Consigli regionali nelle legislature successive, di potersi valere, per la durata del mandato, di collaboratori di loro fiducia, diversi dai dipendenti della società, se non accettando che il nuovo personale così assunto si aggiungesse ad essi, con inevitabile aggravio del bilancio regionale. La norma regionale impugnata, dunque, a prescindere dall’intrinseca irragionevolezza del suo contenuto e dalla sua incidenza sull’ordinamento civile di competenza esclusiva dello Stato, introduceva una modalità di organizzazione degli uffici di vertice del Consiglio regionale che ne pregiudicava il buon andamento, in violazione del precetto di cui all’art. 97, primo comma, Cost.

5.2. Lo status dei funzionari pubblici

La sentenza n. 172 ha riguardato una disciplina regionale affatto peculiare, incidente tanto sul buon andamento della pubblica amministrazione quanto sullo status dei pubblici funzionari.

Oggetto del giudizio è stato l’art. 3 della legge della Regione Veneto 27 febbraio 2004, n. 4, nella parte in cui stabilisce che l’amministrazione regionale procede immediatamente al trasferimento di sede o all’attribuzione ad altro incarico del dipendente condannato, per i reati contro la pubblica amministrazione, con sentenza di primo grado. Ad avviso della Corte, tale disposizione non era da ritenersi invasivo dell’ambito della legislazione esclusiva dello Stato in tema di ordinamento penale, riconosciuta dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

Le finalità che la norma intende perseguire sono ravvisabili nell’esigenza di tutelare l’immagine, la credibilità e la trasparenza dell’amministrazione regionale; interessi che, anche prima dell’eventuale pronuncia di una sentenza definitiva di condanna, possono risultare pregiudicati dalla permanenza nell’ufficio del dipendente che abbia commesso nell’esercizio delle sue funzioni un reato contro la pubblica amministrazione.

Alla luce del principio di buon andamento dei pubblici uffici e del dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche di «adempierle con disciplina ed onore» (articoli 97 e 54, secondo comma, della Costituzione), la disposizione oggetto del giudizio offre dunque alla amministrazione regionale uno strumento volto a realizzare l’interesse pubblico di garantire la credibilità e la fiducia di cui l’amministrazione deve godere presso i cittadini (v. sentenze n. 206 del 1999 e n. 145 del 2002); interesse leso dal discredito che la condanna, anche solo di primo grado, può recare all’immagine del corretto funzionamento dei pubblici uffici, e certo prevalente su quello individuale del dipendente alla permanenza nella medesima sede o nel medesimo ufficio.

La disposizione è dunque risultata ispirata, non già da ragioni punitive o disciplinari, quanto da esigenze, lato sensu cautelari, in funzione dell’organizzazione interna degli uffici (v. sentenza n. 206 del 1999), atteso che le esigenze di trasparenza e di credibilità della pubblica amministrazione sono direttamente correlate al principio costituzionale di buon andamento degli uffici.

Con l’ordinanza n. 398 sono stati definiti i giudizi nei quali si poneva la questione di legittimità costituzionale – in riferimento a molteplici parametri – dell’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), nella parte in cui prevede che gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale e quelli di direttore generale degli enti pubblici vigilati dallo Stato in corso all’entrata in vigore della legge medesima (che ha modificato la disciplina della dirigenza nella pubblica amministrazione) cessano il sessantesimo giorno da tale data.

I rimettenti censuravano altresì l’art. 3, comma 1, lettera b), della stessa legge n. 145 del 2002, nella parte in cui, in relazione al nuovo regime della dirigenza, pone la disciplina a regime della durata degli incarichi in esame, prevedendo un limite massimo triennale.

Successivamente alla proposizione delle questioni, l’art. 14-sexies del decreto legge 30 giugno 2005, n. 115, inserito dalla legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, ha modificato la disciplina a regime della durata degli incarichi dirigenziali in esame, reintroducendo per gli stessi una durata minima, fissandola in tre anni, e portando quella massima da tre a cinque anni. La modifica di una delle norme impugnate, incidendo sui profili di rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni, ha precluso una decisione di merito, conducendo alla restituzione degli atti ai giudici a quibus.

5.3. L’accesso ai pubblici uffici

Per quanto attiene all’accesso ai pubblici uffici, la Corte ha reso alcune rilevanti decisioni, principalmente riguardanti l’applicazione della regola dell’accesso alla funzione pubblica mediante concorso. In un caso ulteriore è stata poi prospettata una applicazione del principio di parità tra i sessi nell’accesso ai pubblici uffici.

Quest’ultimo principio è stato affrontato nell’ordinanza n. 39, con la quale la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), come modificato dall’art. 43 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, nella parte in cui riserva alle donne, al fine di garantire pari opportunità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso per l’accesso alle pubbliche amministrazioni, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 51 Cost, per l’asserita violazione del principio di uguaglianza e del principio di parità dell’accesso ai pubblici impieghi.

La Corte ha osservato che «con la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, è stato aggiunto un periodo al primo comma dell’indicato art. 51 con il quale si è prescritto che, al fine di consentire ai cittadini di entrambi i sessi di “accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”, “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”» e che «nel nuovo testo la norma non si limita più a disporre che “la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa” (v. sentenza n. 33 del 1960) e, quindi, a costituire una sorta di specificazione del principio di uguaglianza enunciato, a livello di principio fondamentale, dall’art. 3, primo comma, Cost. (v. sentenze n. 188 del 1994 e n. 422 del 1995), ma assegna ora alla Repubblica anche un compito di promozione delle pari opportunità tra donne e uomini».

La Corte ha quindi dichiarato la manifesta inammissibilità della questione per difetto di motivazione sul parametro evocato e sulla non manifesta infondatezza, per non avere il rimettente dato conto della sopravvenuta modifica dell’art. 51 evocato.

Con precipuo riferimento ai pubblici concorsi, possono essere segnalate quattro decisioni.

Di notevole interesse è la sentenza n. 159, con cui la Corte è sembrata andare ben oltre il caso sottoposto a giudizio, in quanto si sono riaffermati tutti i principî giurisprudenziali in ordine alle regole dettate dalla Costituzione per accedere legittimamente agli impieghi pubblici. L’occasione è stata data dalla impugnativa avente ad oggetto la legge della Regione Calabria 5 dicembre 2003, n. 28, nella quale si prevedeva l’accesso alla qualifica «funzionario D3» mediante un concorso riservato al solo personale interno adibito a mansioni di ispettore fitosanitario e si stabiliva che tutti gli idonei avrebbero prestato servizio presso il dipartimento agricoltura, caccia e pesca.

La Corte ha evidenziato che il concorso pubblico costituisce la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, in quanto meccanismo strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione (sentenze n. 34 del 2004, n. 194 del 2002, n. 1 del 1999, n. 333 del 1993, n. 453 del 1990 e n. 81 del 1983). A tale regola può derogarsi «in presenza di peculiari situazioni giustificatrici», nell’esercizio di una discrezionalità che trova il suo limite nella necessità di garantire il buon andamento della pubblica amministrazione ed il cui vaglio di costituzionalità non può che passare attraverso una valutazione di ragionevolezza della scelta operata dal legislatore.

La Corte ha ulteriormente rilevato che la regola del pubblico concorso può dirsi pienamente rispettata solo qualora le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie ed irragionevoli forme di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi (sentenza n. 194 del 2002) e che l’accesso al concorso può essere condizionato al possesso di requisiti fissati in base alla legge, anche allo scopo di consolidare pregresse esperienze lavorative maturate nell’ambito dell’amministrazione. Tuttavia, ciò può accadere «fino al limite oltre il quale possa dirsi che l’assunzione nella amministrazione pubblica, attraverso norme di privilegio, escluda, o irragionevolmente riduca, la possibilità di accesso per tutti gli altri aspiranti con violazione del carattere pubblico del concorso, secondo quanto prescritto in via normale, a tutela anche dell’interesse pubblico, dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione» (sentenza n. 141 del 1999).

La Corte, inoltre, ha ricordato (attraverso il richiamo alle sentenze nn. 218 e 373 del 2002, e 274 del 2003) che pure l’accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate non sfugge, di norma, alla regola del pubblico concorso e che non sono pertanto ragionevoli norme che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti.

Nel caso in esame, la legge regionale era viziata da evidente irragionevolezza, in conseguenza della limitazione, al solo personale interno, della partecipazione al concorso; né valeva addurre che questa limitazione si sarebbe giustificata per l’esperienza professionale maturata in relazione alle specificità colturali e vegetali del territorio calabrese, in quanto, vista la platea degli aspiranti, questa presunta specificità assoluta non sussisteva affatto. Di conseguenza, non si poteva negare che, nella fattispecie, il passaggio da un’area ad un’altra comportava l’accesso ad un nuovo posto di lavoro, con relativa progressione in carriera, ed era quindi soggetto al principio del pubblico concorso (cfr. sentenza n. 320 del 1997).

Parimenti, con la sentenza n. 190, la Corte ha dichiarato la incostituzionalità degli articoli 1, 2 e 3 della legge della Regione Marche 24 febbraio 2004, n. 4, che disciplinavano con procedura riservata l’inserimento nei ruoli regionali del servizio sanitario nazionale (S.s.n.) del personale, già assunto con contratto a tempo indeterminato da strutture sanitarie private, che risultasse in esubero.

Se una deroga alla regola del pubblico concorso è possibile soltanto in presenza di peculiari situazioni giustificatrici individuate dal legislatore nell’esercizio di una discrezionalità non irragionevole, nella specie non poteva ritenersi utilizzabile la valorizzazione delle «specifiche professionalità acquisite» dal personale in discorso, al fine di legittimare la deroga al principio del concorso pubblico, per il fatto che non si trattava di «consentire il consolidamento di pregresse esperienze maturate nella stessa amministrazione» (cfr. sentenza n. 205 del 2004). Le disposizioni censurate, infatti, stabilivano l’inserimento nei ruoli regionali di personale assunto con contratto a tempo indeterminato da strutture sanitarie private, e dunque di personale non reclutato a suo tempo dalla pubblica amministrazione mediante pubblico concorso (sentenza n. 205 del 2004).

Anche nella sentenza n. 465 la Corte ha riscontrato un evidente vulnus al principio costituzionale del pubblico concorso nelle disposizioni della legge della Regione Marche 13 maggio 2004, n. 10, che prevedevano la possibilità per i dipendenti regionali, anche in quiescenza, e già inquadrati in virtù di una precedente legge regionale, di avvalersi dei benefici dell’art. 86 della legge regionale 1° giugno 1980, n. 47, con l’effetto di essere inquadrati automaticamente nel livello superiore a quello assegnato in sede di primo inquadramento.

Il richiamato art. 86 subordinava il passaggio di livello al superamento di un concorso speciale, per soli titoli, cui era «consentito» l’accesso a varie categorie di dipendenti in presenza di determinati requisiti. Di contro, le disposizioni oggetto del giudizio prevedevano il passaggio nel livello superiore automaticamente, a richiesta degli aventi diritto tenuti, unicamente a presentare domanda nel termine di decadenza di giorni trenta, con ciò realizzando un reinquadramento ope legis di una ristrettissima categoria di dipendenti.

In tale disciplina, la Corte non ha rinvenuto alcuna peculiare situazione che giustificasse la deroga al principio del concorso pubblico (cfr. sentenza n. 159 del 2005), né valeva addurre esigenze legate alla riorganizzazione delle strutture amministrative regionali, poiché le disposizioni si riferivano anche a personale in quiescenza, in relazione al quale non era evidentemente invocabile alcuna esigenza di riorganizzazione, ovvero a personale già in servizio e, come tale, legato da stabile rapporto di dipendenza con l’Amministrazione regionale.

Di contro, nella sentenza n. 407, la Corte non ha ravvisato una violazione al principio del pubblico concorso da parte dell’art. 4, comma 11, legge della provincia Trento 17 giugno 2004, n. 6, il quale riconosce ope legis, ai soli effetti giuridici, la qualifica di «direttore di divisione» al personale con qualifica di «direttore di sezione», facendo decorrere tale inquadramento dalla data della deliberazione della Giunta provinciale che affida le nuove mansioni.

Peculiari ragioni giustificative hanno sorretto, infatti, l’inquadramento ope legis, previsto dalla norma censurata, la quale ha inteso soddisfare le aspettative di una residua quota di funzionari (sei in totale) rivestenti una particolare posizione giuridica, cioè quella di coloro che, ancora alla data di entrata in vigore della legge provinciale n. 12 del 1983, avevano la qualifica di direttore di sezione e che non avevano potuto fruire della disciplina prevista dall’art. 19, comma 9, della legge provinciale n. 3 del 1998 per la prima attribuzione della qualifica di direttore, giacché non in possesso dell’anzianità quinquennale prevista per il passaggio alla qualifica di direttore di divisione in base a scrutinio per merito comparativo. La circostanza, poi, che il passaggio avvenga in una qualifica ad esaurimento, offre ulteriore giustificazione alla deroga, che il legislatore provinciale ha previsto rispetto alla regola del concorso pubblico.

Viceversa, è stata dichiarata fondata la questione di costituzionalità dell’art. 6, comma 7, della stessa legge provinciale, nella parte in cui stabiliva che il personale che fosse stato incaricato presso la Regione della reggenza di ripartizione per almeno cinque anni, venisse «inquadrato, a domanda, nella qualifica di dirigente», in quanto (sentenze n. 218 del 2002, n. 373 del 2002 e n. 274 del 2003), anche l’accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate non sfugge, di norma, alla regola del pubblico concorso e «non sono pertanto ragionevoli norme che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori (senza concorso o comunque senza adeguate selezioni o verifiche attitudinali) o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti» (sentenza n. 159 del 2005). La Corte ha, altresì, precisato che anche «il passaggio da un’area ad un’altra comporta l’accesso ad un nuovo posto di lavoro con relativa progressione in carriera ed è quindi soggetto al principio del pubblico concorso» (sentenze n. 159 del 2005 e n. 320 del 1997). Ne consegue la necessità di «un ragionevole punto di equilibrio fra quest’ultimo principio e l’interesse a consolidare pregresse esperienze lavorative» (ancora sentenza n. 159 del 2005, nonché sentenze n. 205 e n. 34 del 2004).

Sulla scorta di tali considerazioni, il previsto meccanismo dell’inquadramento «a domanda» nella qualifica dirigenziale, non realizzava, nella specie, quel necessario contemperamento tra il principio posto dall’art. 97, terzo comma, Cost. e l’interesse al consolidamento di esperienze lavorative in precedenza maturate, imponendosi dunque una declaratoria di incostituzionalità della disposizione impugnata.

5.4. L’amministrazione sanitaria

Nella sentenza n. 437, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26, che prevedeva la cessazione delle gestioni liquidatorie delle passività delle unità sanitarie locali, ancorché oggetto di giudizi in corso, unitamente all’art. 2, comma 1, nella parte in cui prevedeva che tutti i rapporti giuridici già facenti capo alle unità sanitarie locali operanti nella Regione Liguria, ancorché oggetto di giudizi in qualsiasi sede e grado, si intendevano di diritto trasferiti alle aziende sanitarie locali, alle quali restavano attribuite la titolarità e la legittimazione, sostanziale e processuale, attiva e passiva, e il relativo esercizio da parte dei rispettivi legali rappresentanti.

Tali norme, infatti, confondevano gli esiti della gestione delle vecchie unità sanitarie locali con gli esercizi facenti capo alle aziende e, pertanto, non assicurando la separazione fra la gestione liquidatoria delle passività anteriori al 31 dicembre 1994, risalenti alle unità sanitarie locali, e le attività poste in essere direttamente dalle aziende, non risultavano conformi ai principî fondamentali della legislazione statale.

Il legislatore statale, infatti, ha stabilito il principio che le neoistituite aziende unità sanitarie locali cominciassero a funzionare secondo i nuovi criteri di maggiore economicità e di responsabilità dei dirigenti, senza essere oberate dal passivo accumulato in un sistema di gestione della sanità pubblica che si riteneva generatore di disfunzioni e, perciò, da abbandonare. Ed allo scopo, la Corte ha ricordato la sentenza n. 89 del 2000 dove si ritenne insussistente il denunziato vizio delle impugnate norme della Regione Basilicata in quanto, pur stabilendo esse il passaggio dei pregressi rapporti delle unità sanitarie locali in capo alle aziende di nuova istituzione, tuttavia prevedevano «meccanismi particolari di gestioni distinte e di contabilità separate», tali da consentire alle aziende subentranti di «evitare ogni confusione tra le diverse masse patrimoniali, così da tutelare i creditori, ma, nello stesso tempo, da escludere ogni responsabilità delle stesse aziende sanitarie in ordine ai debiti delle preesistenti unità sanitarie locali».

Nella sentenza n. 111, la Corte ha negato fondamento al dubbio di costituzionalità, prospettato dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia per presunta irragionevolezza, dell’art. 30, comma 4, della legge della Regione Puglia 7 marzo 2003, n. 4, il quale stabilisce che «a norma dell’art. 8-quinquies, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 502 del 1992, ove le strutture pubbliche e private abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato, fissato in misura corrispondente a quelli erogati nel 1998, e il relativo limite di spesa a carico del Servizio sanitario regionale, detti volumi sono remunerati con le regressioni tariffarie fissate dalla Giunta regionale».

Il Tribunale rimettente, in sostanza, riteneva che il riferimento ai volumi di prestazioni sanitarie erogate nel 1998 (ed al limite derivante dalla relativa spesa complessiva, sostenuta nello stesso anno), determinasse una inammissibile sfasatura temporale tra tali elementi e gli effettivi volumi di prestazione (nonché la spesa corrispondente) relativi all’anno 2003.

Si sarebbe trattato, dunque, di una previsione irragionevole, in quanto il legislatore regionale non avrebbe tenuto in alcun conto l’andamento della domanda registrato nel quinquennio intercorso tra il 1998 ed il 2003, e ciò con evidente danno delle strutture sanitarie private.

La Corte, dopo aver premesso che la norma censurata doveva essere interpretata nel senso che, ai fini della remunerazione per intero a valori attuali (riferiti cioè all’anno in cui effettivamente le prestazioni siano state rese), i volumi delle prestazioni medesime, vale a dire la loro quantità e, correlativamente, la spesa complessiva, non potevano essere superiori a quelli del 1998, ha ritenuto che tali riferimenti fossero il frutto, da parte del legislatore regionale, di una scelta discrezionale di politica sanitaria e di contenimento della spesa, la quale, tenuto conto della ristrettezza delle risorse finanziarie dirette a soddisfare le esigenze del settore, non risultava viziata da intrinseca irragionevolezza. Non appare dubbio, infatti, che nel sistema di assistenza sanitaria – delineato dal legislatore nazionale – l’esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario. Di qui la necessità di individuare strumenti che, pur nel rispetto di esigenze minime, di carattere primario e fondamentale, del settore sanitario, coinvolgenti il «nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito individuale della dignità umana» (sentenza n. 509 del 2000), operino come limite alla pienezza della tutela sanitaria degli utenti del servizio.

In quest’ottica, è stato evidenziato che il riferimento all’anno 1998, con particolare riguardo ai volumi quantitativi delle prestazioni sanitarie erogate e alla complessiva spesa sostenuta, trovasse la sua motivazione nella considerazione che per le prestazioni di specialistica ambulatoriale in tale anno la capacità produttiva delle strutture private si era potuta esplicare senza limiti».

Era, del resto, proprio il Tribunale rimettente ad affermare testualmente che, nell’interpretazione della disposizione impugnata, «si deve tener conto che per il 1998, se la delibera della Giunta regionale n. 1800 del 1998 e le successive integrazioni hanno previsto un tetto di spesa globale per le prestazioni di specialistica ambulatoriale e la delibera di Giunta regionale n. 74 del 1999 ha previsto una limitazione delle remunerazioni per i mesi di ottobre e novembre, nessuna limitazione ha in concreto operato», e ciò «per la tardività degli atti adottati» in esecuzione delle delibere suddette.

6. La giurisdizione

Con riferimento all’ordine giudiziario, la Corte ha reso, nel 2005, alcune pronunce relative al principio di indipendenza della funzione giurisdizionale ed ai rapporti tra le giurisdizioni.

6.1. Il principio di indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale

Gli articoli 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione, nonché il “principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato”, sono stati evocati dal Tribunale di Lecce quale parametro nella questione di legittimità dell’art. 20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44, secondo cui la sospensione dei processi esecutivi per la durata di trecento giorni, prevista a favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l’elargizione di cui agli articoli 3, 5, 6 e 8 della stessa legge, «ha effetto a seguito del parere favorevole del prefetto competente per territorio, sentito il Presidente del Tribunale».

La Corte, con la sentenza n. 457, nel dichiarare l’illegittimità della norma de qua limitatamente alla parola «favorevole», ha evidenziato che «la violazione dei principî costituzionali posti a presidio dell’indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale appare palese, considerato che il prefetto viene ad essere investito […] del potere di decidere in ordine alle istanze di sospensione dei processi esecutivi promossi nei confronti delle vittime dell’usura; potere che, proprio perché incidente sul processo, e, quindi, giurisdizionale, non può che spettare in via esclusiva all’autorità giudiziaria». Peraltro, la declaratoria di incostituzionalità può essere circoscritta alla sola parola «favorevole», dal momento che «ciò è sufficiente a restituire alla funzione del prefetto un carattere propriamente consultivo, non vincolante, coerente con la natura – giurisdizionale e non amministrativa – del provvedimento richiesto, mentre il potere decisorio riguardo alla sussistenza dei presupposti per la sospensione del processo esecutivo torna ad essere attribuito al giudice, che ne è – in base ai principî – il naturale ed esclusivo titolare».

6.2. Rapporto fra giurisdizioni

In tema di raffronto fra disciplina del codice civile e norme che regolano il processo amministrativo, l’ordinanza n. 122 ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, censurato, in riferimento agli articoli 3, 24, 97 e 111 Cost., nella parte in cui non consente l’utilizzazione del giudizio di ottemperanza con riguardo alle sentenze del giudice ordinario esecutive, ancorché non passate in giudicato. La Corte ha affermato che la disciplina de qua «rientra nella discrezionalità del legislatore, il quale ha voluto dare concretezza al principio di esecutività delle sentenze di primo grado, evitando che l’amministrazione possa arbitrariamente sottrarsi alle pronunce giurisdizionali». Dal momento che, poi, «sono differenti e non comparabili le azioni esecutive esperibili davanti al giudice ordinario secondo le norme di procedura civile, trattandosi di sentenze o provvedimenti esecutivi che non richiedono l’esame di merito proprio del giudizio di ottemperanza, non può parlarsi di disparità di trattamento fra l’ipotesi di esecuzione di sentenza amministrativa di primo grado, perseguita attraverso il giudizio di ottemperanza, e l’ipotesi di esecuzione delle sentenze di primo grado del giudice ordinario».

In materia di controversie aventi ad oggetto rapporti di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione l’ordinanza n. 213 ha affrontato, dichiarandola manifestamente infondata, la questione di legittimità dell’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, censurato, in particolare, con riferimento agli articoli 3, 24, e 113 Cost., nella parte in cui stabilisce il termine di decadenza del 15 settembre 2000 per la proposizione, davanti al giudice amministrativo, delle controversie riguardanti rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, purché relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998.

La Corte ha ritenuto insussistente la violazione degli articoli 3, 24 Cost. «in quanto la disparità di trattamento tra i dipendenti privati e quelli pubblici, soggetti, relativamente ai diritti sorti anteriormente alla data del 30 giugno 1998, ad un termine di decadenza, è ragionevolmente giustificata dall’esigenza di contenere gli effetti […] prodotti dal trasferimento della competenza giurisdizionale al giudice ordinario e dal temporaneo mantenimento di tale competenza in capo ai tribunali amministrativi, ed in quanto è ampia la discrezionalità del legislatore nell’operare le scelte più opportune – purché non manifestamente irragionevoli e arbitrarie – per disciplinare la successione di leggi processuali nel tempo». Neppure gli articoli 24 e 113 Cost. sono stati vulnerati, dal momento che, «da un lato, non è certamente ingiustificata la previsione di un termine di decadenza e, dall’altro, tale termine (di oltre ventisei mesi) non è […] tale da rendere “oltremodo difficoltosa” la tutela giurisdizionale».

La ratio decidendi dell’ordinanza n. 213 è stata integralmente ribadita con l’ordinanza n. 382.


Sezione II

Le autonomie territoriali

1. Premessa

Nelle pagine che seguono, si passano in rassegna le decisioni che hanno riguardato il sistema delle autonomie territoriali all’interno della Repubblica, rese fondamentalmente in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale, ma anche in sede di conflitto tra Stato e Regioni, nonché, sia pure in minima parte, a seguito di questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale.

Si tratta di un gran n. di decisioni, molte delle quali coinvolgenti una molteplicità di profili: alla luce di ciò, le decisioni di più ampio respiro sono state sovente (parzialmente) frammentate in diversi paragrafi, nella prospettiva di un più immediato riscontro relativo alla ratio decidendi sui singoli profili.

2. La legislazione regionale ed i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario

Con riferimento ai vincoli che si impongono al legislatore regionale (oltre che a quello statale) in relazione alla partecipazione dell’Italia al processo di integrazione comunitaria, di particolare importanza è la sentenza n. 406.

La Corte dichiara l’incostituzionalità degli articoli 1 e 2 della legge della Regione Abruzzo 1° aprile 2004, n. 14, nei quali si prevede la sospensione sino al 31 dicembre 2004 della campagna di profilassi della «blue tongue» (febbre catarrale degli ovini), e si consente, per lo stesso periodo, «in deroga ad ogni altra contraria disposizione», la movimentazione, la commercializzazione e la macellazione, nell’ambito del territorio regionale, dei capi animali non vaccinati.

La pronuncia si segnala perché la illegittimità si fonda sull’esplicito contrasto con la normativa comunitaria, risultando così violato il primo comma dell’art. 117 della Costituzione e restando assorbiti gli altri profili di censura, che evocavano la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «profilassi internazionale» e di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema».

A tanto la Corte perviene esaminando la direttiva n. 2000/75/Ce, dove si prevede una molteplicità di misure precauzionali e, in particolare, ove si abbiano documentate conferme di animali affetti dal virus, si disciplina – tra l’altro – la delimitazione di zone di protezione e zone di sorveglianza, il censimento degli animali morti, o suscettibili di essere infetti, il divieto di movimento di questi animali, la possibilità di abbattimenti di capi, la distruzione dei loro cadaveri, la possibilità di vaccinazioni obbligatorie.

Inoltre, l’attuazione della direttiva è in larga parte affidata alla Commissione, ed in effetti la Corte ha modo di riscontrare una molteplicità di atti comunitari di esecuzione in corrispondenza alle diverse fasi di diffusione della malattia; in particolare, la Corte rinviene una serie di decisioni della Commissione europea, che disciplinano i limiti alla possibilità di movimento degli animali o di loro parti, nonché le possibili eccezioni. In quest’ambito, parti del territorio abruzzese sono state individuate come sottoposte a queste limitazioni. Aggiungasi, in riferimento alle vaccinazioni, la decisione n. 2001/141/Ce del 20 febbraio 2001, che ha previsto che lo Stato italiano realizzi un programma di vaccinazione nelle aree nelle quali erano stati rilevati focolai di febbre catarrale degli ovini.

Pertanto, per la Corte non vi è dubbio che le disposizioni della legge regionale in esame si pongano in palese contrasto con alcune delle prescrizioni fondamentali della normativa europea di cui alla direttiva n. 2000/75/Ce del 20 novembre 2000, così ponendo anche a rischio la complessiva opera di profilassi a livello europeo. Né è certo sostenibile – come argomentato dalla difesa regionale – che la disapplicazione all’interno di un’area regionale della normativa sopranazionale non incida sulla sua complessiva efficacia, che evidentemente presuppone una uniformità di comportamenti per ridurre i rischi di contagio.

Risulta, infine, inconferente il tentativo della difesa regionale di utilizzare il principio comunitario di precauzione, il quale rappresenta un criterio direttivo che deve ispirare l’attuazione delle politiche ambientali della Comunità europea sulla base di dati scientifici sufficienti e attendibili valutazioni scientifiche circa gli effetti che possono essere prodotti da una determinata attività, ma non può certo essere addotto dai destinatari di una normativa comunitaria ad esso ispirata per negarle attuazione.

Altra decisione di interesse, ai presenti fini, è la sentenza n. 150, in cui la Corte esamina i ricorsi del Governo avverso la legge della Regione Puglia 4 dicembre 2003, n. 26, e la legge della Regione Marche 3 marzo 2004, n. 5, in quanto stabilirebbero «un divieto generalizzato di coltivazione di piante e di allevamento di animali geneticamente modificati o di ogni altro tipo di ogm», ponendosi così in contrasto con l’art. 22 della direttiva 2001/18/Ce, la cui portata normativa è dalla difesa erariale ricostruita nel senso che in esso si stabilirebbe il principio della libera circolazione e l’impossibilità, per gli Stati membri, di vietare, limitare o impedire l’immissione in commercio di ogm, come tali o contenuti in prodotti, conformi ai requisiti della direttiva stessa. Le leggi regionali sarebbero altresì contrastanti con l’art. 23 della citata direttiva 2001/18/Ce e con l’art. 25 del decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 224, i quali conterrebbero «una clausola di salvaguardia», in base alla quale solo le previste autorità competenti potrebbero bloccare, ricorrendo gli specifici presupposti e con le modalità previste, la circolazione sul proprio territorio di un prodotto contenente ogm ritenuto pericoloso, avviando una serie di consultazioni al termine delle quali la Commissione Ue dovrebbe decidere sulla fondatezza delle misure unilaterali di salvaguardia, ripristinando un eguale livello di protezione all’interno della Comunità, ovvero invitando lo Stato che le abbia adottate ad abrogarle ed a ripristinare la libera circolazione del prodotto sul proprio territorio.

In ragione di queste argomentazioni, le due leggi regionali violerebbero, in definitiva, l’art. 117, primo comma, della Costituzione, nonché la competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui all’art 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

La Corte dichiara l’inammissibilità dei ricorsi governativi in conseguenza di una evidente erronea indicazione delle norme interposte che dovrebbero dimostrare la illegittimità costituzionale delle disposizioni regionali. Nella decisione si motiva che la direttiva europea 2001/18/Ce, al fine del ravvicinamento delle «legislazioni degli Stati membri riguardanti l’immissione deliberata nell’ambiente di ogm ed al fine di garantire il corretto sviluppo dei prodotti industriali che utilizzano ogm», riguarda l’emissione deliberata nell’ambiente degli organismi geneticamente modificati e la loro immissione in commercio; l’art. 2 della legge della Regione Puglia n. 26 del 2003 e l’art. 2 della legge della Regione Marche n. 5 del 2004 si riferiscono, invece, soltanto alla coltivazione di prodotti agricoli o all’allevamento di animali geneticamente modificati.

Le norme interposte che sarebbero state specificamente violate dalle disposizioni impugnate – e cioè gli articoli 22 e 23 della direttiva 2001/18/Ce e l’art. 25 del d.lgs. n. 224 del 2003 – si riferiscono esclusivamente al commercio degli alimenti contenenti organismi geneticamente modificati: sia la direttiva europea che il d.lgs. n. 224 del 2003 distinguono nettamente la disciplina della «emissione deliberata di ogm per qualsiasi fine diverso dall’immissione in commercio» da quella concernente la «immissione in commercio di OGM come tali o contenuti in prodotti». La asserita violazione del primo comma dell’art. 117 Cost. da parte di disposizioni delle leggi regionali impugnate, che riguardano soltanto tipiche forme di immissioni di ogm nei settori dell’agricoltura e della zootecnia, non può dunque conseguire alla violazione di disposizioni che regolano il diverso profilo della immissione in commercio di ogm.

Lo stesso riferimento alla presunta violazione da parte delle disposizioni regionali impugnate della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente viene solo accennata in relazione al presunto contrasto delle discipline impugnate con i poteri riconosciuti al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio per l’attuazione delle prescrizioni contenute nella direttiva europea e nella legislazione nazionale. La genericità e l’incompiutezza della censura rendono, anche per questa parte, il ricorso inammissibile.

3. Il riparto di competenze legislative

La massima parte delle decisioni che la Corte ha reso relativamente al Titolo V della Parte seconda della Costituzione riguarda, come è chiaro, il riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni. Nella giurisprudenza del 2005, sono stati ripresi molti principî già enucleati nel recente passato (come, ad esempio, quello secondo cui, onde individuare i contenuti delle «materie» utili elementi possono trarsi anche dalla normativa precedente al 2001: così la sentenza n. 26) e se ne sono ricavati, dal sistema, di nuovi.

3.1. Le materie di competenza esclusiva dello Stato

Attraverso le proprie pronunce, la Corte interviene – più o meno incisivamente – su quasi tutti i titoli competenziali previsti all’art. 117, secondo comma, della Costituzione.

3.1.1. «Politica estera»

La sentenza n. 449 affronta, tra le altre, una questione concernente la portata dell’art. 117, secondo comma, lettera a), relativamente alla materia «politica estera».

Con una interpretazione conforme a Costituzione, la Corte dirime il dubbio di costituzionalità sollevato dalla ricorrente Regione Emilia – Romagna avverso l’art. 3, comma 43, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che attribuisce al Ministro degli affari esteri la competenza ad emanare disposizioni per «razionalizzare i flussi di erogazione finanziaria e per semplificare le procedure relative alla gestione delle attività di cooperazione internazionale, con particolare riferimento alle procedure amministrative relative alle organizzazioni non governative». Ritiene, in proposito, la Corte che tale disposizione, non contenendo alcun riferimento testuale alle Regioni quali soggetti attivi della cooperazione internazionale, ben può essere intesa nel senso che il citato potere del Ministro degli affari esteri di emanare un regolamento riguardi soltanto l’attività di cooperazione internazionale dello Stato, e non anche quella delle Regioni. Così interpretata, la disposizione impugnata va ascritta alla materia politica estera, di competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera a), non risultando così lesiva dell’autonomia regolamentare nella materia – di legislazione concorrente – dei rapporti internazionali delle Regioni né della loro autonomia amministrativa e finanziaria.


3.1.2. «Immigrazione»

Con riferimento alla materia «immigrazione», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione, deve segnalarsi, in primo luogo, la sentenza n. 50, nella quale si rileva che vanno ricondotte a tale materia, in cui allo Stato è riconosciuta competenza esclusiva, le funzioni amministrative relative alla gestione dei flussi di entrata dei lavoratori non appartenenti all’Unione europea e all’autorizzazione per attività lavorative all’estero.

Con la sentenza n. 201 si dichiara che le competenze statutarie della Provincia di Bolzano non risultano violate dalle disposizioni, dettate dal decreto legge 9 settembre 2002, n. 195 (art. 1, commi 1, 4 e 5), in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari.

La normativa censurata va, infatti, ricondotta alla materia dell’immigrazione, e non è dunque contemplata tra le attribuzioni statutarie della Provincia ricorrente.

Le disposizioni impugnate, motiva la Corte, disciplinano un particolare procedimento di legalizzazione del lavoro irregolare degli immigrati extracomunitari per i casi di mancanza od invalidità del permesso di soggiorno, senza incidere né sulla disciplina generale della regolarizzazione del lavoro in quanto tale, né sulle competenze legislative statutarie. Esse delineano un procedimento unitario, volto, attraverso il coessenziale apporto delle competenze di due organi dell’amministrazione periferica dello Stato (la Prefettura – Ufficio territoriale del Governo e la Questura), a disciplinare il soggiorno dei lavoratori clandestini extracomunitari ed a legalizzarne contestualmente il lavoro, e dunque a regolare aspetti caratteristici della materia dell’immigrazione, di esclusiva competenza legislativa dello Stato.

La Corte esclude, contestualmente, la denunciata interferenza tra la disciplina censurata e le competenze amministrative riconosciute alla Provincia ricorrente dall’articolo 16 dello statuto speciale. Tale norma, che pone un necessario parallelismo fra competenze legislative e competenze amministrative, non è infatti operante per la rilevata mancanza di competenze legislative statutarie della Provincia in materia di immigrazione.

Con la sentenza n. 300, la Corte non condivide le censure proposte dallo Stato avverso gli articoli 3, comma 4, lettera d), e comma 5; 6, 7 e 10 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 5 (in tema di «integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati»), sull’assunto che tali norme, concernendo l’immigrazione, il diritto di asilo e la condizione giuridica di cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea, disciplinerebbero materie riservate alla legislazione esclusiva statale che non tollerano intrusioni legislative regionali. Al riguardo, la Corte ricorda che il t.u. sulla disciplina dell’immigrazione di cui al d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, regola la materia dell’immigrazione e la condizione giuridica degli stranieri prevedendo che una serie di attività pertinenti la disciplina del fenomeno migratorio e dei suoi effetti sociali vengano esercitate dallo Stato in stretto coordinamento con le Regioni, alle quali sono direttamente affidate alcune competenze, secondo criteri che tengono conto del fatto che l’intervento pubblico non si limita al doveroso controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, ma riguarda necessariamente altri ambiti, dall’assistenza all’istruzione, dalla salute all’abitazione, materie che intersecano competenze dello Stato con altre regionali, in forma esclusiva o concorrente. In tale quadro normativo, non è dato ravvisare la violazione, da parte della legge della Regione Emilia-Romagna, delle competenze esclusive statali, in quanto il denunciato art. 3, comma 4, lettera d), in base al quale la Regione svolge attività di osservazione e monitoraggio, «per quanto di competenza ed in raccordo con le prefetture», del funzionamento dei centri di permanenza temporanea di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, non contiene alcuna disciplina dei centri in contrasto con quella statale che li ha istituiti, limitandosi a prevedere la possibilità di attività rientranti nelle competenze regionali, quali l’assistenza in genere e quella sanitaria in particolare, secondo modalità tali da impedire comunque indebite intrusioni; inoltre, gli articoli 6 e 7 della legge regionale, che disciplinano le forme partecipative degli stranieri nella Consulta regionale per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati costituiscono la attuazione delle disposizioni statali che prevedono forme di partecipazione dei cittadini stranieri soggiornanti regolarmente nel Paese alla vita pubblica locale, senza disciplinare in alcun modo la condizione giuridica dei cittadini extracomunitari, né il loro diritto di chiedere asilo, affidati alla sola legge statale; anche l’art. 10 della legge, che attribuisce ai cittadini stranieri immigrati la possibilità di accedere ai benefici previsti dalla normativa in tema di edilizia residenziale pubblica, si limita a disciplinare, nel territorio regionale, un diritto già riconosciuto in via di principio dal t. u. del 1998. Quanto all’art. 3, comma 5, della legge, per cui la Regione esercita i poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali inadempienti secondo le modalità previste dalla vigente disciplina regionale, la disposizione è immune da censura, perché l’inadempimento da parte degli enti locali si riferisce chiaramente alle attività che la legge regionale affida agli enti locali, sicché l’indicazione a parametro dell’art. 120 Cost., evocato dal ricorrente, è inconferente, atteso che la norma costituzionale riguarda espressamente il potere sostitutivo straordinario statale.

3.1.3. «Difesa»

Nella sentenza n. 431, la Corte esamina i ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri avverso la legge della Provincia autonoma di Bolzano 19 ottobre 2004, n. 7, che reca disposizioni per la valorizzazione nella Provincia del servizio civile volontario e avverso la legge della Regione Marche 23 febbraio 2005, n. 15, che istituisce il sistema regionale del servizio civile. Le doglianze si incentrano essenzialmente su una pretesa invasione della competenza statale là dove diverse disposizioni, esorbitando dalla competenza provinciale e regionale, inciderebbero su aspetti organizzativi e procedurali del servizio civile nazionale, anziché limitarsi alla disciplina delle concrete attività in cui questo si sostanzia.

Richiamandosi alle principali affermazioni contenute nella sentenza n. 228 del 2004, la Corte esamina le singole censure, ravvisando una prima incostituzionalità nell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2004, che ai fini della valorizzazione del servizio civile volontario «dietro compensi, crediti e benefici», fa riferimento al servizio civile nazionale per un periodo da sei a dodici mesi anziché attenersi alla durata complessiva del servizio civile nazionale prevista dalla legislazione statale (art. 3, comma 3, del decreto legislativo n. 77 del 2002), fissato in un periodo di dodici mesi, con ciò incidendo su uno degli aspetti attinenti alla organizzazione del servizio, di esclusiva competenza dello Stato.

Non contrastano, invece, con i parametri costituzionali evocati dallo Stato le disposizioni della legge della Provincia di Bolzano e della legge della Regione Marche, che disciplinano tanto il potere di programmazione, anche per il tramite della fissazione di linee guida, e di vigilanza, quanto quello di dettare criteri per l’approvazione dei progetti di sevizio civile, in quanto, in questo ambito, sia la Provincia autonoma sia la Regione hanno piena competenza nella disciplina del «proprio» servizio civile.

Peraltro, continua la Corte, le norme impugnate riferendosi anche al servizio civile nazionale, consentono la delineazione di un sistema nel quale allo Stato è riservata la programmazione e l’attuazione dei progetti a rilevanza nazionale ed alle Regioni e alle Province autonome è demandato il compito di occuparsi, nell’ambito delle rispettive competenze, della realizzazione dei progetti di servizio civile nazionale di rilevanza regionale o provinciale, nel rispetto delle linee di programmazione, indirizzo e coordinamento tracciate a livello centrale e delle norme di produzione statale individuanti caratteristiche uniformi per tutti i progetti di servizio civile nazionale.

Pertanto, ove questo intreccio di competenze tra Stato, Regioni e Province autonome si realizzi, rientra nei poteri delle Regioni e delle Province autonome orientare lo sviluppo delle iniziative attinenti al servizio civile nazionale da svolgersi sul territorio regionale o provinciale in senso conforme alle linee di indirizzo seguite dalle stesse nei vari settori interessati all’attuazione dei progetti, purché non in contrasto con gli indirizzi e le caratteristiche risultanti dalla normativa statale, come pure stabilire ordini di priorità e criteri ulteriori, ma specificativi di quelli nazionali, cui attenersi nella approvazione dei progetti, vigilando sull’attuazione degli stessi.

In definitiva, le norme impugnate si prestano ad una lettura rispettosa sia della programmazione statale sia della uniforme delineazione delle caratteristiche di base dei progetti e, al contempo, capace di cogliere i bisogni delle diverse aree, in vista dell’attuazione degli interventi nell’ambito delle diverse competenze in gioco.

Infondato risulta anche il ricorso avverso l’art. 7, comma 1, lettera b), della legge della Provincia di Bolzano, che attribuisce alla Provincia stessa il compito di promuovere la formazione di base dei volontari per supposto contrasto con l’art. 11, comma 3, del decreto legislativo n. 77 del 2002.

Sottolinea, in proposito, la Corte che, ai sensi della norma statale citata, l’Ufficio nazionale, sentita la Conferenza Stato-Regioni, «definisce i contenuti base per la formazione», ed i corsi di formazione generale «sono organizzati dall’Ufficio nazionale, dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano».

Pertanto, la Provincia autonoma non è estranea né alla formazione di base dei volontari del servizio civile nazionale, essendo chiamata all’organizzazione dei corsi da svolgere in sede locale, né alla individuazione delle materie, posto che la riserva in favore dell’Ufficio nazionale riguarda soltanto la definizione dei «contenuti base» per la formazione, ma non esclude che la Provincia autonoma possa arricchire i contenuti della formazione in quei settori in cui essa esercita la propria competenza legislativa (ad esempio, assistenza sociale e sanitaria, attività culturali, ricreative e di tempo libero, protezione civile, tutela dell’ambiente e del paesaggio).

La declaratoria di incostituzionalità colpisce, invece, l’art. 14, comma 1, lettera a), della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2004, nella parte in cui demanda ad un regolamento di esecuzione la disciplina, tra i benefici previsti a favore dei volontari del servizio civile nazionale, anche dei crediti formativi per la formazione universitaria e professionale.

La Corte, al riguardo, fa presente che l’art. 10, comma 2, della legge n. 64 del 2001 affida allo Stato, in una logica di incentivazione dei cittadini a prestare il servizio civile e di riconoscimento delle competenze acquisite, la determinazione degli standards dei crediti formativi spettanti ai soggetti che, ai fini del compimento di periodi obbligatori di pratica professionale o di specializzazione, aspirano al conseguimento delle abilitazioni richieste per l’esercizio delle professioni (cfr. sentenza n. 228 del 2004).

In questa prospettiva, tale incentivazione rientra nell’organizzazione unitaria del servizio civile nazionale, come tale eccedente la competenza provinciale e di esclusiva spettanza dello Stato.

Un parziale accoglimento riceve anche la questione avverso l’art. 14, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 7 del 2004, che demanda ad un regolamento di esecuzione la disciplina delle modalità e dei requisiti per l’iscrizione all’albo provinciale degli enti di servizio civile.

L’art. 5 del decreto legislativo n. 77 del 2002 prevede che presso l’Ufficio nazionale è tenuto l’albo nazionale cui possono iscriversi gli enti e le organizzazioni in possesso dei requisiti previsti dall’art. 3 della legge n. 64 del 2001 ai fini della presentazione di progetti per il servizio civile nazionale e che le Regioni e le Province autonome provvedono all’istituzione di albi su scala regionale o provinciale, nei quali possono iscriversi gli enti e le organizzazioni in possesso dei medesimi requisiti svolgenti attività esclusivamente in ambito regionale e provinciale.

Pertanto, la norma della legge provinciale, là dove prevede il potere della Provincia di stabilire, con proprio regolamento, requisiti ai fini dell’iscrizione all’albo, ulteriori rispetto a quelli fissati dalla legge statale, detta una misura direttamente incidente sull’organizzazione del servizio civile nazionale e sull’accesso ad esso, e perciò viola la competenza esclusiva statale in materia, in mancanza di alcun titolo legittimante da parte dello statuto speciale.

Sempre in relazione all’iscrizione all’albo, la Corte respinge, invece, l’impugnativa avverso l’art. 5, comma 2, della legge della Regione Marche n. 15 del 2005 ai sensi del quale nella prima sezione dell’albo, relativa al servizio civile nazionale, sono iscritti i soggetti in possesso dei requisiti previsti dalla normativa statale vigente, nonché le sedi locali degli enti e delle organizzazioni iscritti all’albo nazionale; qualora, poi, un ente iscritto nell’albo nazionale abbia più sedi nel territorio regionale, si procede ad un’unica iscrizione (con l’indicazione delle singole sedi abilitate alla presentazione dei progetti).

Ad avviso della Corte, la norma denunciata è priva di contenuto lesivo, essendo meramente strumentale ad una ricognizione delle realtà organizzative del servizio nazionale presenti sul territorio regionale, tanto più che la detta iscrizione non condiziona l’accesso al servizio, come è reso palese dal fatto che, secondo la stessa legge regionale sono ammessi a svolgere il servizio civile nazionale nel territorio regionale i soggetti previsti dalla normativa statale vigente.

Altre questioni riguardanti le disposizioni della legge della Regione Marche, che attribuiscono alla Regione le attività connesse alla stipulazione dei contratti di servizio civile, prevedono l’emanazione di un bando regionale anche per i progetti di servizio civile nazionale e stabiliscono che l’avvenuta prestazione del servizio civile regionale preclude la possibilità di presentare ulteriore domanda, vengono dichiarate non fondate in quanto possono essere interpretate nel senso di riferirsi esclusivamente al servizio civile regionale.

Non fondata si rivela, infine, la censura che investe gli articoli 12 e 13 della legge della Regione Marche, che riguardano l’istituzione del fondo per il sistema regionale del servizio civile e le disposizioni finanziarie ai fini della copertura degli oneri derivanti dall’attuazione della legge.

La Corte non condivide l’assunto del Governo ricorrente secondo cui le disposizioni impugnate consentirebbero di finanziare con le risorse nazionali anche il servizio civile regionale ed opererebbero trasferimenti di quote, dal fondo statale al fondo regionale.

Infatti, la legge n. 64 del 2001, che prevede l’istituzione del fondo nazionale per il servizio civile, costituito dalla specifica assegnazione annuale iscritta nel bilancio dello Stato e dagli stanziamenti per il servizio civile nazionale di Regioni, Province, enti locali ed altri enti pubblici e privati colloca il fondo stesso presso l’Ufficio nazionale per il servizio civile, che l’amministra formulando annualmente un piano di intervento, sentita la Conferenza Stato-Regioni, nel quale deve essere prevista la ripartizione delle risorse del fondo, da destinare, in parte, anche alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Pertanto, la confluenza nel fondo per il sistema regionale del servizio civile di quote delle risorse del fondo nazionale non implica il denunciato finanziamento, con risorse nazionali, degli interventi del servizio civile regionale poiché le quote da ripartire mantengono la loro originaria caratterizzazione finalistica, ciò che esclude qualsiasi sottrazione di fondi destinati al servizio civile nazionale.

3.1.4. «Tutela della concorrenza»

Sulla «tutela della concorrenza», la Corte ha reso due decisioni di notevole rilievo (sentenze nn. 134 e 175). Ad esse possono aggiungersi i riferimenti contenuti nelle sentenze nn. 50 e 285: nella prima si chiarisce che l’attività di intermediazione, nella sua più ampia accezione, può costituire oggetto di normale attività imprenditoriale ed è quindi soggetta anche alle norme che tutelano la concorrenza; nella seconda si afferma che è improprio, invece, il riferimento alla tutela della concorrenza con riguardo al sostegno alle attività cinematografiche, dal momento che esso non appare essenzialmente finalizzato a garantire la concorrenza fra i diversi soggetti interessati, quanto invece a sostenere selettivamente «i film che presentano qualità culturali o artistiche o spettacolari» (ragionando diversamente, si arriverebbe alla inaccettabile conclusione secondo la quale la competenza statale in tema di tutela della concorrenza si sovrapporrebbe ad ogni tipo e forma di finanziamento delle attività riconducibili alle materie di competenza legislativa delle Regioni, sia di tipo concorrente che residuale).

Con la sentenza n. 134, avente ad oggetto l’art. 4, commi 18 e 19, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (finanziamento di contratti di programma nei settori dell’agricoltura e della pesca), la Corte respinge le doglianze della regione ricorrente secondo cui le disposizioni impugnate interverrebbero nelle materie di competenza regionale dell’agricoltura e della pesca, non realizzerebbero il finanziamento integrale delle funzioni ordinarie delle Regioni e, ove pure fosse ravvisabile l’esercizio di una competenza sussidiaria da parte dello Stato nella previsione e gestione del fondo, non prevederebbero la necessaria intesa delle Regioni interessate ai fini dell’approvazione dei contratti di programma.

Al riguardo, la Corte fa presente che le disposizioni impugnate ripropongono la medesima disciplina sostanziale (art. 67, comma 1, della legge n. 448 del 2001) già favorevolmente scrutinata dalla sentenza n. 14 del 2004. Le uniche differenze, a parte l’entità dei fondi, attengono alla concentrazione delle competenze in capo al Ministero delle politiche agricole e forestali ed al mancato espresso riferimento alla possibilità di attivare i contratti sull’intero territorio nazionale (non facendosi peraltro più cenno ai patti territoriali, cui pure si riferiva l’art. 67 della legge n. 448 del 2001).

Ma l’elemento più significativo è dato dal fatto che la dimensione macroeconomica dell’intervento previsto dalla nuova disciplina è assicurata, come nel caso dell’art. 67 della legge n. 448 del 2001, dallo strumento usato (cfr. sentenza n. 272 del 2004) e cioè dal ricorso ai contratti di programma, i quali hanno la funzione, insieme ad altri strumenti che rientrano nella più lata nozione di programmazione negoziata, di stimolare la crescita economica e rafforzare la concorrenza sul piano nazionale. E non è senza significato che la programmazione negoziata rientri tra gli strumenti di politica economica previsti dal documento di programmazione economica e finanziaria per il periodo 2004-2007.

Si tratta, dunque, di interventi finanziari che rientrano nella materia della tutela della concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione e sono di pertinenza esclusiva dello Stato, per cui non lede la Regione ricorrente né l’attribuzione delle funzioni statali all’uno piuttosto che ad altro Ministero, né il trasferimento delle competenze finanziarie da uno ad altro stato di previsione del bilancio dello Stato.

Né vale richiamare la deliberazione del Cipe, la quale ha deciso di «regionalizzare» i finanziamenti in questione, nel duplice senso di reimpiegare nell’ambito del territorio regionale i finanziamenti già concessi e poi revocati e di prevedere la facoltà per la Regione di esercitare le relative funzioni amministrative. Le disposizioni legislative impugnate vanno infatti valutate ex se (cfr. sentenza n. 14 del 2004), senza che possano assumere alcun rilievo, ai fini del giudizio di costituzionalità, le modalità con le quali esse vengono attuate sul piano amministrativo.

La sentenza n. 175 ha avuto, invece, ad oggetto l’art. 4, commi 61 e 63, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Fondo per il sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore del “made in Italy”), censurato sul rilievo che le dimensioni finanziarie» dell’intervento statale ne escludano il carattere macro-economico ed impongano di ricondurlo, in base al criterio di prevalenza di cui alla sentenza n. 370 del 2003, alla materia del «commercio con l’estero» prevista dall’art. 117, terzo comma, Cost. Inoltre, nel ricorso si afferma che, trattandosi di materia riservata alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regione, sarebbe illegittima la previsione di un regolamento governativo per contrasto con l’art. 117, sesto comma, Cost., così come la mancata previsione di una qualsiasi partecipazione delle Regioni violerebbe il principio di leale collaborazione operante «ogni qualvolta lo Stato agisca in materie non sue esclusive a tutela di esigenze unitarie.

Preliminarmente, osserva la Corte che il carattere (asseritamente) modesto dal punto di vista finanziario dell’intervento non è certamente decisivo per escludere la sua riconducibilità alla materia della «tutela della concorrenza» di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., ma può, al più, costituire un indizio in tale senso: ed infatti, si ribadisce che proprio l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e la tutela della concorrenza rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, ma anche in quell’accezione dinamica che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali (sentenza n. 14 del 2004).

La Corte ha quindi precisato (sentenza n. 272 del 2004) che «non spetta [ad essa] valutare in concreto la rilevanza degli effetti economici derivanti dalle singole previsioni di interventi statali […] stabilire, cioè, se una determinata regolazione abbia effetti così importanti sull’economia di mercato […] tali da trascendere l’ambito regionale [ma solo] che i vari strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi».

La (pretesa) modestia dell’intervento statale non determina, quindi, di per sé l’estraneità alla materia di cui alla lettera e) dell’art. 117, secondo comma, Cost., ma potrebbe semmai costituire sintomo della manifesta irrazionalità della pretesa dello Stato di porre in essere, attraverso quell’intervento, uno strumento di politica economica idoneo ad incidere sul mercato; in breve, le scelte del legislatore sono, in questa materia, censurabili solo quando «i loro presupposti siano manifestamente irrazionali e gli strumenti di intervento non siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi» (sentenza n. 14 del 2004). Pertanto, «il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza appare essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla “tutela della concorrenza” e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali» (sentenza n. 272 del 2004).

Nel caso di specie, la norma censurata rivela pianamente la sua natura di «ragionevole e proporzionato» intervento statale nell’economia volto a promuovere lo sviluppo del mercato attraverso una campagna che diffonda, con il marchio «made in Italy», un’immagine dei prodotti italiani associata all’idea di una loro particolare qualità: dove è evidente la presenza di un rapporto, che certamente non può ritenersi irragionevole tra lo strumento impiegato e l’obiettivo (di sviluppo economico del Paese) che si è prefisso il legislatore statale, così come è evidente che sussiste il requisito dell’adeguatezza per ciò solo che lo strumento impiegato, per sua natura, suppone che sia predisposto e disciplinato dallo Stato perché solo lo Stato può porre in essere strumenti di politica economica tendenti a svolgere sull’intero mercato nazionale un’azione di promozione e sviluppo (sentenza n. 303 del 2003).

È ben vero che, dichiaratamente, il comma 61 dell’art. 4 mira alla diffusione all’estero (nei mercati mediterranei, dell’Europa continentale e orientale) del «made in Italy», ma tale previsione, lungi dall’implicare la riconducibilità alla (ovvero una commistione con la) materia del «commercio con l’estero», esprime soltanto l’auspicata ripercussione sul commercio con l’estero dell’intervento statale volto alla diffusione di un’idea di qualità dei prodotti (in generale) di origine italiana. La circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato abbia in futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla potestà legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie.

L’inquadramento della disciplina de qua nella materia-funzione della «tutela della concorrenza» esclude che possa ravvisarsi una violazione del precetto di cui all’art. 117, sesto comma, Cost., per il fatto che il regolamento disciplinante «le indicazioni di origine e l’istituzione ed uso del marchio» sia emanato dal Ministro delle attività produttive (di concerto con altri) senza coinvolgimento delle Regioni.

Per quanto riguarda i compiti attribuiti alla Scuola superiore dell’economia e delle finanze, la Corte ritiene che la norma impugnata parlando di «supporto formativo» non implica un riferimento alla materia della «formazione professionale» che l’art. 117, terzo comma, Cost. riserva alla competenza residuale delle Regioni e che la Corte ha ritenuto non implicata quando la «formazione» è accessoria rispetto ad un rapporto di lavoro: al che deve aggiungersi che, nella specie, l’attività prevista dalla norma può definirsi, atteso il suo oggetto, più di informazione che non di vera e propria formazione professionale.

Attesa la natura del marchio «made in Italy», quale si è in precedenza tratteggiata, non è pertinente l’invocazione, da parte della Regione ricorrente, delle materie, di competenza concorrente, della «ricerca scientifica e tecnologica» e del «sostegno all’innovazione per i settori produttivi», essendo evidente che il «supporto formativo e scientifico» di cui parla la norma censurata, per ciò solo che mira alla «diffusione del “made in Italy”», è funzionale unicamente all’efficacia della comunicazione e, quindi, della promozione di prodotti (in quanto) italiani.

Più pertinente appare il richiamo alla materia del «commercio con l’estero», specie se visto in connessione – come sottolinea la Regione ricorrente – con la circostanza che alle Regioni è stata conferita «l’organizzazione, anche avvalendosi dell’Istituto nazionale per il commercio estero (Ice), di corsi di formazione professionale, tecnica e manageriale per gli operatori commerciali con l’estero» [art. 41, comma 2, lettera g) del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59].

In proposito, tuttavia, l’attività istituzionale della Scuola – come si evince dalla previsione che essa «è svolta prioritariamente dal personale di ruolo» – ha come principale destinatario il «personale dell’amministrazione dell’economia e delle finanze, nonché, su richiesta delle agenzie fiscali e degli altri enti che operano nel settore della fiscalità e dell’economia, il personale di questi ultimi» (art. 1, comma 2, d.m. 28 settembre 2000, n. 301): il che, unitamente al fatto che la disciplina in esame deve ricondursi, come si è chiarito, alla materia di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., rende evidente come ad un organismo statale, quale è la Scuola superiore dell’economia e delle finanze, non possa inibirsi di curare autonomamente l’attività di «supporto formativo e scientifico» prevista dalla norma de qua.

Altrettanto evidente è che tale attività ben potrà essere svolta anche dalle Regioni nei corsi di formazione da esse organizzati e che sarebbe auspicabile una «leale collaborazione» tra la Scuola superiore e le iniziative regionali; collaborazione, viceversa, necessaria quando dal «supporto formativo e scientifico» offerto genericamente al «made in Italy» si dovesse passare a quello rivolto a specifici prodotti, in relazione ai quali non potrebbe prescindersi dal coinvolgimento delle Regioni di origine di tali prodotti.

3.1.5. «Sistema tributario e contabile dello Stato»

Nella sentenza n. 335, si dichiara l’incostituzionalità dell’art. 44, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 14 aprile 2004, n. 7, nella parte in cui rimette a deliberazione della Giunta il metodo di fissazione del tributo per il deposito in discarica dei rifiuti, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, che attribuisce allo Stato la legislazione esclusiva in materia di sistema tributario e contabile dello Stato. Motiva, al riguardo, la Corte che l’articolo 3 della legge 28 dicembre 1995, n. 549, ha istituito il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (comma 24), con devoluzione dello stesso alle regioni (comma 27) ed ha stabilito che l’ammontare dell’imposta è fissato, entro determinati limiti, con legge della Regione. Tale tributo, sulla base della costante giurisprudenza della Corte, è da considerarsi statale e non proprio della Regione, senza che rilevi, in contrario, la devoluzione del relativo gettito alle regioni, con la conseguenza che, salvi i casi previsti dalla legge statale, si deve tuttora ritenere preclusa la potestà delle Regioni di legiferare sui tributi esistenti e regolati da leggi statali (cfr. sentenza n. 37 del 2004).

Nella sentenza n. 397, la Corte esamina l’art. 1 della legge della Regione Molise n. 18 del 2004, dove si stabilisce che «l’ammontare del tributo speciale è determinato, a decorrere dal 1° gennaio 2005», secondo gli importi precisati nello stesso comma e maggiorati rispetto a quelli anteriormente vigenti. La nuova determinazione dell’importo del suddetto tributo speciale, dunque, pur essendo intervenuta successivamente al 31 luglio del 2004 (con la citata legge regionale n. 18 del 2004), viene espressamente dichiarata efficace dalla norma impugnata a decorrere dal 1° gennaio 2005: è perciò evidente la violazione del disposto del comma 29 (secondo periodo) dell’art. 3 della legge statale n. 549 del 1995, per il quale il superamento del limite temporale del 31 luglio nella promulgazione della legge regionale comporta, invece, la proroga per tutto l’anno solare successivo del «vigente» importo dell’imposta. Il rilevato contrasto tra la norma regionale impugnata e la norma statale interposta evocata dal ricorrente implica l’illegittimo esercizio da parte della Regione Molise della propria potestà legislativa in una materia in cui lo Stato ha competenza legislativa esclusiva (art. 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione).

3.1.6. «Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali»

La materia concernente l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali è venuta in considerazione sotto diversi profili, e segnatamente quello del reclutamento del personale (sentenza n. 26), quello del contenimento della spesa pubblica (sentenza n. 37), quello collegato alla disciplina degli Ordini e Collegi professionali (sentenza n. 405) e quello del personale scolastico (sentenza n. 279).

Secondo quanto si stabilisce nella sentenza n. 26, l’art. 2 della legge della Regione Toscana 4 agosto 2003, n. 42, là dove disciplina il reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni per le qualifiche ed i profili per i quali sia richiesta la sola scuola dell’obbligo, risulta lesivo delle competenze esclusive dello Stato in materia di ordinamento ed organizzazione amministrativa dello Stato stesso e degli enti pubblici nazionali, nella parte in cui include le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali esistenti nel territorio regionale.

Al riguardo, ricorda la Corte che la normativa statale (l. n. 56 del 1987, e d.P.R. n. 442 del 2000), già in precedenza riservava alla pubblica amministrazione il reclutamento del proprio personale, disciplinando il relativo avviamento a selezione e che successivamente è stato disciplinato (d.lgs. n. 165 del 2001) il reclutamento riguardante proprio il personale per il quale «è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo».

Peraltro, anche il più recente complesso normativo costituito dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), contenente anche la disciplina dei servizi per l’impiego ed in particolare del collocamento, espressamente ne esclude l’applicabilità al personale delle pubbliche amministrazioni. La formazione dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni costituisce quindi – come regola generale – oggetto di disciplina autonoma, ciò che è contraddetto dalla disciplina regionale impugnata, la quale incide direttamente sui modi del reclutamento e sui contenuti e sugli effetti di tale reclutamento in relazione al personale delle sedi centrali e degli uffici periferici di amministrazioni ed enti pubblici a carattere nazionale.

Pertanto, conclude la Corte, la norma incide indebitamente sulla organizzazione amministrativa delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali.

La Corte, con la sentenza n. 37, ritiene non fondata, in riferimento all’art. 117, comma terzo, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 2, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, il quale prevede che, con decreto ministeriale, vengano fissati i criteri e i parametri per la definizione delle dotazioni organiche dei collaboratori scolastici in modo da conseguire nel triennio 2003-2005 una riduzione complessiva del 6 per cento della consistenza numerica della dotazione organica determinata per l’anno scolastico 2002-2003. Motiva la Corte che, in base all’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, tutto il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario in forza agli enti locali è stato trasferito alle dipendenze dello Stato e che quindi lo sono anche i collaboratori scolastici, inquadrati come personale ausiliario nel profilo di area A, che svolge mansioni esecutive. Pertanto, la disposizione mira a contenere la spesa pubblica attraverso la contrazione graduale degli organici del personale alle dipendenze dello Stato, sicché tale intervento deve essere ascritto alla materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione.

Oggetto dell’impugnativa decisa con la sentenza n. 405 sono gli articoli 2, 3 e 4 della legge della Regione Toscana 28 settembre 2004, n. 50, che definisce le modalità di raccordo tra la Regione e le professioni intellettuali regolamentate con la costituzione di Ordini o Collegi e istituisce la Commissione regionale delle professioni e delle associazioni professionali.

Ritiene la Corte che la normativa regionale, prevedendo la costituzione obbligatoria dei coordinamenti (art. 2), disponendo che tali coordinamenti debbano essere finanziati con il contributo degli iscritti agli Ordini o Collegi (art. 2), attribuendo ad essi funzioni finora svolte dagli Ordini o dai Collegi (art. 3), e, infine, prevedendo che tali coordinamenti abbiano un ruolo nella neo istituita Commissione per le professioni, organo consultivo della Regione (art. 4), abbia fuor di ogni dubbio inciso sull’ordinamento e sull’organizzazione degli Ordini e dei Collegi.

La vigente normazione riguardante gli Ordini e i Collegi, continua la Corte, risponde all’esigenza di tutelare un rilevante interesse pubblico la cui unitaria salvaguardia richiede che sia lo Stato a prevedere specifici requisiti di accesso e ad istituire appositi enti pubblici ad appartenenza necessaria, cui affidare il compito di curare la tenuta degli albi nonché di controllare il possesso e la permanenza dei requisiti in capo a coloro che sono già iscritti o che aspirino ad iscriversi. Ciò è, infatti, finalizzato a garantire il corretto esercizio della professione a tutela dell’affidamento della collettività.

Dalla dimensione nazionale – e non locale – dell’interesse sotteso e dalla sua infrazionabilità deriva che ad essere implicata sia la materia «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali», che l’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione riserva alla competenza esclusiva dello Stato, piuttosto che la materia «professioni» di cui al terzo comma del medesimo articolo 117 della Costituzione, evocata dalla resistente.

Per tali motivi, gli impugnati articoli 2 e 3 della legge regionale, in quanto istituiscono e attribuiscono funzioni ai coordinamenti regionali, devono dichiararsi costituzionalmente illegittimi. Da tale illegittimità consegue altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della medesima legge, perché, pur istituendo un organo regionale con compiti consultivi, prevede in esso la partecipazione di rappresentanti dei predetti coordinamenti, come sopra ritenuti illegittimamente costituiti.

Nell’esaminare l’impugnativa, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna e Friuli – Venezia Giulia, di numerose disposizioni del decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, che detta le norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53, la Corte, con la sentenza n. 279, dichiara non fondata la questione riferita al comma 5 dell’art. 14, nella parte in cui dispone che, ai fini dell’espletamento dell’orario di servizio obbligatorio, il personale docente interessato ad una diminuzione del suo attuale orario di cattedra viene utilizzato per finalità e attività educative e didattiche. La norma non può violare le competenze regionali in materia di istruzione, né l’autonomia scolastica, poiché l’utilizzazione di personale docente statale rientra senza alcun dubbio nella competenza esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione.

Priva di fondamento risulta, pure, la censura riferita agli art. 7, commi 5, secondo periodo, e 6, e art. 10, comma 5, secondo periodo, che prevedono – rispettivamente per la scuola primaria e secondaria, indicandone anche, quanto alla scuola primaria, l’impegno orario minimo – la figura del cosiddetto tutor, definito come il docente in possesso di specifica formazione che, in costante rapporto con le famiglie e con il territorio, svolge funzioni di orientamento nella scelta delle attività facoltative, di «tutorato» degli allievi, di coordinamento delle attività educative e didattiche, di cura delle relazioni con le famiglie e di cura della documentazione del percorso formativo compiuto dall’allievo, con l’apporto degli altri docenti. Nella specie, infatti, tali norme non possono qualificarsi norme di dettaglio, in quanto la definizione dei compiti e dell’impegno orario del personale docente, dipendente dallo Stato, rientra nella competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione, trattandosi di materia attinente al rapporto di lavoro del personale statale.

3.1.7. «Ordine pubblico e sicurezza»

La materia «ordine pubblico e sicurezza» è stata esaminata in due decisioni.

Con la sentenza n. 95 sono state decise questioni concernenti leggi regionali che, eliminando l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, di cui all’art. 14 della legge 30 aprile 1962, n. 283, per il personale addetto alla produzione e vendita di alimenti e per il personale delle farmacie, si riteneva che violassero la competenza legislativa esclusiva statale di cui al secondo comma, lettera h), dell’art. 117 della Costituzione.

La Corte, riprendendo quanto già rilevato nella sentenza n. 162 del 2004, ha dichiarato infondata tale censura, dal momento che, nel vigore del nuovo art. 117 della Costituzione, fin dalla sentenza n. 407 del 2002, si è sempre ribadito che la materia in questione si riferisce «all’adozione delle misure relative alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico». D’altra parte, il termine «ordine pubblico» utilizzato dalla Corte di cassazione in alcune pronunce concernenti l’obbligo di dotarsi del libretto sanitario sulla base della legislazione statale ha il significato proprio della disciplina codicistica, sostanzialmente diverso da quello utilizzato dal secondo comma dell’art. 117 della Costituzione.

Anche la sentenza n. 383 si sofferma sul profilo definitorio, sottolineando come la materia «ordine pubblico e sicurezza» riguardi solo gli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico (cfr. sentenze n. 407 del 2002, n. 6, n. 162, n. 428 del 2004 e n. 95 del 2005), e non certo la sicurezza tecnica o la sicurezza dell’approvvigionamento dell’energia elettrica (mentre eventuali turbative dell’ordine pubblico in conseguenza di gravi disfunzioni del settore energetico potrebbero semmai legittimare l’esercizio da parte del Governo dei poteri di cui all’art. 120, secondo comma, della Costituzione).

3.1.8. «Giurisdizione e norme processuali»

Tra le molte questioni che sono state decise nelle sentenze nn. 50 e 384 alcune hanno riguardato i confini della materia «giurisdizione e norme processuali».

Ad avviso della Corte, devono essere ricondotte ad essa quelle disposizioni della c.d. legge Biagi (legge n. 30 del 2003) volte a condizionare l’esercizio in giudizio di diritti nascenti dal contratto di lavoro e la stessa attività dei giudici. In particolare, nella sentenza n. 50, la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, lettere e) ed f) della legge n. 30 del 2003 che prevede principî e criteri direttivi per l’adozione di decreti legislativi in materia di certificazione dei rapporti di lavoro, e segnatamente la lettera e) l’attribuzione di piena forza legale al contratto certificato, nonché la restrizione a specifiche ipotesi della possibilità ad agire in giudizio e la lettera f) la previsione di espletare il tentativo obbligatorio di conciliazione nonché il mantenimento degli effetti degli accertamenti dell’organo certificatore finché non sia provata l’erronea qualificazione del programma negoziale o la difformità nella sua attuazione.

Sulla base di questo assunto, nella sentenza n. 384, sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, in quanto la disposizione censurata concerne direttive del Ministro del lavoro volte ad uniformare l’azione dei vari soggetti abilitati alla certificazione dei rapporti di lavoro.

Parimenti, vanno ricondotte alla materia «giurisdizione e norme processuali» le funzioni amministrative relative alla conciliazione delle controversie di lavoro individuali e plurime, nonché alla risoluzione delle controversie collettive di rilevanza pluriregionale per l’incidenza che la previsione e la regolamentazione del tentativo di componimento bonario delle liti possono avere sullo svolgimento del processo. Sulla base di questa ratio, sempre nella sentenza n. 50, la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera c), della legge n. 30 del 2003 – che stabilisce il «mantenimento da parte dello Stato delle funzioni amministrative relative alla conciliazione delle controversie di lavoro individuali e plurime, nonché alla risoluzione delle controversie collettive di rilevanza pluriregionale».

Nella sentenza n. 384, in applicazione dei principî espressi nella sentenza n. 50, si dichiara non lesivo delle competenze regionali l’art.8, comma 1, della legge n. 30 del 2003, il quale delega tra l’altro il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la definizione di un quadro regolatorio finalizzato alla prevenzione delle controversie individuali di lavoro in sede conciliativa, ispirato a criteri di equità ed efficienza.

L’istituto della conciliazione rientra nell’ordinamento civile, ma riguarda anche la giurisdizione e l’applicazione di norme processuali, tutte materie di esclusiva competenza statale e tali da comportare la disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale; pertanto la Corte, nella sentenza n. 384 ha dichiarato non fondate, in riferimento agli articoli 117, comma terzo, e 118, commi primo e secondo, della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, 4, secondo periodo, 5 e 6, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.

Allo stesso modo deve essere ricondotta all’ordinamento civile e all’applicazione di norme processuali la disciplina della diffida accertativa per crediti patrimoniali.

Sempre nella sentenza n. 384, la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, commi 3 e 4, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, il quale prevede la costituzione di gruppi d’intervento d’intesa con le direzioni regionali dell’INPS e dell’INAIL e con il comando del nucleo dei carabinieri presso l’ispettorato del lavoro per «contrastare specifici fenomeni di violazione di norme poste a tutela del lavoro e della previdenza e assistenza obbligatorie» (comma 3), nonché l’adozione, con decreto del Ministro, di un modello unificato di verbale per l’accertamento degli illeciti (comma 4). Si tratta, infatti, di attività rientranti in larga prevalenza in materie di competenza esclusiva statale e, comunque, posto che i verbali sono destinati a costituire fonti di prova anche a fini sanzionatori incidono quindi sull’applicazione di norme processuali.

3.1.9. «Ordinamento civile»

Sulla materia «ordinamento civile», la Corte è intervenuta a più riprese, in relazione ad ambiti normativi variegati: da (a) la disciplina del mercato del lavoro (sentenza n. 50) a (b) la legalizzazione del lavoro irregolare (sentenze nn. 201 e 234), da (c) la tutela dei minori (sentenza n. 106) a (d) la protezione dei dati personali (sentenza n. 271).

a) Nella sentenza n. 50 la Corte ha chiarito, richiamando la sentenza n. 359 del 2003, che i contratti a contenuto formativo, tradizionalmente definiti a causa mista, rientrano nell’ampia categoria dei contratti di lavoro, la cui disciplina fa parte dell’ordinamento civile e spetta alla competenza esclusiva dello Stato.

Va ricondotta alla materia ordinamento civile anche la disciplina del contratto a tempo parziale come del resto la disciplina intersoggettiva di qualsiasi rapporto di lavoro. Sulla base di questo assunto, la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’articolo 3, comma 1, lettere a), b) e c) della legge n. 30 del 2003. Tali disposizioni erano state censurate nella parte in cui prevedono, quali principî e criteri direttivi della delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro: l’agevolazione del ricorso a prestazioni di lavoro supplementare nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale cosiddetto orizzontale (lettera a), l’agevolazione di forme flessibili ed elastiche di lavoro a tempo parziale cosiddetto verticale e misto (lettera b), l’estensione delle forme flessibili ed elastiche anche ai contratti a tempo parziale a tempo determinato (lettera c).

Nella stessa decisione la Corte ha chiarito che rientra nella competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile anche la disciplina che, al fine di ridurre il contenzioso in materia di rapporti di lavoro, attribuisce un particolare valore probatorio al contratto certificato.

Allo stesso modo rientrano nella materia «ordinamento civile» le funzioni amministrative relative alla conciliazione delle controversie di lavoro individuali e plurime, nonché alla risoluzione delle controversie collettive di rilevanza pluriregionale. Infatti, «la conciliazione delle controversie di lavoro, rispetto alla quale le funzioni amministrative sono strettamente strumentali, non rientra nella materia della tutela e sicurezza del lavoro, bensì in quella dell’ordinamento civile, in quanto concernente la definizione transattiva delle controversie stesse».

Analoga collocazione competenziale è da attribuirsi alle disposizioni della c.d. legge Biagi che contengono norme sulla somministrazione di manodopera o di lavoro altrui e sui rapporti che da essa nascono tra fornitore ed utilizzatore e sui diritti dei lavoratori.

Anche le disposizioni che riguardano la distinzione tra appalto lecito e interposizione vietata sono da ricondurre all’ordinamento civile.

Anche la disposizione contenuta nel n. 6 ha ad oggetto i principî concernenti l’apparato sanzionatorio civilistico e penalistico e quindi ancora una volta va ricondotta a materie di competenza esclusiva statale.

Sempre nella sentenza n. 50, la Corte ha giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1 e 6, del d.lgs. n. 276 del 2003, che prevede deroghe al regime generale del contratto di inserimento qualora i soggetti da inserire siano lavoratori svantaggiati, sulla base della considerazione che, essendo la finalità quella di favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di tali soggetti, gli strumenti usati attengono anche al regime retributivo e quindi all’ordinamento civile, oppure a diritti previdenziali e dunque a materie di competenza esclusiva statale.

La Corte ha poi chiarito che la disciplina delle tipologie di lavoro cui si applica il contratto di apprendistato rientra nella materia ordinamento civile. Sulla base di questa ratio ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 del d.lgs. n. 276 del 2003, in quanto la disposizione censurata conterrebbe una disciplina esaustiva «delle tipologie di lavoro cui si applica il contratto di apprendistato».

Si dichiara, inoltre, non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 51 (concernente i crediti formativi che si acquisiscono attraverso il contratto di apprendistato ed il loro riconoscimento), 52 (concernente le qualifiche professionali) e 53 (concernente «incentivi economici e normativi e disposizioni previdenziali») del d.lgs. n. 276 del 2003. Infatti, in relazione all’art. 51, la disciplina dei rapporti intersoggettivi tra datore e lavoratore, compresa la formazione all’interno dell’azienda, appartiene alla competenza dello Stato e giustifica così la disciplina statale del riconoscimento dei crediti stessi, mentre il coinvolgimento delle Regioni è assicurato mediante lo strumento più pregnante di attuazione del principio di leale collaborazione e cioè attraverso l’intesa. In relazione all’art. 52, le qualifiche professionali, la cui armonizzazione la norma disciplina, sono strettamente collegate ai crediti formativi ed il coinvolgimento regionale è assicurato dalla partecipazione dei rappresentanti della Conferenza Stato-Regioni all’organismo all’uopo istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. In relazione all’art. 53, parzialmente modificato dal decreto correttivo n. 251 del 2004, si rileva che esso contiene norme rientranti nell’ordinamento civile (categorie d’inquadramento degli apprendisti); nel suo comma 2 contiene norme concernenti l’ordinamento civile e principî fondamentali in tema di tutela e sicurezza del lavoro, a seconda degli istituti rispetto ai quali operano i limiti numerici nel cui computo non rientrano gli apprendisti; nel comma 3 contempla, in primo luogo, il mantenimento in via provvisoria della disciplina degli incentivi ed inoltre «il principio che questi sono condizionati alla verifica della formazione svolta secondo modalità definite con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, verifica che, concernendo sia la formazione svolta in azienda, sia quella extra-aziendale, non è illegittimo sia regolata dal Ministro una volta garantito il pieno coinvolgimento delle Regioni mediante la suindicata intesa».

Del pari, rientra nell’ambito dell’ordinamento civile la disciplina del contratto di inserimento e quella dei tirocini estivi di orientamento. Sulla base di questa ratio la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 54, 55, 56, 57, 58 e 59 del d.lgs. n. 276 del 2003, che contengono la disciplina del contratto d’inserimento.

b) In merito alla disciplina della legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari, la Corte ha escluso, nella sentenza n. 201, la competenza legislativa statutaria invocata dalla Provincia ricorrente, in quanto gli ambiti settoriali ai quali quest’ultima riporta la normativa denunciata («apprendistato, libretti di lavoro, categorie e qualifiche dei lavoratori», di cui all’articolo 9, n. 4, dello statuto; «costituzione e funzionamento di commissioni comunali e provinciali di controllo sul collocamento», di cui all’art. 9, n. 5, dello statuto ed agli articoli 2 e 3 del d.P.R. n. 280 del 1974; «collocamento e avviamento al lavoro», di cui all’art. 10 dello statuto; ispezione del lavoro, di cui agli articoli 3 e 4 del d.P.R. n. 197 del 1980) sono riconducibili alla materia della tutela del lavoro e del rapporto di lavoro in quanto tale (ordinamento civile), non certo a quella della regolarizzazione del lavoro degli immigrati extracomunitari, attinente all’immigrazione.

Con la sentenza n. 234, la Corte non ritiene che la disciplina statale in ordine alla procedura di emersione progressiva del lavoro irregolare (legge 18 ottobre 2001, n. 383, come sostituito dal decreto legge 25 settembre 2002, n, 210, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 2002, n. 266), sia lesiva delle competenze legislative ed amministrative delle Province autonome e del principio di leale collaborazione.

Le censure proposte, investono, nella sostanza, le norme relative all’istituzione ed all’attività dei «Comitati per il lavoro e l’emersione del sommerso» (Cles) con i correlativi effetti e, quindi, solo la prima delle due fasi che compongono la procedura di emersione progressiva del lavoro irregolare.

Le norme riguardano il progressivo adeguamento, da parte degli imprenditori, agli obblighi di legge relativi a «materie diverse da quella fiscale e contributiva» e agli obblighi previsti dai contratti collettivi di lavoro in materia di trattamento economico. L’adeguamento si realizza previa presentazione di «piani individuali di emersione», contenenti proposte dirette alla graduale regolarizzazione di detti obblighi, da approvarsi dai Cles e da realizzarsi nel termine indicato dalla legge.

Questa prima fase, dopo l’approvazione dei piani individuali di emersione, sfocia necessariamente nella seconda fase, introdotta dall’obbligatoria presentazione, sempre da parte degli imprenditori, di apposite «dichiarazioni di emersione» degli inadempimenti agli obblighi stabiliti dalla normativa vigente «in materia fiscale e previdenziale».

Ritiene al riguardo la Corte che le norme relative all’attività dei Cles devono essere ricondotte alla competenza legislativa esclusiva dello Stato e vanno in particolare ricomprese, in applicazione del criterio della prevalenza, nella materia dell’«ordinamento civile» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. A tale conclusione inducono sia la ratio e l’inquadramento sistematico della normativa denunciata, sia la connessione funzionale tra la fase di emersione progressiva basata sui piani individuali e quella fondata sulla dichiarazione di emersione.

L’intento del legislatore è di raggiungere l’obiettivo del rilancio dell’economia favorendo «l’emersione dall’economia sommersa», attraverso una disciplina transitoria che mantenga inalterata la funzionalità economica delle imprese emergenti. Gli strumenti predisposti sono un appropriato regime di incentivo fiscale e previdenziale e l’attribuzione agli imprenditori della facoltà di ritardare l’adeguamento agli obblighi rimasti inadempiuti, secondo le modalità previste da piani individuali di emersione

In questo contesto, i Cles, ai sensi dei censurati commi 5 e 8 dell’art. 1-bis, svolgono l’importante funzione di modulare l’intervento pubblico nella delicata materia della progressiva regolarizzazione dei rapporti irregolari di lavoro, al fine di realizzare gradualmente l’uniforme adempimento degli obblighi degli imprenditori.

L’attività svolta dai Cles a livello decentrato – e, segnatamente, l’attività di approvazione dei piani e di formulazione di eventuali proposte di modifica – si inserisce in una procedura idonea ad integrare il contratto individuale di lavoro secondo il contenuto dei piani individuali di emersione approvati e, quindi, ad incidere sui tempi e sulle modalità di adempimento degli obblighi previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, nonché specificamente sul trattamento economico pattuito con il contratto individuale di lavoro. In virtù della procedura gestita dai Cles, i contratti individuali di lavoro, originariamente irregolari, si trasformano gradualmente in contratti conformi ai suddetti obblighi e prescrizioni, generando nuovi impegni degli imprenditori, che valgono, da un lato, a modificare la precedente regolamentazione convenzionale e, dall’altro, a garantire ulteriormente l’adempimento degli obblighi di legge in materie diverse da quella fiscale e previdenziale.

L’assunzione di tali impegni, potendo incidere sull’autonomia negoziale in funzione della regolarizzazione del lavoro, soddisfa pertanto l’esigenza – strettamente connessa al principio costituzionale di eguaglianza – di assicurare, decorso il periodo transitorio previsto dalla citata legge n. 383 del 2001 (art. 1-bis, comma 2, lettera a), l’applicazione uniforme di quelle regole e di quei principî generali disciplinanti i rapporti individuali di lavoro fra privati, che gli imprenditori avevano omesso di applicare.

In materia di trattamento economico, tale intento uniformatore è reso ancora più evidente dall’estensione del regime di emersione progressiva agli imprenditori che avevano già fatto ricorso allo strumento agevolativo dei contratti di riallineamento retributivo di cui al decreto legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, e che non erano riusciti a rispettare gli obblighi assunti in forza di tali contratti. La possibilità di accedere ai programmi di emersione progressiva offerta a tali imprenditori è giustificata, infatti, dalla fungibilità dei due regimi, in ragione della finalità ad essi comune di garantire ai lavoratori un trattamento retributivo uniforme.

La speciale disciplina contenuta nelle norme denunciate, essendo idonea a modificare a fini di uniformità l’originario regolamento contrattuale, attiene dunque – in modo caratterizzante – all’esercizio dell’autonomia negoziale in tema di contratti di lavoro e deve perciò essere ricondotta, secondo un criterio di prevalenza, alla materia dell’«ordinamento civile», ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e, quindi, all’esclusiva sfera di competenza legislativa dello Stato.

Se poi si considera che la fase di emersione progressiva oggetto di censura culmina in quella di regolarizzazione fiscale e previdenziale disciplinata dall’art. 1 e che quest’ultima è sicuramente riconducibile alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed o) della Costituzione, appare coerente al disegno complessivo del legislatore ritenere che la prima fase si coordini con la finalità di «incentivo fiscale e previdenziale» e che, di conseguenza, anch’essa sia riconducibile, seppure a titolo diverso, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

La disciplina dell’emersione progressiva del lavoro irregolare, rientrante nella materia dell’«ordinamento civile», è, perciò, del tutto diversa per oggetto e funzioni dagli ambiti settoriali invocati dalle Province autonome di Trento e Bolzano. Ciò è sufficiente per escludere la lamentata lesione di competenze statutarie.

Neppure sussiste la competenza legislativa residuale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost., invocata dalle Province autonome ricorrenti in forza della «clausola di maggior favore» prevista in via transitoria dall’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, anche con riferimento alla asserita esistenza di una «materia dell’impresa», per la parte di disciplina non inclusa nella competenza relativa alla «tutela e sicurezza del lavoro». Il criterio di prevalenza che ha portato ad accertare l’esclusiva competenza legislativa dello Stato in materia di «ordinamento civile» non consente né di far rientrare le norme denunciate nella competenza residuale né, comunque, di effettuare la comparazione tra le forme di autonomia garantite dalla Costituzione e quelle statutarie richiesta dal citato art. 10.

La Corte inoltre, esclude la denunciata interferenza tra la disciplina censurata e le competenze amministrative riconosciute alle Province ricorrenti dall’art. 16 dello statuto speciale, poiché tale norma, che pone un necessario parallelismo fra competenze legislative e competenze amministrative, non è operante per la rilevata mancanza di competenze legislative statutarie delle Province autonome nella materia dell’emersione progressiva del lavoro irregolare.

L’applicazione del criterio della prevalenza per la risoluzione dell’interferenza tra la norma censurata e le competenze legislative provinciali, in presenza dell’accertata appartenenza del nucleo essenziale della disciplina denunciata alla materia dell’ordinamento civile, esclude, infine, l’operatività del principio di leale collaborazione, invocato dalle ricorrenti sotto il profilo sia legislativo che amministrativo.

c) La sentenza n. 106 dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 12 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 3 ottobre 2003, n. 15, dove si prevede l’intervento pubblico di assistenza, nei confronti dei minori in condizioni di disagio economico, in caso di inadempienza del genitore obbligato alla corresponsione dell’assegno di mantenimento mediante l’anticipazione delle somme al genitore o al soggetto affidatario e con surrogazione legale dell’ente pubblico nel diritto di credito. Al riguardo, motiva la Corte, l’art. 1203 del codice civile stabilisce che la surrogazione legale ha luogo di diritto in una serie di casi previsti tassativamente dalla medesima disposizione ai nn. da 1 a 4; stabilisce inoltre, al n. 5, che la surrogazione legale si ha «negli altri casi stabiliti dalla legge».

Poiché si tratta di un istituto del diritto civile destinato a regolare gli effetti del pagamento di una obbligazione da parte di soggetto diverso dall’obbligato, non può dubitarsi che esso rientri nella nozione di «ordinamento civile» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.: di conseguenza, devesi affermare che gli «altri casi previsti dalla legge», cui fa riferimento la norma, non possono essere che quelli disciplinati espressamente da altra legge statale.

In caso contrario, nell’ordinamento si creerebbe la possibilità di introdurre, mediante leggi regionali o delle Province autonome, ipotesi di surrogazione legale con la conseguenza che verrebbe frustrata l’esigenza di una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale di un modo di adempimento delle obbligazioni e dell’effetto dell’adempimento da parte di un terzo.

d) La Corte esamina, nella sentenza n. 271, la questione di legittimità costituzionale, degli articoli 12, 13 e 14 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 maggio 2004, n. 11 (Sviluppo regionale della società dell’informazione), sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l), m) e r), e sesto comma, della Costituzione, nonché dei principî della legislazione statale in materia di protezione dei dati personali.

In via preliminare, si considera il problema della collocazione, rispetto al riparto di competenze fra Stato e Regioni di cui al Titolo V della Costituzione, della legislazione censurata, incidente sulla tutela dei dati personali ed, al riguardo, ricorda che il d.lgs. n. 196 del 2003 attualmente vigente coordina in un testo unico la normativa originata dal recepimento di numerose direttive comunitarie adottate in materia per tutelare in modo organico il trattamento dei dati personali (esplicitamente definiti come «qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione»), riferendosi all’intera serie dei fenomeni sociali nei quali questi possono venire in rilievo. Da ciò una disciplina che, pur riconoscendo tutele differenziate in relazione ai diversi tipi di dati personali ed alla grande diversità delle situazioni e dei contesti normativi nei quali tali dati vengono utilizzati, si caratterizza essenzialmente per il riconoscimento di una serie di diritti alle persone fisiche e giuridiche relativamente ai propri dati, diritti di cui sono regolate analiticamente caratteristiche, limiti, modalità di esercizio, garanzie, forme di tutela in sede amministrativa e giurisdizionale.

Per la Corte ci si trova dinanzi ad un corpo normativo essenzialmente riferibile alla categoria dell’«ordinamento civile», di cui alla lettera l) del secondo comma dell’art. 117 Cost.

Peraltro, pur nell’ambito di questa esclusiva competenza statale, la legislazione vigente prevede anche un ruolo normativo, per quanto di tipo meramente integrativo, per i soggetti pubblici chiamati a trattare i dati personali, per la necessità che i principî posti dalla legge a tutela dei dati personali siano garantiti nei diversi contesti legislativi ed istituzionali; in questi ambiti possono quindi essere adottati anche leggi o regolamenti regionali, ma solo in quanto e nella misura in cui ciò sia appunto previsto dalla legislazione statale.

Pertanto, il legislatore regionale può disciplinare procedure o strutture organizzative che prevedono il trattamento di dati personali, pur ovviamente nell’integrale rispetto della legislazione statale sulla loro protezione: infatti, le Regioni, nelle materie di propria competenza legislativa, non solo devono necessariamente prevedere l’utilizzazione di molteplici categorie di dati personali da parte di soggetti pubblici e privati, ma possono anche organizzare e disciplinare a livello regionale una rete informativa sulle realtà regionali, entro cui far confluire i diversi dati conoscitivi (personali e non personali) che sono nella disponibilità delle istituzioni regionali e locali o di altri soggetti interessati. Ciò, tuttavia, deve avvenire nel rispetto degli eventuali livelli di riservatezza o di segreto, assoluti o relativi, che siano prescritti dalla legge statale in relazione ad alcune delle informazioni, nonché con i consensi necessari da parte delle diverse realtà istituzionali o sociali coinvolte.

Sulla base di quanto affermato, viene dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 11 del 2004 in quanto contraddice la legislazione statale vigente in materia di protezione dei dati personali (nonché le stesse direttive europee che ne sono all’origine).

Innanzitutto, disponendo che, mediante apposito regolamento regionale, sia disciplinata la «cessione dei dati costitutivi del patrimonio informativo pubblico a privati ed enti pubblici economici», non tiene conto che l’istituto della «cessione» dei dati personali è del tutto estraneo alla legislazione statale in materia di protezione di tali dati.

In secondo luogo, il comma 2 dell’art. 12 prevede che la Regione e gli enti regionali incontrino il solo limite dell’art. 18 del d.lgs. n. 196 del 2003 nel rendere disponibili i «dati contenuti nei propri sistemi informativi», laddove, invece, il «Codice» prevede molteplici altri limiti per i trattamenti effettuati da soggetti pubblici.

In terzo luogo, nel medesimo comma 2, si prevede un obbligo per «le associazioni e i soggetti privati che operano in ambito regionale per finalità di interesse pubblico» di fornire «la disponibilità dei dati contenuti nei propri sistemi informativi», sia pure «nei limiti previsti dal decreto legislativo n. 196 del 2003». E tuttavia un obbligo del genere non è previsto dal Codice, caratterizzato, piuttosto, dalla normale preminenza della volontà dell’interessato in ordine al trattamento dei propri dati personali e dal fatto che questi sono raccolti ed utilizzati per scopi determinati.

Sono altresì fondate le censure mosse contro l’art.13 della legge regionale n. 11 del 2004, per la parte in cui assume rilevanza l’assenza di ogni riferimento espresso al doveroso rispetto della normativa a tutela dei dati personali: infatti, l’art. 13 configura un vero e proprio sistema informativo regionale, nel quale confluiscono molteplici dati anche personali, sia ordinari che sensibili, provenienti da diverse pubbliche amministrazioni. Senza tener conto che tali dati possono essere utilizzati solo nei limiti e con tutte le garanzie poste dalla legge statale a tutela della protezione dei dati personali. Il mancato richiamo, da parte della disposizione censurata, di tali garanzie e limiti, e dunque l’utilizzabilità dei dati personali nell’ambito del Sir, determina l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 13 della legge regionale n. 11 del 2004.

3.1.10. «Ordinamento penale»

Non constano, nel 2005, decisioni nelle quali la materia «ordinamento penale» venga trattata in maniera analitica. Merita, comunque, di essere menzionata la sentenza n. 172, con cui la Corte ha ribadito (in consonanza con precedenti statuizioni) che la materia penale deve essere «intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa» e che essa «nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatrici», mediante la configurazione delle fattispecie, l’individuazione dell’apparato sanzionatorio e la determinazione delle specifiche sanzioni.

3.1.11. «Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»

Pur senza essere oggetto di disamine analitiche, la competenza in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» è stata oggetto di molteplici richiami. Di seguito se ne riportano alcuni dei più significativi (rimandando, per gli altri, alle affermazioni contenute in decisioni che hanno precipuamente riguardo ad altri ambiti materiali).

La sentenza n. 287, riprendendo quanto affermato nella sentenza n. 423 del 2004, stabilisce che le norme che pongono vincoli nell’assegnazione alle Regioni delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, istituito dall’art. 59, comma 44, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), non determinano livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., ma si limitano a prevedere somme a destinazione vincolata.

Secondo quanto sostenuto nella sentenza n. 271, improprio appare il riferimento alla competenza in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», in relazione alla legislazione sui dati personali, dal momento che essa non concerne prestazioni, bensì la stessa disciplina di una serie di diritti personali attribuiti ad ogni singolo interessato, consistenti nel potere di controllare le informazioni che lo riguardano e le modalità con cui viene effettuato il loro trattamento.

Nella sentenza n. 383 si è sottolineato come il potere di predeterminare eventualmente – sulla base di apposite disposizioni di legge – i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», anche nelle materie che la Costituzione affida alla competenza legislativa delle Regioni, non può trasformarsi nella pretesa dello Stato di disciplinare e gestire direttamente la disciplina concernente la continuità dell’erogazione di energia elettrica, escludendo o riducendo radicalmente il ruolo delle Regioni. In ogni caso, tale titolo di legittimazione legislativa – come rilevato nella sentenza n. 285 – non può essere invocato se non in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione, risultando viceversa del tutto improprio ed inconferente il riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., onde individuare il fondamento costituzionale della disciplina, da parte dello Stato, di interi settori materiali.

Infine, nella sentenza n. 467, la Corte ritiene che la determinazione dei livelli essenziali dell’assistenza integrativa relativa ai prodotti destinati ad un’alimentazione differenziata rientra senza dubbio nella previsione relativa a prestazioni concernenti il diritto fondamentale alla salute da garantirsi in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Di conseguenza, lo scrutinio di costituzionalità operato con riguardo a tale parametro rende inutile l’esame della questione sotto il profilo della presunta violazione dei principî generali in materia di assistenza sanitaria, i quali non vengono in rilievo per la presenza di una riserva statale di legislazione in materia di determinazione dei livelli essenziali, assorbente, nella specie, di ogni altra relativa questione.

3.1.12. «Norme generali sull’istruzione»

La disciplina relativa all’istruzione è oggetto di diversi titoli competenziali. Di seguito si riportano due decisioni che hanno avuto prevalentemente riguardo alle «norme generali sull’istruzione», rinviando ad altre sedi l’analisi di decisioni incentrate maggiormente su altri titoli.

Immune da censure viene dichiarata, nella sentenza n. 34, la legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, che detta norme sul rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale.

In particolare, risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 5, della legge regionale nella parte in cui prevede in favore del personale scolastico, che si avvalga del periodo di aspettativa di cui all’art. 26, comma 14, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, la possibilità di usufruire di assegni di studio alle condizioni e secondo le modalità definite con atto della Giunta regionale, nell’ambito degli indirizzi approvati dal Consiglio regionale. Al riguardo, la Corte ritiene insussistenti la asserita violazione di un principio fondamentale della legislazione statale in materia di istruzione nonché la discriminazione fra situazioni identiche dei dipendenti scolastici ed il dedotto contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Sul punto, motiva la Corte, il principio fondamentale desumibile dalla citata disposizione di legge statale è quello della facoltà, concessa al personale scolastico ogni dieci anni di servizio, di fruire di un periodo annuale di aspettativa non retribuita, senza dover allegare alcun particolare motivo. Diversamente, l’art. 7, comma 5, al fine di sostenere le «attività di qualificazione», nel rispetto delle competenze generali dello Stato in materia di formazione iniziale dei docenti del sistema nazionale di istruzione e dei relativi titoli abilitanti, nonché delle materie riservate alla contrattazione, non introduce una ulteriore fattispecie di aspettativa, perseguendo in tal modo la finalità di elevazione professionale del personale scolastico, docente e dirigente senza scalfire il principio fondamentale invocato dallo Stato, e stabilendo che gli assegni non costituiscono in ogni caso retribuzione e che il periodo di aspettativa non può essere computato nel servizio di istituto.

Non risulta, inoltre, invasivo della competenza statale esclusiva a dettare norme generali sull’istruzione (art. 117, comma secondo, lettera n) della Costituzione, e art. 4 della legge 28 marzo 2003, n. 53), l’art. 9, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, il quale disciplina l’istituto dell’«alternanza scuola-lavoro», definendolo come «modalità didattica, non costituente rapporto di lavoro, realizzata nell’ambito dei percorsi di istruzione o di formazione professionale, anche integrati, quale efficace strumento di orientamento, preparazione professionale e inserimento nel mondo del lavoro». La disposizione censurata, infatti, lungi dal contrastare con quanto stabilito dall’art. 4 della legge n. 53 del 2003, si limita a ripeterne sinteticamente il contenuto definitorio, senza porre principî o regole ulteriori e senza mettere in discussione la competenza statale nel definire gli istituti generali e fondamentali dell’istruzione, i quali vengono soltanto assunti a base della legislazione regionale.

Parimenti, non si pone in contrasto con la competenza statale esclusiva a dettare norme generali sull’istruzione l’art. 17 della legge regionale, il quale definisce le finalità della scuola dell’infanzia. La disposizione, infatti, si propone non già di fornire la definizione del percorso della scuola dell’infanzia, bensì di predisporre, nell’ambito di quanto stabilito dalla legge statale (art. 2, comma 1, lettera e, della legge 28 marzo 2003, n. 53) e in forza delle competenze regionali in materia di istruzione, interventi a supporto di un’offerta formativa in un settore, quale è quello dell’istruzione per l’infanzia, nel quale sono direttamente coinvolti i principî costituzionali che riguardano l’educazione e la formazione del minore.

L’art. 117, comma secondo, lettera n), della Costituzione non risulta violato neppure dall’art. 41 della stessa legge, il quale fornisce la definizione «dell’educazione degli adulti» e delle relative attività. Tale disposizione, nel solco di quanto già genericamente previsto dalla disciplina statale (legge 28 marzo 2003, n. 53, art. 2, comma 1, lettera a), specifica i contenuti dell’«educazione degli adulti», che ricomprende le «opportunità formative, formali e non formali, rivolte alle persone, aventi per obiettivo l’acquisizione di competenze personali di base in diversi ambiti, di norma certificabili, e l’arricchimento del patrimonio culturale», al fine di favorire il rientro nel sistema formale dell’istruzione e della formazione professionale, la diffusione e l’estensione delle conoscenze, l’acquisizione di specifiche competenze connesse al lavoro o alla vita sociale e il pieno sviluppo della personalità dei cittadini, ponendosi così in linea con le finalità individuate dalla legge delega del 2003 ed altresì con quelle prefigurate in ambito comunitario, operando sul versante del sostegno all’acquisizione o al recupero di conoscenze necessarie o utili per il reinserimento sociale e lavorativo e, dunque, in un ambito riconducibile a quello affidato alla competenza regionale in materia di istruzione e formazione professionale.

Ed ancora, non contrasta con i principî di uguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione l’art. 26, comma 2, della legge regionale, il quale stabilisce che, nel quadro del sistema formativo, al fine di realizzare un positivo intreccio tra apprendimento teorico e applicazione concreta, tra sapere, saper fare, saper essere e sapersi relazionare, di sostenere lo sviluppo della cultura tecnica, scientifica e professionale, nonché di consentire l’assolvimento dell’obbligo formativo di cui all’art. 68 della legge 17 maggio 1999, n. 144, la Regione e gli enti locali promuovono l’integrazione tra l’istruzione e la formazione professionale attraverso interventi che ne valorizzano gli specifici apporti, precisando che detta integrazione rappresenta la base per il reciproco riconoscimento dei crediti e per reali possibilità di passaggio da un sistema all’altro al fine di favorire il completamento e l’arricchimento dei percorsi formativi per tutti. La Corte, infatti, esclude che il significato della disposizione regionale denunciata sia quello di inibire o rendere più difficile il passaggio tra i sistemi di istruzione e formazione professionale agli studenti che provengono da percorsi non integrati, in quanto il senso da ascriversi alla norma è soltanto quello di individuare, come base preferibile per il riconoscimento e per reali (e non solo teoriche) possibilità di passaggio, proprio l’istituto dell’integrazione dei sistemi, senza perciò eliminare altre forme legali di riconoscimento e, specialmente, di crediti.

La Corte, infine, non condivide la denunciata incidenza sui livelli unitari di fruizione del diritto allo studio e l’asserita invasione della competenza statale esclusiva a dettare norme generali sull’istruzione da parte dell’art. 44, comma 1, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, il quale stabilisce che il Consiglio regionale, su proposta della Giunta regionale, approva, tra l’altro, i «criteri per la definizione dell’organizzazione della rete scolastica, ivi compresi i parametri dimensionali delle istituzioni scolastiche». La Corte, dopo aver premesso che già la normativa antecedente alla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione prevedeva la competenza regionale in materia di dimensionamento delle istituzioni scolastiche, e in particolare, ai sensi dell’art. 138 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, quella relativa alla programmazione scolastica, esclude che il legislatore costituzionale del 2001 abbia voluto spogliare le Regioni di una funzione che era già ad esse conferita, di talché la disposizione censurata deve ritenersi riconducibile all’esercizio della competenza legislativa concorrente della Regione in materia di istruzione, riguardando in particolare il settore della programmazione scolastica.

Nella sentenza n. 120, analogamente, la Corte respinge le censure avanzate nei confronti degli articoli 4, comma 2, e 28, comma 2, della legge della Regione Toscana 26 luglio 2002, n. 32, che rispettivamente, demandano ad un regolamento la fissazione degli standards ai quali si dovranno attenere i servizi educativi per la prima infanzia e disciplinano la funzione di impulso e di regolazione del sistema allargato dell’offerta integrata fra istruzione, educazione e formazione, attribuendo alla Regione la definizione degli standards qualitativi, delle linee guida di valutazione e di certificazione degli esiti e dei risultati della funzione. La Corte non ritiene che tali norme siano invasive della competenza esclusiva dello Stato riguardante sia la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali sia le norme generali sull’istruzione. Al contrario, sostiene la Corte, la disciplina degli asili nido ricade «nell’ambito della materia dell’istruzione […], nonché nella materia della tutela del lavoro» e, quindi, in materie comunque attribuite alla potestà legislativa concorrente delle Regioni ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, di talché risulta impossibile «negare la competenza legislativa delle singole Regioni, in particolare per la individuazione di criteri per la gestione e l’organizzazione degli asili, seppure nel rispetto dei principî fondamentali stabiliti dal legislatore statale» (sentenza n. 370 del 2003). Negli stessi termini, la Corte risolve la questione riferita all’art. 28 per la natura essenzialmente organizzativa della disciplina, resa palese, ad esempio, dal riferimento agli «ambiti territoriali», ai «requisiti di accesso» (limitati al piano organizzativo) e al calendario scolastico.

D’altro canto, la tesi che gli standards strutturali e qualitativi di cui alla norma impugnata si identificherebbero con i livelli essenziali delle prestazioni e, quindi, rientrerebbero nella competenza trasversale ed esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, non può essere condivisa, in quanto la norma censurata non determina alcun livello di prestazione, limitandosi ad incidere sull’assetto organizzativo e gestorio degli asili nido, che risulta demandato alla potestà legislativa delle Regioni.

Sotto un diverso profilo, la individuazione degli standards strutturali e qualitativi non può neppure, evidentemente, ricomprendersi nelle norme generali sull’istruzione e cioè in quella disciplina caratterizzante l’ordinamento dell’istruzione e che, dunque, presenta un contenuto essenzialmente diverso da quello lato sensu organizzativo nel quale si svolge la potestà legislativa regionale.

3.1.13. L’operare congiunto delle competenze in materia di «ordinamento civile» e di «previdenza sociale»

L’operare congiunto dei due titoli competenziali dell’«ordinamento civile» e della «previdenza sociale» è stato riscontrato, in primo luogo, nella sentenza n. 50, dove la Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 70, 72, 73 e 74 del d.lgs. n. 276 del 2003. Secondo la Corte, infatti, sia gli articoli da 70 a 73 che l’art. 74 rientrano in materie di competenza esclusiva dello Stato piuttosto che in quella della tutela e sicurezza del lavoro, riguardando in modo prevalente – se non esclusivo – aspetti privatistici e previdenziali relativi alle prestazioni di lavoro accessorio. I primi (articoli 70 a 73) disciplinano quelle prestazioni di natura meramente occasionale nell’ambito dei piccoli lavori domestici, di giardinaggio, d’insegnamento supplementare, di collaborazione con enti o associazioni per lo svolgimento di lavori di emergenza, prestazioni tutte accomunate dalla caratteristica di dar luogo in un anno solare a compensi che non superino un determinato tetto e la circostanza che detta disciplina riguardi soggetti ai margini del mercato del lavoro attiene alle motivazioni di politica legislativa e non agli strumenti di cui il legislatore si è avvalso. Il secondo (art. 74) prevede, escludendo ogni rilievo lavoristico, le prestazioni occasionali riguardanti attività agricole, eseguite a favore di parenti o affini sino al terzo grado.

Il binomio ordinamento civile – previdenza sociale è poi alla base di molta parte delle argomentazioni contenute nella sentenza n. 284, in tema di vigilanza sul lavoro ed ispezioni.

Innanzi tutto, la Corte chiarisce che «non è possibile determinare la competenza a regolare un’attività di vigilanza indipendentemente dalla individuazione della materia cui essa si riferisce».

In particolare, in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera d), e dell’art. 8 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, il primo dei quali enuncia tra i criteri e principî direttivi della delega di cui al comma 1 dello stesso articolo «il mantenimento da parte dello Stato delle funzioni amministrative relative alla vigilanza in materia di lavoro», mentre il secondo delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, deve escludersi che sia possibile determinare la competenza a regolare un’attività di vigilanza indipendentemente dalla individuazione della materia cui essa si riferisce, e in particolare che la vigilanza sul lavoro e le ispezioni – che della vigilanza costituiscono una modalità di esercizio – rientrino comunque nella materia «tutela del lavoro», quale che sia lo specifico oggetto sul quale vertono. Non è infatti possibile determinare la competenza a regolare un’attività di vigilanza indipendentemente dalla individuazione della materia cui essa si riferisce, mentre la regolamentazione delle sanzioni amministrative, essendo finalizzata al rispetto di una normativa dalla quale, ai fini del riparto di competenza legislativa, riceve la propria connotazione, spetta al soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina della materia, la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile. Pertanto, deve escludersi che le deleghe di cui alle disposizioni censurate, relative alla disciplina dei rapporti intersoggettivi tra datore di lavoro e lavoratore e alla previdenza sociale, si riferiscano alla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.

Vengono poi dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 1, primo periodo, e 6, comma 1, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, i quali, rispettivamente, prevedono che «il Ministero del lavoro e delle politiche sociali assume e coordina, nel rispetto delle competenze affidate alle Regioni ed alle Province autonome, le iniziative di contrasto del lavoro sommerso e irregolare, di vigilanza in materia di rapporti di lavoro e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, con particolare riferimento allo svolgimento delle attività di vigilanza mirate alla prevenzione e alla promozione dell’osservanza delle norme di legislazione sociale e del lavoro, ivi compresa l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro e della disciplina previdenziale» e che «le funzioni di vigilanza in materia di lavoro e di legislazione sociale sono svolte dal personale ispettivo in forza presso le direzioni regionali e provinciali del lavoro». Nella specie, peraltro la Corte sottolinea che, vertendo la vigilanza su materie di competenza esclusiva statale, non vengono in considerazione il principio di sussidiarietà e le modalità della sua attuazione.

Si dichiarano non fondate anche le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2; 3, commi da 1 a 4; 4; 5, commi da 1 a 3, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, censurati, per la parte in cui (a) prevedono l’affidamento a strutture statali, quali la direzione generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, le direzioni regionali e quella provinciale, di compiti di coordinamento della vigilanza, (b) dispongono che l’istituenda Commissione centrale di coordinamento dell’attività di vigilanza relativamente alle azioni di contrasto del lavoro sommerso e irregolare sia regolata con legge statale, e sia composta da rappresentati di amministrazioni statali nominati da un organo dello Stato, (c) attribuiscono alla Commissione il compito di definire sia le modalità di attuazione e di funzionamento della banca dati di cui all’art. 10, comma 1, sia le linee di indirizzo per la realizzazione del modello unificato di verbale di rilevazione degli illeciti in materia di lavoro, di previdenza e assistenza obbligatoria, (d) stabiliscono che anche le Commissioni regionali di coordinamento siano composte con criteri analoghi a quelli della Commissione centrale, (e) prevedono l’inserimento nell’ambito della Commissione centrale del coordinatore nazionale delle aziende, (f) affidano il coordinamento provinciale dell’attività di vigilanza alle direzioni provinciali del lavoro, con conseguente attribuzione di funzioni amministrative ad organi statali in materia di tutela del lavoro. Secondo la Corte, infatti, escluso che la illegittimità di tali disposizioni dipenda dalla illegittimità degli articoli 1 e 6, la vigilanza regolata dalla normativa impugnata attiene alle materie dell’ordinamento civile e della previdenza sociale. In particolare, le attività concernenti l’emersione del lavoro sommerso e il contrasto al lavoro irregolare rientrano in larga prevalenza, in via diretta, nell’ordinamento civile, con riflesso, in via mediata, negli ordinamenti tributario e previdenziale, tutti di competenza esclusiva dello Stato. L’attribuzione ad organi statali della definizione delle modalità di attuazione e funzionamento della banca dati, nonché delle «linee di indirizzo per la realizzazione del modello unificato di verbale di rilevazione degli illeciti in materia di lavoro, di previdenza e assistenza obbligatoria ad uso degli organi di vigilanza», è in rapporto di dipendenza con l’attribuzione in prevalenza allo Stato delle materie su cui verte la vigilanza, risultando del resto irragionevole, stante lo stretto intreccio dell’assistenza con la previdenza sotto i profili contributivo e gestionale, la separazione della vigilanza su una materia da quella sull’altra, tanto più che l’assistenza è attività nella quale vengono in particolare rilievo i diritti sociali cui possono riferirsi i livelli essenziali delle prestazioni da assicurare su tutto il territorio nazionale.

Non fondata è pure la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, relativo ai compiti del personale ispettivo, in quanto la disposizione censurata si riferisce al personale statale, al personale ispettivo degli enti previdenziali specificamente indicati al comma 3 dell’art. 6 dello stesso decreto, nonché a quello degli altri enti per i quali sussiste la contribuzione obbligatoria, cui pure si riferisce il citato comma 3, sicché essa deve essere letta nel senso che il personale ispettivo è quello di enti che comunque svolgono compiti di previdenza obbligatoria, materia di esclusiva competenza statale.

Ad analogo esito si giunge per le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, commi 1, 2 e 5, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, recante la rubrica Prevenzione e promozione, in quanto le disposizioni censurate prevedono attività dirette a promuovere l’osservanza delle norme in materia di lavoro e di previdenza, di competenza esclusiva dello Stato, con l’utilizzazione di personale statale o di enti cui è affidata la previdenza obbligatoria, al quale sono devoluti compiti di consulenza a favore delle imprese e dei datori di lavoro in genere, anche mediante «indicazioni operative sulle modalità per la corretta attuazione della predetta normativa».

Sulla base della considerazione, posta a base di tutta la motivazione della sentenza, che la vigilanza, non può essere ricondotta alla materia di competenza concorrente «tutela e sicurezza del lavoro», ma attiene alle materie cui si riferisce, la Corte dichiara non fondate anche le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 14, comma 2, 15, comma 1, 16, commi 1 e 2, e 17, commi 1 e 2, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124. Le questioni muovono dall’erroneo presupposto che la disposizione censurata, la quale prevede l’esecutività delle disposizioni impartite dal personale ispettivo in materia di lavoro e di legislazione sociale, disciplinando la vigilanza atterrebbe comunque alla tutela del lavoro.

3.1.14. «Coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale»

Nella sentenza n. 50, la Corte chiarisce che la disciplina in materia di conduzione coordinata ed integrata del sistema informativo lavoro rientra nella materia di competenza esclusiva dello Stato «coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale». Viene al riguardo sottolineato che «la conduzione diretta del sistema informativo statistico e informatico – dato che questo non può non riguardare l’intero territorio nazionale – costituisce un mezzo idoneo a che il sistema stesso risulti complessivamente coordinato».

Peraltro, la disposizione della legge n. 30 del 2003, volta a mantenere in capo allo Stato le competenze in materia, non esclude la facoltà delle Regioni di disciplinare la predisposizione in sede regionale di sistemi di raccolta dati e deve essere valutata insieme con quelle del decreto delegato concernenti il sistema suindicato che prevedono strumenti volti a garantire il coinvolgimento delle Regioni nella gestione del sistema informatico.

La materia del coordinamento informativo è stata presa in considerazione anche nell’ambito della sentenza n. 336, avente ad oggetto il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). In particolare, tra le varie questioni sollevate, le Regioni ricorrenti censuravano l’allegato n. 13 al decreto legislativo impugnato, il quale, determinando il contenuto dei modelli da usare nella presentazione dell’istanza di autorizzazione e della denuncia di inizio attività, avrebbe integrato l’esercizio di una potestà regolamentare, che lo Stato non può legittimamente esercitare in materie diverse da quelle riservate alla sua competenza esclusiva.

Onde dichiarare non fondata la questione, la Corte sottolinea che l’allegato n. 13, malgrado il fatto che il Codice ne preveda la modificabilità con atti regolamentari e amministrativi, deve considerarsi pur sempre atto di natura legislativa, sicché esso conserva il regime giuridico della fonte in cui è inserito. Sul merito della questione, la Corte osserva che la disciplina impugnata è riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato in tema di «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale». L’art. 87, comma 3, del Codice, infatti, riguardo al modello A dell’allegato n. 13, dispone che esso sia «realizzato al fine della sua acquisizione su supporti informatici e destinato alla formazione del catasto nazionale delle sorgenti elettromagnetiche di origine industriale». Gli elementi, puntualmente indicati dalla norma in esame, hanno, infatti, natura prevalentemente tecnica e sono destinati a confluire in una banca dati centralizzata per la costituzione di un catasto nazionale di raccolta dei dati stessi. Quanto invece ai modelli B e C dell’allegato n. 13 – concernenti, rispettivamente, la denuncia di inizio attività e la istanza di autorizzazione per opere civili, scavi e occupazione di suolo pubblico in aree urbane – l’art. 87, comma 3, e l’art. 88, comma 1 – con norma espressione del principio fondamentale volto a garantire la celere conclusione dei procedimenti – ne prevedono espressamente l’applicabilità in via suppletiva, solo nel caso in cui gli enti locali non abbiano predisposto i modelli equivalenti.

Un cenno merita anche la sentenza n. 271. Nell’esaminare le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 12, 13 e 14 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 maggio 2004, n. 11 (Sviluppo regionale della società dell’informazione), sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l), m) e r), e sesto comma, della Costituzione, nonché dei principî della legislazione statale in materia di protezione dei dati personali, la Corte afferma, tra l’altro, che il «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» si risolve – appunto – in un potere legislativo di coordinamento, il cui mancato esercizio non preclude autonome iniziative delle Regioni aventi ad oggetto la razionale ed efficace organizzazione delle basi di dati che sono nella loro disponibilità ed anche il loro coordinamento paritario con le analoghe strutture degli altri enti pubblici o privati operanti sul territorio. Il problema sorgerebbe solo nel momento in cui il legislatore statale dettasse normative nei medesimi ambiti a fine di coordinamento.

D’altra parte questo esclusivo potere legislativo statale concerne solo un coordinamento di tipo tecnico che venga ritenuto opportuno dal legislatore statale e il cui esercizio, comunque, non può escludere una competenza regionale nella disciplina e gestione di una propria rete informativa.

3.1.15. L’operare congiunto delle competenze in materia di «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» e di «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale»

Nella sentenza n. 31, la Corte, con decisione interpretativa, dichiara non fondate le censure formulate nei confronti dei commi 1, secondo periodo, dell’art. 26 della legge n. 289 del 2003, che prevedono che il Ministro per l’innovazione e le tecnologie con «uno o più decreti di natura non regolamentare», stabilisca le modalità di funzionamento del Fondo per il finanziamento di progetti di innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni e nel Paese, individui i progetti da finanziare e, ove necessario, la relativa ripartizione, tra le amministrazioni interessate, delle risorse affluenti al Fondo stesso, e nei confronti del comma 2 dello stesso art. 26, che, «al fine di assicurare una migliore efficacia della spesa informatica e telematica sostenuta dalle pubbliche amministrazioni, di generare significativi risparmi eliminando duplicazioni e inefficienze, promuovendo le migliori pratiche e favorendo il riuso, nonché di indirizzare gli investimenti nelle tecnologie informatiche e telematiche, secondo una coordinata e integrata strategia», assegna al Ministro per l’innovazione e le tecnologie una serie di poteri riconducibili alle suddette finalità.

Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 26 si riferiscono, innanzitutto, all’amministrazione dello Stato e degli enti pubblici nazionali: per questa parte, pertanto, esse rinvengono la propria legittimazione nell’art. 117, secondo comma, lettere g) e r), della Costituzione, che assegnano alla competenza legislativa esclusiva statale, rispettivamente, le materie «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» e «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale».

Le norme in questione sono suscettibili, però, di trovare applicazione anche nei confronti delle Regioni e degli enti locali, come risulta dal terzo comma dello stesso art. 26, il quale prevede che i progetti – «di cui ai commi 1 e 2» – possono riguardare «l’organizzazione e la dotazione tecnologica delle Regioni e degli enti territoriali», e dispone che, in tal caso, è necessario sentire la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.

Sotto tale aspetto, dunque, tali norme, pur potendo avere una diretta incidenza sulla «organizzazione amministrativa regionale e degli enti locali», non determinano alcuna violazione – nei limiti in cui siano garantite adeguate procedure collaborative – delle competenze della ricorrente. Le disposizioni in esame, infatti, devono essere interpretate, conformemente a Costituzione, nel senso che le stesse – nella parte in cui riguardano Regioni ed enti territoriali – costituiscono espressione della potestà legislativa esclusiva statale nella materia del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale», ex art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione.

La Corte ha, in proposito, già avuto modo di sottolineare che l’attribuzione a livello centrale della suddetta materia si giustifica alla luce della necessità di «assicurare una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione» (sentenza n. 17 del 2004).

Ne consegue, pertanto, che «i progetti da finanziare» cui fa riferimento il primo comma dell’art. 26 della legge n. 289 del 2002 – nella misura in cui «riguardino l’organizzazione e la dotazione tecnologica delle Regioni e degli enti territoriali» (comma 3) – possono essere esclusivamente quelli aventi una connotazione riconducibile a siffatta finalità di coordinamento tecnico. Del resto, lo stesso decreto ministeriale 14 ottobre 2003 di attuazione della disposizione in esame ha indicato, tra i «progetti finanziabili», anche quelli idonei a promuovere «l’interoperabilità e la cooperazione applicativa tra pubbliche amministrazioni» (art. 2, comma 1).

Allo stesso modo, la norma contenuta nell’art. 26, comma 2, deve essere intesa – nella parte in cui riguarda Regioni ed enti locali – come attributiva al Ministro della innovazione e delle tecnologie di un potere limitato ad un coordinamento meramente tecnico. Questa interpretazione è suffragata dalle medesime finalità indicate nella disposizione in esame: «assicurare una migliore efficacia della spesa informatica e telematica»; «generare significativi risparmi eliminando duplicazioni e inefficienze, promuovendo le migliori pratiche e favorendo il riuso»; «indirizzare gli investimenti nelle tecnologie informatiche e telematiche, secondo una coordinata e integrata strategia». Sul punto, la Corte, nella sentenza n. 17 del 2004, ha, infatti, precisato che «attengono al predetto coordinamento anche i profili della qualità dei servizi e della razionalizzazione della spesa in materia informatica», ove ritenuti necessari al fine di garantire la omogeneità nella elaborazione e trasmissione dei dati.

È invece fondata l’ulteriore questione sollevata, relativa al comma 3 dello stesso art. 26, nella parte in cui dispone che deve essere sentita la Conferenza unificata nei casi in cui i progetti di cui ai commi 1 e 2 «riguardino l’organizzazione e la dotazione tecnologica delle Regioni e degli enti territoriali» poiché la previsione del mero parere non costituisce una misura adeguata a garantire il rispetto del principio di leale collaborazione. Per quanto la disposizione in esame, sia riconducibile alla materia del «coordinamento informativo statistico e informatico» di spettanza esclusiva del legislatore statale, lo stessa presenta un contenuto precettivo idoneo a determinare una forte incidenza sull’esercizio concreto delle funzioni nella materia dell’«organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti locali». Ciò rende necessario garantire un più incisivo coinvolgimento di tali enti nella fase di attuazione delle disposizioni censurate mediante lo strumento dell’intesa: da qui la illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 3, della legge n. 289 del 2002 nella parte in cui prevede che sia «sentita la Conferenza unificata» anziché che si raggiunga con la stessa Conferenza l’intesa.

3.1.16. «Tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema»

Ponendosi nel solco di un orientamento ormai consolidato, nell’anno 2005 la Corte conferma il principio secondo cui l’inserimento della materia «tutela dell’ambiente» nel novero di quelle di competenza esclusiva dello Stato non è sostanzialmente inteso ad eliminare la preesistente pluralità di titoli di legittimazione per interventi regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell’ambito delle proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dallo Stato.

In applicazione di tali principî, in una fattispecie concreta, si è evidenziato – sentenza n. 135 – come la disciplina sulle attività a rischio rilevante, incidendo su una pluralità di interessi e di oggetti, in parte di competenza esclusiva dello Stato, ma in parte anche di competenza concorrente delle Regioni, consenta «una serie di interventi regionali nell’ambito, ovviamente, dei principî fondamentali della legislazione statale in materia».

Alcune sentenze, pur mantenendosi nel solco tracciato dalle precedenti, hanno apportato ulteriori specificazioni. Tra queste può menzionarsi la sentenza n. 214, la quale, nel ribadire che la tutela dell’ambiente, di cui alla lettera s) dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione, si configura come una competenza statale sovente connessa ed intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti, ha avuto modo di precisare che, nell’ambito di dette competenze concorrenti, risultano legittimi gli interventi posti in essere dalla Regione stessa, nel rispetto dei principî fondamentali della legislazione statale in materia ed altresì l’adozione di una disciplina maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale. Nel medesimo senso, la sentenza n. 108 ha sottolineato che la tutela dell’ambiente si configura come una competenza statale non rigorosamente circoscritta e delimitata, ma connessa e intrecciata con altri interessi e competenze regionali concorrenti, e che, nell’ambito di dette competenze concorrenti, risulta legittima l’adozione di una disciplina regionale maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale: la competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze.

Giova, altresì, segnalare la sentenza n. 62, che ha operato un sintetico raffronto tra il nuovo ed il vecchio quadro costituzionale, evidenziando come, per quanto riguarda la disciplina ambientale, non solo le Regioni ordinarie non abbiano acquisito maggiori competenze, invocabili anche dalle Regioni speciali, ma, al contrario, una competenza legislativa esclusiva in tema di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema sia stata espressamente riconosciuta allo Stato, sebbene in termini che non escludono il concorso di normative delle Regioni, fondate sulle rispettive competenze, al conseguimento di finalità di tutela ambientale; il che può avvenire in tema di tutela della salute e di governo del territorio, ovviamente nel rispetto dei livelli minimi di tutela apprestati dallo Stato e dell’esigenza di non impedire od ostacolare gli interventi statali necessari per la soddisfazione di interessi unitari, eccedenti l’ambito delle singole Regioni. Peraltro – prosegue la Corte – ciò non comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi, allorquando individui l’esigenza di interventi di questa natura, a stabilire solo norme di principio, lasciando sempre spazio ad una ulteriore normativa regionale.

Queste definizioni della materia «ambiente» sono state applicate, a più riprese, nella decisione di fattispecie specifiche. Operando una schematizzazione a meri fini espositivi, possono distinguersi, in particolare, quattro ambiti fondamentali, concernenti (a) i parchi e le aree protette, (b) la prevenzione di incidenti rilevanti, (c) la gestione di rifiuti e (d) la protezione della fauna.

a) La Corte esamina, nella sentenza n. 108, la legge della Regione Umbria 29 dicembre 2003, n 23, impugnata dallo Stato per asserita violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in quanto (a) vieta l’apertura di nuove cave e la riattivazione di cave dismesse all’interno di parchi nazionali e regionali, comprese le aree contigue, e (b) consente, all’interno delle predette aree, interventi di ampliamento o completamento delle cave in esercizio e di reinserimento o recupero ambientale di cave dismesse, fermo restando che non sono consentiti interventi di ampliamento ad eccezione di quelli destinati alla estrazione di pietre ornamentali in corso di attività alla data di entrata in vigore della legge.

La Corte dopo avere riaffermato la complessa configurazione della «tutela dell’ambiente» di cui alla lettera s) dell’art. 117 della Costituzione, ritiene fondata la questione relativamente ai parchi nazionali. Si osserva, in proposito, che la legge quadro statale sulle aree protette (legge 6 dicembre 1991, n. 394), nel fissare gli standards di tutela uniformi, con l’art. 11, comma 1, prevede che l’esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco nazionale è disciplinato con regolamento e, con il successivo comma 3, lettera b), stabilisce che nei parchi nazionali sono vietati l’apertura e l’esercizio di cave, di miniere e di discariche, nonché l’asportazione di minerali.

Dal confronto tra la norma statale interposta in materia di parchi nazionali e la norma regionale impugnata, emerge che le modifiche introdotte, lungi dal disporre una disciplina più rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, derogano in peius agli standards di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale. Né vale addurre una competenza esclusiva regionale in materia di cave a seguito della modifica del titolo V della Costituzione, poiché, nel caso di specie, si è disciplinata la materia delle cave quando le stesse insistano in un parco, e pertanto la materia «cave» va ad intrecciarsi con il valore ambiente. Quando viene toccato tale ultimo valore, la Regione può legiferare solo per fissare limiti più rigorosi di tutela, senza dunque alcuna possibilità di introdurre deroghe al divieto di svolgere nei parchi attività di cava.

D’altro canto, non può sostenersi che non esisterebbe un divieto assoluto di svolgere attività di cava nelle aree protette, tanto che la stessa legge n. 394 del 1991 prevede che tale divieto sia derogabile con il semplice regolamento del Parco, con la conseguenza che se la deroga può essere effettuata da un regolamento, a maggior ragione si potranno effettuare deroghe tramite legge. La tesi è infondata in quanto qui non viene in rilievo il rapporto di gerarchia legge-regolamento, bensì il fatto che la competenza a disciplinare la materia delle deroghe al divieto di cave nel parco è attribuita in via esclusiva, da una legge statale, al regolamento del Parco.

L’illegittimità costituzionale della norma dunque deve individuarsi non già in una presunta inammissibilità di deroghe al divieto di cave nel parco, ma nel fatto che tali deroghe possono essere eventualmente adottate tramite regolamento del Parco. Né si può convenire con la interpretazione secondo la quale il divieto di svolgere attività di cava nelle aree protette si riferisce all’apertura di nuove cave, non anche a quelle in esercizio in base a regolare concessione o dismesse senza che sia stata attuata la riambientazione del relativo sito. Parimenti infondata la tesi regionale per la quale gli interventi di ampliamento sarebbero limitati a quelli destinati alla estrazione di pietre ornamentali, poiché non sono ammissibili deroghe in peggio alla protezione dell’ambiente, senza che si possa distinguere tra «piccole deroghe» (tollerate) e «grandi deroghe» (non tollerate).

La questione non è, invece, fondata per quanto riguarda i parchi regionali.

Con riferimento alle aree naturali protette regionali, l’art. 22 della legge n. 394 del 1991 dispone che l’adozione di regolamenti delle aree protette, secondo i criteri stabiliti con legge regionale, rientra fra i principî fondamentali per la disciplina di tali aree. La legge regionale impugnata stabilisce in linea di principio il divieto di condurre cave nei parchi regionali, in conformità all’art. 11 della legge n. 394 del 1991, e prevede, in alcune ipotesi ben circoscritte, la possibilità di deroghe a tale divieto.

Il parco regionale, sottolinea la Corte, è tipica espressione dell’autonomia regionale e, a questo proposito, l’art. 23 della legge n. 394 del 1991 stabilisce che il Parco regionale è istituito con legge regionale e determina i principî del regolamento. Il regolamento può anche non essere adottato (art. 22, comma 6, della legge n. 394 del 1991), di talché, in sua mancanza, la disciplina delle attività di cava non può che essere quella regionale, poiché altrimenti il Parco regionale non potrebbe usufruire di deroghe al divieto di istituire cave nei parchi (dovendosi fare applicazione dell’art. 11 della legge n. 394 del 1991, che vieta le cave nel Parco salvo diversa previsione regolamentare).

b) Di notevole rilievo, anche per le affermazioni che recano relativamente alla materia «ambiente», le due pronunce che hanno riguardo alla prevenzione di incidenti rilevanti.

Con la sentenza n. 135, la Corte respinge il conflitto di attribuzione proposto dalla Provincia autonoma di Bolzano avente ad oggetto l’ispezione disposta dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio nello stabilimento MEMC Electronic Material s.r.l. di Merano, ai sensi del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, nell’ambito delle verifiche relative ai pericoli di incidenti industriali rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, nonché il decreto 8 maggio 2002 del medesimo Direttore generale, con cui è stata istituita la commissione incaricata di svolgere la suddetta ispezione.

La Corte non ritiene che tali provvedimenti siano lesivi delle competenze legislative e amministrative in materia di igiene e sanità e di prevenzione e pronto soccorso per calamità pubbliche, attribuite alle Province autonome dallo statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige e dalle relative norme di attuazione.

Al riguardo, la Corte – dopo aver richiamato la disciplina comunitaria, incentrata sulla necessità che in materia ambientale sia assicurato «un elevato livello di tutela» ispirata ai principî «della precauzione e dell’azione preventiva», prevedendo allo scopo un articolato sistema di controlli, nel cui ambito sono imposti agli Stati membri incisivi obblighi di vigilanza, volti a prevenire i pericoli di incidenti rilevanti negli impianti qualificati come pericolosi – sottolinea che il decreto di recepimento della direttiva comunitaria subordina (ai sensi dell’art. 72 del d.lgs n. 112 del 1998) il trasferimento delle competenze alle regioni alla adozione delle specifiche normative regionali volte a «garantire la sicurezza del territorio e della popolazione», alla attivazione dell’Agenzia regionale protezione ambiente e, infine, al raggiungimento di un accordo di programma tra Stato e Regione per la verifica dei presupposti per lo svolgimento delle funzioni.

In attesa di questo trasferimento, le ispezioni relative agli stabilimenti a maggior incidenza di rischio sono disposte dal Ministero dell’ambiente; le ispezioni sono svincolate da qualsiasi cadenza periodica e possono svolgersi in tutti gli stabilimenti a rischio di incidenti (e cioè sia in quelli soggetti ex art. 8 all’obbligo del rapporto di sicurezza sia in quelli tenuti soltanto, ai sensi dell’art. 7, ad una politica di prevenzione comprensiva di un sistema di gestione della sicurezza).

Sulla base di tali premesse, la Corte ricorda che la disciplina degli incidenti a rischio rilevante, pur riconducibile alla «tutela dell’ambiente» di esclusiva spettanza dello Stato, può incidere anche su oggetti ed interessi di competenza concorrente delle Regioni, e dunque consente interventi regionali nell’ambito dei principî fondamentali della legislazione statale in materia. Peraltro, prosegue la Corte, ove si consideri la centralità delle verifiche ispettive nella disciplina dei controlli sui rischi di incidenti rilevanti, tali da consentire «un esame pianificato e sistematico dei sistemi tecnici, organizzativi e di gestione applicati» nei diversi stabilimenti, adeguato alle peculiarità di ciascuno di essi, secondo criteri di sicurezza comuni (art. 18 direttiva 96/82/CE), deve riconoscersi che rientra nella ratio di una effettiva tutela dell’ambiente riservare allo Stato, non soltanto un potere di disciplina uniforme per tutto il territorio nazionale, ma anche le potestà amministrative necessarie a garantire l’adeguatezza degli standards di precauzione. In quest’ottica, si conclude, l’art. 25, comma 6, del decreto legislativo n. 334 del 1999, nel riconoscere la permanenza di un potere ispettivo generale in capo al Ministero dell’ambiente, può ritenersi costituire norma fondamentale, cui la provincia di Bolzano è tenuta ad adeguarsi secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo in esame.

Strettamente connessa con le affermazioni contenute nella sentenza n. 135 è la sentenza n. 214, che dichiara la infondatezza della questione sollevata nei confronti della legge della Regione Emilia-Romagna 17 dicembre 2003, n. 26, in quanto, disciplinando la predisposizione di «piani di emergenza esterni», relativamente agli stabilimenti in cui si impiegano sostanze pericolose, al fine di limitare gli effetti dannosi derivanti da incidenti rilevanti, ne attribuisce la competenza alle Province; ciò che avrebbe violato la competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente.

La Corte dopo aver precisato la nozione e la valenza costituzionale della «tutela dell’ambiente», ritiene che la disciplina dei piani di emergenza esterni, che riserva allo Stato il compito di fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale (art. 20 del d.lgs. n. 334 del 1999), non esclude la compatibilità con interventi specifici del legislatore regionale Per quanto concerne il tema dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, la Corte rileva che l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 334 del 1999 prevede la predisposizione di piani di emergenza esterni agli stabilimenti a cura del prefetto, d’intesa con le Regioni e gli enti locali interessati, previa consultazione della popolazione, con lo scopo di controllare e circoscrivere gli incidenti già avvenuti, limitare i danni, informare la popolazione, risanare l’ambiente.

L’oggetto del contendere attiene a competenze amministrative, che la legge regionale impugnata ha assegnato alla Provincia, mentre la legge statale le attribuisce al prefetto. A tal fine, la Corte sottolinea che il d.lgs. n. 334 del 1999 dispone (all’art. 18) che la Regione disciplina, ai sensi dell’art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998, l’esercizio delle competenze amministrative in materia di incidenti rilevanti, individuando, fra l’altro, le autorità titolari delle funzioni amministrative e dei provvedimenti discendenti dall’istruttoria tecnica e stabilisce le modalità per l’adozione degli stessi. È evidente, allora, che sia la stessa normativa statale a consentire interventi sulle competenze amministrative da parte della legge regionale, e che, pertanto, la norma impugnata non interferisca illegittimamente con la potestà legislativa statale là dove questa prevede la competenza del prefetto (art. 20 del d.lgs. n. 334 del 1999).

In effetti, è lo stesso art. 20, ultimo comma, del d.lgs. n. 334 del 1999 a porre come limite della sua vigenza l’attuazione dell’art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998, il quale conferisce alla Regione le competenze amministrative in materia – tra l’altro – di adozione di provvedimenti in tema di controllo dei pericoli da incidenti rilevanti, discendenti dall’istruttoria tecnica. L’attribuzione alla Provincia, da parte della Regione, con l’art. 3 della legge regionale n. 26 del 2003, di una competenza amministrativa ad essa conferita dall’art. 72 d.lgs. n. 112 del 1998, non solo non viola la potestà legislativa dello Stato (sentenza n. 259 del 2004), ma costituisce applicazione di quanto alla Regione consente la stessa legge statale, sia pure in attesa dell’accordo di programma previsto dalla norma statale. La normativa impugnata non è peraltro operante, come espressamente riconosce la legge regionale n. 26 del 2003 (art. 3, comma 3), dal momento che le funzioni Provinciali relative alla valutazione del rapporto di sicurezza saranno esercitate solo ed a seguito del perfezionamento della procedura di cui all’art. 72, comma 3, del d.lgs. n. 112 del 1998, cioè dopo che sarà perfezionato l’accordo di programma tra Stato e Regione in ordine alla verifica dei presupposti per lo svolgimento delle funzioni, nonché per le procedure di dichiarazione.

c) Con riferimento alla gestione dei rifiuti, sono stati oggetto di statuizione da parte della Corte la circolazione extra-regionale dei rifiuti (sentenza n. 161) e, soprattutto, la gestione dei rifiuti radioattivi (sentenza n. 62).

Nella sentenza n. 161, si dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Basilicata 31 agosto 1995, n. 59, nella parte in cui fa divieto a chiunque conduca nel territorio della Regione Basilicata impianti di smaltimento e/o stoccaggio di rifiuti, anche in via provvisoria, di accogliere negli impianti medesimi rifiuti, diversi da quelli urbani non pericolosi, provenienti da altre regioni o nazioni.

Al riguardo, la Corte ricorda che il principio dell’autosufficienza locale nello smaltimento dei rifiuti in ambiti territoriali ottimali vale, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, solo per i rifiuti urbani non pericolosi e non anche per altri tipi di rifiuti, per i quali vige invece il diverso criterio della vicinanza di impianti di smaltimento appropriati, per ridurre il movimento dei rifiuti stessi, correlato a quello della necessità di impianti specializzati per il loro smaltimento. Ed a siffatto criterio sono stati ritenuti soggetti i rifiuti speciali, definiti (sentenza n. 505 del 2002), sia pericolosi (sentenza n. 281 del 2000) che non pericolosi (sentenza n. 335 del 2001).

L’impugnata legge regionale pone un generale divieto per chiunque conduca nel territorio della Regione Basilicata impianti di smaltimento e/o stoccaggio di rifiuti, anche in via provvisoria, di accogliere negli impianti medesimi rifiuti provenienti da altre regioni o nazioni. Tale divieto, se è legittimo con riferimento ai rifiuti urbani non pericolosi, si pone, invece, in contrasto con la Costituzione, nella parte in cui si applica a tutti gli altri tipi di rifiuti di provenienza extraregionale, in quanto invade la competenza esclusiva attribuita allo Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema dall’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, e viola i principî fondamentali della legislazione statale contenuti nel decreto legislativo n. 22 del 1997. Il divieto, inoltre, impone un vincolo alle Regioni non consentito dall’art. 120, primo comma, della Costituzione, che vieta ogni misura atta ad ostacolare la libera circolazione delle cose e delle persone tra le Regioni (sentenza n. 505 del 2002).

Nella sentenza n. 62 si accoglie l’impugnativa del Governo avverso tre leggi regionali, rispettivamente delle Regioni Sardegna (legge regionale 3 luglio 2003, n. 8), Basilicata (legge regionale 21 novembre 2003, n. 31) e Calabria (legge regionale 5 dicembre 2003, n. 26), che dichiarano il territorio regionale come territorio «denuclearizzato», precluso al transito ed alla presenza di materiali nucleari provenienti da altri territori.

Per quanto riguarda la Regione Sardegna, la Corte ritiene che l’intervento legislativo regionale non trovi fondamento in alcuna delle competenze attribuite alla Regione dallo statuto speciale e dalla Costituzione.

In proposito, non vale invocare la competenza legislativa primaria in materia di «edilizia ed urbanistica» (art. 3, lettera f, dello statuto), che non comprende ogni disciplina di tutela ambientale, e deve comunque esercitarsi – quando si tratti, ciò che non è nella specie, di ambiti in cui le Regioni ordinarie non abbiano acquisito, con il nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, maggiori competenze invocabili anche dalle Regioni speciali in forza dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (cfr. sentenza n. 536 del 2002) – nei limiti statutari delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e degli obblighi internazionali e comunitari.

Né, in proposito, può valere il riferimento all’art. 58 delle norme di attuazione dello statuto sardo di cui al d.P.R. n. 348 del 1979, che si limita a trasferire alla Regione le funzioni amministrative concernenti gli interventi per la protezione della natura, le riserve ed i parchi naturali, ed all’art. 80 del d.P.R. n. 616 del 1977, il quale, pur includendo la «protezione dell’ambiente» nell’ambito della disciplina dell’uso del territorio riconducibile alla materia «urbanistica», non ha fatto venir meno le competenze statali in materia specificamente ambientale.

Ancor meno la legge censurata può giustificarsi in base alla competenza concorrente della Regione in materia di salute pubblica, protezione civile e governo del territorio: mentre questi ultimi due titoli di competenza non aggiungono nulla ai poteri della Regione in campo ambientale, in presenza della competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), i poteri della Regione nel campo della tutela della salute non possono consentire, sia pure in nome di una protezione più rigorosa della salute degli abitanti della Regione medesima, interventi preclusivi suscettibili, come nella specie, di pregiudicare, insieme ad altri interessi di rilievo nazionale (cfr. sentenza n. 307 del 2003), il medesimo interesse della salute in un ambito territoriale più ampio, come avverrebbe in caso di impossibilità o difficoltà a provvedere correttamente allo smaltimento di rifiuti radioattivi.

In ogni caso, alle Regioni, sia ad autonomia ordinaria sia ad autonomia speciale, è sempre interdetto adottare misure di ogni genere capaci di ostacolare «in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni» (art. 120, primo comma, Cost.); e la normativa impugnata, che preclude il transito e la presenza, anche provvisoria, di materiali nucleari provenienti da altri territori, è una misura tra quelle che alle Regioni sono vietate dalla Costituzione.

Inoltre, il problema dello smaltimento dei rifiuti di origine industriale pericolosi non può essere risolto sulla base di un criterio di «autosufficienza» delle singole Regioni (cfr. sentenze n. 281 del 2000, n. 335 del 2001, n. 505 del 2002), poiché occorre tener conto della eventuale irregolare distribuzione nel territorio delle attività che producono tali rifiuti, nonché, nel caso dello smaltimento dei rifiuti radioattivi, della necessità di trovare siti particolarmente idonei per conformazione del terreno e possibilità di collocamento in sicurezza dei rifiuti medesimi. La comprensibile spinta, spesso presente a livello locale, ad ostacolare insediamenti che gravino il rispettivo territorio degli oneri connessi (secondo il noto detto «not in my backyard»), non può tradursi in un impedimento insormontabile alla realizzazione di impianti necessari per una corretta gestione del territorio e degli insediamenti al servizio di interessi di rilievo ultraregionale.

La medesima ratio decidendi conduce alla declaratoria di incostituzionalità della legge regionale della Basilicata, in ordine alla quale la Corte si limita a sottolineare che non può essere invocato, a difesa della legge, un potere di intervenire a difesa della salute con misure più rigorose di quelle fissate dallo Stato, poiché la Regione non può in ogni caso adottare misure che pregiudichino, insieme con altri interessi di rilievo nazionale, lo stesso interesse alla salute in un ambito più vasto, come accadrebbe se si ostacolasse la possibilità di smaltire correttamente i rifiuti radioattivi.

Per le stesse ragioni riferite a proposito delle precedenti leggi regionali, viene dichiarata la incostituzionalità della legge regionale della Calabria impugnata.

Con la stessa sentenza n. 62, la Corte esamina l’impugnativa della Regione Basilicata avverso il decreto legge 14 novembre 2003, n. 314, nel testo risultante dalla legge di conversione 24 dicembre 2003, n. 368, dove si prevede che la sistemazione in sicurezza dei rifiuti radioattivi, degli elementi di combustibile irraggiati e dei materiali nucleari, ivi inclusi quelli rivenienti dalla disattivazione delle centrali elettronucleari e degli impianti di ricerca e di fabbricazione del combustibile, sia effettuata presso il Deposito nazionale, riservato ai soli rifiuti di III categoria, che costituisce «opera di difesa militare di proprietà dello Stato»; e che il sito sia individuato entro un anno dal Commissario straordinario nominato ai sensi dell’art. 2, sentita l’apposita Commissione tecnico-scientifica, e previa intesa in sede di conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, ovvero, in mancanza del raggiungimento dell’intesa entro il termine stabilito, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri (art. 1, comma 1).

La ricorrente lamenta la violazione delle competenze legislative della Regione in materia di tutela della salute, protezione civile e governo del territorio, nonché dei principî costituzionali di sussidiarietà e leale collaborazione tra Stato e Regioni.

La Corte dichiara la questione parzialmente fondata. Al riguardo, si osserva che la competenza statale in tema di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., è tale da offrire piena legittimazione ad un intervento legislativo volto a realizzare un impianto necessario per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, oggi conservati in via provvisoria in diversi siti, ma destinati a trovare una loro collocazione definitiva che offra tutte le garanzie necessarie sul piano della protezione dell’ambiente e della salute. La concomitante possibilità per le Regioni di intervenire, anche perseguendo finalità di tutela ambientale, non comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi, allorquando individui l’esigenza di interventi di questa natura, a stabilire solo norme di principio, lasciando sempre spazio ad una ulteriore normativa regionale.

Del pari, l’attribuzione delle funzioni amministrative il cui esercizio sia necessario per realizzare interventi di rilievo nazionale può essere disposta, in questo ambito, dalla legge statale, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, ed in base ai criteri generali dettati dall’art. 118, primo comma, della Costituzione, vale a dire ai principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Nella specie, la localizzazione e la realizzazione di un unico impianto destinato a consentire lo smaltimento dei rifiuti radioattivi potenzialmente più pericolosi, esistenti o prodotti sul territorio nazionale, costituiscono certamente compiti il cui esercizio unitario può richiedere l’attribuzione della competenza ad organi statali.

Tuttavia, quando gli interventi dello Stato, in vista di interessi unitari di tutela ambientale, concernono l’uso del territorio, ed in particolare la realizzazione di opere e di insediamenti atti a condizionare in modo rilevante lo stato e lo sviluppo di singole aree, l’intreccio, da un lato, con la competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, oltre che con altre competenze regionali, dall’altro lato con gli interessi delle popolazioni insediate nei rispettivi territori, impone che siano adottate modalità di attuazione degli interventi medesimi che coinvolgano le Regioni sul cui territorio gli interventi sono destinati a realizzarsi (cfr. sentenza n. 303 del 2003).

Il livello e gli strumenti di tale collaborazione possono naturalmente essere diversi in relazione al tipo di interessi coinvolti ed alla natura ed all’intensità delle esigenze unitarie che devono essere soddisfatte.

I procedimenti concretamente configurati dal decreto legge impugnato concernono sia la individuazione del sito in cui collocare il Deposito (e dunque la scelta dell’area più idonea sotto il profilo tecnico ed in relazione ad ogni altra circostanza rilevante), sia la concreta localizzazione e la realizzazione dell’impianto.

Sotto il primo profilo, è corretto il coinvolgimento, che il decreto legge attua, delle Regioni e delle autonomie locali nel loro insieme, attraverso la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, chiamata a cercare l’intesa sulla individuazione del sito. Naturalmente, ove l’intesa non venga raggiunta, lo Stato deve essere posto in condizioni di assicurare egualmente la soddisfazione dell’interesse unitario coinvolto, di livello ultraregionale. Pertanto, in caso di mancata intesa, la individuazione del sito è rimessa ad un provvedimento adottato dal Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera del Consiglio dei ministri, e dunque col coinvolgimento del massimo organo politico-amministrativo, che assicura il livello adeguato di relazione tra organi centrali e autonomie regionali costituzionalmente garantite.

Quando, però, una volta individuato il sito, si debba provvedere alla sua «validazione», alla specifica localizzazione ed alla realizzazione dell’impianto, l’interesse territoriale da prendere in considerazione ed a cui deve essere offerta, sul piano costituzionale, adeguata tutela, è quello della Regione nel cui territorio l’opera è destinata ad essere ubicata. A questo livello, il semplice coinvolgimento della Conferenza unificata, il cui intervento non può sostituire quello, costituzionalmente necessario, della singola Regione interessata (cfr. sentenze n. 338 del 1994, n. 242 del 1997, n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004).

Da questo punto di vista, la disciplina recata dal decreto legge impugnato è carente, poiché prevede che alla «validazione» del sito provveda il Consiglio dei ministri, sulla base degli studi della Commissione tecnico-scientifica, e sentiti i soli pareri di enti nazionali.

È dunque necessario, al fine di ricondurre tali previsioni a conformità alla Costituzione, che siano previste forme di partecipazione al procedimento della Regione interessata, fermo restando che, per il caso di dissenso irrimediabile, possono essere previsti meccanismi di deliberazione definitiva da parte di organi statali, con adeguate garanzie procedimentali.

Una garanzia, pur minima, della Regione è invece presente nella previsione del comma 2, primo periodo, dell’art. 2, ai cui sensi il Commissario straordinario è autorizzato ad adottare, anche in sostituzione dei soggetti competenti, tutti i provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura necessari alla progettazione, all’istruttoria, all’affidamento e alla realizzazione del Deposito nazionale, con le modalità di cui all’articolo 13 del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito con modificazioni dalla legge 23 maggio 1997, n. 135. In effetti, il comma 4, secondo periodo, di detto art. 13 prevede che, ove il Commissario, decorso un termine per l’adozione degli atti necessari da parte delle amministrazioni competenti, provveda in sostituzione, in caso di competenza regionale, i provvedimenti siano comunicati al Presidente della Regione, il quale, entro quindici giorni, può disporne la sospensione, anche provvedendo diversamente.

Quanto alle procedure per la messa in sicurezza e lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi di I e II categoria, cui provvede, ai sensi dell’art. 3, comma 1-bis, il Presidente del Consiglio con proprio decreto, vale osservare che per tale messa in sicurezza «si applicano le procedure tecniche e amministrative di cui agli articoli 1 e 2» del decreto (fatta eccezione per quelle speciali previste dalla legge n. 443 del 2001 e dal d.lgs. n. 190 del 2002). Pertanto, anche a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale degli articoli 1 e 2, a tali procedure vengono ad essere estese le garanzie previste per quelle relative al Deposito nazionale.

d) La Corte costituzionale ha reso, nel 2005, tre decisioni che hanno ad oggetto la disciplina dell’attività venatoria.

Con la sentenza n. 391, ancora una volta la Corte si pronuncia su una legge regionale che indebitamente dilata i limiti temporali del prelievo venatorio. La Corte ha modo di ribadire che, sia con riferimento alle regioni ad autonomia ordinaria sia per le regioni (e province) ad autonomia speciale (sentenze n. 226 del 2003 e n. 536 del 2002), la delimitazione temporale del prelievo venatorio disposta dall’articolo 18 della legge n. 157 del 1992 «è da considerare come rivolta ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili, corrispondendo quindi, sotto questo aspetto, all’esigenza di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, il cui soddisfacimento l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, in particolare mediante la predisposizione di standard minimi di tutela della fauna» (sentenza n. 311 del 2003).

Analoga ratio va riconosciuta alla previsione del termine giornaliero, anch’esso fissato al fine di garantire la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili.

L’articolo unico della legge della Regione Puglia 25 agosto 2003, n. 15, procrastinando fino ad un’ora dopo il tramonto il termine di chiusura del periodo venatorio giornaliero relativo agli acquatici da appostamento che dipendono ecologicamente dalle zone umide, incide sul nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica ed è pertanto costituzionalmente illegittima.

Nella sentenza n. 392, la Corte dichiara, la incostituzionalità dell’art. 7, comma 3, della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 30 del 1999, nella parte in cui consente che all’esecuzione di piani di abbattimento di fauna selvatica procedano, oltre ai soggetti di cui all’art. 19, comma 2, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, anche le Riserve di caccia situate nel territorio della Regione (a mezzo di cacciatori ad esse assegnati), in quanto qualificate come «conduttori a fini faunistico-venatori dei fondi». A tanto la Corte perviene dopo aver verificato che alle riserve di caccia regionali si attribuiscono finalità venatorie non contemplate dalla legge quadro statale sulla caccia, con ciò eccedendo dai limiti statutari apposti alla legislazione regionale in materia di caccia.

In quest’ottica, la Corte richiama l’articolo 19, comma 2, della legge statale n. 157 del 1992, che, nel disciplinare l’abbattimento di fauna nociva, prevede che «le regioni, per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia. Tale controllo, esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l’utilizzo di metodi ecologici su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica. Qualora l’Istituto verifichi l’inefficacia dei predetti metodi, le regioni possono autorizzare piani di abbattimento. Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali. Queste ultime potranno avvalersi dei proprietari o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani medesimi, purché muniti di licenza per l’esercizio venatorio, nonché delle guardie forestali e delle guardie comunali munite di licenza per l’esercizio venatorio».

Si tratta chiaramente, secondo la Corte, di attività non svolta per fini venatori, perché l’abbattimento di fauna nociva risulta previsto soltanto a fini di tutela dell’ecosistema e trae origine da un’attenta ponderazione tesa ad evitare che la tutela degli interessi (sanitari, di selezione biologica, di protezione delle produzioni zootecniche, ecc.) perseguiti con i piani di abbattimento trasmodi nella compromissione della sopravvivenza di alcune specie faunistiche ancorché nocive. A tale scopo, l’art. 19, comma 2, contiene un elenco tassativo di soggetti autorizzati all’esecuzione di tali piani, nel quale non sono compresi i cacciatori, come si desume, altresì, dal comma 3 del medesimo articolo 19, secondo il quale le sole Province di Trento e Bolzano possono attuare i piani di abbattimento della fauna nociva anche avvalendosi di altre persone, purché munite di licenza per l’esercizio venatorio.

La previsione dell’art. 19 della legge statale n. 157 del 1992, ribadisce la Corte, «nella parte in cui disciplina i poteri regionali di controllo faunistico, costituisce un principio fondamentale della materia a norma dell’art. 117 della Costituzione, tale da condizionare e vincolare la potestà legislativa regionale: non solo per la sua collocazione all’interno della legge quadro ma anche per l’inerenza della disposizione a materia contemplata dalla normativa comunitaria in tema di protezione delle specie selvatiche (la rigorosa disciplina del controllo faunistico recata dall’art. 19 della legge n. 157 del 1992 è infatti strettamente connessa all’ambito di operatività della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione di uccelli selvatici)».

Ed è proprio con tale principio espresso dalla norma statale che si pone in contrasto l’articolo 7, comma 3, primo periodo e lettera a), della legge regionale impugnata, in quanto qualifica le Riserve «quali conduttori a fini faunistico-venatori dei fondi», facendo così rientrare le Riserve di caccia, e per esse i cacciatori assegnati, tra i soggetti autorizzati all’esecuzione dei piani. Non trattandosi nella specie di attività venatoria, il previsto ampliamento risulta irragionevole, e in quanto tale si pone come esorbitante rispetto alla potestà integrativo-attuativa che l’art. 6, n. 3, dello statuto speciale attribuisce al legislatore regionale in materia di tutela della fauna.

Infine, alla luce della sentenza n. 393, immune da censure, riferite all’art. 117, secondo comma, lettera s), ed all’art. 117, primo comma, della Costituzione, si rivela la questione sollevata nei confronti dell’art. 3 della legge della Regione Umbria 29 luglio 2003, n. 17. La disposizione impugnata prevede che «la Giunta regionale, sentito l’Istituto nazionale per la fauna selvatica e previo parere della competente commissione consiliare permanente, approva il calendario venatorio, recante disposizioni relative ai tempi, ai luoghi e ai modi della caccia, disponendone la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione entro il 15 giugno di ogni anno. Il calendario venatorio, ove ricorrano le condizioni di cui all’articolo 18, comma 2 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, può consentire il prelievo venatorio di determinate specie dal primo giorno utile di settembre, stabilendone le modalità».

Diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, tale formulazione non esclude, in realtà, il rinvio alle procedure, alle condizioni ed ai limiti previsti dall’art. 18, comma 2, della legge n. 157 del 1992, limitandosi a disporre che il calendario venatorio può prevedere una diversa data di inizio per il periodo venatorio relativamente ad alcune specie solo «ove ricorrano le condizioni di cui all’articolo 18, comma 2, della legge 11 febbraio 1992, n. 157».

Pertanto, la norma regionale non si discosta da quanto previsto dalla norma statale, la quale fissa uno standard minimo di tutela della fauna, giacché l’autorizzazione all’esercizio dell’attività venatoria in periodi diversi da quelli previsti dall’art. 18, comma 1, della legge n. 157 del 1992 deve comunque ritenersi subordinata, anche nella Regione Umbria, alla integrale applicazione della disciplina dettata dal secondo comma del medesimo articolo. Così intesa la disposizione regionale impugnata, infondata deve ritenersi anche la censura relativa al mancato rispetto degli obblighi comunitari, ed in particolare della direttiva 79/409/CEE (c.d. direttiva uccelli), perché la disposizione regionale, mediante il richiamo espresso all’articolo 18, comma 2, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, si pone in conformità con la disciplina statale che di tale direttiva costituisce attuazione.

3.1.17. «Tutela [] dei beni culturali»

Come è il caso per altri settori dell’ordinamento, la disciplina della «cultura» viene ripartita, nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, sotto diversi titoli competenziali. Rinviando ad altre sedi la trattazione di decisioni che hanno avuto riguardo ad altri aspetti della materia, è il caso di passare qui in rassegna la sentenza n. 232, anche per le affermazioni in essa presenti relativamente alla distinzione dei concetti «tutela» e di «valorizzazione» dei beni cultuali (che si traducono in diversi tipi di competenze).

Con tale decisione, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni dell’art. 40 della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11, che attribuisce al piano di assetto territoriale (Pat), con riguardo ai centri storici, la determinazione sia delle categorie in cui devono essere raggruppati i manufatti e gli spazi liberi esistenti, sia dei valori di tutela in funzione degli specifici contesti da salvaguardare, nonché, per ogni categoria, l’individuazione degli interventi, delle destinazioni d’uso ammissibili e dei margini di flessibilità consentiti dal piano degli interventi (Pi).

Secondo lo Stato ricorrente siffatte disposizioni sono lesive delle attribuzioni statali in materia di tutela dei beni culturali, le quali, essendo esclusive, comprendono anche la potestà regolamentare, rilevandosi altresì che nella tutela dei beni culturali rientra anzitutto il potere di riconoscere i beni culturali come tali.

Osserva la Corte che la tutela dei beni culturali, inclusa nel secondo comma dell’art. 117 Cost., sotto la lettera s), tra quelle di competenze legislativa esclusiva dello Stato, è materia che condivide con altre alcune peculiarità. Essa ha un proprio ambito materiale, ma nel contempo contiene l’indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce anche una materia-attività, come la Corte l’ha già definita (v. sentenza n. 26 del 2004), condividendo alcune caratteristiche con la tutela dell’ambiente, non a caso ricompresa sotto la stessa lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione. In entrambe assume rilievo il profilo teleologico della disciplina.

La Corte sottolinea che, mentre non è discutibile che i beni immobili di valore culturale caratterizzano e qualificano l’ambiente (specie dei centri storici, cui la norma impugnata si riferisce), ha rilievo anche l’attribuzione della valorizzazione dei beni culturali alla competenza concorrente di Stato e Regioni.

Ai fini del discrimine delle competenze, ma anche del loro intreccio nella disciplina dei beni culturali, elementi di valutazione si traggono dalle norme del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e paesaggistici), dove si ribadisce l’esigenza dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela dei beni culturali e, nel contempo, si stabilisce che siano non soltanto lo Stato, ma anche le Regioni, le città metropolitane, le province ed i comuni ad assicurare e sostenere la conservazione del patrimonio culturale ed a favorirne la pubblica fruizione e la valorizzazione. A rendere evidente la connessione della tutela e valorizzazione dei beni culturali con la tutela dell’ambiente sono anche le lettere f) e g) del comma 4 dell’art. 10 del suindicato codice, le quali elencano, tra i beni culturali, le ville, i parchi, i giardini, le vie, le piazze, ed in genere gli spazi aperti urbani di interesse artistico o storico.

Con riguardo a tale ultimo rilievo è anche sotto altro, più specifico, aspetto che viene in evidenza la competenza regionale. La materia del governo del territorio, comprensiva dell’urbanistica e dell’edilizia (v. sentenze n. 362 del 2003 e n. 196 del 2004), rientra tra quelle di competenza legislativa concorrente. Spetta perciò alle Regioni, nell’ambito dei principî fondamentali determinati dallo Stato, stabilire la disciplina degli strumenti urbanistici.

Ora, non v’è dubbio che tra i valori che gli strumenti urbanistici devono tutelare abbiano rilevanza non secondaria quelli artistici, storici, documentari e comunque attinenti alla cultura nella polivalenza di sensi del termine. Non si può dubitare, ad esempio, che disposizioni le quali, a qualsiasi livello, limitino l’inquinamento atmosferico o riducano, disciplinando la circolazione stradale, le vibrazioni, tutelino l’ambiente ed insieme, se esistenti, gli immobili o i complessi immobiliari di valore culturale.

Nelle materie in cui ha primario rilievo il profilo finalistico della disciplina, la coesistenza di competenze normative rappresenta la generalità dei casi. Ed è significativo che la Costituzione abbia stabilito che nella materia dei beni culturali la legge statale preveda forme di intesa e coordinamento tra Stato e Regioni (art. 118, terzo comma).

Concludendo, la Corte rileva che la norma regionale impugnata non è invasiva della sfera di competenza statale, in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio.

La legge regionale non stabilisce nuovi criteri di identificazione dei beni culturali ai fini del regime proprio di questi nell’ambito dell’ordinamento statale, bensì prevede che nella disciplina del governo del territorio – e quindi per quanto concerne le peculiarità di questa – si tenga conto non soltanto dei beni culturali identificati secondo la normativa statale, ma eventualmente anche di altri, purché però essi si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione e una propria storia (v. sentenza n. 94 del 2003).

3.2. Le materie di competenza concorrente

Sebbene meno numerose delle affermazioni relative alle materie di competenza esclusiva dello Stato, sono comunque molte le decisioni che hanno riguardato le materie individuate, dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione, come di competenza concorrente. In buona parte, le decisioni hanno avuto riguardo a leggi statali di ampio respiro, che, in quanto tali, ponevano «principî fondamentali della materia» (come è nel caso del paragrafo seguente). Non mancano, però, decisioni (si pensi a quelle in tema di «professioni») nelle quali la Corte è stata chiamata a verificare la sussistenza di principî fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale in vigore, anche anteriore alla riforma del Titolo V (giacché l’assenza di nuovi principî non può comportare la paralisi dell’attività del legislatore regionale: così, ad esempio, la sentenza n. 120).

3.2.1. «Tutela e sicurezza del lavoro»

Le sentenze nn. 50 e 384, intervenendo sulle più recenti riforme del mercato del lavoro, hanno condotto una vasta opera definitoria della materia «tutela e sicurezza del lavoro», la cui estensione viene, peraltro, limitata dal concorrere di altri titoli competenziali, previsti al secondo comma, dell’art. 117.

Nella sentenza n. 50, la Corte chiarisce, innanzi tutto, che, a prescindere da quale che sia il completo contenuto che debba riconoscersi alla materia «tutela e sicurezza del lavoro», non si dubita che in essa rientri la disciplina dei servizi per l’impiego ed in specie quella del collocamento. Lo scrutinio delle norme impugnate dovrà quindi essere condotto applicando il criterio secondo cui spetta allo Stato la determinazione dei principî fondamentali ed alle Regioni l’emanazione delle altre norme comunemente definite di dettaglio; occorre però aggiungere che, essendo i servizi per l’impiego predisposti alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro, possono verificarsi i presupposti per l’esercizio della potestà statale di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., come pure che la disciplina dei soggetti comunque abilitati a svolgere opera di intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato per la tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.).

Con riferimento alle singole censure prospettate, la Corte dichiara, in primo luogo, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera d) della legge n. 30 del 2003, in quanto, pur contenendo prescrizioni concernenti strumenti e modalità d’inserimento di soggetti svantaggiati nel mondo del lavoro attinenti alla tutela del lavoro, la disposizione censurata si limita alla enunciazione di principî generali. Allo stesso modo secondo non sono fondate sono le censure rivolte nei confronti dell’articolo 2, comma 1, lettere e) f) e g), in quanto tali disposizioni contengono norme generali sui contratti a contenuto formativo e, più in particolare, sull’incentivazione al lavoro femminile.

Le affermazioni di più ampio respiro contenute nella sentenza n. 50 sono comunque quelle che affermano, anche attraverso il riferimento all’art. 120, primo comma, della Costituzione, le dimensioni necessariamente nazionali del mercato del lavoro.

Dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera l), della legge n. 30 del 2003, là dove dispone l’identificazione di un unico regime autorizzatorio o di accreditamento per gli intermediari pubblici, con particolare riferimento agli enti locali, e privati, la Corte sottolinea che l’opzione di un unico regime giuridico per chiunque voglia svolgere attività in senso generico di intermediazione è correlata all’esigenza che il mercato del lavoro abbia dimensioni almeno nazionali (in questa sede non vengono in evidenza problemi di adeguamento al diritto comunitario), esigenza la quale a sua volta si radica nel precetto dell’art. 120, primo comma, Cost., la cui osservanza costituisce la premessa perché siano garantiti anche altri interessi costituzionalmente protetti, quali quelli inerenti alle prestazioni essenziali per la realizzazione del diritto al lavoro, da un lato, ed allo svolgimento di attività che possono avere natura economica in regime di concorrenza, dall’altro. La previsione di ambiti regionali del mercato del lavoro è ausiliaria e complementare rispetto al mercato nazionale.

In applicazione di questa ratio decidendi, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1-6, del decreto legislativo n. 276 del 2003, attuativo delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge n. 30 del 2003, che istituisce un apposito albo delle agenzie per il lavoro ai fini dello svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale e disciplina le modalità di rilascio delle autorizzazioni, dei criteri di verifica dell’attività e di revoca di dette attività. L’impugnata disciplina viene ritenuta connessa alla scelta dell’unicità del regime autorizzatorio o di accreditamento, mentre la previsione delle sue articolazioni è in funzione della varietà sia dei soggetti cui può essere data l’autorizzazione o l’accreditamento, sia delle attività che essi possono svolgere. Inoltre, poiché le agenzie iscritte nell’albo possono svolgere la loro attività sull’intero territorio nazionale e l’autorizzazione definitiva viene rilasciata solo dopo la verifica del corretto andamento dell’attività svolta (art. 4, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003), la disciplina delle modalità di rilascio delle autorizzazioni, dei criteri di verifica dell’attività, di revoca dell’autorizzazione e «di ogni altro profilo relativo alla organizzazione e alle modalità di funzionamento dell’albo delle agenzie per il lavoro», ancorché in parte si tratti anche di disciplina di attività amministrative, è coessenziale ai principî fondamentali in materia di unicità di regime autorizzatorio o di accreditamento.

Sulla base della medesima ratio la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del d.lgs. n. 276 del 2003, che prevede particolari regimi di autorizzazione allo svolgimento della attività di intermediazione.

Nella sentenza n. 384, si evidenzia il principio secondo cui la vigilanza (sul lavoro) non rientra nella competenza concorrente in esame, ma deve essere connotata di volta in volta, in relazione al suo oggetto specifico: su questa base, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, della legge 14 febbraio 2003, n. 30, il quale delega, tra l’altro, il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto della disciplina vigente sulle ispezioni in materia di previdenza sociale e di lavoro.

Si dichiara, invece, costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali concernente le modalità di attuazione e funzionamento della banca dati sia adottato previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. Infatti, premesso che l’art. 10, comma 1, stabilisce l’istituzione, nell’ambito delle strutture del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed avvalendosi delle risorse del Ministero stesso, di una banca dati telematica che raccoglie le informazioni concernenti i datori di lavoro ispezionati, nonché informazioni e approfondimenti sulle dinamiche del mercato del lavoro e su tutte le materie oggetto di aggiornamento e di formazione permanente del personale ispettivo, alla quale hanno accesso esclusivamente le amministrazioni che effettuano vigilanza ai sensi del decreto stesso, la previsione contenuta nell’ultimo periodo, secondo cui con successivo decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentito il Ministro per l’innovazione e le tecnologie, previo parere del Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione, vengono definite le modalità di attuazione e di funzionamento della predetta banca dati, anche al fine di consentire il coordinamento con gli strumenti di monitoraggio di cui all’articolo 17 del decreto legislativo n. 276 del 2003, è illegittima, nella parte in cui non prevede l’intesa con la Conferenza permanente, giacché la banca dati riguarda tra l’altro «informazioni e approfondimenti sulle dinamiche del mercato del lavoro», materia che rientra nella «tutela e sicurezza del lavoro».

3.2.2. «Istruzione»

La sentenza n. 279 ha affrontato la delicata questione concernente la individuazione delle norme generali e la loro distinzione, non solo dalle altre norme, di competenza delle regioni, ma anche dai principî fondamentali di cui all’art. 117, comma terzo, della Costituzione.

Ora, ove si consideri che il problema si intreccia e si identifica con quello di competenza, è evidente come il criterio di soluzione cui far capo vada individuato guardando, al di là del dato testuale, di problematico significato, alla ratio della previsione costituzionale che ha attribuito le norme generali alla competenza esclusiva dello Stato.

E, sotto quest’ultimo aspetto, può dirsi che le norme generali in materia di istruzione sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale.

Le norme generali così intese si differenziano, nell’ambito della stessa materia, dai principî fondamentali i quali, pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose.

Nel caso di specie, la Corte esamina l’impugnativa, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia, di numerose disposizioni del decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, che detta le norme generali relative alla scuola dell’infanzia ed al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53.

Sulla base della sopra menzionata distinzione tra norme generali e principî fondamentali, non risulta fondata la questione riferita all’art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 59 del 2004, dove si prevede la promozione da parte di uffici pubblici periferici (uffici scolastici regionali) di appositi accordi con i competenti uffici delle Regioni e degli enti locali, in quanto la norma impugnata non attribuisce allo Stato una funzione amministrativa in senso proprio, ma si limita a riconoscergli la legittimazione a stipulare accordi funzionali alla realizzazione di quella continuità educativa con il complesso dei servizi all’infanzia e con la scuola primaria, che costituisce una delle finalità proprie della scuola dell’infanzia; non vi è, pertanto, dubbio che l’indicazione di tale finalità sia espressiva della competenza esclusiva statale in materia di norme generali sull’istruzione. Peraltro, la norma censurata realizza proprio quel modello collaborativo tra Stato e regioni invocato dalle stesse Regioni ricorrenti.

Immuni da censure risultano anche l’art. 7, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo, e l’art. 10, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo, del decreto legislativo n. 59 del 2004, che stabiliscono – rispettivamente per la scuola primaria e la scuola secondaria – l’orario annuale delle lezioni, l’orario annuale delle ulteriori attività educative e didattiche rimesse all’organizzazione delle istituzioni scolastiche e l’orario relativo alla mensa ed al dopo-mensa. Non si tratta, infatti, di indebite norme di dettaglio che fissano, limitandola, l’offerta formativa, poiché, al contrario, le stesse vanno intese come espressive di livelli minimi di monte-ore di insegnamento validi per l’intero territorio nazionale, ferma restando la possibilità per ciascuna regione (e per le singole istituzioni scolastiche) di incrementare, senza oneri per lo Stato, le quote di rispettiva competenza.

Altresì non lesive dell’autonomia regionale e di quella delle istituzioni scolastiche risultano le disposizioni (articoli 7, comma 4, secondo periodo, e 10, comma 4, secondo periodo, del decreto legislativo n. 59 del 2004), che prevedono – rispettivamente per la scuola primaria e per quella secondaria – che le istituzioni scolastiche, per lo svolgimento delle attività e degli insegnamenti opzionali che richiedano una specifica professionalità non riconducibile al profilo professionale dei docenti della scuola primaria o secondaria, stipulino contratti di prestazione d’opera con esperti in possesso di titoli definiti con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica. Al riguardo, osserva la Corte, la scelta della tipologia contrattuale da utilizzare per gli incarichi di insegnamento facoltativo da affidare agli esperti e l’individuazione dei titoli sono funzioni sorrette da evidenti esigenze di unitarietà di disciplina sull’intero territorio nazionale, cosicché le disposizioni impugnate vanno qualificate come norme generali sull’istruzione, di competenza esclusiva dello Stato.

Non fondate sono anche le questioni riferite all’art. 2, che disciplina l’accesso alla scuola dell’infanzia, stabilendo che possano esservi iscritti le bambine ed i bambini che compiono i tre anni entro il 30 aprile, ed all’art. 12, che regola l’accesso alla medesima scuola dell’infanzia nella fase transitoria di sperimentazione, prevista dalla legge delega, avente inizio con l’anno scolastico 2003-2004 e destinata a proseguire fino all’anno 2006, prevedendo la possibilità di una graduale anticipazione dell’età minima per l’iscrizione. In ordine alla denunciata violazione della delega, per quanto riguarda l’accesso alla scuola dell’infanzia senza attendere i risultati della fase di sperimentazione, la Corte, oltre a ribadire che le regioni non sono legittimate a denunciare il vizio di eccesso di delega se non in quanto da tale vizio discenda una diretta lesione dell’autonomia regionale, osserva che la fissazione del limite di età per l’iscrizione alla scuola dell’infanzia è una funzione sorretta da evidenti esigenze unitarie (rappresentando l’omogeneità anagrafica condizione minima di uniformità in materia scolastica), espressiva di una competenza legislativa sicuramente spettante allo Stato.

Sono, invece, accolte le doglianze avverso gli articoli 12 e 13, per le parti relative alla «modulazione» delle anticipazioni dell’età di accesso alle scuole, in quanto non prevedono alcuna forma di partecipazione delle regioni nella fase decisionale.

Si assume, in sostanza, che, se si conviene che la sperimentazione non è una funzione da svolgere necessariamente in forma centralizzata ed anzi deve tenere conto, secondo lo stesso legislatore statale, delle peculiari situazioni locali (come testimonierebbe il previsto coinvolgimento dell’Anci), dovrebbe allora concludersi che la relativa disciplina rientra nell’ambito della competenza regionale, come è del resto coerente con la natura di materia concorrente propria dell’istruzione.

Ritiene la Corte che, pur essendo la materia riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato, è necessario il coinvolgimento delle realtà locali nella fase di graduale anticipazione dell’età di accesso alla scuola, almeno per quanto riguarda la scuola dell’infanzia. Peraltro, occorre considerare che, in materia di istruzione, il naturale interlocutore dello Stato è essenzialmente la regione, in quanto gli enti locali sono privi di competenza legislativa.

La norma appare pertanto non rispettosa, sotto tale profilo, del principio di leale collaborazione e va dunque ricondotta a legittimità costituzionale sostituendo alla prevista partecipazione consultiva dell’Anci quella della Conferenza unificata Stato-Regioni.

Non essendovi alcuna ragionevole giustificazione per limitare alla sola scuola dell’infanzia la partecipazione delle regioni ai processi decisionali, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del medesimo decreto legislativo, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca relativo all’eventuale anticipazione delle iscrizioni alla scuola primaria sia adottato sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni.

L’ultima questione riguarda l’art. 15, comma 1, secondo periodo, che, al fine di realizzare le attività educative di cui agli articoli 7, commi 1, 2 e 3, e 10, commi 1, 2 e 3, del medesimo decreto legislativo, affida la possibilità di attivare incrementi di posti per le attività di tempo pieno e di tempo prolungato nell’ambito dell’organico del personale docente, al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.

Argomenta a tal proposito la Corte che l’incremento, nell’ambito dell’organico del personale docente statale, dei posti attivati per le attività di tempo pieno e di tempo prolungato attiene ad aspetti dell’organizzazione scolastica che evidentemente intersecano le competenze regionali relative alle attività educative, di talché il rispetto del principio di leale collaborazione impone che nell’adozione delle scelte relative vengano coinvolte anche le regioni, quanto meno nella forma della consultazione della Conferenza unificata Stato-Regioni.

Anche la sentenza n. 231 ha riguardato aspetti in parte inerenti alla materia «istruzione». La Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 92, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, ai termini del quale, «per l’attuazione del piano programmatico di cui all’art. 1, comma 3, della legge 28 marzo 2003, n. 53, è autorizzata, a decorrere dall’anno 2004, la spesa complessiva di 90 milioni di euro per i seguenti interventi:

«a) sviluppo delle tecnologie multimediali;

«b) interventi di orientamento contro la dispersione scolastica e per assicurare il diritto-dovere di istruzione e formazione;

«c) interventi per lo sviluppo dell’istruzione e formazione tecnica superiore e per l’educazione degli adulti;

«d) istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema di istruzione».

In ordine ai finanziamenti di cui alle lettere a), b) e c), le doglianze regionali si appuntano soprattutto sulla circostanza che le disposizioni suindicate abbiano autorizzato la spesa pur in assenza del piano programmatico, la cui approvazione, secondo quanto stabilito dalla legge n. 53 del 2003 (che già prevedeva i finanziamenti in questione), comporterebbe l’intesa con la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo n. 281 del 1997: in sostanza, l’asserito vizio di costituzionalità si sarebbe concretizzato nella lesione del principio di leale collaborazione.

Di diverso avviso la Corte, la quale ha sottolineato che «la norma può e deve essere letta in armonia con i principî costituzionali». In tal senso, il richiamo esplicito del piano programmatico di cui all’art. 1, comma 3, della legge n. 53 del 2003, e quindi anche le modalità della sua approvazione, non può non comportare che «l’autorizzazione alla spesa, oggetto della censura, è pur sempre subordinata, per quanto concerne la sua concreta attuazione, all’approvazione del piano, a sua volta condizionata all’intesa con la Conferenza».

Con precipuo riguardo al finanziamento sub d), la Corte ha rilevato che la istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione è stata disposta, insieme con il riordino dell’Istituto nazionale di valutazione del sistema dell’istruzione, con il decreto legislativo 19 novembre 2004, n. 286, il cui art. 15 ne prevede il finanziamento mediante l’utilizzazione di «quota parte dell’autorizzazione di spesa di cui all’art. 3, comma 92, della legge 24 dicembre 2003, n. 350». Da ciò si deduce che il finanziamento di cui alla lettera d) ha la sua autonoma fonte normativa nel citato art. 15, non impugnato dalla Regione, donde l’infondatezza della questione sotto tale profilo, in quanto l’eventuale violazione della competenza regionale non deriva dalla disposizione censurata.

Sempre in tema di istruzione, deve menzionarsi la sentenza n. 37, nella quale si disattende una censura regionale relativa ad una asserita compressione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. Oggetto del giudizio è l’art. 35, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, il quale disciplina le modalità di riconduzione dell’orario di insegnamento a quello obbligatorio di servizio dei docenti. La norma denunciata si limita a ricondurre l’orario di insegnamento a quello obbligatorio di servizio dei docenti per tutte le scuole del territorio nazionale, enunciando così un principio al quale devono attenersi le istituzioni scolastiche, ancorché dotate di autonomia, e non spiega comunque effetto sulla determinazione del livello del servizio scolastico. Deve, pertanto, escludersi la lesione delle attribuzioni legislative regionali e dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, la quale non può in ogni caso risolversi nella incondizionata libertà di autodeterminazione, ma esige soltanto che a tali istituzioni siano lasciati adeguati spazi che le leggi statali e quelle regionali, nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, non possono pregiudicare (sentenza n. 13 del 2004).

3.2.3. «Professioni»

A più riprese, la Corte ha avuto modo di definire il significato da attribuire alla materia «professioni», sottolineando, tra l’altro, che essa consente alle Regioni di disciplinare – nei limiti dei principî fondamentali in materia e della competenza statale all’individuazione delle professioni – tanto le professioni per il cui esercizio non è prevista l’iscrizione ad un Ordine o Collegio, quanto le altre, per le quali detta iscrizione è prevista, peraltro limitatamente ai profili non attinenti all’organizzazione degli Ordini e Collegi (sentenza n. 405).

La Corte, con la sentenza n. 319, dichiara la incostituzionalità della legge della Regione Abruzzo 23 gennaio 2004, n. 2, che prevedeva la istituzione di corsi di formazione professionale per l’esercizio dell’arte ausiliaria della professione sanitaria di massaggiatore-capo bagnino degli stabilimenti.

Motiva la Corte che, al di là della denominazione data ai corsi, la specifica finalità di abilitazione all’esercizio della professione di massaggiatore-capo bagnino degli stabilimenti idroterapici e l’attribuzione alla Regione dell’individuazione dei requisiti necessari per la relativa frequenza, dei programmi di studio e delle modalità di valutazione finale escludono che la normativa sia riconducibile alla materia residuale della «formazione professionale» (come definita dalla sentenza n. 50 del 2005; v. anche le sentenze n. 51 e n. 175 del 2005). E dimostrano che essa si propone invece la finalità – diversa ed ulteriore rispetto a quella propriamente formativa – di disciplinare una specifica figura professionale sociosanitaria, regolandone le modalità di accesso, così incidendo sul relativo ordinamento didattico (cfr. sentenza n. 82 del 1997).

L’impianto generale, il contenuto e lo scopo della legge inducono pertanto a ritenere che il suo oggetto debba essere ricondotto alla materia concorrente delle «professioni» di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, ed in particolare delle professioni sanitarie.

La Corte quindi ribadisce che nelle materie di competenza concorrente la legislazione regionale deve svolgersi nel rispetto dei principî fondamentali determinati dalla legge dello Stato e che tali principî, ove non ne siano stati formulati di nuovi, sono quelli desumibili dalla normativa statale previgente (sentenze n. 201 del 2003 e n. 282 del 2002; art. 1, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131).

Parimenti, riafferma che, in materia di professioni sanitarie, dal complesso dell’ampia legislazione statale già in vigore si ricava il principio fondamentale per cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti didattici, è riservata alla legislazione statale. Questo principio si pone quindi come un limite invalicabile dalla potestà legislativa regionale.

La sentenza n. 355 riguarda gli articoli 2, commi 2 e 3, e 3 della legge della Regione Abruzzo 19 novembre 2003, n. 17, nella parte in cui fissano i requisiti per l’iscrizione nel registro regionale degli amministratori di condominio e dispongono che l’attività di amministratore di condominio, nella regione, sia preclusa a chi non sia iscritto nel registro.

Per la Corte, non vi è dubbio che la legge regionale vada ricondotta alla materia delle professioni, appartenente alla competenza legislativa concorrente delle regioni, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Al riguardo, dalla normativa vigente – e segnatamente dall’art. 2229, primo comma, del codice civile, oltre che dalle norme relative alle singole professioni – può trarsi il principio che l’individuazione delle professioni, per il suo carattere necessariamente unitario, è riservata allo Stato, rientrando nella competenza delle regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Esula, pertanto, dai limiti della competenza legislativa concorrente delle regioni in materia di professioni l’istituzione di nuovi e diversi albi (rispetto a quelli istituiti dalle leggi statali) per l’esercizio di attività professionali, avendo tali albi una funzione individuatrice delle professioni preclusa in quanto tale alla competenza regionale.

La sentenza n. 424 riguarda la legge della Regione Piemonte 31 maggio 2004, n. 13, che ha regolamentato le discipline bio-naturali, definite come le pratiche che si prefiggono il compito di promuovere lo stato di benessere ed un miglioramento della qualità della vita della persona, mediante l’armonizzazione della persona con se stessa e con gli ambienti sociale, culturale e naturale che la circondano. Al riguardo, osserva la Corte che l’impianto generale, lo scopo esplicito ed il contenuto della legge rendono evidente che l’oggetto della normativa in esame va ricondotto alla materia delle «professioni» e che, ai fini della ripartizione delle competenze afferenti la materia in esame, l’individuazione di una specifica tipologia o natura della «professione» oggetto di regolamentazione legislativa non ha alcuna influenza.

La potestà legislativa delle regioni in materia di «professioni» deve allora rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, e l’istituzione di nuovi albi (sentenza n. 355 del 2005) è riservata allo Stato. Tale principio, al di là della particolare attuazione che recano i singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale.

La Corte, nella sentenza n. 459, ritiene, di contro, che la Regione Emilia-Romagna, istituendo la figura professionale di guida ambientale turistica per la conduzione di persone in visita ad ambienti montani (legge regionale 1°febbraio 2000, n. 4, art. 2, comma 3), non abbia inciso indebitamente sui principî fondamentali stabiliti dalla legge statale in materia (legge n. 6 del 1989), che riserva l’attività professionale di accompagnamento in montagna alle guide alpine ed agli «accompagnatori di media montagna».

Al riguardo, la Corte ritiene che ciò che distingue la figura professionale della guida alpina è, sulla base di quanto previsto dalla legge statale n. 6 del 1989, non già una generica attività di accompagnamento in aree montane, bensì l’accompagnamento su qualsiasi terreno che comporti «l’uso di tecniche e di attrezzature alpinistiche».

Nel caso di specie, la legge regionale, oggetto di censura, ha individuato, fra le diverse «professioni turistiche di accompagnamento», la «guida-ambientale escursionistica», figura essenzialmente finalizzata ad illustrare «gli aspetti ambientali e naturalistici» dei diversi territori (montani, collinari, di pianura ed acquatici) e con esplicita esclusione di percorsi di particolare difficoltà ed in ogni caso di quelli che richiedono l’uso di attrezzature e tecniche alpinistiche.

Pertanto, non si erode l’area della figura professionale della guida alpina, ma si opera del tutto legittimamente nell’area lasciata alla discrezionalità del legislatore regionale dalla vigente legislazione di cornice in materia turistica.

3.2.4. «Tutela della salute»

In talune decisioni, la Corte torna ad occuparsi, sotto diversi profili, del concreto riparto di competenze in materia di «tutela della salute».

Nella sentenza n. 95, la Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge della Regione Veneto 19 dicembre 2003, n. 41 e nei confronti dell’art. 37 della legge della Regione Basilicata 2 febbraio 2004, n. 1.

Il ricorrente Presidente del Consiglio sostiene che queste disposizioni, eliminando l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, di cui all’art. 14 della legge 30 aprile 1962, n. 283, per il personale addetto alla produzione e vendita di alimenti e per il personale delle farmacie, violerebbero un principio fondamentale stabilito dalla legislazione statale a tutela della salute, violando, altresì, l’esclusiva competenza legislativa statale in tema di «ordine pubblico e sicurezza», di cui al secondo comma, lettera h), dell’art. 117 della Costituzione, dal momento che tale obbligo sarebbe qualificabile come vincolo di ordine pubblico, anche sulla base di alcune sentenze della Corte di cassazione.

La Corte, dopo aver ritenuto inconferente il richiamo alla competenza esclusiva statale in materia di «ordine pubblico», ricorda (v. sentenza n. 162 del 2004) che la legislazione in materia di tutela della disciplina igienica degli alimenti è stata profondamente trasformata dalla adozione, in una serie di direttive della Comunità europea, recepite dal legislatore statale, di modalità diverse di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari, affiancando al preesistente sistema delineato dall’art. 14 della legge n. 283 del 1962 un diverso sistema di tutela igienica degli alimenti, basato per lo più su vasti poteri di controllo e di ispezione, che si riferiscono pure al comportamento igienico del personale che entra in contatto con le diverse sostanze alimentari.

In tal modo, ben può la legislazione regionale scegliere fra le diverse possibili specifiche modalità per garantire l’igiene degli operatori del settore. Ciò che resta, invece, vincolante è «l’autentico principio ispiratore della disciplina in esame, ossia il precetto secondo il quale la tutela igienica degli alimenti deve essere assicurata anche tramite la garanzia di alcuni necessari requisiti igienico-sanitari delle persone che operano nel settore, controllabili dagli imprenditori e dai pubblici poteri» (sentenza n. 162 del 2004).

La scelta delle Regioni di sopprimere l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, pertanto, non determina di per sé la violazione di tale principio fondamentale, dal momento che deve comunque essere considerata implicitamente fatta salva l’applicazione del diverso sistema di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari disciplinata dai decreti legislativi, attuativi delle direttive comunitarie, n. 156 del 1997, n. 155 del 1997 e n. 123 del 1993.

All’esame della Corte è, nella sentenza n. 200, l’art. 37, comma 3, della legge della Regione Marche 17 luglio 1996, n. 26, il quale dispone che, fino alla definizione degli accordi di cui all’art. 5, comma 4, di detta legge, in via provvisoria, resta fermo l’obbligo della preventiva autorizzazione per l’accesso alle prestazioni alle strutture sanitarie non pubbliche.

La censura del Tar per le Marche si incentra essenzialmente sulla violazione dell’art. 117 della Costituzione, in quanto la disposizione regionale non avrebbe attribuito all’assistito, in contrasto con i principî fondamentali della legislazione statale, la facoltà di «libera scelta» della struttura sanitaria, subordinandola, invece, nell’attesa di appositi accordi, al rilascio di un’autorizzazione per l’accesso alle strutture private accreditate, che abbiano accettato il budget imposto dalla Usl territorialmente competente.

Sottolinea la Corte come l’evoluzione della legislazione sanitaria abbia messo in luce che, subito dopo l’enunciazione del principio della parificazione e concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private, con la conseguente facoltà di libera scelta da parte dell’assistito, si sia progressivamente imposto nella legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del sistema sanitario. In questo modo, si è temperato il predetto regime concorrenziale attraverso i poteri di programmazione propri delle Regioni e la stipula di appositi «accordi contrattuali» tra le Usl competenti e le strutture interessate per la definizione di obiettivi, volume massimo e corrispettivo delle prestazioni erogabili (d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229).

Tali ultime disposizioni si configurano come norme di principio dirette a garantire ad ogni persona il diritto alla salute come «un diritto costituzionale condizionato dall’attuazione che il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti», tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento (sentenze nn. 304 del 1994, 247 del 1992).

Dall’orientamento giurisprudenziale della Corte (sentenze nn. 304 del 1994, 247 del 1992), si ricava che anche nel sistema dell’accreditamento permangono i poteri di controllo, indirizzo e verifica delle Regioni e delle Usl, tanto che «la libertà di scegliere, da parte dell’assistito, chi chiamare a fornire le prestazioni sanitarie non comporta affatto una libertà sull’an e sull’esigenza delle prestazioni», in quanto resta confermato il principio fondamentale che l’erogazione delle prestazioni soggette a scelte dell’assistito è subordinata a formale prescrizione a cura del servizio sanitario nazionale (sentenza n. 416 del 1995).

Non sussiste, quindi, la violazione dell’indicato parametro costituzionale, poiché la norma censurata si conforma a quei principî. Oltretutto, la disposizione in esame ha carattere transitorio, e proprio nella stessa legge regionale impugnata si prevedono forme di contrattazione che intercorrono tra Giunta regionale e Usl, da un lato, ed i vari soggetti accreditati, pubblici e privati, erogatori delle prestazioni, dall’altro.

Nella sentenza n. 467, la Corte non ritiene che la legge della Regione Campania 11 febbraio 2003, n. 2, riconoscendo, art. 1, l’assistenza sanitaria per stati morbosi mediante l’erogazione di prodotti dietetici in casi tassativamente determinati ed escludendo i sostituti del latte materno per i nati da madri sieropositive per Hiv, abbia disciplinato in senso riduttivo, rispetto alla normativa statale un livello essenziale di assistenza sanitaria e tanto meno abbia violato i principî fondamentali posti dalla legislazione dello Stato in materia di tutela della salute, attribuita alla potestà legislativa concorrente regionale.

Dall’esame della normativa statale in materia di prodotti alimentari destinati ad una alimentazione particolare, emerge, infatti, con chiarezza la distinzione tra una finalità di assistenza sanitaria curativa e una finalità di prevenzione, concernente soggetti sani (i lattanti figli di madri sieropositive per Hiv), che occorre preservare dal pericolo di contagio veicolato dal latte materno, per cui la diversità di fini di tutela e di soggetti beneficiari si riflette inevitabilmente sulle modalità di erogazione e sui contesti istituzionali e organizzativi nei quali questa viene effettuata.

Pertanto, l’introduzione in questo contesto normativo di prodotti alimentari destinati ai lattanti si sarebbe collocata fuori dal dichiarato ambito operativo della legge regionale, limitato alla tutela dei soggetti portatori delle patologie già individuate dalla normativa statale, richiamati integralmente al solo scopo di individuare i fruitori della ristorazione differenziata. Tanto, peraltro, non preclude l’assistenza ai nati da madri sieropositive, che rimane garantita dalla normativa statale, in cui è stabilito pure che l’esistenza del presupposto della prestazione venga accertata e certificata da uno specialista del Servizio sanitario nazionale, spettando poi alla Regione l’adozione di una normativa di carattere organizzativo che non può essere certo sostituita da una pronunzia della Corte.

Anche la censura riferita all’art. 4, che, disponendo l’obbligo di fornire pasti differenziati ai soggetti aventi problemi connessi all’alimentazione a carico di tutte le amministrazioni pubbliche e non soltanto di quelle regionali, avrebbe travalicato l’ambito di competenza riservato all’ente territoriale, viene respinta.

Al riguardo, la Corte rileva che, in virtù della competenza legislativa concorrente attribuita alle regioni sia in materia di tutela della salute che di alimentazione, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., le leggi dalle stesse validamente emanate, nel rispetto dei principî fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, devono avere effetto nei confronti di tutti i soggetti istituzionali che esercitano potestà amministrative ad esse riconducibili. Nel caso di specie, la Regione disciplina un servizio pubblico mirante a soddisfare un diritto dei cittadini sancito, nei suoi livelli essenziali, dalla stessa legislazione statale. Sarebbe paradossale che la somministrazione di pasti differenziati ai soggetti portatori di patologie riconosciute dalla legge come presupposti per il godimento del diritto avvenisse soltanto nelle strutture dipendenti dalla Regione, con un immotivato e irragionevole sacrificio del diritto alla salute di chi, per avventura, dovesse servirsi di mense statali.

A tutt’altro proposito, nella sentenza n. 147, la Corte non ritiene che la legge della Regione Piemonte 3 gennaio 1997, n. 4, che disciplina l’attività libero professionale dei medici veterinari dipendenti dal Servizio sanitario nazionale, abbia violato i diversi parametri costituzionali evocati dal Tar per il Piemonte.

Osserva la Corte che la legge regionale opera in una materia – la tutela della salute – di competenza legislativa concorrente, in cui spetta al legislatore statale la determinazione dei principî fondamentali in materia. Principî tuttora deducibili dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, secondo il quale «il personale veterinario ha la facoltà di esercitare l’attività libero-professionale, fuori dei servizi e delle strutture dell’unità sanitaria locale, purché tale attività non sia prestata con rapporto di lavoro subordinato, non sia in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali dell’unità sanitaria locale stessa, né incompatibile con gli orari di lavoro, secondo modalità e limiti previsti dalla legge regionale».

La previsione della legge statale è all’origine delle limitazioni poste dalla legge regionale in questione allo svolgimento dell’attività libero-professionale dei veterinari, nonché di una differenziata disciplina nei diversi settori di attività libero-professionale; limitazioni le quali non determinano alcuna illegittima preclusione allo svolgimento dell’attività lavorativa, dal momento che, come già affermato proprio in relazione alla disciplina del pubblico impiego nell’ambito dell’organizzazione sanitaria pubblica, «dal riconoscimento dell’importanza costituzionale del lavoro non deriva l’impossibilità di prevedere condizioni e limiti per l’esercizio del relativo diritto, purché essi siano preordinati alla tutela di altri interessi e di altre esigenze sociali parimenti fatti oggetto, come nella fattispecie, di protezione costituzionale» (sentenza n. 330 del 1999; si veda, altresì, sentenza n. 457 del 1993). Con riguardo alla norma in questione, le limitazioni all’attività libero-professionale dei veterinari, oltre a non essere assolute, perché operanti solo nel territorio della Usl presso la quale il veterinario svolge il proprio servizio come pubblico dipendente e, inoltre, perché riferite alle sole strutture ambulatoriali private per la cura degli animali d’affezione, appaiono connesse all’esigenza di garantire che non siano compromesse le finalità istituzionali nel settore della assistenza e della vigilanza zooiatrica che la Usl svolge nell’ambito del territorio di propria competenza.

Non è dunque affatto contraddittorio che il legislatore regionale abbia ritenuto di porre limitazioni allo svolgimento di tale attività a tutela delle esigenze delle finalità istituzionali delle strutture pubbliche, in misura tale da non svuotare del tutto il contenuto del diritto e proprio in ossequio ai principî fondamentali stabiliti dal legislatore statale.

Anche la censura mossa con riguardo all’art. 120 della Costituzione è infondata, in quanto il limite territoriale posto dall’art. 2 della legge piemontese con riguardo all’attività sugli animali d’affezione si riferisce unicamente al «territorio di competenza della A.S.R. presso la quale il medico veterinario svolge il proprio servizio di pubblico dipendente».

Il divieto posto dall’art. 120, primo comma, Cost., d’altra parte, è stato sempre interpretato come riferito esclusivamente al divieto per la legge regionale di porre limiti alla possibilità per i cittadini di svolgere attività di lavoro nel territorio della Regione (cfr. sentenze n. 207 del 2001, n. 168 del 1987, n. 13 del 1961 e n. 6 del 1956) e non invece di individuare limitazioni all’interno di esso sulla base di specifiche esigenze.

3.2.5. «Governo del territorio»

Per quanto attiene alla materia «governo del territorio», la Corte si pronuncia, in due occasioni, sulla disciplina – già oggetto della sentenza n. 196 del 2004 – del condono edilizio straordinario.

La Corte ritorna sull’ambito di applicazione del «condono straordinario» (introdotto dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e modificata con legge 24 dicembre 2003, n. 350), per respingere (sentenza n. 70) la questione sollevata dalla Regione Marche con cui si lamenta che l’art. 4, comma 125, della legge n. 350, escludendo dal condono non solo le opere realizzate sul demanio marittimo, ma anche quelle realizzate sul demanio lacuale e fluviale, nonché sui terreni gravati da diritti di uso civico, introdurrebbe una disciplina di dettaglio in violazione della competenza regionale residuale in materia di «edilizia» o in subordine di quella concorrente in materia di «governo del territorio».

Al riguardo, la Corte ricorda che nelle more giudizio è intervenuta la sentenza n. 196 del 2004, con cui si è ritenuto che solo alla legge statale spetta l’individuazione della portata massima del condono edilizio straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale di realizzazione delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili. Pertanto le declaratorie di incostituzionalità contenute in quella decisione non hanno toccato la previsione delle tipologie di opere insuscettibili di sanatoria, e ciò coerentemente con l’assunto secondo il quale alle Regioni non può essere riconosciuto alcun potere di rimuovere i limiti massimi di ampiezza del condono individuati dal legislatore statale. La disposizione censurata, in quanto conforme alla ratio e alla funzione di una disposizione già scrutinata dalla Corte, non consente, quindi, di ravvisare alcuna ragione che possa indurre ad un mutamento di quanto già affermato nella sentenza n. 196 del 2004.

Nel giudizio concluso con la sentenza n. 71, la Regione Emilia-Romagna ha censurato l’art. 2, comma 70, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che ha abrogato i commi 6, 9, 11 e 24 dell’art. 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, i quali prevedevano il reperimento e la destinazione vincolata di risorse per effettuare interventi di riqualificazione dei nuclei urbani caratterizzati da abusivismo edilizio. In tal modo sarebbero state eliminate risorse finanziarie, cancellando qualsiasi possibilità concreta di attuazione degli interventi di riqualificazione resi necessari dal condono edilizio, violando le attribuzioni regionali e l’autonomia finanziaria delle Regioni stesse.

La Corte dichiara la inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse poiché, nelle more del giudizio, è intervenuta la sentenza n. 196 del 2004, che ha radicalmente modificato la disciplina sul condono, soprattutto attraverso il riconoscimento alle Regioni del potere di modulare l’ampiezza del condono edilizio in relazione alla quantità ed alla tipologia degli abusi sanabili, ferma restando la spettanza al legislatore statale della potestà di individuare la portata massima del condono edilizio straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili.

L’intervenuto mutamento del quadro normativo ha fatto venir meno l’attualità dell’interesse al ricorso, in quanto la ricorrente non potrebbe più, allo stato attuale, lamentare la mancata assegnazione, da parte dello Stato, delle risorse necessarie alla riqualificazione urbanistica, dal momento che rientra espressamente nel potere delle Regioni determinare – entro limiti fissati dalla legge statale – tipologie ed entità degli abusi condonabili. Tale potere, congiuntamente alla possibilità, prevista dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, per la legge regionale di incrementare sia la misura dell’oblazione, fino al 10% (art. 32, comma 33), sia la misura degli oneri di concessione, fino al 100% (art. 32, comma 34), al fine di fronteggiare i maggiori costi che le amministrazioni comunali devono affrontare per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, e, in generale, per gli interventi di riqualificazione delle aree interessate dagli abusi edilizi (si veda, ancora, sentenza n. 196 del 2004), consente alla Regione di valutare le conseguenze del condono sulle finanze regionali e locali e determinare, anche in ragione delle risorse necessarie agli eventuali interventi di riqualificazione, l’ampiezza della sanatoria.

Tale potere, peraltro, è già stato esercitato dalla Regione Emilia-Romagna con la legge regionale 21 ottobre 2004, n. 23, la quale ha individuato gli interventi edilizi suscettibili di sanatoria ed ha incrementato nella misura massima consentita sia l’entità dell’oblazione da corrispondere per la definizione degli illeciti edilizi, sia l’ammontare del contributo di concessione.

Di maggior rilievo è la sentenza n. 343, che reca la declaratoria di incostituzionalità della legge della Regione Marche 5 agosto 1992, n. 34 (Norme in materia urbanistica, paesaggistica e di assetto del territorio), per violazione del principio fondamentale dettato dall’art. 24 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), nella parte in cui non prevede che copia dei piani attuativi, per i quali non è prevista l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla Regione.

La disposizione statale prevede che, in sede di piano territoriale di coordinamento, l’attuazione di strumenti urbanistici regionali non è soggetta ad approvazione regionale, fermo restando che i comuni sono comunque tenuti a trasmettere alla regione, entro sessanta giorni, copia degli strumenti attuativi, e che sulle eventuali osservazioni della regione i comuni devono esprimersi con motivazioni puntuali. Tale disposizione non è derogabile dalle leggi regionali: se, da una parte, si istituzionalizza il disegno di semplificazione delle procedure in materia urbanistica, eliminando l’approvazione degli strumenti attuativi, dall’altra, però, si accentuano le forme di pubblicità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati. In effetti, l’invio degli strumenti attuativi comunali alla Regione è chiaramente preordinato a soddisfare un’esigenza, oltre che di conoscenza per l’ente regionale, anche di coordinamento dell’operato delle amministrazioni locali e, in questo senso, la legge statale riserva alla Regione la potestà di formulare «osservazioni» sulle quali i Comuni devono «esprimersi».

Il contrappeso all’abolizione dell’approvazione regionale è costituito dall’obbligo imposto al Comune di inviare alla Regione il piano attuativo, al fine di sollecitarne osservazioni, riguardo alle quali il Comune stesso è tenuto a puntuale motivazione.

Il meccanismo istituito dall’art. 24 della legge n. 47 del 1985, dunque, in relazione allo scopo perseguito, assume il carattere di principio fondamentale.

La legge urbanistica della regione Marche abolisce l’approvazione regionale degli strumenti attuativi e, pur ammettendo opposizioni e osservazioni da parte di «chiunque», non prevede specificamente l’invio alla Regione al fine di sollecitare le osservazioni sulle quali la legge statale impone al Comune l’obbligo (non già di recepirle, ma) di motivare puntualmente (eventualmente, quindi, anche in senso difforme all’accoglimento): l’obbligo di invio, nell’impianto della legge statale, è un quid pluris rispetto alle forme partecipative consentite a soggetti privati e pubblici (art. 25), tanto da esigere una motivazione puntuale, che non è richiesta nei confronti delle osservazioni degli altri soggetti. È indubbio che la mancata previsione dell’obbligo di trasmissione contrasta con un principio fondamentale della legge statale e determina, conseguentemente, l’incostituzionalità delle norme denunciate, nella parte in cui non prevedono che copia dei piani attuativi, per i quali non è richiesta l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla Regione. Al riguardo, la Corte conclude che la materia edilizia rientra nel governo del territorio, ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, per la quale le regioni debbono osservare i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale.

La materia «governo del territorio» viene in considerazione, sia pure incidentalmente, anche nella sentenza n. 383, dove la Corte respinge la pretesa delle ricorrenti di utilizzare come autonomo parametro del giudizio sulla legislazione di riordino del sistema energetico la competenza regionale in tema di «governo del territorio», poiché l’ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale va ricercato, non secondo il criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l’interesse riferibile al «governo del territorio» e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati.

3.2.6. «Valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali»

Nel 2005, la Corte si è pronunciata due volte in merito al titolo competenziale complesso, costituito dalla valorizzazione dei beni culturali e ambientali e dalla promozione ed organizzazione di attività culturali.

Con precipuo riguardo alla promozione della cultura, nella sentenza n. 160 la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 2, comma 38, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che prevede finanziamenti per promuovere la diffusione della cultura italiana e sostenere lo sviluppo delle attività di ricerca e studio, destinati prioritariamente a favore degli istituti di cultura per la costruzione della propria sede principale.

La Corte, dopo aver ribadito che non sono consentiti finanziamenti a destinazione vincolata disposti con legge statale in materie la cui disciplina spetti alle Regioni (cfr. sentenze n. 370 del 2003, n. 16 del 2004, n. 51 del 2005), sottolinea che le funzioni attribuite alle Regioni ricomprendono pure la possibilità di erogazione di contributi finanziari a categorie di soggetti pubblici o privati, dal momento che, in numerose materie di competenza regionale, le politiche consistono appunto nella determinazione di incentivi economici ai diversi soggetti che vi operano e nella disciplina delle modalità per la loro erogazione (cfr. sentenza n. 320 del 2004).

Dal rilievo che la costruzione della sede principale di un istituto di cultura, finalità perseguita dal finanziamento disposto con la norma censurata, è strumentale alla «organizzazione di attività culturali», materia inclusa nell’art. 117, terzo comma, Cost., e quindi di competenza legislativa concorrente, consegue la illegittimità costituzionale della norma in questione, la quale non soltanto ha stabilito l’erogazione in oggetto, ma ha anche attribuito a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri il compito di disciplinarne l’attuazione.

Del resto l’esiguità della somma stanziata esclude la necessità di una sua gestione unitaria in applicazione del principio c.d. di sussidiarietà ascendente ai sensi dell’art. 118, primo comma, della Costituzione.

La sentenza n. 205, invece, richiama sostanzialmente quanto statuito con la sentenza 255 del 2004 – e cioè che la materia concernente la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali», affidata alla legislazione concorrente di Stato e Regioni ricomprende nella sua seconda parte, e nell’ambito delle più ampie attività culturali, anche le azioni di sostegno degli spettacoli – per respingere la questione di costituzionalità, promossa dalla Regione Toscana, nei confronti dell’art. 10, comma 2, lettera e, della legge delega 6 luglio 2002, n. 137, che detta principî e criteri direttivi per il riordino del settore dello spettacolo, sollevata sul presupposto che la materia «spettacolo», non essendo menzionata tra quelle elencate nell’art. 117, secondo e terzo comma, rientrerebbe tra quelle di competenza residuale.

3.2.7. L’operare congiunto delle competenze in materia di «tutela della salute» e di «governo del territorio»

La sentenza n. 336 – in cui la Corte esamina i ricorsi delle Regioni Toscana e Marche con cui viene impugnato il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, che ha recepito la direttiva 2002/21/CE, istitutiva di un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica, che pone un preciso vincolo comunitario ad attuare un vasto processo di liberalizzazione del settore, armonizzando le procedure amministrative ed evitando ritardi nella realizzazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica – pone in evidenza come tale disciplina si ponga al crocevia tra diversi titoli competenziali, tutti di tipo concorrente.

Le competenze più frequentemente evocate, nel loro operare congiunto, sono la «tutela della salute» ed il «governo del territorio».

Le prime censure formulate dalle ricorrenti coinvolgono l’intera disciplina contenuta nel Capo V del Titolo II del Codice, in quanto recherebbero «una disciplina dettagliata, autoapplicativa, non cedevole» e «direttamente operante nei confronti dei privati», tanto da non lasciare «alcuno spazio all’intervento legislativo regionale». In particolare, la disciplina di un procedimento unitario e dettagliato per l’autorizzazione all’installazione degli impianti, predeterminando anche i tempi di formazione degli atti e della volontà delle amministrazioni locali coinvolte, lederebbe la competenza legislativa delle Regioni.

A tal riguardo, osserva la Corte che l’analisi della censura presuppone che si chiarisca, in via preliminare, che l’ampiezza e l’area di operatività dei principî fondamentali – non avendo gli stessi carattere «di rigidità e di universalità» – non possono essere individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa. Esse, infatti, devono necessariamente essere calate nelle specifiche realtà normative cui afferiscono e devono tenere conto, in modo particolare, degli aspetti peculiari con cui tali realtà si presentano. È, dunque, evidente che, nell’individuare i principî fondamentali relativi al settore delle infrastrutture di comunicazione elettronica, non si può prescindere dalla considerazione che ciascun impianto di telecomunicazione costituisce parte integrante di una complessa ed unitaria rete nazionale, sicché non è neanche immaginabile una parcellizzazione di interventi nella fase di realizzazione di una tale rete (cfr. sentenza n. 307 del 2003). Nella relazione illustrativa al Codice, si legge, inoltre, che «la rete è unica a livello globale» e che la stessa «non ha senso se le singole frazioni non sono connesse tra di loro, quale che ne sia la proprietà e la disponibilità». Ciò comporta che i relativi procedimenti autorizzatori devono essere necessariamente disciplinati con carattere di unitarietà e uniformità per tutto il territorio nazionale, dovendosi evitare ogni frammentazione degli interventi. Alla luce di tali esigenze e finalità devono essere valutate ampiezza ed operatività dei principî fondamentali riservati alla legislazione dello Stato.

Nella fase di attuazione del diritto comunitario, la definizione del riparto interno di competenze tra Stato e Regioni in materie di legislazione concorrente e, dunque, la stessa individuazione dei principî fondamentali, non può prescindere dall’analisi dello specifico contenuto e delle stesse finalità ed esigenze perseguite a livello comunitario. In altri termini, gli obiettivi posti dalle direttive comunitarie, pur non incidendo sulle modalità di ripartizione delle competenze, possono di fatto richiedere una peculiare articolazione del rapporto norme di principio – norme di dettaglio. Nella specie, la puntuale attuazione delle prescrizioni comunitarie, secondo cui le procedure di rilascio del titolo abilitativo per la installazione degli impianti devono essere improntate al rispetto dei canoni della tempestività e della non discriminazione, richiede di regola un intervento del legislatore statale che garantisca l’esistenza di un unitario procedimento sull’intero territorio nazionale, caratterizzato, inoltre, da regole che ne consentano una conclusione in tempi brevi. Da questi rilievi si deduce l’infondatezza della questione sollevata dalle regioni.

La ulteriore censura, con la quale le ricorrenti lamentano che le disposizioni attribuirebbero direttamente l’esercizio di funzioni amministrative agli enti locali, disciplinando il relativo procedimento (laddove tali funzioni dovrebbero essere conferite con legge statale o regionale, sulla base delle rispettive competenze, secondo quanto prescritto dall’art. 118 della Costituzione), viene respinta perché basata su un erroneo presupposto interpretativo.

Al tal proposito, la Corte osserva che le norme impugnate, facendo generico riferimento agli «enti locali», non allocano direttamente funzioni amministrative ad un determinato livello di governo, bensì si limitano a formulare un principio fondamentale di disciplina, in forza del quale tutti i procedimenti relativi alla installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica devono essere «gestiti» dai predetti enti. Altrimenti detto, lo Stato, sul presupposto della preesistenza delle funzioni degli enti locali in materia, in base a normative da lungo tempo vigenti, ha solo disciplinato, con norme costituenti espressione di principî fondamentali, lo svolgimento di tali funzioni. Rimane ferma, pertanto, la facoltà delle Regioni di allocare le funzioni in esame ad un determinato livello territoriale subregionale, nel rispetto degli articoli 117, secondo comma, lettera p), e 118 della Costituzione. Non solo: le Regioni, nel quadro e nel rispetto dei principî fondamentali così fissati dalla legge statale, ben possono prescrivere, eventualmente, ulteriori modalità procedimentali rispetto a quelle previste dallo Stato, in vista di una più accentuata semplificazione delle stesse.

L’art. 86, comma 3, del Codice, che prevede che le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione siano assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria (d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), pur restando di proprietà dei rispettivi operatori, non risulta lesivo della competenza regionale relativa al governo del territorio, né pone norme di dettaglio senza lasciare alcuno spazio alla competenza concorrente regionale.

Ad avviso di una delle Regioni ricorrenti, la norma in esame introdurrebbe «una classificazione che incide in termini stringenti sulle possibilità delle Regioni di definire la disciplina di queste particolari infrastrutture». La Corte replica che la scelta di inserire le infrastrutture di reti di comunicazione tra le opere di urbanizzazione primaria esprime un principio fondamentale della legislazione urbanistica, cui le Regioni, nel legiferare, dovranno attenersi a norma dell’art. 117, terzo comma, ultima parte, della Costituzione.

Neppure l’art. 86, comma 7, il quale impone alle Regioni di uniformarsi ai limiti di esposizione ai valori di attenzione ed agli obiettivi di qualità stabiliti dall’art. 4, comma 2, lettera a), della legge 22 febbraio 2001, n. 36, viola le attribuzioni spettanti alle Regioni, e ciò sia per quanto concerne la materia del «governo del territorio», sia per quanto attiene a quella della «tutela della salute».

Al riguardo, la Corte rileva che è già stato riconosciuto (sentenza n. 307 del 2003), in linea con quanto prescritto dalla menzionata legge quadro, che spetta alla competenza delle Regioni la disciplina dell’uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti e quindi la indicazione degli obiettivi di qualità, consistenti in criteri localizzativi degli impianti di comunicazione (art. 3, comma 1, lettera d, n. 1).

Orbene, la norma impugnata rispetta l’indicato riparto di competenze. Essa, infatti, stabilisce che per gli obiettivi di qualità «si applicano le disposizioni di attuazione di cui all’articolo 4, comma 2, lettera a), della legge n. 36 del 2001», che opera, però, un rinvio al comma 1, lettera a), del medesimo art. 4, il quale riserva allo Stato le funzioni relative alla determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e anche degli obiettivi di qualità, solo «in quanto valori di campo come definiti dall’articolo 3, comma 1, lettera d), n. 2». Deve, dunque, ritenersi che rimanga ferma la competenza delle Regioni nella determinazione dei diversi «obiettivi di qualità», consistenti, appunto, negli indicati criteri localizzativi, standards urbanistici, prescrizioni ed incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili.

Viene, poi, censurato dalle ricorrenti il primo comma dell’art. 87 del Codice, il quale prevede che l’installazione di infrastrutture per impianti radioelettrici, l’installazione di torri, di tralicci, di impianti radio-trasmittenti, di ripetitori di servizi di comunicazione elettronica, di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche mobili Gsm/Umts, per reti di diffusione, distribuzione e contribuzione dedicate alla televisione digitale terrestre sono autorizzate dagli enti locali, previo accertamento, da parte dell’organismo competente ad effettuare i controlli (Arpa), della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità.

La Corte respinge la doglianza, basata su una limitazione illegittima delle competenze regionali in ordine alla localizzazione dei siti, ribadendo, da un lato, che l’art. 87 vincola le Regioni al rispetto degli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale in relazione al disposto della legge n. 36 del 2001, e, dall’altro, che attraverso il rinvio alla citata legge tale vincolo agisce limitatamente ai «valori di campo elettrico, magnetico ed elettromagnetico ai fini della progressiva minimizzazione dell’esposizione ai campi medesimi». In sostanza, la norma impugnata fa salvi, attribuendoli alla Regione, «i criteri localizzativi, gli standard urbanistici, le prescrizioni e le incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili» (art. 3, comma 1, lettera d, n. 1). A ciò si aggiunge che, nel caso in esame, il mancato riferimento a questa seconda tipologia di obiettivi di qualità si giustifica anche in quanto la disposizione censurata richiama gli accertamenti svolti dall’organismo competente ad effettuare i controlli (Arpa), che attengono esclusivamente alla tutela sanitaria e ambientale.

La Corte opera, nel prosieguo, lo scrutinio dell’art. 87 del Codice, impugnato per quanto dispone nei commi 6, 7 e 8. In base al comma 6, in sede di esame delle istanze dirette all’adozione del provvedimento di autorizzazione all’installazione di un impianto di comunicazione elettronica, quando una amministrazione interessata abbia espresso motivato dissenso, il responsabile del procedimento deve convocare una conferenza di servizi; l’approvazione, adottata a maggioranza dei presenti, «sostituisce ad ogni effetto gli atti di competenza delle singole amministrazioni». Qualora, poi, il motivato dissenso, a fronte di una decisione positiva assunta dalla conferenza di servizi, sia espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, alla tutela della salute o alla tutela del patrimonio storico-artistico, il comma 8 stabilisce che la decisione sia rimessa al Consiglio dei ministri.

La Corte respinge la doglianza secondo cui tale disciplina sarebbe illegittima nella parte in cui estende la regola della maggioranza all’adozione dell’atto finale, prevedendo una sola ipotesi di dissenso qualificato ed affidando al Consiglio dei ministri la relativa decisione. Motiva la Corte che l’istituto della conferenza di servizi costituisce, in generale, uno strumento di semplificazione procedimentale e di snellimento dell’azione amministrativa e che tale funzione, nel contesto dello specifico procedimento in esame e degli interessi allo stesso sottesi, consente di ritenere che la previsione contenuta nella disposizione censurata sia espressione di un principio fondamentale della legislazione.

A ciò si aggiunga che il comma 8 della disposizione impugnata prevede un meccanismo di operatività della conferenza nel caso in cui il dissenso sia espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, alla tutela della salute o alla tutela del patrimonio storico-artistico, che assicura comunque un adeguato coinvolgimento delle Regioni.

Ancora in ordine all’art. 87 del Codice, viene censurata la disposizione del comma 9, che disciplina una ipotesi di silenzio-assenso, prevedendo che «le istanze di autorizzazione e le denunce di attività», «nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora entro novanta giorni non sia stato comunicato un provvedimento di diniego». Il medesimo comma precisa che gli enti locali possono prevedere termini più brevi per la conclusione dei relativi procedimenti, ovvero ulteriori forme di semplificazione amministrativa, nel rispetto delle disposizioni stabilite dallo stesso comma.

Le ricorrenti deducono che la disciplina impugnata sarebbe di dettaglio e, non lasciando spazio alcuno alle Regioni per stabilire forme diverse di semplificazione amministrativa, impedirebbe al legislatore regionale di prevedere modalità di contemperamento delle esigenze di celerità del procedimento autorizzatorio con le imprescindibili garanzie di tutela dell’ambiente, della salute e di governo del territorio.

La Corte ritiene infondata anche tale questione, in quanto la disposizione in esame prevede moduli di definizione del procedimento, informati alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, espressivi in quanto tali di un principio fondamentale di diretta derivazione comunitaria. Nel caso di specie, la pluralità delle esigenze e dei valori di rilevanza costituzionale sottesi alle «materie» nel cui ambito rientrano le disposizioni censurate, in una con la finalità complessiva di garantire un rapido sviluppo dell’intero sistema delle comunicazioni elettroniche (cfr. sentenza n. 307 del 2003) secondo i dettami sanciti a livello comunitario, induce a ritenere che le norme in esame siano espressione di principî fondamentali. In definitiva, le norme impugnate perseguono il fine, che costituisce un principio dell’urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure.

Sotto due diversi profili viene, poi, censurato l’art. 93, il quale, dopo aver previsto che le pubbliche amministrazioni non possono imporre, per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano fissati per legge, stabilisce che gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica hanno l’obbligo di tenere indenne l’ente locale, ovvero l’ente proprietario, dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche coinvolte dagli interventi di installazione e manutenzione, nonché l’obbligo di ripristinare a regola d’arte le aree medesime nei tempi stabiliti dall’ente locale.

Le ricorrenti deducono che l’articolo de quo detterebbe, in ambiti materiali attribuiti alla competenza regionale, una disciplina «uniforme» delle infrastrutture per le quali, invece, si dovrebbe tener conto dello specifico contesto territoriale e normativo di ciascuna Regione. Vi sarebbe inoltre un contrasto con l’art. 119 Cost., nelle parti in cui si fissano in modo puntuale – per gli operatori – gli oneri connessi alle attività di installazione, scavo ed occupazione di suolo pubblico.

La Corte respinge le due censure, rilevando che la disposizione in esame deve ritenersi espressione di un principio fondamentale, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi oneri o canoni. La finalità della norma è anche quella di «tutela della concorrenza», sub specie di garanzia di parità di trattamento e di misure volte a non ostacolare l’ingresso di nuovi soggetti nel settore. Quanto al presunto contrasto con l’art. 119 Cost., il legislatore statale si è limitato a porre a carico degli operatori di settore oneri che non gravano sui bilanci regionali, oneri strettamente funzionali alla copertura di costi, sostenuti per l’esercizio di un’attività riconducibile, non a «funzioni regionali» diverse da quelle «ordinarie», bensì all’operato di soggetti privati che svolgono attività di impresa, ancorché connessa all’erogazione del «servizio pubblico» di comunicazione elettronica.

3.2.8. L’operare congiunto delle competenze in materia di «governo del territorio» e di «ordinamento della comunicazione»

Una delle censure su cui la Corte si è pronunciata con la sentenza n. 336, in tema di comunicazioni elettroniche, è quella riferita all’art. 95, che, nel disciplinare gli impianti e le condutture di energia elettrica o tubazioni, prescrive che nessuna conduttura di energia elettrica, anche se subacquea, a qualunque uso destinata, può essere costruita, modificata o spostata senza che sul relativo progetto sia stato preventivamente ottenuto il nulla osta del Ministero delle comunicazioni. Lo stesso articolo, inoltre, subordina al preventivo consenso del Ministero l’esecuzione di qualsiasi lavoro sulle condutture subacquee di energia elettrica, e sui relativi atterraggi, e riconosce al Ministero il potere di esercitare la vigilanza e il controllo sulla esecuzione dei lavori.

La Corte non condivide il rilievo secondo cui la norma in esame conterrebbe una indebita disciplina di dettaglio in materie di competenza concorrente («ordinamento della comunicazione» e «governo del territorio»), in quanto il nulla osta ministeriale è diretto proprio a garantire il rispetto di quelle regole tecniche senza le quali l’esercizio della potestà legislativa regionale potrebbe produrre una elevata diversificazione della rete di distribuzione della energia elettrica, con notevoli inconvenienti sul piano tecnico ed economico. La norma impugnata, pertanto, costituisce una esplicitazione a livello tecnico dell’esigenza di assicurare uniformità e continuità alla rete delle infrastrutture di comunicazione elettronica.

3.3. Le materie di competenza residuale delle Regioni

In un n. non irrilevante di occasioni, la Corte ha individuato la sussistenza di materie annoverabili tra quelle che il quarto comma dell’art. 117 della Costituzione attribuisce alla competenza (residuale) delle Regioni. In particolare, è stata affermata tale qualifica in relazione alla formazione professionale, all’artigianato, al trasporto pubblico locale ed alla disciplina delle comunità montane.

3.3.1. «Formazione professionale»

Nella sentenza n. 50, la Corte chiarisce che «la competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale riguarda l’istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi», mentre non è compresa nell’ambito della suindicata competenza né in altre competenze regionali la formazione aziendale che rientra invece nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile.

Sulla base di questo assunto la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera c) della legge n. 30 del 2003. Infatti la disposizione di cui alla lettera c), che prevede forme di apprendistato e di tirocinio di impresa tali da favorire «il subentro nell’attività di impresa», è norma destinata ad operare all’interno dei rapporti di lavoro, la cui disciplina è estranea alle competenze regionali (una analoga ratio decidendi è stata alla base della dichiarazione di infondatezza della censura relativa alle lettere d), e), f) e g).

Attiene, invece, alla competenza esclusiva delle Regioni in materia di formazione professionale la disciplina dei tirocini estivi di orientamento, dettata senza alcun collegamento con rapporti di lavoro, e non preordinata in via immediata ad eventuali assunzioni.

Sulla questa base, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 60 del d.lgs. n. 276 del 2003, in tema di disciplina dei tirocini estivi di orientamento, che è stato dettato senza alcun collegamento con rapporti di lavoro, e che non è preordinato in via immediata ad eventuali assunzioni.

La materia «formazione professionale» viene in considerazione anche con la sentenza n. 51, dove si dichiara la incostituzionalità dell’art. 47 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che prevede, al comma 1, che «nell’ambito delle risorse preordinate sul fondo per l’occupazione […] con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono determinati i criteri e le modalità per la destinazione dell’importo aggiuntivo di 1 milione di euro, per il finanziamento degli interventi in materia di formazione professionale».

La norma impugnata disciplina interventi destinati alla formazione professionale: questa materia appartiene, nell’assetto definito dal nuovo art. 117 della Costituzione, alla competenza residuale delle Regioni, in quanto non è inclusa nell’elenco delle materie attribuite dal secondo comma alla legislazione dello Stato ed è nel contempo espressamente esclusa dall’ambito della potestà concorrente in materia di istruzione, sancita dal successivo terzo comma (v. sentenza n. 13 del 2004).

Con riferimento ai finanziamenti disposti da leggi statali in favore di soggetti pubblici o privati (mediante la costituzione di appositi fondi o il rifinanziamento di fondi già esistenti), è stato più volte affermato che – dopo la riforma costituzionale del 2001 ed in attesa della sua completa attuazione in tema di autonomia finanziaria delle Regioni (cfr. sentenze nn. 320 e 37 del 2004) – l’art. 119 della Costituzione pone, sin d’ora, al legislatore statale precisi limiti in tema di finanziamento di funzioni spettanti al sistema delle autonomie (sentenza n. 423 del 2004).

Anzitutto, non è consentita l’erogazione di nuovi finanziamenti a destinazione vincolata in materie spettanti alla competenza legislativa, esclusiva o concorrente, delle Regioni (sentenze nn. 16 del 2004 e 370 del 2003). Infatti, il ricorso a questo tipo di finanziamento può divenire uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza.

In secondo luogo – giacché «le funzioni attribuite alle Regioni ricomprendono pure la possibilità di erogazione di contributi finanziari a soggetti privati, dal momento che in numerose materie di competenza regionale le politiche pubbliche consistono appunto nella determinazione di incentivi economici ai diversi soggetti che vi operano e nella disciplina delle modalità per la loro erogazione» (sentenza n. 320 del 2004) – questa Corte ha ripetutamente chiarito che il tipo di ripartizione delle materie fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost., «vieta comunque che in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze» (sentenze nn. 320, 423 e 424 del 2004).

3.3.2. «Artigianato»

La Corte, nella sentenza n. 162, dichiara non fondata la questione avente ad oggetto l’art. 4, commi 82 e 83, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che dispone un incremento del fondo per agevolare i processi di internazionalizzazione ed i programmi di penetrazione commerciale promossi dalle imprese artigiane.

Preliminarmente, per rinvenire l’ambito di competenza della materia, la Corte esclude che la disposizione sia riconducibile alla materia «tutela della concorrenza», per la sua inidoneità ad incidere sull’equilibrio economico generale, ed anche per l’esiguità dei mezzi economici impegnati nel quadro della complessiva manovra finanziaria.

L’ambito materiale nel quale interviene la disposizione denunciata è l’artigianato. L’art. 117 della Costituzione, non annoverando l’artigianato tra le materie tassativamente riservate alla legislazione statale o a quella concorrente, implicitamente demanda questa materia alla potestà legislativa residuale delle Regioni, nella quale rientra l’adozione delle misure di sviluppo e sostegno del settore, e, in questo ambito, la disciplina dell’erogazione di agevolazioni, contributi e sovvenzioni di ogni genere.

Peraltro, ciò non comporta l’incostituzionalità dell’art. 4, comma 82, della legge n. 350 del 2003, in quanto la norma denunciata non istituisce un nuovo fondo a destinazione vincolata, ma si limita ad incrementare le disponibilità di un fondo preesistente alla modifica del Titolo V, Parte seconda, della Costituzione, in vista del raggiungimento di finalità ad esso già proprie.

Invero, l’art. 37 della legge n. 949 del 1952, nel contesto di un più ampio provvedimento per lo sviluppo dell’economia e l’incremento dell’occupazione, ha previsto la formazione di un fondo, presso la Cassa per il credito alle imprese artigiane, per il concorso nel pagamento degli interessi sulle operazioni di credito a favore delle imprese artigiane, effettuate dagli istituti e aziende di credito, rimettendo ad appositi comitati tecnici regionali l’attività di concessione dei contributi.

Provvedimenti legislativi successivi hanno di volta in volta conferito al fondo in questione ulteriori assegnazioni per i vari esercizi finanziari.

La legge 5 marzo 2001, n. 57, nel dettare disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati, ha assegnato al fondo per il concorso nel pagamento degli interessi sulle operazioni di credito a favore delle imprese artigiane una nuova finalità, il sostegno all’internazionalizzazione. L’art. 21, comma 7, di tale legge prevede infatti che le disponibilità del fondo in questione «possono essere utilizzate anche per agevolare il sostegno finanziario ai processi esportativi delle imprese artigiane e ai programmi di penetrazione commerciale e di internazionalizzazione promossi dalle imprese stesse e dai consorzi export a queste collegati, secondo finalità, forme tecniche, modalità e condizioni da definire con decreto del Ministro del commercio con l’estero, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica».

Su questa linea si pone il denunciato comma 82 dell’art. 4 della legge n. 350 del 2003: esso pertanto si giustifica, in via transitoria e fino all’attuazione del nuovo modello delineato dall’art. 119 della Costituzione, in conseguenza del principio di continuità dell’ordinamento, più volte richiamato da questa Corte dopo la modifica del Titolo V (cfr., da ultimo, sentenza n. 255 del 2004), attesa l’esigenza di non far mancare finanziamenti ad un settore rilevante e strategico dell’economia nazionale, quello dell’impresa artigiana, al quale la Costituzione (art. 45) guarda con particolare favore.

Le censure della ricorrente vanno invece accolte con riferimento al comma 83 dell’art. 4, là dove viene lamentata la mancanza di forme di raccordo e di leale collaborazione con le Regioni.

Il principio di continuità giustifica infatti, ancora in via provvisoria, ed in vista di una considerazione complessiva del settore dell’artigianato e delle iniziative da finanziare, l’attribuzione al Ministro delle attività produttive della potestà di definire, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, modalità, condizioni e forme tecniche delle attività ammesse al sostegno finanziario (cfr. sentenza n. 255 del 2004).

E tuttavia, l’articolazione della normativa esige forme di cooperazione con le Regioni e di incisivo coinvolgimento delle stesse, essendo evidente che l’intervento dello Stato debba rispettare la sfera di competenza spettante alle Regioni in via residuale.

La norma censurata, invece, non prende minimamente in considerazione le Regioni per ciò che attiene all’emanazione del decreto ministeriale di attuazione. Deve pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 83, della legge n. 350 del 2003, nella parte in cui, in contrasto con il principio di leale collaborazione, non prevede che il decreto del Ministro delle attività produttive sia emanato previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

Quanto all’ulteriore denuncia concernente la mancanza di forme di raccordo con le Regioni nell’attività di gestione delle risorse, la Corte fa presente che il comma 83 del citato art. 4, infatti, non disciplina – per il tramite del decreto ministeriale di attuazione – anche l’attività di concreta gestione dell’intervento. Questa attività, unitamente a quella di concessione dei contributi e delle agevolazioni, rientra nella competenza delle Regioni, e tale competenza è fatta salva dalla norma censurata. Lo si ricava univocamente tanto dal fatto che il comma 82 individua lo strumento operativo di intervento nel fondo di cui all’art. 37 della legge n. 949 del 1952, che è un fondo a gestione regionale; quanto, più in generale, dalle disposizioni contenute negli articoli 12 e ss. del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, le quali, prevedendo la competenza delle Regioni per tutto ciò che attiene all’erogazione di contributi in favore delle imprese artigiane, postulano che siano le Regioni stesse a vagliare in concreto i progetti da ammettere al finanziamento previsto dalla legge, e quindi a coordinare questo sostegno con le iniziative già finanziate con altri strumenti di intervento pubblico.

3.3.3. «Trasporto pubblico locale»

Con la sentenza n. 222, viene dichiarata la illegittimità costituzionale parziale dell’art. 4, comma 157, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che prevede la costituzione di «un apposito fondo presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» per il generico fine di assicurare il conseguimento di «risultati di maggiore efficienza e produttività dei servizi di trasporto pubblico locale». La disposizione prevedeva altresì che la ripartizione del fondi avvenisse tramite «decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Su quest’ultimo punto, è intervenuta la pronuncia caducatoria, che ha sostituito la (mera) consultazione della Conferenza con la necessità che il decreto «sia adottato previa intesa con la Conferenza stessa».

L’iter argomentativo sul quale la decisione si basa prende le mosse dalla preliminare constatazione secondo cui «non vi è dubbio che la materia del trasporto pubblico locale rientra nell’ambito delle competenze residuali delle Regioni di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost.».

Ciò posto, si rileva, peraltro, come, nella perdurante situazione di mancata attuazione delle prescrizioni costituzionali in tema di garanzia dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni e degli enti locali, e del vigente finanziamento statale nel settore del trasporto pubblico locale, la disciplina di riferimento sia contenuta nel citato art. 20 del d.lgs. n. 422 del 1997, il cui comma 5 stabilisce le modalità di trasferimento delle risorse erogate dallo Stato. Il fondo previsto dalla disposizione oggetto di scrutinio risulta sostanzialmente analogo al meccanismo di finanziamento appena richiamato: ad avviso della Corte, «ciò appare, al momento, sufficiente a giustificare l’intervento finanziario dello Stato e la sua relativa disciplina legislativa».

Tuttavia, «proprio perché tale finanziamento interviene in un ambito di competenza regionale», viene sottolineata la necessità di assicurare il rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle Regioni attraverso un loro pieno coinvolgimento nei processi decisionali concernenti il riparto dei fondi (sentenze nn. 49 e 16 del 2004); ciò tenendo altresì conto del «limite discendente dal divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto dall’art. 119 della Costituzione, e così di sopprimere semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle Regioni e agli enti locali, o di procedere a configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica i principî del medesimo art. 119» (sentenza n. 37 del 2004).

Sulla scorta di queste considerazioni, è stato ritenuto insufficiente il meccanismo previsto dalla disposizione censurata, rendendosi di contro necessario che il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sia adottato sulla base di una vera e propria intesa con la Conferenza unificata.

Si noti che la materia «trasporto pubblico locale» è venuta in considerazione anche nella sentenza n. 432, nella quale, però, non si è posto un problema competenziale bensì di violazione dell’art. 3 della Costituzione (v. supra, cap. II, par. 2).

3.3.4. «Comunità montane»

La Corte, nella sentenza n. 244, dichiara infondati i dubbi di costituzionalità del Tribunale amministrativo regionale per il Molise in ordine alla legittimità dell’art. 17 della legge della Regione Molise 8 luglio 2002, n. 12, nella parte in cui attribuisce «ai poteri del Presidente della Giunta regionale lo scioglimento, la sospensione e il commissariamento del consiglio della Comunità montana».

Contrariamente a quanto ritiene il giudice rimettente, la previsione di un potere regionale di controllo sostitutivo sulle Comunità montane non è in contrasto con il riconoscimento «della parità di rango costituzionale tra Regione e Comuni» di cui all’art. 114 della Costituzione e con la «riserva di legge statale» in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali dei Comuni ex art. 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione. Al riguardo, motiva la Corte, deve ritenersi inconferente il richiamo all’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione in quanto la citata disposizione fa espresso riferimento ai Comuni, alle Province ed alle Città metropolitane; e l’indicazione deve ritenersi tassativa con la conseguenza che la disciplina delle Comunità montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione. Allo stesso modo inconferente deve ritenersi il riferimento all’art. 114 della Costituzione, non contemplando quest’ultimo le Comunità montane tra i soggetti di autonomia destinatari del precetto in esso contenuto.

Anche la mancata previsione di un limite temporale di durata della supplenza dell’organo commissariale straordinario, nonché la mancanza di una «scansione procedimentale» e di «particolari garanzie» non risultano in contrasto con «il principio della riserva di legge in materia di organizzazione amministrativa» e con i principî di imparzialità e buon andamento, di cui all’art. 97 della Costituzione. Il commissario straordinario dovrà, infatti, esercitare i poteri conferitigli con il decreto di nomina entro il termine stabilito dalla stessa amministrazione regionale, ovvero, in sua assenza, entro il termine e secondo le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni. Il sistema conosce, inoltre, rimedi attivabili da parte dei soggetti interessati in caso di mancata osservanza di tali termini (cfr. sentenze n. 220 e n. 176 del 2004). Una volta esercitate le attribuzioni e/o venute meno le cause di scioglimento si potrà procedere, nel rispetto della normativa di settore e dei tempi ivi previsti, al rinnovo del consiglio comunitario.

La norma impugnata, d’altra parte, affidando «ad un organo monocratico politico della Regione il controllo sugli organi collegiali di un ente territoriale di diritto pubblico, autonomo ed a base comunitaria, espressione dell’autonomia dei Comuni montani e del loro potere di associarsi per il perseguimento di fini comuni» non risulta, perciò stesso, in contrasto con i principî di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di autonomia degli enti locali (art. 5 della Costituzione). Motiva la Corte che gli evocati parametri costituzionali non sono violati dalla previsione di un controllo sostitutivo sugli organi, subordinato alla previsione tassativa di cause che oggettivamente impediscano all’ente di svolgere le funzioni allo stesso demandate. Sotto altro aspetto, rientra nella discrezionalità del legislatore regionale l’affidamento di tale funzione ad un organo monocratico anziché collegiale, rilevante essendo soltanto la circostanza che debba trattarsi di un organo politico della Regione.

Non fondata è, infine, la doglianza relativa alla mancata previsione della consultazione, ad opera della Regione, dei Comuni facenti parte della Comunità montana, in forza di quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 123 della Costituzione, prima dell’adozione del provvedimento di commissariamento.

La norma impugnata, infatti, prevede casi di scioglimento e di commissariamento degli organi comunitari, dai quali esula ogni profilo di discrezionalità, atteso il loro collegamento ad eventi oggettivamente rilevanti, quali: a) la mancata elezione del Presidente e della Giunta entro sessanta giorni dalla convalida degli eletti, dalla vacanza comunque verificatesi o, in caso di dimissioni, dalla data di presentazione delle stesse; b) le dimissioni contestuali o la decadenza di almeno la metà dei consiglieri comunitari nominati dai consigli comunali; c) la mancata approvazione del bilancio di previsione; d) la mancata approvazione dello statuto nei termini previsti dall’art. 8 della stessa legge.

Tenuto conto del contenuto della disposizione censurata, può ritenersi non necessaria la previsione di meccanismi di preventiva consultazione dei Comuni interessati, poiché il carattere oggettivo degli eventi cui la norma si riferisce è sufficiente a giustificare l’adozione dell’atto di controllo sostitutivo. Pertanto, l’accertamento in fatto della sussistenza di una o più delle fattispecie previste dalla norma comporta automaticamente l’adozione, in via vincolata, del provvedimento di commissariamento dell’ente.

La sentenza n. 456 torna sulla materia de qua. La Corte esamina i ricorsi proposti dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la legge della Regione Puglia 4 novembre 2004, n. 20, e la legge della Regione Toscana 29 novembre 2004, n. 68, che recano entrambe nuove norme in materia di riordino delle Comunità montane. Oggetto di impugnativa sono, per la legge della Regione Puglia, l’art. 16, comma 1, secondo periodo, il quale prevede l’incompatibilità della carica di presidente dell’organo esecutivo della Comunità montana con quella di parlamentare, di consigliere regionale e di sindaco e, per la legge della Regione Toscana, l’art. 1, il quale ha disposto che, in caso di rinnovo, l’organo rappresentativo (della Comunità montana) può essere insediato quando i rappresentanti dei Comuni raggiungono i quattro quinti dei componenti o il valore inferiore stabilito espressamente dallo statuto comunque tale da rappresentare la maggioranza dei Comuni, e l’art. 4, che detta «disposizioni transitorie per la Comunità montana Area Lucchese», prevedendo che quest’ultima continui ad operare fino all’individuazione del suo nuovo ambito territoriale. La normativa impugnata sarebbe invasiva – ad avviso del ricorrente – della competenza statale esclusiva in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.) e lederebbe, inoltre, il «principio di equiordinazione tra Stato, Regioni ed Enti locali» (art. 114 Cost.).

Rifacendosi a quanto stabilito nella sentenza n. 244, la Corte afferma che, nel caso delle Comunità montane, si tratta di un caso speciale di unioni di Comuni, «create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei comuni montani, “funzioni proprie”, “funzioni conferite” e funzioni comunali» (sentenza n. 229 del 2001) e che tale qualificazione pone in evidenza l’autonomia di tali enti (non solo dalle Regioni ma anche) dai Comuni, come dimostra, tra l’altro, l’espressa attribuzione agli stessi della potestà statutaria e regolamentare (art. 4, comma 5, della legge n. 131 del 2003).

La Corte ritiene, dunque, non conferente il richiamo alla disposizione costituzionale evocata dallo Stato, in quanto in essa si fa espresso riferimento ai Comuni, alle Province ed alle Città metropolitane; e l’indicazione deve ritenersi tassativa, con la conseguenza che la disciplina delle Comunità montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra ora nella competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione. Allo stesso modo, inconferente deve ritenersi il riferimento all’art. 114 della Costituzione, non contemplando quest’ultimo le Comunità montane tra i soggetti di autonomia destinatari del precetto in esso contenuto

Pertanto, le disposizioni della legge della Regione Toscana n. 68 del 2004 (articoli 1 e 4) relative, da un lato, alla composizione dell’organo di governo delle Comunità montane e, dall’altro, alle norme transitorie specificamente dettate per quella dell’Area Lucchese, si sottraggono alla censura di violazione degli indicati parametri costituzionali.

Per le medesime ragioni deve ritenersi non fondata la questione relativa all’art. 16, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 20 del 2004, la quale ha disposto la incompatibilità della carica di presidente dell’organo esecutivo delle Comunità montane pugliesi con quelle di consigliere regionale o sindaco.

La Corte dichiara, invece, incostituzionale l’art. 16, comma 1, secondo periodo, della legge della Regione Puglia, in quanto contrastante con la riserva di legge di cui all’art. 65 della Costituzione, in tema di elettorato passivo dei membri del Parlamento.

3.4. La «concorrenza di competenze»

Come si ricava già da alcune decisioni passate in rassegna, non sempre è agevole individuare, per le singole discipline, titoli competenziali unici. In taluni casi, addirittura, una siffatta individuazione risulta impossibile, venendo a creare una situazione di «concorrenza di competenze» di natura diversa.

Nella sentenza n. 50 del 2005 la Corte chiarisce che, nei casi di concorrenza di competenze, la Costituzione non prevede espressamente un criterio per la composizione delle interferenze e pertanto è necessario adottare due principî diversi. Quello di leale collaborazione, che per la sua elasticità consente di aver riguardo alle peculiarità delle singole situazioni, ma anche quello della prevalenza, cui pure la Corte ha fatto ricorso (v. sentenza n. 370 del 2003), qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre.

Conseguentemente, «se è vero che la formazione all’interno delle aziende inerisce al rapporto contrattuale, sicché la sua disciplina rientra nell’ordinamento civile, e che spetta invece alle Regioni e alle Province autonome disciplinare quella pubblica, non è men vero che nella regolamentazione dell’apprendistato né l’una né l’altra appaiono allo stato puro, ossia separate nettamente tra di loro e da altri aspetti dell’istituto. Occorre perciò tener conto di tali interferenze». Sulla base di questa ricostruzione la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 48, 49 e 50 del d.lgs n. 276 del 2003, precisando che in tale situazione di interferenza tra materie la previsione che le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano debbano regolamentare i profili formativi dell’apprendistato d’intesa con i ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative (comma 4) non lede le competenze regionali e costituisce corretta attuazione del principio di leale collaborazione.

In applicazione dei principî posti nella sentenza n. 50, la Corte, nella sentenza n. 51, dichiara non fondata la questione sollevata nei confronti del comma 2 dell’art. 47, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che prevede una quota di finanziamento di 100 milioni di euro per il 2003 «per le attività di formazione nell’esercizio dell’apprendistato anche se svolte oltre il compimento del diciottesimo anno di età». Nella specie, si tratta delle iniziative di formazione esterne all’azienda, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro, che l’amministrazione pubblica competente propone all’impresa, ed i cui contenuti formativi sono definiti con decreto del Ministro del lavoro, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, le associazioni di categorie dei datori di lavoro e le Regioni.

Al riguardo, la Corte, dopo aver richiamato la sentenza n. 50 del 2005 con cui ha chiarito che nell’attuale assetto del mercato del lavoro la disciplina dell’apprendistato si colloca all’incrocio di una pluralità di competenze, ritiene che le molteplici interferenze di materie diverse non consentono la soluzione delle questioni sulla base di criteri rigidi per cui la riserva alla competenza legislativa regionale della materia «formazione professionale» non può escludere la competenza dello Stato a disciplinare l’apprendistato per i profili inerenti a materie di sua competenza.

I «fondi interprofessionali per la formazione continua» disciplinati dalla norma impugnata, pur operando in materia di formazione professionale, appartenente alla competenza residuale della Regione, dal punto di vista strutturale, (a) hanno carattere nazionale (pur se possono articolarsi regionalmente o territorialmente) e sono istituiti da soggetti privati attivi sul piano nazionale; (b) possono essere istituiti e conseguentemente agire, alternativamente, o come soggetto giuridico di natura associativa ai sensi dell’art. 36 cod. civ., o come soggetto dotato di personalità giuridica ai sensi degli articoli 1 e 9 del d.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361. Inoltre essi, dal punto di vista funzionale, (c) gestiscono i contributi dovuti dai datori di lavoro ad essi aderenti, ai sensi della legislazione in materia di assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione.

Ne discende che, in relazione alla loro natura ed alle relative forme di costituzione di cui sub (a) e (b), la disciplina dell’istituzione dei fondi in esame incide sulla materia dell’«ordinamento civile» spettante alla competenza esclusiva dello Stato e in relazione all’attività indicata sub (c), sulla materia della «previdenza sociale», devoluta anch’essa alla medesima competenza esclusiva.

Perciò, la riserva alla competenza legislativa regionale residuale della «formazione professionale» non può precludere allo Stato la competenza di riconoscere a soggetti privati la facoltà di istituire, in tale materia, fondi operanti sull’intero territorio nazionale, di specificare la loro natura giuridica, di affidare ad autorità amministrative statali poteri di vigilanza su di essi, anche in considerazione della natura previdenziale dei contributi che vi affluiscono.

È evidente, peraltro, che un tale intervento legislativo dello Stato – a tutela di interessi specificamente attinenti a materie attribuite alla sua competenza legislativa esclusiva – deve rispettare la sfera di competenza legislativa spettante alle Regioni in via residuale (o, eventualmente, concorrente).

Nella specie, viceversa, la normativa impugnata è strutturata come se dovesse disciplinare una materia integralmente devoluta alla competenza esclusiva dello Stato.

Infatti, il sistema da essa delineato lascia le Regioni sullo sfondo, prendendo in considerazione la loro posizione (e le loro rispettive competenze) solo per proclamare un generico intento di «coerenza con la programmazione regionale» ovvero per riservare ad esse una posizione di mere destinatarie di comunicazioni.

Pertanto, il legislatore statale – qualora ritenga, nella sua discrezionalità, di prevedere che le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale possano istituire fondi interprofessionali di formazione continua, a carattere nazionale – ben potrà regolare la loro natura giuridica, i poteri su di essi spettanti ad autorità amministrative statali, e i contributi ad essi affluenti. Ma dovrà articolare siffatta normativa in modo da rispettare la competenza legislativa delle Regioni a disciplinare il concreto svolgimento sul loro territorio delle attività di formazione professionale, e in particolare prevedere strumenti idonei a garantire al riguardo una leale collaborazione fra Stato e Regioni.

La norma impugnata viene quindi dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non prevede strumenti idonei a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni.

La Corte, con la sentenza n. 219, dichiara la illegittimità costituzionale parziale dell’art. 3, commi 76 e 82, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. La prima disposizione autorizza il Ministro del lavoro a prorogare per il 2004, rifinanziandole, le convenzioni già stipulate con i Comuni, anche in deroga alla normativa vigente relativa ai lavori socialmente utili, per lo svolgimento di attività di questo tipo e per l’attuazione di misure di politica attiva del lavoro in favore dei soggetti in esse utilizzati. La seconda autorizza il Ministero a stipulare nel 2004 direttamente con i Comuni nuove convenzioni (e contestualmente le finanziava) «per lo svolgimento di attività socialmente utili e per l’attuazione di misure di politica attiva del lavoro riferite a lavoratori impegnati in attività socialmente utili».

Ricostruita l’evoluzione normativa concernente la disciplina dei lavori socialmente utili, nella sentenza si evidenzia come questa, «concernendo la tutela del lavoro e le politiche sociali, nel contesto di particolari rapporti intersoggettivi di prestazione di attività», si collochi «all’incrocio di varie competenze legislative, di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 117 della Costituzione».

In primo luogo, la disciplina dei lavori socialmente utili, «in quanto mira ad agevolare l’accesso all’occupazione, attiene in senso lato al collocamento, e quindi si inscrive nella tutela del lavoro attribuita alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni».

In secondo luogo, la normativa sui lavori socialmente utili tende «ad alleviare le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro e a fronteggiare situazioni di bisogno conseguenti alla perdita dell’occupazione, prevedendo la corresponsione ai soggetti impiegati in lavori socialmente utili di somme di danaro […], che ben possono essere accostate, sotto il profilo della natura latamente previdenziale, all’indennità di disoccupazione o di mobilità o al trattamento di integrazione salariale»: di talché, viene in rilievo «sia la materia delle politiche sociali, di sicuro compresa nella competenza regionale residuale (sentenza n. 427 del 2004), sia quella della «previdenza sociale», attribuita invece alla competenza esclusiva dello Stato. Infine, i lavori socialmente utili si ricollegano alla competenza residuale regionale pure sotto l’ulteriore profilo della «formazione professionale» dei soggetti assegnati a questo tipo di lavori, nella misura in cui siffatta assegnazione persegua anche finalità formative.

Ora, constatata la «concorrenza di competenze», la Corte prende atto che «la Costituzione non prevede espressamente un criterio di composizione delle interferenze». In ragione di ciò, «ove, come nella specie, non possa ravvisarsi la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri, che renda dominante la relativa competenza legislativa», si rende necessario il ricorso «al canone della “leale collaborazione”, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze (sentenza n. 50 del 2005)».

Da questa enunciazione di principio la Corte trae argomento per affermare la sussistenza del vizio di costituzionalità dei due commi dell’art. 3 sottoposti al suo scrutinio.

In tal senso, si rileva che, in un contesto costituzionale di accresciute competenze legislative regionali, le disposizioni in esame ammettono solo convenzioni stipulate dallo Stato direttamente con i Comuni ed escludono del tutto le Regioni.

A giustificare tale assetto normativo non possono addursi istanze unitarie che giustifichino l’attrazione in sussidiarietà della competenza in capo allo Stato, se è vero che «le funzioni amministrative relative all’assegnazione di soggetti a lavori socialmente utili ed alla loro stabilizzazione lungi dal trascendere l’ambito regionale si collegano al contrario ad esigenze decisamente locali, di dimensioni addirittura comunali».

Né, d’altro canto, può invocarsi il quinto comma dell’art. 119 della Costituzione, riferendosi la normativa in esame non a finanziamenti in favore di «determinati Comuni» bensì ad «un sistema generale di finanziamento», tale da riguardare potenzialmente tutti indistintamente i Comuni italiani.

In definitiva, i commi 76 e 82 dell’art. 3 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, nel prevedere convenzioni stipulate dallo Stato direttamente con i Comuni per il finanziamento statale di attività rientranti (anche) in materie di competenza legislativa regionale, devono essere dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui non contemplavano alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni. La Corte osserva altresì che l’individuazione della tipologia più congrua a garantire tale collaborazione compete alla discrezionalità del legislatore, sottolineando peraltro che – nelle varie fasi dell’evoluzione della disciplina dei lavori socialmente utili – il legislatore ha già fatto ricorso sia alla previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti Stato-Regioni, sia alla convenzione fra Stato e Regione interessata.

Un altro caso nel quale si riscontra una concorrenza di competenze normative è rappresentato dalla sentenza n. 231. In essa, viene decisa la questione avente ad oggetto l’art. 4, commi 112, 113, 114 e 115, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. Il comma 112 prevede l’istituzione, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di un Fondo speciale per l’incentivazione della partecipazione dei lavoratori nelle imprese, che intervenga in sostegno di programmi, predisposti per l’attuazione di accordi sindacali o statuti societari, finalizzati a valorizzare la partecipazione dei lavoratori ai risultati o alle scelte gestionali delle imprese medesime. Il comma 113 stabilisce la costituzione, con decreto ministeriale, di un Comitato (composto di esperti che rappresentano in parte il Ministero, in parte e in modo paritario le associazioni sindacali di datori e di prestatori di lavoro), con il compito, tra l’altro, di predisporre il regolamento per il proprio funzionamento. Ai termini del comma 115, il Comitato è chiamato a redigere annualmente una relazione, da inviare al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, alle competenti Commissioni parlamentari ed al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.

Con il predetto decreto ministeriale sono stabiliti i criteri fondamentali di gestione del fondo (comma 113), modificabili, con successivi decreti, sulla base del recepimento di eventuali accordi interconfederali o di avvisi comuni delle parti sociali, anche in attuazione degli indirizzi dell’Unione europea (comma 114).

La Corte ribadisce il principio secondo cui «la legittimità delle norme statali istitutive di nuovi fondi è condizionata di norma, per quanto riguarda la competenza ad emanarle, alla inerenza della destinazione dei finanziamenti a opere e servizi rientranti in materie di competenza statale».

D’altra parte, vero è che «la complessità della realtà sociale da regolare comporta che di frequente le discipline legislative non possano essere attribuite nel loro insieme ad un’unica materia, perché concernono posizioni non omogenee ricomprese in materie diverse sotto il profilo della competenza legislativa. In siffatti casi di concorso di competenze, la Corte ha fatto applicazione, «secondo le peculiarità dell’intreccio di discipline, del criterio della prevalenza di una materia sull’altra e del principio di leale cooperazione».

Operata questa premessa, e constatato che le disposizioni oggetto di scrutinio nel caso di specie trovavano il loro fondamento, sul piano interno, nell’art. 46 della Costituzione e, nel diritto comunitario, in una serie di provvedimenti susseguitisi nel tempo, la Corte ritiene che i finanziamenti in questione, «in quanto finalizzati a progetti inerenti alla costituzione di organi o alla regolamentazione di procedure di informazione o di mera consultazione dei lavoratori sulla vita delle aziende e sulle scelte di massima da compiere», attengano alla tutela del lavoro, esaurendosi essi nell’ambito di un rafforzato svolgimento delle relazioni industriali, senza modificare gestioni o assetti imprenditoriali e senza direttamente incidere sul rapporto di lavoro.

Viene parimenti sottolineato che le norme impugnate ed i progetti da esse previsti «si ricollegano anche ad atti comunitari che concernono lo statuto della società europea, con la previsione di organi decisionali e non solo destinatari di informazione o autori di atti consultivi»: sotto tale angolo visuale, dunque, «i progetti concernenti il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende finiscono per riguardare, da un lato, le strategie ed alcuni profili strutturali delle imprese, dall’altro, con l’attribuzione ai lavoratori componenti di determinati organi di garanzie assimilabili a quelle riconosciute ai rappresentanti sindacali, la stessa disciplina del rapporto di lavoro».

In ragione di questi rilievi, si constata che le disposizioni censurate non esauriscono la loro efficacia nella materia della tutela del lavoro, ma attengono anche – e in misura non secondaria – all’ordinamento civile, collocandosi «all’incrocio di materie rispetto alle quali la competenza legislativa è diversamente attribuita dalla Costituzione: esclusiva dello Stato in tema di ordinamento civile, concorrente in materia di tutela del lavoro».

Ora, se la competenza esclusiva giustifica «la legittimazione dello Stato a dettare norme primarie e quindi l’emanazione del decreto attuativo e di quelli successivi (comma 114) sotto il profilo dell’esigenza di un progetto unitario di disciplina della società europea», è parimenti da rilevare che l’esistenza della competenza concorrente «rende illegittima, anche ai sensi dell’art. 119 Cost., l’esclusione delle Regioni da ogni coinvolgimento, in violazione del principio di leale collaborazione».

Proprio su questo punto viene rintracciata una fattispecie di invalidità, che, nel condurre ad una pronuncia caducatoria dei commi 113 e 114 dell’art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, chiama il legislatore ad intervenire onde predisporre «regole che comportino il coinvolgimento regionale». La Corte, in effetti, evidenzia l’impossibilità di emendare il vizio di costituzionalità attraverso una pronuncia manipolativa, dal momento che «il principio di leale collaborazione può essere diversamente modulato poiché nella materia in oggetto non si riscontra l’esigenza di specifici strumenti costituzionalmente vincolati di concretizzazione del principio stesso».

Nella sentenza n. 384, invece, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 3, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, che definisce lo schema di convenzione, sia adottato sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. La Corte sanziona il mancato coinvolgimento della Conferenza, in quanto l’art. 8, comma 3, che, per le finalità di cui ai primi due commi – e cioè al fine di promuovere l’osservanza delle norme in materia di lavoro e di previdenza, e in relazione agli stessi complessi normativi – prevede attività di aggiornamento e informazione da svolgere a cura e spese di enti, datori di lavoro e associazioni mediante la stipula di apposita convenzione, pur rientrando in materie di competenza statale, per i mezzi di cui stabilisce l’utilizzazione, riguarda anche la formazione, e viene quindi a trovarsi all’incrocio di un concorso di competenze, che rende necessario tale coinvolgimento.

Di contro, si esclude la concorrenza di competenze in ordine alle attività formative e di aggiornamento predisposte dal datore di lavoro per il personale dipendente, poiché esse non rientrano (anche) nell’ambito della formazione professionale, materia di competenza residuale delle regioni. Sulla base di questo assunto si dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, che delinea i contenuti dei processi di formazione permanente destinati al personale ispettivo, lasciando alla direzione generale il compito di definire programmi di formazione e di aggiornamento.

3.5. Le «materie-valore»

Sulla base di precedenti statuizioni, la Corte, anche nel 2005, ha riscontrato l’esistenza di materie che, per loro natura, mal si prestano ad una scomposizione basata sui criteri di competenza fissati all’art. 117 della Costituzione.

Nella sentenza n. 31, in particolare, la Corte dichiara, con sentenza interpretativa, non fondata la questione sollevata nei confronti dell’art. 56 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che istituisce il Fondo finalizzato al finanziamento di progetti di ricerca nei termini di seguito precisati.

La ricerca scientifica e tecnologica, nel nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione, è inclusa tra le materie appartenenti alla competenza concorrente.

Tuttavia, la Corte, con la sentenza n. 423 del 2004, ha affermato che la ricerca scientifica deve essere considerata non solo una «materia», ma anche un «valore» costituzionalmente protetto (articoli 9 e 33 della Costituzione), in quanto tale in grado di rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati.

Sulla base di tali premesse la Corte ha ritenuto, innanzitutto, ammissibile un intervento «autonomo» statale in relazione alla disciplina delle «istituzioni di alta cultura, università ed accademie», che «hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, sesto comma, Cost.). Detta norma ha, infatti, previsto una «riserva di legge» statale (sentenza n. 383 del 1998), che ricomprende in sé anche quei profili relativi all’attività di ricerca scientifica che si svolge, in particolare, presso le strutture universitarie (art. 63 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, recante «Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica»).

Al di fuori di questo ambito lo Stato conserva, inoltre, una propria competenza in relazione ad attività di ricerca scientifica strumentale e intimamente connessa a funzioni statali, allo scopo di assicurarne un migliore espletamento, sia organizzando direttamente le attività di ricerca, sia promuovendo studi finalizzati (cfr. sentenza n. 569 del 2000).

Infine, il legislatore statale – come la Corte ha precisato con la sentenza n. 423 del 2004 – può sempre, nei casi in cui sussista «la potestà legislativa concorrente nella “materia” in esame, non solo ovviamente fissare i principî fondamentali, ma anche attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze di carattere unitario, e regolarne al tempo stesso l’esercizio – nel rispetto dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza – mediante una disciplina che sia logicamente pertinente e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tali fini» (vedi anche sentenze n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003).

Alla luce delle osservazioni che precedono, la disposizione censurata deve essere interpretata nel senso che la stessa è finalizzata a finanziare esclusivamente quei progetti di ricerca in relazione ai quali è configurabile, nei limiti indicati, un autonomo titolo di legittimazione del legislatore statale. Da ciò consegue che tale disposizione, così interpretata, non determina alcun vulnus a competenze regionali.

3.6. Le materie attratte in sussidiarietà dallo Stato

Sulla scorta dei principî enucleati a far tempo dalla sentenza n. 303 del 2003, anche nel 2005 si sono verificati casi di «chiamata in sussidiarietà» relative a discipline che, non rientranti in ambiti di competenza esclusiva dello Stato, necessitino, comunque, di un esercizio unitario. In particolare, siffatte attrazioni hanno riguardato (a) la disciplina di fondi previdenziali, (b) la previsione di contributi per l’acquisto di tecnologie, (c) il potenziamento del capitale di imprese medio-grandi, (d) la normativa in materia di Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), (e) il sostegno alle attività cinematografiche, (f) i porti e (g) l’energia elettrica.

a) Nella sentenza n. 50, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 (recante «Fondi per la formazione e l’integrazione del reddito») del d.lgs. n. 276 del 2003. Infatti, «la prevalenza e soprattutto l’indefettibilità della natura previdenziale del fondo a fronte di altre destinazioni puramente eventuali delle risorse, il carattere nazionale del medesimo, la necessità di tener conto della «sostenibilità finanziaria complessiva del sistema», giustificano l’attrazione alle competenze statali anche di funzioni amministrative.

b) Con la sentenza n. 151, la Corte respinge l’impugnativa proposta dalla Regione Emilia-Romagna avverso l’art. 4, commi 1-4, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che prevede un contributo statale in favore di ciascun utente del servizio di radiodiffusione, per l’acquisto o il noleggio di un apparecchio idoneo a consentire la ricezione in chiaro dei segnali televisivi in tecnica digitale terrestre.

L’assunto secondo cui tali norme ineriscono a materie, quali l’innovazione tecnologica e l’ordinamento della comunicazione, nelle quali spetterebbe allo Stato la sola legislazione di principio, con la conseguente illegittimità dei previsti interventi di carattere amministrativo, non viene condiviso dalla Corte, sulla considerazione che le norme impugnate intendono favorire la diffusione della tecnica digitale terrestre di trasmissione televisiva, quale strumento di attuazione del principio del pluralismo informativo esterno, che rappresenta uno degli imperativi ineludibili in materia di emittenza televisiva (sentenza n. 466 del 2002), esprimendo l’informazione una condizione preliminare per l’attuazione dei principî propri dello Stato democratico (così le sentenze n. 312 del 2003 e n. 29 del 1996).

Ne deriva che le disposizioni impugnate attingono a una pluralità di materie e di interessi (tutela della concorrenza, sviluppo tecnologico, tutela del pluralismo di informazione), appartenenti alla competenza legislativa esclusiva o concorrente dello Stato, senza che alcuna tra esse possa dirsi prevalente così da attrarre l’intera disciplina.

Ciò posto, avuto anche riguardo all’eccezionalità della situazione caratterizzata dal passaggio alla tecnica digitale terrestre, l’assunzione diretta di una funzione amministrativa da parte dello Stato, nella forma dell’erogazione di un contributo economico in favore degli utenti, previa adozione di un regolamento che ne stabilisca criteri e modalità di attribuzione, appare giustificata – alla stregua del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118, primo comma, della Costituzione – da una evidente esigenza di esercizio unitario della funzione stessa, non potendo un intervento a sostegno del pluralismo informativo non essere uniforme sull’intero territorio nazionale.

L’intervento appare d’altro canto «ragionevole e proporzionato» in relazione al fine perseguito, a prescindere dalla sua relativa modestia dal punto di vista finanziario (cfr.sentenza n. 272 del 2004), atteso che l’incentivazione economica all’acquisto del decoder appare uno strumento non irragionevole di diffusione della tecnica digitale terrestre di trasmissione televisiva.

c) La sentenza n. 242 ha ad oggetto l’art. 4, commi da 106 a 111, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che istituisce e disciplina un Fondo rotativo nazionale, affidato alla gestione della società Sviluppo Italia s.p.a., «per effettuare interventi temporanei di potenziamento del capitale di imprese medio-grandi che presentino nuovi programmi di sviluppo, anche attraverso la sottoscrizione di quote di minoranza di fondi immobiliari chiusi che investono in esse».

La normativa è stata impugnata, in primo luogo, per la sua non riconducibilità in ambiti di competenza normativa statale: la materia della «tutela della concorrenza», in particolare, non sarebbe invocabile in quanto la relativa modestia delle risorse previste escluderebbe che il Fondo istituito possa essere configurato «tra gli “strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese”, “finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico” e giustificati per la loro “rilevanza macroeconomica”».

In secondo luogo, dalla regolamentazione delle modalità di gestione delle misure previste emergerebbe una «pretermissione totale» delle Regioni, in violazione del principio di leale cooperazione.

La Corte costituzionale dichiara le questioni poste parzialmente fondate.

Basandosi sulla definizione delle competenze statali e regionali in tema di politica economica contenute nella sentenza n. 14 del 2004, la Corte sottolinea che, ferma restando la competenza regionale in ordine agli interventi sulla realtà produttiva regionale, «sussiste in generale una ineludibile responsabilità degli organi statali in tema di scelte di politica economica di sicura rilevanza nazionale, anche al di là della specifica utilizzabilità dei singoli strumenti elencati nel secondo comma dell’art. 117 Cost. (come appunto la «tutela della concorrenza»); peraltro, «in questi diversi casi, gli organi statali dovranno necessariamente utilizzare altri poteri riconosciuti allo Stato dal Titolo V della Costituzione».

Con riferimento al Fondo rotativo nazionale, si constata che «non si opera nell’ambito della “tutela della concorrenza”, poiché gli interventi previsti hanno una ricaduta necessariamente limitata e solo indiretta sull’attività economica nei tanti e diversi settori produttivi che potranno essere interessati».

Tuttavia, la Corte rileva che il legislatore statale può «considerare necessario che, anche in materie affidate alla competenza legislativa residuale o concorrente delle Regioni, si possano attrarre a livello centrale determinate funzioni amministrative “sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” di cui al primo comma dell’art. 118 Cost., dettando la relativa disciplina della funzione amministrativa in questione». È in questa luce che va letta la disciplina oggetto del giudizio, la quale opera l’attribuzione al livello statale di «una funzione amministrativa di temporaneo sostegno finanziario a determinate imprese produttive per evidenti finalità di politica economica».

Con riferimento alla disciplina nella specie impugnata, «dirimente è la considerazione dell’esplicita finalizzazione del Fondo rotativo nazionale alla crescita e allo sviluppo del tessuto produttivo nazionale, in quanto per il raggiungimento di tale finalità appare strutturalmente inadeguato il livello regionale, al quale inevitabilmente sfugge una valutazione d’insieme». In questo senso, del resto, va sottolineato che il Fondo si riferisce «alle sole imprese medie e grandi “come qualificate dalla normativa nazionale e comunitaria”» e che le condizioni e le modalità di attuazione dei singoli interventi è affidato al Comitato interministeriale per la programmazione economica.

La rilevata dimensione sovraregionale delle funzioni si deve peraltro coniugare al necessario coinvolgimento sostanziale delle Regioni da parte dello Stato, «poiché l’esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003).

Di talché, ove non sussistano ancora adeguati strumenti di partecipazione delle Regioni ai procedimenti legislativi statali, quanto meno debbono essere previsti «adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali» (sentenza n. 6 del 2004).

Sulla scorta di queste considerazioni, l’analisi della disciplina impugnata ha condotto al riconoscimento di un vizio di costituzionalità derivante dall’assenza di «alcun tipo di coinvolgimento delle Regioni nell’ambito dell’attività meramente gestoria affidata a Sviluppo Italia s.p.a.»: da ciò deriva la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4, comma 110, della legge 24 dicembre 2003, n. 350.

La declaratoria si presenta, tuttavia, nella forma di una additiva di procedura, ed il ruolo normativo in materia riconosciuto al Cipe costituisce la sede idonea per un coinvolgimento delle Regioni, adeguato ad equilibrare le esigenze di leale collaborazione con quelle di esercizio unitario delle funzioni attratte in sussidiarietà al livello statale»: donde la necessità che i poteri del Cipe in materia di determinazione delle condizioni e delle modalità di attuazione degli interventi di gestione del Fondo rotativo nazionale per gli interventi nel capitale di rischio possano essere esercitati solo di intesa con la Conferenza Stato – Regioni.

d) Con la sentenza n. 270, la Corte affronta numerose questioni di costituzionalità sollevate avverso le disposizioni contenute nella legge di delega 16 gennaio 2003, n. 3 e nel decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288, con cui si procede al riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico.

Le Regioni ricorrenti, sostanzialmente, censurano l’eccessiva analiticità dei principî e criteri direttivi contenuti nelle disposizioni di delega, e l’inserimento in essa di disposizioni di dettaglio, fonti di conseguente compressione dei poteri legislativi regionali in materia; contestano, inoltre, l’attribuzione di numerosi e rilevanti poteri amministrativi ad organi statali in materie di competenza delle Regioni.

Preliminarmente, la Corte individua l’ambito materiale sul quale intervengono le disposizioni censurate nel contesto del riparto di competenze stabilito nel Titolo quinto della seconda parte della Costituzione, che ha esplicitamente attribuito alla competenza legislativa concorrente delle Regioni sia la «ricerca scientifica» sia la «tutela della salute»; ciò si rende necessario in quanto, fino ad allora, proprio la esclusiva competenza statale in materia di «ricerca scientifica» aveva legittimato la solo parziale riconduzione di questi enti pubblici, pur certamente operanti anche nell’area sanitaria, all’ambito delle istituzioni sanitarie di competenza delle Regioni.

Quanto appena esposto implicitamente esclude che la normativa oggetto del presente giudizio possa essere ricondotta al titolo di legittimazione della potestà legislativa statale costituito dall’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., con la conseguenza di una radicale esclusione delle Regioni dalla disciplina degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico.

La competenza dello Stato a legiferare nella materia «ordinamento e organizzazione amministrativa degli enti pubblici nazionali», contemplata nella lettera g) del secondo comma dell’art. 117 Cost., non può assumere le caratteristiche di un titolo «trasversale» in grado di legittimare qualsivoglia intervento legislativo indipendentemente dalle specifiche funzioni che ad un determinato ente pubblico vengano in concreto attribuite e dalle materie di competenza legislativa cui tali funzioni afferiscano.

Come accennato, infatti, la profonda modificazione dei criteri di riparto fra le competenze legislative dello Stato e delle Regioni comporta, in via di principio, che la scelta di prevedere e disciplinare enti pubblici strumentali al conseguimento delle diverse finalità pubbliche perseguite spetti al legislatore competente a disciplinare le funzioni ad essi affidate e che, dunque, lo Stato possa prevedere e disciplinare enti pubblici nazionali in tutti i casi in cui disponga di una competenza legislativa non limitata ai principî fondamentali. In altre parole, il legislatore statale può istituire enti pubblici – e conseguentemente utilizzare la lettera g) del secondo comma dell’art. 117 Cost. per dettarne la relativa disciplina ordinamentale e organizzativa – solo allorché affidi a tali enti funzioni afferenti a materie di propria legislazione esclusiva, oppure nei casi in cui, al fine di garantire l’esercizio unitario di determinate funzioni che pur sarebbero di normale competenza delle Regioni o degli enti locali (avendole valutate come non utilmente gestibili a livello regionale o locale), intervenga in sussidiarietà proprio mediante la previsione e la disciplina di uno o più appositi enti pubblici nazionali. Peraltro, un intervento come quello appena accennato, al fine di evitare un improprio svuotamento delle nuove prescrizioni costituzionali, esige non solo l’attenta valutazione dell’effettiva sussistenza delle condizioni legittimanti (necessarietà dell’attrazione al livello statale della funzione e della relativa disciplina regolativa, nonché idoneità, pertinenza logica e proporzionalità di tale disciplina rispetto alle esigenze di regolazione della suddetta funzione), ma anche la previsione di adeguate forme di coinvolgimento delle Regioni interessate, secondo i moduli di leale collaborazione più volte indicati come ineliminabili da questa Corte (cfr., fra le altre, le sentenze. n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003).

Il n. degli istituti pubblici di ricovero e cura a carattere scientifico attualmente esistenti, i loro risalenti rapporti con il sistema delle autonomie territoriali dovuti alla localizzazione sul territorio, nonché la relativa eterogeneità delle attività in concreto svolte, mettono in evidenza che in questo settore ben difficilmente potrebbe essere superato lo stretto controllo di ragionevolezza sulla effettiva esistenza di una situazione tale da giustificare la attrazione a livello statale delle funzioni e della relativa disciplina. Lo stesso legislatore statale non sembra aver compiuto una scelta del genere, dal momento che le disposizioni di delega rendono evidente che era consapevole di intervenire in una materia caratterizzata da un intreccio di competenze statali e regionali (cfr. art. 42, comma 1, lettera a, e comma 2 della legge n. 3 del 2003).

D’altra parte, queste valutazioni sono confermate anche dai lavori preparatori del decreto di attuazione della delega, che ha seguito il procedimento prescritto dal secondo comma dell’art. 42 della legge n. 3 del 2003.

Sempre in via preliminare, la Corte riafferma che, per ciò che riguarda la ricerca scientifica, l’inclusione di tale materia tra quelle appartenenti alla competenza concorrente non esclude che lo Stato conservi una propria competenza «in relazione ad attività di ricerca scientifica strumentale e intimamente connessa a funzioni statali, allo scopo di assicurarne un miglior espletamento» e neppure esclude che lo Stato possa – come nelle altre materie di competenza legislativa regionale – «attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze di carattere unitario, e regolarne al tempo stesso l’esercizio», attraverso una disciplina «che sia logicamente pertinente e risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tali fini». Ciò rende possibile allo Stato, nelle materie di legislazione concorrente, andare al di là di quanto possono disciplinare ordinariamente le leggi cornice, per tutelare al tempo stesso in modo diretto anche «esigenze di carattere unitario» ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost., seppur evidentemente nei limiti e con le necessarie forme collaborative.

La stessa titolazione dell’art. 42 della legge n. 3 del 2003 indica che la normativa di cornice delegata dal legislatore nazionale concerne «la trasformazione degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico in fondazioni», e cioè un procedimento del tutto innovativo e che per di più opera con riferimento ad un nuovo tipo di soggetto giuridico (la Fondazione Irccs di diritto pubblico) che è nella esclusiva disponibilità del legislatore statale, dal momento che corrisponde ad una nuova tipologia di persona giuridica che esige necessariamente una disciplina uniforme della sua fondamentale caratterizzazione organizzativa.

In particolare, la delega legislativa contiene alcuni principî e criteri concernenti la previsione di fondamentali caratteristiche organizzative comuni di questo nuovo tipo di fondazioni, i rapporti fra di esse, necessitati dalla loro complessiva funzione di assicurare «la ricerca nazionale ed internazionale» nel settore sanitario, nonché il regime giuridico degli Irccs non trasformati.

La legittima disciplina da parte del legislatore statale del processo di trasformazione degli Irccs pubblici in apposite fondazioni di diritto pubblico a sua volta giustifica (diversamente da quanto asserito dalle ricorrenti) che venga prevista nella delega anche la disciplina dell’assetto giuridico degli Irccs non trasformati o degli Irccs di diritto privato, in quanto parte di un complessivo processo di trasformazione, che non può non riguardare anche le figure affini o residuali.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ritiene non fondate le questioni che partono dalla premessa che sarebbe ingiustificabile, ai sensi degli articoli 117 e 118 Cost., la riserva ad organi statali di poteri amministrativi o normativi in materia di Irccs o che comunque essi, ove in ipotesi dovessero essere ammessi, dovrebbero essere accompagnati dalla previsione di adeguate forme di leale collaborazione.

Innanzitutto, motiva la Corte, la lettera a) del primo comma dell’art. 42 della legge 3 del 2003 individua nel «Ministro della salute, d’intesa con la Regione interessata» il soggetto preposto alla trasformazione degli Irccs esistenti in Fondazioni di rilievo nazionale: scelta non irragionevole, dal momento che occorre garantire una sostanziale uniformità di valutazione, mentre la necessità dell’intesa con la Regione assicura la partecipazione paritaria della Regione direttamente interessata.

Tanto permette anche di superare i dubbi rlativi alla lettera m) del primo comma dell’art. 42 della legge n. 3 del 2003, che delega il Governo a disciplinare «i criteri generali per il riconoscimento delle nuove fondazioni e le ipotesi e i procedimenti per la revisione e la eventuale revoca dei ricoscimenti già concessi»). Le disposizioni delegate, infatti, non potranno che riprodurre, negli specifici contesti previsti dalla delega legislativa, i ruoli fondamentali previsti dalla disposizione relativa alla trasformazione degli Irccs esistenti, con particolare riferimento al ruolo del Ministro ed alla necessaria intesa della Regione interessata.

Anche la previsione, contenuta nell’art. 43 della legge n. 3 del 2003, secondo cui spetta al Ministro della salute la determinazione dell’«organizzazione a rete degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico dedicati a particolari discipline», seppur «sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano», risponde ad una scelta non implausibile e compatibile con gli articoli 117 e 118 Cost., dal momento che responsabilità del genere sembrano spettare naturalmente ad un organo che riesca ad avere una visione d’insieme della complessiva capacità e specificità degli Irccs, anche in relazione alle mutevoli tendenze della ricerca scientifica in materia sanitaria a livello internazionale ed a livello comunitario. Tali considerazioni valgono a rendere ragione anche del motivo per il quale si prevede in materia una forma meno rigida di partecipazione regionale all’esercizio del potere del Ministro della salute.

Proprio in questo ruolo particolare riconosciuto al Ministro in tema di garanzia di una visione unitaria sul piano della ricerca scientifica dell’intera rete degli Irccs, trovano giustificazione sia il potere del Ministro di affidare «diversi e specifici progetti finalizzati di ricerca» ai diversi Irccs, sia il potere del Ministro di nominare, «sentita la Regione interessata», il «direttore scientifico responsabile della ricerca», tanto negli Irccs trasformati in fondazioni, quanto in quelli non trasformati.

Fondate risultano, invece, le censure concernenti l’art. 42, comma 1, lettera b) e lettera p), limitatamente alla parte in cui contengono vincoli relativi alla composizione del consiglio di amministrazione delle Fondazioni ed alla rappresentanza paritetica in questo Consiglio «del Ministero della salute e della Regione interessata», nonché alla composizione paritetica fra rappresentanti regionali e ministeriali del Consiglio di indirizzo degli Irccs non trasformati e alla nomina da parte del Ministro della salute del Presidente dell’Istituto non trasformato.

Infatti, il riconoscimento di una competenza legislativa di tipo concorrente delle Regioni sia in tema di «ricerca scientifica» che di «tutela della salute», non legittima una presenza obbligatoria per legge di rappresentanti ministeriali in ordinari organi di gestione di enti pubblici che non appartengono più all’area degli enti statali, né consente di giustificare, sotto il profilo del rispetto della competenza a dettare i principî fondamentali, che il legislatore statale determini quali siano le istituzioni pubbliche che possano designare la maggioranza del consiglio di amministrazione delle fondazioni.

La Corte disattende le censure essenzialmente incentrate su un eccesso di analiticità di molte disposizioni contenute nel decreto legislativo con specifico riferimento ai profili organizzativi delle Fondazioni e degli Irccs non trasformati in quanto la previsione di una nuova tipologia di persona giuridica, la Fondazione Irccs di diritto pubblico, esige necessariamente una disciplina uniforme della sua fondamentale caratterizzazione organizzativa, pur nel riconoscimento di una sua autonoma potestà statutaria, così come l’eventuale permanenza di alcuni IRCCS che non si possano trasformare in Fondazioni richiede che ad essi si dia comunque un sicuro assetto organizzativo.

Sono, invece, in parte fondate le questioni proposte avverso le disposizioni relative alla composizione e designazione dei consigli di amministrazione, dei Presidenti e dei collegi sindacali delle Fondazioni (art. 3, commi 2 e 3, e art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 288 del 2003), le quali appaiono ingiustificatamente dettagliate e quindi invasive, ad un tempo, sia dell’area di autonomia statutaria riconosciuta alle Fondazioni, che dell’ambito lasciato all’eventuale esercizio della potestà legislativa regionale. Al tempo stesso, queste disposizioni sono incostituzionali nella parte in cui pretendono di riservare, mediante obblighi legislativi, alcune designazioni ministeriali in ordinari organi di gestione o di controllo di enti pubblici che non appartengono più all’area degli enti statali.

La Corte non condivide i rilievi prospettati in riferimento alle disposizioni che impongono particolari ed uniformi caratteristiche alle Fondazioni sul piano della loro organizzazione amministrativa, del raccordo fra di esse in rete, del finanziamento, del regime giuridico del loro personale (art. 1, comma 1, e articoli 8, 9, del d.lgs. n. 288 del 2003, nonché art. 43 della legge n. 3 del 2003). Infatti, ove si assuma come scelta caratterizzante del legislatore nazionale la necessità di un rinnovato modello di Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico come enti autonomi altamente specializzati sia sul piano della ricerca che del ricovero e cura, ma al tempo stesso capaci di operare in coordinamento tra loro anche su impulso a livello statale, possono ritenersi non implausibili e pienamente compatibili con il riparto di competenze definito negli articoli 117 e 118 Cost. le scelte innovative, imposte all’intera categoria di queste istituzioni.

La Corte respinge anche altre censure, riferite alla asserita insussistenza di esigenze unitarie che possano legittimare la attribuzione di una serie di funzioni amministrative ad organi statali ed alla carenza di idonee forme di coinvolgimento delle Regioni interessate in questi procedimenti. Al riguardo, la Corte riafferma la compatibilità costituzionale, ai sensi dell’art. 118 Cost., di un ruolo significativo riconosciuto al Ministro della salute nei processi di gestione della legge, al fine di garantire una adeguata uniformità e la tutela di alcuni interessi unitari esistenti, seppure a condizione che parallelamente siano configurati significativi istituti di partecipazione delle Regioni interessate. Peraltro, numerose disposizioni del decreto legislativo prevedono poteri ministeriali e procedure di leale collaborazione fra Stato e Regioni e ciò non solo nella fondamentale fase della adozione dello statuto, ma anche nel riconoscimento di nuovi Irccs, nella conferma o revoca del riconoscimento, nello scioglimento degli organi delle Fondazioni e degli Irccs non trasformati, nella nomina dei commissari, nelle procedure di devoluzione dei patrimoni degli Irccs estinti, nella conferma provvisoria del carattere scientifico degli Istituti esistenti (articoli 2, 3, 5, 14, 15, 16, 17, 19 del d.lgs n. 288 del 2003). Tali poteri, tuttavia, sono opportunamente affiancati dalla previsione di una necessaria intesa fra il Ministro ed il Presidente della Regione interessata.

Per quanto riguarda le funzioni amministrative affidate al Ministro della salute (art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003), la Corte ritiene in parte fondata la censura formulata limitatamente all’ampiezza ed eterogeneità dei compiti di vigilanza e di controllo, indistintamente affidati a livello ministeriale, e la conseguente sostanziale espropriazione delle corrispondenti funzioni regionali in relazione ad enti pubblici di ricerca operanti a livello regionale.

In effetti, il riconoscimento degli Irccs come enti autonomi, dotati di propri statuti ed organi di controllo interni, ed operanti nell’ambito della legislazione regionale di tipo concorrente, rende manifesto come non sia conforme a Costituzione attribuire al Ministro della salute veri e propri poteri di controllo amministrativo su di essi. In particolare, appare estranea alla ricostruzione della natura e della posizione giuridica degli Irccs la previsione (commi 1 e 2 dell’art. 16 del d.lgs. n. 288 del 2003) di un vero e proprio controllo amministrativo di tipo preventivo sugli atti fondamentali degli Irccs, controllo affidato ad appositi organi statali (i Comitati periferici di vigilanza) operanti su scala regionale.

Un controllo del genere, peraltro, è ormai escluso sia per le Regioni che per gli enti locali dalla intervenuta abrogazione degli stessi articoli 125 e 130 della Costituzione.

Infondata è, invece, la censura concernente l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 288 del 2003, con cui si lamenta la totale compressione della potestà legislativa regionale in tema di disciplina delle Fondazioni Irccs, che scaturirebbe dalla disposizione impugnata, la quale stabilisce, che «alle Fondazioni Irccs si applicano, per quanto compatibili con le disposizioni del presente decreto legislativo, le disposizioni di cui al Libro I, Titolo II del Codice civile».

Di quest’ultima disposizione, sottolinea la Corte, deve darsi il significato di una norma che legittima, in assenza di una esplicita disciplina, statale o regionale, la applicazione della normativa generale dettata dal codice civile a proposito delle persone giuridiche.

Quanto alla censura concernente l’art. 5, comma 1, nella parte in cui prevede che l’atto di intesa, da assumere in sede di Conferenza fra Stato, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano, deve determinare «le modalità di organizzazione, di gestione e di funzionamento degli Irccs non trasformati in Fondazioni», una Regione ricorrente, considerando questa intesa come una vera e propria fonte normativa, ne rileva la profonda anomalia e comunque rivendica in alternativa la possibilità di disciplinare la materia mediante la legge regionale.

Replica la Corte che, mentre non vi sono dubbi che un atto di intesa non possa produrre una vera e propria fonte normativa, della disposizione si può però dare una diversa interpretazione compatibile con la disciplina costituzionale. Infatti, l’interpretazione dei decreti legislativi deve essere compiuta anche considerando quanto contenuto nelle disposizioni di delega legislativa (cfr. sentenze n. 125 del 2003 e n. 15 del 1999); applicando questo criterio interpretativo e quindi considerando anche quanto stabilito nella lettera p) del comma 1 dell’art. 42 della legge n. 3 del 2003, emerge che sono gli Irccs non trasformati in fondazioni i soggetti che devono comunque adeguare la loro organizzazione ed il loro funzionamento ad alcuni principî della delega e che quindi l’intesa di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 288 del 2003 rappresenta semplicemente una modalità di determinazione, condivisa fra Stato e Regioni ed uniforme sull’intero territorio nazionale, di quali debbano essere le caratteristiche comuni di questa categoria residuale di istituti, ovviamente nel rispetto di quanto determinato a livello delle fonti primarie statali. Ciò non esclude che in ambiti ulteriori ciascuna Regione possa esercitare il proprio potere legislativo anche in questo particolare settore.

Immune da censure, infine, risulta l’art. 4, comma 236, della legge n. 350 del 2003, nella parte in cui autorizza le Fondazioni Irccs e gli Istituti non trasformati ad alienare i beni immobili del proprio patrimonio al fine di ripianare i debiti pregressi, stabilendo che «le modalità di attuazione sono autorizzate con decreto del Ministero della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze». Per la Corte la disposizione in questione va qualificata come principio fondamentale in ordine alla gestione del patrimonio degli IRCCS, ed il potere ministeriale circa le modalità di attuazione delle operazioni di alienazione si configura come potere amministrativo di autorizzazione da esercitare nei confronti del singolo ente e fondato sulle più volte richiamate esigenze unitarie e non come potere normativo in deroga al riparto delle competenze regolamentari di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.

e) Con la sentenza n. 285, la Corte esamina le doglianze delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana, che hanno impugnato numerose disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 (Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche), evocando la violazione di molteplici parametri costituzionali essenzialmente incentrati su indebite invasioni di competenze regionali.

In via preliminare, la Corte chiarisce gli ambiti materiali in cui ricondurre, in via generale, le disposizioni del d.lgs. n. 28 del 2004, ed allo scopo riafferma (sentenza n. 255 del 2004) che «le attività di sostegno degli spettacoli», tra i quali rientrano le attività cinematografiche, sono ascrivibili alla materia «promozione ed organizzazione di attività culturali», affidata alla legislazione concorrente di Stato e Regioni. Tale constatazione vale a respingere la tesi secondo cui la disciplina dettata dal d.lgs. n. 28 del 2004 rientrerebbe nella competenza di tipo residuale delle Regioni, in ragione del fatto che si tratterebbe di materie di volta in volta definibili come «cinematografia», «spettacolo», «industria», «commercio».

Ad avviso della Corte, le prime due materie citate non sono scorporabili dalle «attività culturali» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., che «riguardano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura, senza che vi possa essere spazio per ritagliarne singole partizioni come lo spettacolo»; ed impropri appaiono anche i richiami alle materie dell’industria e del commercio, poiché la disciplina in esame si connota come strumentale alla realizzazione di attività consistenti in rappresentazioni artistiche e di comunicazione culturale propriamente riconducibili al settore della cultura.

Con particolare riferimento alla disciplina concernente l’apertura di sale cinematografiche, continua la Corte, è agevole riferirsi, invece, a materie espressamente contemplate tra quelle di competenza ripartita fra Stato e Regioni, e segnatamente al «governo del territorio». Una siffatta qualificazione è da ritenersi prevalente anche a fronte di profili attinenti alla «promozione ed organizzazione di attività culturali», nonché alle attività commerciali (solo per quest’ultimo profilo, peraltro marginale, ci si troverebbe dinanzi ad una materia di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.).

In altre parole, ritiene la Corte che le disposizioni che prevedono il sostegno finanziario ad opere cinematografiche che presentino particolari qualità culturali ed artistiche si connotano semmai per il fatto di incidere sulla collocazione dell’offerta cinematografica sul mercato, nell’ottica della tutela dell’interesse, costituzionalmente rilevante, della promozione e dello sviluppo della cultura (art. 9 Cost.).

Del pari infondata è l’affermazione secondo la quale, in relazione al livello di rappresentatività degli interessi pubblici della materia, continua ad operare l’interesse nazionale, imponendo il superamento della ripartizione costituzionale delle materie attraverso un trattamento uniforme su tutto il territorio dello Stato. Una tesi del genere, sottolinea la Corte, urta palesemente con il vigente dettato costituzionale, caratterizzato dalla necessità che i limiti alle potestà regionali siano espressi, ed al riguardo si ricorda quanto affermato nella sentenza n. 303 del 2003: «nel nuovo Titolo V l’equazione elementare interesse nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa precedente sorreggeva l’erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni valore deontico, giacché l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale».

Passando all’esame delle specifiche censure, viene respinta quella formulata nei confronti dell’art. 6 del d.lgs. n. 28 del 2004, che configurerebbe gli accordi internazionali in materia di coproduzioni come accordi solo statali, «in violazione dell’art. 117, nono comma, Cost., che attribuisce alle Regioni il potere di concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato». Motiva la Corte che la disposizione costituzionale richiamata si limita a facoltizzare le Regioni a concludere accordi internazionali nelle materie di loro competenza, ma non esclude affatto che lo Stato eserciti il potere estero nelle medesime materie.

La Corte affronta quindi il problema fondamentale, relativo alla conformità del d.lgs. n. 28 del 2004 rispetto al riparto competenziale previsto nel Titolo V della Costituzione.

Al riguardo rileva che, per la maggior parte, le disposizioni impugnate del decreto legislativo riguardano una materia di competenza legislativa ripartita fra Stato e Regione, di talché la legislazione statale dovrebbe limitarsi a definire i soli principî fondamentali della materia, mentre le funzioni amministrative dovrebbero essere attribuite normalmente ai livelli di governo substatali in base ai principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza indicati nell’art. 118 Cost. La disciplina in esame, invece, appare essenzialmente caratterizzata, sul piano legislativo, da una normativa completa ed autoapplicativa, senza distinzione tra principî e dettagli, e, sul piano amministrativo, da un modello di gestione accentuatamente statalistico ed essenzialmente fondato su poteri ministeriali, con una presenza del tutto marginale di rappresentanti delle autonomie territoriali.

Tutto ciò parrebbe contrastante, non solo con l’art. 117, terzo comma, Cost., ma anche con il primo comma dell’art. 118 Cost., dal momento che, ove si fosse voluto intervenire in questa particolare materia mediante una «chiamata in sussidiarietà» delle funzioni amministrative da parte dello Stato, ciò avrebbe richiesto, ormai per consolidata giurisprudenza, quanto meno «una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003; sentenze n. 242 del 2005, n. 255 e n. 6 del 2004).

Deve tuttavia essere considerato come il livello di governo regionale – e, a maggior ragione, quello infraregionale – appaiano strutturalmente inadeguati a soddisfare, da soli, lo svolgimento di tutte le tipiche e complesse attività di disciplina e sostegno del settore cinematografico. Ciò in quanto tali attività – diversamente opinando – risulterebbero esposte al rischio di eccessivi condizionamenti localistici nella loro gestione, a fronte, invece, della necessità di sostenere anche iniziative di grande rilevanza culturale prescindendo da questi ultimi. In tal senso depone, altresì, la stessa preesistenza, rispetto alla riforma di cui al decreto impugnato, di una organizzazione operante, almeno in larga parte, a livello nazionale.

Ciò giustifica, di conseguenza, un intervento dello Stato che si svolga, anzitutto, mediante la posizione di norme giuridiche che siano in grado di guidare – attraverso la determinazione di idonei principî fondamentali – la successiva normazione regionale, soddisfacendo quelle esigenze unitarie cui si è fatto riferimento (e a questo riguardo assume specifico rilievo la collocazione della materia de qua tra quelle a competenza ripartita), ma anche, là dove necessario, mediante la avocazione in sussidiarietà sia di funzioni amministrative che non possano essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori, sia della relativa potestà normativa per l’organizzazione e la disciplina di tali funzioni.

Del resto, la sussistenza, nel settore del sostegno alle attività culturali, di esigenze che rendevano costituzionalmente legittima la allocazione allo Stato di alcune delle funzioni ad esso relative era già stata espressamente segnalata nella sentenza n. 255 del 2004, relativa al Fondo unico per lo spettacolo.

Se, quindi, il legislatore statale – in un settore di competenza legislativa ripartita, nel quale però esistono forti e sicuri elementi che esigono una gestione unitaria a livello nazionale – in astratto può realizzare una pluralità di modelli istituzionali per dare, nel rispetto sostanziale del Titolo V, concretizzazione alla scelta di un modello diverso da quello ordinariamente deducibile dagli articoli 117 e 118 Cost., la Corte, chiamata a giudicare della compatibilità costituzionale di molte disposizioni del d.lgs. n. 28 del 2004, può semplicemente operare per ricondurre tale decreto legislativo al modello (prima definito come costituzionalmente compatibile) della «chiamata in sussidiarietà», affinché la attrazione a livello statale delle funzioni amministrative nel settore delle attività cinematografiche avvenga nel rispetto delle attribuzioni costituzionalmente spettanti alle Regioni. Ciò, tuttavia, in un quadro complessivo in cui le determinazioni operate direttamente dal legislatore delegato appaiono per lo più compatibili con i differenziati titoli di competenza di volta in volta adducibili: in parte, come soggetto legittimato a determinare i principî fondamentali ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.; in parte, come soggetto titolare di poteri legislativi esclusivi ai sensi dell’art. 117, secondo comma, Cost.; in parte, come soggetto chiamato a disciplinare legislativamente l’ambito nel quale opera la «chiamata in sussidiarietà», ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost.

Dal punto di vista del recupero in termini di strumenti concertativi del ruolo delle Regioni, è anzitutto indispensabile ricondurre ai moduli della concertazione necessaria e paritaria fra organi statali e Conferenza Stato-Regioni tutti quei numerosi poteri di tipo normativo o programmatorio che caratterizzano il nuovo sistema di sostegno ed agevolazione delle attività cinematografiche, ma che nel decreto legislativo sono invece riservati solo ad organi statali.

In particolare, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 28 del 2004, prevede che un decreto ministeriale definisca «gli indicatori ed i rispettivi valori» relativi ai parametri indicati dal decreto legislativo medesimo per determinare il punteggio da attribuire alle imprese cinematografiche di produzione ai fini della individuazione della categoria di appartenenza sulla cui base viene determinato il finanziamento delle imprese medesime.

L’art. 4, comma 3, prevede che il Ministro per i beni e le attività culturali approvi il «programma triennale» predisposto dalla Consulta territoriale per le attività cinematografiche; programma che – tra l’altro – individua le aree geografiche di intervento e individua gli obiettivi per la promozione delle attività cinematografiche.

L’art. 12, comma 4, prevede che, «con decreto ministeriale, sentita la Consulta, sono stabilite annualmente le quote percentuali» del Fondo per la produzione, la distribuzione, l’esercizio e le industrie tecniche, «in relazione alle finalità di cui al comma 3».

L’art. 17, comma 4, prevede che «con decreto ministeriale sono stabilite le quote percentuali di ripartizione del premio di cui al comma 3» fra le diverse categorie di soggetti che possono aspirare ai «premi di qualità».

L’art. 19, comma 3, prevede che il Ministro definisca annualmente gli obiettivi che contribuiscono a far deliberare l’erogazione dei contributi alle attività cinematografiche.

L’art. 19, comma 5, prevede che «con decreto ministeriale, sentita la Consulta, sono definiti i criteri per la concessione di premi alle sale d’essai e alle sale delle comunità ecclesiali o religiose».

In tutti questi casi appare ineludibile che i previsti atti vengano adottati di intesa con la Conferenza Stato-Regioni, in modo da permettere alle Regioni (in materie che sarebbero di loro competenza) di recuperare quantomeno un potere di codecisione nelle fasi delle specificazioni normative o programmatorie. Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni ora richiamate, nella parte in cui non prevedono che gli atti indicati siano adottati previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

In altri casi, caratterizzati dalla natura tecnica del potere normativo previsto o dall’esercizio di poteri di nomina di particolare delicatezza, il coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio.

Fondate sono anche le censure concernenti l’art. 22, comma 5, e l’art. 4, comma 5, del decreto legislativo n. 28 del 2004, relativi all’autorizzazione all’apertura «di multisale con un n. di posti superiori a milleottocento», che la disciplina in esame riserva al Direttore generale competente del Ministero, mentre alla Consulta territoriale è attribuito in materia un potere consultivo. Al riguardo, la Corte, premessa la già chiarita afferenza della disciplina in esame alla materia del «governo del territorio», osserva come appaia evidente la mancanza di esigenze unitarie tali da far ritenere inadeguato il livello regionale di governo allo svolgimento della funzione amministrativa in questione. Ciò rende del tutto ingiustificata l’attrazione di tale funzione in favore di organi amministrativi dello Stato operata dalla disposizione impugnata.

f) Le questioni poste all’attenzione della Corte nei giudizi definiti con la sentenza n. 378 concernono tutte la legittimità costituzionale di norme che, incidendo sulla disciplina di cui all’art. 8 della legge 28 gennaio 1994, n. 84 (Riordino della legislazione in materia portuale), mirano a creare meccanismi volti a superare la situazione di stallo che si crea quando, in fatto, non si realizza l’intesa che, per la nomina del Presidente dell’Autorità portuale, il citato art. 8 prevede debba raggiungersi tra Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e Regione interessata nell’ambito di una terna di esperti di massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale, designati rispettivamente dalla provincia, dai comuni e dalle camere di commercio. Qualora non pervenga nei termini alcuna designazione, recita sempre l’art. 8, il Ministro nomina il presidente, previa intesa con la Regione interessata, comunque tra personalità che risultano esperte e di massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale.

Quest’ultima norma – richiedendo l’intesa con la Regione interessata sia nell’ipotesi di nomina effettuata a seguito della formulazione della terna sia nell’ipotesi di mancata designazione – esige che la nomina del Presidente sia frutto in ogni caso di una codeterminazione del Ministro e della Regione.

La inequivoca volontà originaria della legge non può essere misconosciuta – qualificando come «debole» l’intesa in questione – dopo che la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione ha inserito la materia dei «porti e aeroporti civili» tra quelle di «legislazione concorrente» previste dall’art. 117, terzo comma, Cost.: anzi, deve dirsi che la norma statale de qua, in quanto attributiva al Ministro di funzioni amministrative in materia contemplata dall’art. 117, terzo comma, Cost., è costituzionalmente legittima proprio perché prevede una procedura che, attraverso strumenti di leale collaborazione, assicura adeguatamente la partecipazione della Regione all’esercizio in concreto della funzione amministrativa da essa allocata a livello centrale (sentenza n. 6 del 2004).

Ne discende che ab origine l’art. 8 della legge n. 84 del 1994 esigeva, ed a fortiori esige oggi – alla luce della sopravvenuta legge costituzionale n. 3 del 2001 – «una paritaria codeterminazione del contenuto dell’atto» di nomina, quale «forma di attuazione del principio di leale cooperazione tra lo Stato e la Regione», ed esclude ogni «possibilità di declassamento dell’attività di codeterminazione connessa all’intesa in una mera attività consultiva non vincolante» (sentenza n. 27 del 2004); con la conseguenza che il mancato raggiungimento dell’intesa, quale prevista dalla norma, costituiva e costituisce «ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento» (sentenza n. 6 del 2004).

In presenza di tale situazione normativa, sia lo Stato sia la Regione Friuli-Venezia Giulia, hanno posto in essere norme volte a superare la situazione di stallo che si determina – come, in concreto, si è determinata relativamente all’Autorità portuale di Trieste – in caso di mancato raggiungimento dell’intesa.

A tale proposito, la Corte ritiene che l’esigenza di leale cooperazione, insita nell’intesa, non esclude a priori la possibilità di meccanismi idonei a superare l’ostacolo che, alla conclusione del procedimento, oppone il mancato raggiungimento di un accordo sul contenuto del provvedimento da adottare; anzi, la vastità delle materie oggi di competenza legislativa concorrente comporta comunque, specie quando la rilevanza degli interessi pubblici è tale da rendere imperiosa l’esigenza di provvedere, l’opportunità di prevedere siffatti meccanismi, fermo il loro carattere sussidiario rispetto all’impegno leale delle parti nella ricerca di una soluzione condivisa.

Tali meccanismi, quale che ne sia la concreta configurazione, debbono in ogni caso essere rispettosi delle esigenze insite nella scelta, operata dal legislatore costituzionale, con il disciplinare la competenza legislativa in quella data materia: e pertanto deve trattarsi di meccanismi che non stravolgano il criterio per cui alla legge statale compete fissare i principî fondamentali della materia, che non declassino l’attività di codeterminazione connessa all’intesa in una mera attività consultiva, che prevedano l’allocazione delle funzioni amministrative nel rispetto dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui all’art. 118 Cost.

La legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 24 maggio 2004, n. 17, dopo aver pedissequamente trascritto l’art. 8, comma 1, della legge statale n. 84 del 1994 – ma attribuendo al Presidente della Regione i poteri che la norma statale riconosce al Ministro – prevede che, «qualora nei termini previsti non pervenga alcuna designazione, il Presidente della Regione, previa intesa con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, nomina comunque il Presidente dell’Autorità portuale di Trieste tra personalità che risultano esperte e di massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia, dei trasporti e portuale».

Al riguardo, la Corte ritiene che il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri con il quale si lamenta la violazione dell’art. 117, comma terzo, Cost., essendo tale materia governata, in assenza di qualsiasi disciplina speciale contenuta nello statuto della Regione, dalla norma costituzionale ex art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – sia fondato.

Motiva la Corte che la legge n. 84 del 1994 costituisce la legge-quadro in materia di porti, dal momento che essa ne disciplina compiutamente, sulla base della loro classificazione (che non può che essere ispirata a principî uniformi per tutto il territorio nazionale), tra l’altro, l’organizzazione amministrativa, i compiti affidati ai singoli organi, la composizione di questi, i loro rapporti con le autorità statali sia centrali che periferiche.

È in tale contesto che va inquadrata la previsione normativa circa la spettanza al Ministro del potere di nomina del Presidente dell’Autorità portuale, la cui costituzione è prevista per i porti aventi rilevanza economica internazionale o nazionale.

Il Presidente, in sintesi, è posto al vertice di una complessa organizzazione che vede coinvolti, e soggetti al suo coordinamento, anche organi schiettamente statali, e gli è assegnato un ruolo fondamentale, anche di carattere propulsivo, perché il porto assolva alla sua funzione comunque interessante l’economia nazionale.

Ne discende che, se la scelta, operata dal legislatore statale nel 1994, di coinvolgere la Regione nel procedimento di nomina del Presidente costituisce riconoscimento del ruolo del porto nell’economia regionale e, prima ancora, locale (donde il potere di proposta riconosciuto alla Provincia, al Comune ed alla Camera di commercio), la scelta del legislatore costituzionale del 2001 – di inserire la materia «porti e aeroporti civili» nel terzo comma dell’art. 117 Cost. – non può essere intesa quale «declassamento» degli interessi dell’intera comunità nazionale connessi all’attività dei più importanti porti: interessi, la cui cura è, con la vastità dei compiti assegnatigli ed il ruolo riconosciutogli, affidata in primo luogo al Presidente.

In breve, l’originaria previsione in tema di potere di nomina si coordina con l’insieme della legge contribuendo, quale sua organica articolazione, all’equilibrio che essa realizza tra istanze centrali, regionali e locali; sicché tale previsione continua a costituire principio fondamentale della materia, alla pari delle altre sulla composizione degli organi e sui loro compiti e poteri.

Nulla, peraltro, si oppone a che, laddove vi sia un intreccio di interessi locali, regionali, nazionali ed internazionali, armonicamente coordinati in un sistema compiuto, possa qualificarsi principio fondamentale della materia anche l’allocazione, ex lege statale, a livello centrale del potere di nomina di chi tali interessi deve coordinare e gestire.

Ciò è sufficiente per dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 2, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, in quanto contrastante con il principio fondamentale secondo il quale il potere di nomina del Presidente dell’Autorità portuale (qui, di Trieste) compete, previa intesa con la Regione, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.

La Corte passa, poi, ad esaminare il ricorso della Regione Friuli – Venezia Giulia avverso l’art. 6 del decreto legge n. 136 del 2004, che ha aggiunto, all’art. 8, comma 1, della legge n. 84 del 1994, un comma 1-bis a tenore del quale, «esperite le procedure di cui al comma 1, qualora entro trenta giorni non si raggiunga l’intesa con la Regione interessata, il Ministro può chiedere al Presidente del Consiglio dei ministri di sottoporre la questione al Consiglio dei ministri, che provvede con deliberazione motivata».

La Regione Friuli – Venezia Giulia sollecita la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma, per contrasto con gli articoli 117, comma terzo, e 118 Cost., per l’ipotesi che essa pretenda di ripristinare nella Regione la competenza del Ministro viceversa attribuita, dalla legge regionale n. 17 del 2004, al Presidente della Regione stessa; in subordine, in quanto la norma elimina l’intesa con la Regione, attribuisce alla parte ministeriale la prevalenza sulla Regione in caso di mancata intesa e ciò, peraltro, sulla base del mero decorso del breve termine di trenta giorni.

La Corte ritiene il primo motivo di ricorso, con il quale si censura la pretesa della legge statale di ripristinare nella Regione una competenza ministeriale che legittimamente la legge regionale n. 17 del 2004 ha attribuito al Presidente della Regione, infondato per le ragioni in forza delle quali è stata dichiarata costituzionalmente illegittima la legge regionale.

Fondati sono, viceversa, gli altri motivi di ricorso. Infatti, la norma impugnata si risolve nel rompere, a danno della Regione, l’equilibrio tra istanze ed esigenze di vario livello assicurato dalla legge n. 84 del 1994, nella sua originaria formulazione, e nel degradare l’intesa, prevista dall’art. 8, comma 1, della medesima legge, al rango di mero parere non vincolante, in quanto attribuisce al Ministro il potere – quali che siano le ragioni del mancato raggiungimento dell’intesa e per ciò solo che siano decorsi trenta giorni – di chiedere che la nomina sia effettuata dal Consiglio dei ministri, e cioè da un organo del quale il Ministro fa parte.

Il meccanismo escogitato è tale da svilire il potere di codeterminazione riconosciuto alla Regione, dal momento che la mera previsione della possibilità per il Ministro di far prevalere il suo punto di vista, ottenendone l’avallo dal Consiglio dei ministri, è tale da rendere quanto mai debole, fin dall’inizio del procedimento, la posizione della Regione che non condivida l’opinione del Ministro e da incidere sulla effettività del potere di codeterminazione che, ma (a questo punto) solo apparentemente, l’art. 8, comma 1, continua a riconoscere alla Regione.

Conseguentemente, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, comma terzo, Cost., dell’art. 1, comma 2, della legge n. 186 del 2004, e dell’art. 6 del decreto legge n. 136 del 2004.

g) Di particolare rilievo è, infine, la sentenza n. 383, resa dalla Corte in occasione dei ricorsi proposti dalla Regione Toscana e dalla Provincia autonoma di Trento avverso numerose disposizioni contenute nel decreto legge 29 agosto 2003, n. 239, convertito, con modificazioni, nella legge 27 ottobre 2003, n. 290,concernenti la sicurezza ed il risparmio di energia elettrica, e nella legge 23 agosto 2004, n. 239, che riordina il sistema elettrico nazionale. I rilievi di costituzionalità riguardano precipuamente la ripartizione di competenze legislative tra lo Stato e le regioni in materia di energia elettrica, ulteriormente integrati dalle doglianze della Provincia di Trento, che evoca la violazione dei parametri statutari e delle relative norme di attuazione nonché dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Altre doglianze riguardano l’intervento del legislatore statale nella allocazione di funzioni amministrative presso organi dello Stato, che sarebbe avvenuto in assenza dei presupposti costituzionali richiesti. Oggetto di contestazione anche la previsione di un potere sostitutivo statale in affermato contrasto con i presupposti costituzionali per l’attribuzione e l’esercizio di un simile potere.

In via preliminare, la Corte risolve il problema di quali siano gli ambiti materiali individuati dal Titolo V della Costituzione a cui possano essere ricondotte le disposizioni impugnate e, richiamando un suo recente precedente giurisprudenziale (sentenza n. 6 del 2004), ritiene che possano essere ascritte, almeno nella grande maggioranza, alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.

Affrontando le questioni sollevate dalla Regione Toscana con riferimento ad alcune disposizioni della legge n. 239 del 2004, la Corte non condivide la tesi secondo cui il legislatore statale avrebbe illegittimamente disciplinato alcuni ambiti materiali che sarebbero da considerare estranei alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.; si tratterebbe, in particolare, della «distribuzione locale di energia», dello «stoccaggio del gas naturale in giacimento» e della «lavorazione e stoccaggio di oli minerali», che costituirebbero autonome materie affidate alla competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.

Al riguardo, motiva la Corte, l’espressione utilizzata nel terzo comma dell’art. 117 Cost. deve ritenersi corrispondere alla nozione di «settore energetico» di cui alla legge n. 239 del 2004, che, nel riordinare l’intero settore energetico e determinando i principî fondamentali, si riferisce anche alle attività relative agli oli minerali ed al gas naturale, nonché genericamente alla distribuzione dell’energia elettrica.

In secondo luogo, la «distribuzione locale dell’energia» è nozione utilizzata dalla normativa comunitaria e nazionale, ma solo come possibile articolazione a fini gestionali della rete di distribuzione nazionale. Si tratta quindi di una nozione rilevante a livello amministrativo e gestionale, ma che non può legittimare l’individuazione di una autonoma materia legislativa sul piano del riparto costituzionale delle competenze fra Stato e Regioni.

Il problema fondamentale attiene alla relazione intercorrente fra le disposizioni impugnate ed i modelli di rapporto fra Stato e Regioni configurabili in base al Titolo V della Costituzione, nella consapevolezza che la disciplina legislativa oggetto di censura è riferibile prevalentemente alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.

Le norme legislative in esame sono il frutto, per ciò che riguarda il decreto legge n. 239 del 2003 e la relativa legge di conversione n. 290 del 2003, di un intervento normativo originato da alcune urgenti necessità di sviluppo del sistema elettrico nazionale e di recupero di potenza, con una considerazione solo parziale del ruolo delle Regioni in materia, peraltro accresciuta nella fase della conversione in legge dell’originario decreto legge. La legge n. 239 del 2004 si configura, invece, come una legge di generale riordino dell’intero settore energetico, necessaria anche per dare attuazione allo stesso art. 117, terzo comma, Cost. in un settore in precedenza largamente di competenza statale. In tutte queste norme, per l’area appartenente alla competenza legislativa regionale di tipo concorrente, il legislatore statale dispone la «chiamata in sussidiarietà» di una buona parte delle funzioni amministrative concernenti il settore energetico, con l’attribuzione di rilevanti responsabilità ad organi statali e quindi con la parallela disciplina legislativa da parte dello Stato di settori che di norma dovrebbero essere di competenza regionale ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost.

D’altra parte, ciò emerge espressamente anche dallo stesso art. 1, comma 1, della legge n. 239 del 2004, il quale afferma che «gli obiettivi e le linee della politica energetica nazionale, nonché i criteri generali per la sua attuazione a livello territoriale, sono elaborati e definiti dallo Stato che si avvale anche dei meccanismi di raccordo e di cooperazione con le autonomie regionali previsti dalla presente legge».

La Corte, nella sentenza n. 6 del 2004, ha preso atto che in un segmento di questa materia si è già di recente intervenuti tramite il decreto legge n. 7 del 2002, convertito in legge dalla legge n. 55 del 2002, in termini giustificabili dal punto di vista costituzionale solo per una allocazione in capo ad organi dello Stato di alcune funzioni amministrative relative alla ridefinizione in modo unitario ed a livello nazionale dei «procedimenti di modifica o di ripotenziamento dei maggiori impianti di produzione dell’energia elettrica, in base all’evidente presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative».

In quella occasione, la valutazione da parte di questa Corte della effettiva sussistenza dei presupposti che giustificassero la chiamata in sussidiarietà dell’amministrazione statale fu positiva, sulla base del riconoscimento della preminente esigenza di evitare il pericolo di interruzione della fornitura dell’energia elettrica a livello nazionale, attraverso una accentuata semplificazione del procedimento necessario per «la costruzione e l’esercizio degli impianti di energia elettrica di potenza superiore ai 300 MW termici» ed opere connesse.

Esigenze analoghe sono sicuramente individuabili anche per le impugnate disposizioni del decreto legge n. 239 del 2003, quale convertito nella legge n. 290 del 2003 (si veda, in particolare, l’art. 1-sexies, nella parte in cui si riferisce alla riforma e semplificazione del procedimento di «autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio degli elettrodotti, degli oleodotti, dei gasdotti, facenti parti delle reti nazionali di trasporto dell’energia»).

Esaminando la legge n. 239 del 2004, la Corte rileva che il riordino dell’intero settore energetico, mediante una legislazione di cornice, ma anche la nuova disciplina dei numerosi settori contermini di esclusiva competenza statale, appare caratterizzato, sul piano del modello organizzativo e gestionale, dalla attribuzione dei maggiori poteri amministrativi ad organi statali, in quanto evidentemente ritenuti gli unici cui naturalmente non sfugge la valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia e quindi idonei ad operare in modo adeguato per ridurre eventuali situazioni di gravi carenze a livello nazionale.

La Corte ritiene che non vi siano problemi al fine di giustificare in linea generale disposizioni legislative come quelle in esame dal punto di vista della ragionevolezza della chiamata in sussidiarietà, in capo ad organi dello Stato, di funzioni amministrative relative ai problemi energetici di livello nazionale, al fine di assicurare il loro indispensabile esercizio unitario, e procede a verificare la sussistenza delle altre condizioni che la giurisprudenza ha individuato come necessarie perché possa essere costituzionalmente ammissibile un meccanismo istituzionale del genere, che oggettivamente incide in modo significativo sull’ambito dei poteri regionali. In particolare, la disciplina in esame deve prefigurare un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà». Al riguardo, prosegue la Corte, dovendosi individuare un organo adeguatamente rappresentativo delle Regioni, ma anche degli enti locali, a loro volta titolari di molteplici funzioni amministrative senza dubbio condizionate od incise dalle diverse politiche del settore energetico, emerge come naturale organo di riferimento la Conferenza unificata.

Sulla base delle esposte premesse, la Corte esamina l’impugnativa della Regione Toscana avverso i commi 1 e 3 dell’art. 1 del decreto legge n. 239 del 2003, quale convertito, con modificazioni, nella legge n. 290 del 2003, nella parte in cui attribuiscono al Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente, la competenza ad autorizzare, al fine di garantire la sicurezza di funzionamento del sistema elettrico nazionale, l’esercizio temporaneo di singole centrali termoelettriche di potenza termica superiore a 300 MW, anche in deroga sia ai normali valori delle emissioni in atmosfera e di qualità dell’aria, sia ai limiti di temperatura degli scarichi termici.

Queste disposizioni, sul presupposto della loro riconducibilità alla materia di legislazione concorrente «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», priverebbero le Regioni della potestà di esercitare le proprie competenze legislative in materia. Sarebbe altresì violato l’art. 118 Cost., perché, trattandosi di materia rientrante nella competenza legislativa concorrente, spetterebbe alla Regione e non già all’amministrazione centrale allocare l’esercizio delle funzioni amministrative. In secondo luogo, anche ove si ritenessero sussistenti esigenze unitarie tali da consentire l’attrazione delle funzioni in capo allo Stato, non sarebbe prevista alcuna forma di intesa, in violazione del principio di leale collaborazione.

La Corte dichiara non fondate le questioni in quanto i previsti poteri di deroga temporanei ineriscono alla materia della «tutela dell’ambiente» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., senza che ricorra la necessità di meccanismi di collaborazione con le Regioni indispensabili nelle ipotesi della «chiamata in sussidiarietà». Quanto, poi, alla concreta allocazione in capo ad organi statali dei poteri di deroga contemplati dalle norme impugnate, starà al normale ed opportuno coordinamento fra le diverse istituzioni che sono chiamate ad operare nei medesimi settori, pur nella diversità delle rispettive competenze, la creazione di idonei strumenti di reciproca informazione, nella specie fra Ministero e Regione interessata.

In ordine alla impugnativa della Provincia autonoma di Trento avverso l’art. 1-ter, comma 2, del decreto legge n. 239 del 2003, nel testo risultante dalla conversione nella legge n. 290 del 2003, il quale stabilisce che «il Ministro delle attività produttive emana gli indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto dell’energia elettrica e di gas naturale e approva i relativi piani di sviluppo predisposti, annualmente, dai gestori delle reti di trasporto», la Corte ritiene senza dubbio che la disposizione impugnata intervenga nell’ambito della materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», ma che, al tempo stesso, la «chiamata in sussidiarietà» da parte dello Stato del potere di determinare gli indirizzi può essere giustificata sulla base della necessità che in questa materia sia assicurata una visione unitaria per l’intero territorio nazionale. Peraltro, la rilevanza del potere di emanazione degli indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto dell’energia elettrica e di gas naturale sulla materia energetica e la sua sicura (indiretta) incidenza sul territorio e quindi sui relativi poteri regionali, rende costituzionalmente obbligata la previsione di un’intesa in senso forte fra gli organi statali e il sistema delle autonomie territoriali rappresentato in sede di Conferenza unificata; di talché, la disposizione impugnata viene dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui l’atto ministeriale non è preceduto dall’intesa con la Conferenza unificata. Al contrario, l’attività di approvazione dei piani di sviluppo annuali dei gestori delle reti di trasporto, – risolvendosi sostanzialmente nell’esercizio di un potere di controllo, a limitata discrezionalità, che si esplica a valle dell’attività di selezione e disciplina degli interessi pubblici operata in sede di elaborazione congiunta tra Stato ed autonomie di quegli indirizzi – può ritenersene giustificata l’attribuzione al solo Ministro preposto alla gestione amministrativa del settore.

Non fondata risulta, invece, l’impugnativa della Provincia di Trento avverso il comma 5 dell’art. 1-sexies del decreto legge n. 239 del 2003, nel testo risultante dalla conversione nella legge n. 290 del 2003, nella parte in cui stabilisce che «le Regioni disciplinano i procedimenti di autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio di reti energetiche di competenza regionale in conformità ai principî e ai termini temporali di cui al presente articolo, prevedendo che, per le opere che ricadono nel territorio di più Regioni, le autorizzazioni siano rilasciate d’intesa tra le Regioni interessate».

Ritiene la Corte che, quanto alla addotta limitazione delle competenze regionali sui procedimenti autorizzatori alle reti di carattere non nazionale, la «chiamata in sussidiarietà» in capo allo Stato dei poteri autorizzatori concernenti le reti nazionali è giustificata dalla sussistenza di esigenze unitarie e che la previsione di un termine entro cui il procedimento deve concludersi può senz’altro qualificarsi come principio fondamentale della legislazione in materia, essendo espressione di una generale esigenza di speditezza volta a garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale il celere svolgimento del procedimento autorizzatorio (cfr. sentenza n. 336 del 2005).

Infondata risulta l’impugnativa della Regione Toscana avverso l’art. 1, comma 4, lettera c), della legge n. 239 del 2004, il quale, nel prevedere che Stato e Regioni assicurano l’omogeneità delle modalità di fruizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti l’energia e dei criteri di formazione delle tariffe e dei prezzi conseguenti, stabilisce che essi garantiscono – tra l’altro – «l’assenza di oneri di qualsiasi specie che abbiano effetti economici diretti o indiretti ricadenti al di fuori dell’ambito territoriale delle autorità che li prevedono». Tale disposizione contrasterebbe con gli articoli 117 e 118 Cost., in quanto la nozione di «effetto economico indiretto» sarebbe così ampia e vaga da impedire ogni politica regionale nel settore energetico e bloccherebbe o limiterebbe fortemente l’esercizio delle competenze regionali in materia di energia.

Motiva la Corte che sul piano della potestà legislativa, la disposizione censurata (peraltro riferita sia allo Stato che alle Regioni) si configura senz’altro come un principio fondamentale di per sé non irragionevole, né tale da limitare in modo eccessivo i poteri del legislatore regionale.

Se dunque lo Stato ha legittimamente posto un principio fondamentale della materia, l’asserita illegittima limitazione dei poteri amministrativi della Regione potrebbe derivare soltanto da un illegittimo esercizio in concreto delle competenze amministrative spettanti agli organi dello Stato; rischio solo eventuale, e, nell’ipotesi che si concretizzasse in termini ritenuti contrastanti con le disposizioni costituzionali in tema di autonomia regionale, non mancherebbero alle Regioni interessate idonee forme di tutela, anche in sede giurisdizionale.

Illegittimo si rivela l’art. 1, comma 4, lettera f), della legge n. 239 del 2004, impugnato dalla Regione Toscana, il quale esclude gli impianti alimentati da fonti rinnovabili dalle misure di compensazione e di riequilibrio ambientale e territoriale, qualora esigenze connesse agli indirizzi strategici nazionali richiedano concentrazioni territoriali di attività, impianti ed infrastrutture ad elevato impatto territoriale.

Ad avviso della Corte, la disposizione in questione si risolve, infatti, nella imposizione al legislatore regionale di un divieto di prendere in considerazione una serie di differenziati impianti, infrastrutture ed attività per la produzione energetica, ai fini di valutare il loro impatto sull’ambiente e sul territorio regionale (che, in caso di loro concentrazione sul territorio, può anche essere considerevole) solo perché alimentati da fonti energetiche rinnovabili. Tale previsione eccede il potere statale di determinare soltanto i principî fondamentali della materia e determina una irragionevole compressione della potestà regionale di apprezzamento dell’impatto che tali opere possono avere sul proprio territorio, in quanto individua puntualmente una categoria di fonti di energia rispetto alla quale sarebbe preclusa ogni valutazione da parte delle Regioni in sede di esercizio delle proprie competenze costituzionalmente garantite.

La Corte esamina l’impugnativa della Regione Toscana avverso le lettere g) e h) dell’art. 1, comma 7, della legge n. 239 del 2004, che, nell’elencare i compiti e le funzioni amministrative spettanti allo Stato, indica la competenza in tema di identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale, con riferimento all’articolazione territoriale delle reti infrastrutturali energetiche dichiarate di interesse nazionale (nonché la loro programmazione), ma non prevede adeguate forme di leale collaborazione.

La Corte accoglie la censura sottolineando che se appare giustificabile una chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato dei fondamentali poteri amministrativi nella materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» che esigono una unitaria visione a livello nazionale ed un loro efficace coordinamento con gli altri connessi poteri in materie di esclusiva competenza legislativa dello Stato, appare peraltro costituzionalmente necessario che l’esercizio dei poteri attribuiti dalle norme impugnate venga ricondotto a moduli collaborativi con il sistema delle autonomie territoriali nella forma dell’intesa in senso forte fra gli organi statali e la Conferenza unificata.

Parimenti, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera i), della legge n. 239 del 2004, nella parte in cui non prevede che l’individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti strategici, al fine di garantire la sicurezza strategica, ivi inclusa quella degli approvvigionamenti energetici e del relativo utilizzo, avvenga d’intesa con le Regioni e le Province autonome interessate. Al riguardo, la Corte ritiene che la predisposizione di un programma di grandi infrastrutture implica necessariamente una forte compressione delle competenze regionali non soltanto nel settore energetico ma anche nella materia del governo del territorio, di talché è condizione imprescindibile per la legittimità costituzionale dell’attrazione in sussidiarietà a livello statale di tale funzione amministrativa, la previsione di un’intesa in senso forte con le Regioni nel cui territorio l’opera dovrà essere realizzata.

Egualmente illegittima risulta le disposizione, impugnata dalla Regione Toscana, di cui all’art. 1, comma 8, lettera a), punto 3, della legge n. 239 del 2004, che attribuisce allo Stato i poteri amministrativi di determinazione delle linee generali di sviluppo della rete di trasmissione nazionale dell’energia elettrica, poiché non vi è dubbio che tali disposizioni ineriscano alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» e che la chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato delle funzioni amministrative debba essere accompagnata dalla previsione di idonei moduli collaborativi nella forma dell’intesa in senso forte fra gli organi statali e la Conferenza unificata, rappresentativa dell’intera pluralità degli enti regionali e locali. Analogamente, si deve ritenere per i poteri statali di cui all’art. 1, comma 8, lettera a), punto 7, della legge n. 239 del 2004 concernenti la determinazione dei criteri generali per le nuove concessioni di distribuzione dell’energia elettrica e per il rilascio delle autorizzazioni relative alle grandi centrali di produzione, per i quali non può essere ritenuto sufficiente il semplice parere della Conferenza unificata previsto dalla norma impugnata.

Illegittimo è anche l’art. 1, comma 8, lettera b), punto 3, della legge n. 239 del 2004, impugnato sempre dalla Regione Toscana, il quale prevede che lo Stato assuma le «determinazioni inerenti lo stoccaggio di gas naturale in giacimento». Anche qui la chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato di un delicato potere amministrativo, per di più connesso con una molteplicità di altre funzioni regionali, quanto meno in tema di tutela della salute e di governo del territorio, deve essere accompagnato dalla previsione di un’intesa in senso forte fra gli organi statali e le Regioni e le Province autonome direttamente interessate.

Parzialmente fondate sono, poi, le questioni sollevate dalla Regione Toscana e dalla Provincia autonoma di Trento avverso l’art. 1, comma 24, lettera a), della legge n. 239 del 2004, che (1) ha mantenuto al Ministro delle attività produttive l’emanazione degli «indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto di energia elettrica e di gas naturale», disponendo inoltre che (2) il Ministro «verifica la conformità dei piani di sviluppo predisposti, annualmente, dai gestori delle reti di trasporto con gli indirizzi medesimi».

Per un verso, la Corte ritiene che non è dubbio che la disposizione impugnata intervenga nell’ambito della materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», ma che, al tempo stesso, la «chiamata in sussidiarietà» da parte dello Stato del potere di determinare gli indirizzi può essere giustificata sulla base della necessità che in questa materia sia assicurata una visione unitaria per l’intero territorio nazionale. Peraltro, il potere ministeriale di emanazione degli indirizzi ha una sicura indiretta incidenza sul territorio e quindi sui relativi poteri regionali, ciò che rende costituzionalmente obbligata la previsione di un’intesa in senso forte fra gli organi statali ed il sistema delle autonomie territoriali rappresentato in sede di Conferenza unificata. Al contrario, la seconda disposizione è immune da censure, trattandosi dell’esercizio di un potere di controllo, a limitata discrezionalità, che si esplica a valle dell’attività di selezione e disciplina degli interessi pubblici operata in sede di elaborazione – congiunta tra Stato ed autonomie – di quegli indirizzi cui i suddetti piani debbono conformarsi.

La Corte accoglie l’impugnativa della Regione Toscana e della Provincia autonoma di Trento avverso l’art. 1, comma 26, della legge n. 239 del 2004, là dove dispone che in caso di mancato conseguimento dell’intesa con la Regione o le Regioni interessate nel termine prescritto per il rilascio dell’autorizzazione alla costruzione ed esercizio degli elettrodotti, «lo Stato esercita il potere sostitutivo ai sensi dell’art. 120 della Costituzione, nel rispetto dei principî di sussidiarietà e leale collaborazione ed autorizza le opere, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per le attività produttive previo concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio». La Corte condivide le censure secondo cui si disciplinerebbe una ipotesi di potere sostitutivo statale al di fuori dei presupposti costituzionali. Al riguardo, si sottolinea che il secondo comma dell’art. 120 Cost. non può essere applicato ad ipotesi, come quella prevista dalla disciplina impugnata, nelle quali l’ordinamento costituzionale impone il conseguimento di una necessaria intesa fra organi statali e organi regionali per l’esercizio concreto di una funzione amministrativa attratta in sussidiarietà al livello statale in materie di competenza legislativa regionale e nella perdurante assenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni nell’ambito dei procedimenti legislativi dello Stato.

Nell’attuale situazione, infatti, tali intese costituiscono condizione minima e imprescindibile per la legittimità costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la «chiamata in sussidiarietà» di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale, con la conseguenza che deve trattarsi di vere e proprie intese «in senso forte», ossia di atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti. In questi casi, pertanto, deve escludersi che, ai fini del perfezionamento dell’intesa, la volontà della Regione interessata possa essere sostituita da una determinazione dello Stato, il quale diverrebbe in tal modo l’unico attore di una fattispecie che, viceversa, non può strutturalmente ridursi all’esercizio di un potere unilaterale.

L’esigenza che il conseguimento di queste intese sia non solo ricercato in termini effettivamente ispirati alla reciproca leale collaborazione, ma anche agevolato per evitare situazioni di stallo, potrà certamente ispirare l’opportuna individuazione, sul piano legislativo, di procedure parzialmente innovative volte a favorire l’adozione dell’atto finale nei casi in cui siano insorte difficoltà a conseguire l’intesa, ma tali procedure non potranno in ogni caso prescindere dalla permanente garanzia della posizione paritaria delle parti coinvolte. E nei casi limite di mancato raggiungimento dell’intesa, potrebbe essere utilizzato, in ipotesi, lo strumento del ricorso alla Corte in sede di conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni.

Non fondata risulta la questione sollevata dalla Provincia autonoma di Trento nei confronti dell’art. 1, comma 26, della legge n. 239 del 2004, secondo cui il soggetto che ha richiesto la autorizzazione può chiedere di concludere il procedimento autorizzatorio secondo la normativa previgente, fatta eccezione per i procedimenti per i quali sia completata la procedura di Via, ovvero il relativo procedimento risulti in fase di conclusione».

Motiva la Corte che la disposizione impugnata contiene una normale disciplina transitoria, che regola in modo non irragionevole i procedimenti già iniziati sotto il regime giuridico precedente, salvo quelli che ormai si trovano in una fase particolarmente avanzata, evidentemente al fine di estendere il regime generale di semplificazione dei procedimenti autorizzatori introdotto dalle nuove disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 dello stesso art. 1-sexies del decreto legge n. 239 del 2003, che la stessa ricorrente riconosce conformi, nel testo attuale, alle proprie attribuzioni costituzionali.

Viene altresì respinta l’impugnativa della Regione Toscana avverso l’art. 1, comma 33, della legge n. 239 del 2004, il quale prevede che «sono fatte salve le concessioni di distribuzione di energia elettrica in essere, ed aggiunge che «il Ministro delle attività produttive, sentita l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, anche al fine di garantire la parità di condizioni, può proporre modifiche e variazioni delle clausole contenute nelle relative convenzioni».

Per la Corte, le doglianze della Regione si rivolgono alla contestazione di una norma transitoria relativa alla mera gestione della fase di passaggio dal precedente regime all’attuale, norma che non risulta di per sé irragionevole. Infatti, a prescindere dal fatto che le concessioni di distribuzione di energia elettrica cui si riferisce la disposizione censurata sono relative ad ambiti territoriali largamente eccedenti quelli delle singole Regioni, la norma in questione mira semplicemente a garantire la certezza dei rapporti giuridici già instaurati dai concessionari dell’attività di distribuzione dell’energia. Le eventuali modifiche alle clausole delle convenzioni esistenti sono oggetto soltanto di un potere di «proposta» da parte del Ministro e di un potere consultivo dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, dovendo pertanto incontrare, per divenire effettive, il necessario consenso delle parti titolari del rapporto. Non v’è dunque alcuna ragione di ritenere che tali poteri debbano necessariamente essere esercitati previa intesa con la Regione interessata.

La Corte respinge l’impugnativa della Regione Toscana avverso i commi 56, 57 e 58 dell’art. 1 della legge n. 239 del 2004, che disciplinano le attività di lavorazione e stoccaggio di oli minerali. In particolare, il comma 56 individua le attività soggette ad autorizzazione di competenza delle Regioni; il comma 57 indica i parametri alla stregua dei quali va esercitato il potere autorizzatorio, mentre il comma 58 espressamente esclude la necessità di autorizzazione per le modifiche degli stabilimenti di lavorazione o dei depositi di oli minerali che non incidano sulla capacità complessiva di lavorazione o non determinino una variazione della capacità di stoccaggio superiore a quella indicata dalla legge.

La Corte ritiene che l’individuazione delle attività soggette ad autorizzazione costituisce una disciplina qualificabile come principio fondamentale della materia, dal momento che attraverso di essa viene stabilito quando si renda necessaria la sottoposizione al peculiare regime amministrativo relativo agli stabilimenti di lavorazione e stoccaggio degli oli minerali: tale scelta, come è evidente, dipende anche da variabili e parametri tendenzialmente insensibili alla specificità territoriale, in quanto legati alla obiettiva rilevanza – non frazionabile geograficamente – di tali attività rispetto agli interessi pubblici che ne impediscono uno svolgimento liberalizzato. In quest’ottica, la stessa soglia quantitativa, individuata in relazione alla complessiva capacità di stoccaggio, non appare irragionevole rispetto al bilanciamento fra i diversi interessi in gioco.

Quanto alle specifiche censure concernenti le previsioni di cui ai commi 57 e 58, occorre prendere atto della ineludibilità dell’evidente impatto sul territorio di molte delle scelte che caratterizzano il settore delle politiche riconducibili alla materia dell’energia. Tali conseguenze, tuttavia, debbono ritenersi adeguatamente bilanciate dal doveroso coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali all’interno dei processi decisionali di elaborazione e realizzazione delle politiche energetiche.

Non fondata anche l’impugnativa della Regione Toscana avverso i commi 77, 78, 79, 80, 81, 82 e 83 dell’art. 1 della legge n. 239 del 2004, che prevedono il procedimento di rilascio del permesso di ricerca e della concessione degli idrocarburi, e che ciò avvenga in seguito a un procedimento unico, nel rispetto dei principî di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241.

La ricorrente, pur rilevando che le disposizioni impugnate non escludono espressamente la necessità dell’intesa della Regione interessata, tuttavia sostiene che il mancato richiamo dell’intesa potrebbe essere interpretato come espressione della volontà del legislatore di disciplinare il settore in modo diverso. In particolare, la norma non chiarirebbe le modalità con cui dovrebbe essere acquisita l’intesa, e non chiarirebbe se l’intesa debba essere acquisita in sede di conferenza di servizi, né quali siano le conseguenze del suo mancato raggiungimento.

L’interpretazione prospettata appare, ad avviso della Corte, errata, poiché essa condurrebbe anche a negare irragionevolmente lo stesso potere ministeriale di autorizzazione in questo specifico settore. D’altra parte, per quanto concerne il rapporto tra intesa e richiamo delle norme sul procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241 del 1990, ed in particolare alla conferenza di servizi, osserva che lo stesso art. 1-sexies del decreto legge n. 239 del 2003 stabilisce che l’autorizzazione alla costruzione ed esercizio degli elettrodotti facenti parte della rete nazionale di trasporto dell’energia elettrica sia rilasciata dal Ministro delle attività produttive d’intesa con la Regione interessata, e dispone che il relativo procedimento si svolga «nel rispetto dei principî di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241». Pertanto, i commi impugnati devono essere interpretati come semplicemente specificativi delle caratteristiche della fase istruttoria e degli effetti della autorizzazione – che resta peraltro disciplinata dall’art. 1, comma 7, lettera n), della stessa legge n. 239 del 2004, il quale prevede la necessità dell’intesa con le Regioni interessate – con la conseguente assenza delle lamentate lesioni delle competenze regionali.

La Corte esamina, poi, l’impugnativa della Regione Toscana avverso l’art. 1, comma 84, della legge n. 239 del 2004, il quale prevede che la misura massima del «contributo compensativo per il mancato uso alternativo del territorio», che può essere stabilito «a seguito di specifici accordi tra la Regione e gli enti locali interessati ed i titolari di concessioni di coltivazione di idrocarburi in terraferma non ancora entrate in produzione», non possa «eccedere il valore complessivo del quindici per cento di quanto comunque spettante alla Regione e agli enti locali per le aliquote di prodotto della coltivazione»; inoltre prevede che «la mancata sottoscrizione degli accordi non costituisce motivo per la sospensione dei lavori necessari per la messa in produzione dei giacimenti di idrocarburi o per il rinvio dell’inizio della coltivazione».

La ricorrente ritiene che queste disposizioni inciderebbero, con disposizioni di dettaglio, in materia sia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», sia di «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente.

La Corte ritiene la censura solo parzialmente fondata. Infatti, la determinazione dell’ammontare massimo del contributo compensativo può essere agevolmente ricondotta ad una normativa di principio, necessaria anche al fine di garantire sull’intero territorio nazionale una relativa uniformità dei costi per le imprese di coltivazione degli idrocarburi sulla terraferma.

Al contrario, la determinazione nella legge statale delle conseguenze della mancata sottoscrizione degli accordi e, in particolare, l’esclusione che quest’ultima possa fondare la sospensione dei lavori necessari per la messa in produzione dei giacimenti o per il rinvio dell’inizio della coltivazione, restringe impropriamente la discrezionalità legislativa regionale attraverso la previsione di una normativa che non può in alcun modo essere qualificata come principio fondamentale.

La Corte, infine, esamina l’impugnativa della Regione Toscana avverso l’art. 1, comma 121, della legge n. 239 del 2004, il quale delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia, ai sensi e secondo i principî e criteri di cui all’art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59. Questa disposizione violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto lo Stato potrebbe esercitare competenze legislative in materia di energia solo dettando principî fondamentali, ovvero mediante la redazione di testi unici meramente ricognitivi.

La Corte ritiene la questione non fondata in quanto i principî e criteri direttivi della delega legislativa contenuta nella disposizione impugnata non appaiono di per sé contrastanti con i limiti posti dall’art. 117, terzo comma, Cost., alla legislazione statale nell’ambito delle materie attribuite alla potestà concorrente: al di là del fatto che il rispetto delle disposizioni costituzionali non deve essere necessariamente espresso, nella lettera b) del comma 121 si afferma esplicitamente la necessità del «rispetto delle competenze conferite alle amministrazioni centrali e regionali». Al tempo stesso, i criteri direttivi contenuti nel comma 121, attengono non solo al settore energetico, ma anche a materie di sicura competenza esclusiva dello Stato.

4. Il principio cooperativo

Il principio di leale cooperazione connota fortemente il regionalismo italiano: nella disamina relativa al riparto competenziale se ne sono avute molteplici conferme, segnatamente in riferimento agli ambiti normativi caratterizzati da una «concorrenza di competenze» e da quelli «attratti in sussidiarietà» dallo Stato (con riferimento alla compenetrazione tra contenuti della normazione ed applicazione del principio cooperativo, può ulteriormente menzionarsi, a titolo esemplificativo, la sentenza n. 50, in cui la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 – che prevede disposizioni in materia di cooperative sociali e inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati – in quanto, da una parte, contiene norme di principio, quale la previsione di una convenzione quadro, dall’altra assicura il coinvolgimento delle Regioni mediante la previsione che le convenzioni «devono essere validate da parte delle Regioni»).

Rinviando a quanto sin qui detto per l’analisi dell’incidenza del principio sulla ripartizione delle funzioni tra i livelli territoriali, giova qui soffermarsi su alcune statuizioni che hanno avuto precipuamente riguardo allo scrutinio inerente ad aspetti procedimentali.

A tal riguardo, di particolare importanza è la sentenza n. 272, nella quale, ribadendo quanto affermato nella sentenza n. 196 del 2004, la Corte ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione ai decreti legge ed alle relative leggi di conversione adottati senza il previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome: «ciò in quanto non è individuabile un fondamento costituzionale all’obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni». Peraltro, la Corte sottolinea che l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 281 del 1997, che pure era stato richiamato dalle Regioni ricorrenti, prevede obbligatoriamente l’intervento consultivo della Conferenza Stato Regioni in sede di predisposizione dei disegni di legge governativi e dei decreti legislativi, non anche in quella dei decreti legge e delle relative leggi di conversione, salvo quanto previsto dal comma 5 del medesimo articolo per la c.d. «consultazione successiva (nella sentenza n. 384 la Corte ribadirà che, «in linea di principio», il mancato parere della Conferenza non determina l’illegittimità costituzionale di decreto legislativo, quanto meno alla luce del fatto che, in concreto, il decreto in larga prevalenza attiene a materie di competenza statale).

Sempre per quanto riguarda il principio di leale cooperazione, la Corte ritiene che l’istituzione di una Commissione di garanzia con il compito di verificare la conformità alla vigente legislazione delle procedure e delle operazioni effettuate per la determinazione della quantità di latte prodotta e commercializzata nei periodi 1995-1996 e 1996-1997, senza alcun tipo di coinvolgimento delle regioni, si giustifica grazie al carattere di terzietà che deve riconoscersi alla Commissione e alla tipologia di attività ad essa attribuite.

Allo stesso modo si giustifica la scelta statale, effettuata senza un coinvolgimento delle Regioni, di escludere dall’assegnazione di quote i produttori che in precedenza hanno venduto, ovvero affittato, in tutto o in parte, la quota di propria spettanza. Infatti, sottolinea la Corte, «si tratta di previsione ed attuazione di criteri non discrezionali che prescindono dalla necessità di valutare eventuali interessi afferenti a specifici ambiti territoriali».

Anche per la rideterminazione delle quote, a seguito della verificata non compatibilità tra la quantità di latte commercializzato e la consistenza di stalla accertata, la Corte non reputa necessaria l’attivazione di procedure di concertazione con le Regioni, poiché «la normativa censurata –stabilendo che occorre tener conto della media provinciale per capo elaborata dall’Associazione italiana allevatori, con un margine ragionevole di tollerabilità del 20 per cento – non prevede una generalizzata rideterminazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto, bensì garantisce, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, una adeguata considerazione delle specificità territoriali».

Parimenti, la Corte ritiene che non sia costituzionalmente necessario il coinvolgimento delle Regioni mediante strumenti di concertazione nell’attività svolta dalla Commissione governativa di indagine in ordine alla individuazione delle tipologie contrattuali di circolazione delle quote latte da considerarsi anomale ai fini della determinazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto e commercializzato. Infatti, nella specie, non sussistono implicazioni connesse alle specificità delle singole realtà regionali.

Non è costituzionalmente necessario garantire un coinvolgimento delle Regioni neppure in relazione alla possibilità attribuita all’AIMA di valutare comparativamente i risultati della compensazione nazionale e per APL. Secondo la Corte, infatti, si tratta, di un procedimento caratterizzato da una disamina obiettiva dei dati acquisiti dall’ente statale – cui sono attribuiti poteri discrezionali – che consente di raggiungere un risultato oggettivamente verificabile.

La Corte, ribadendo quanto già affermato nella sentenza n. 398 del 1998, rileva che «non può essere revocato in dubbio che la competenza alla determinazione dei criteri di compensazione appartenga allo Stato e non alle Regioni, così pure non è dubitabile che spetti allo Stato l’applicazione dei criteri della compensazione. Ciò in quanto “si tratta di attività che trascendono la sfera delle Regioni e delle Province autonome e che per definizione non possono essere compiute in ambito locale”(sentenza n.398 del 1998)». Tuttavia, precisato ancora la Corte, essendo coinvolto lo sviluppo della produzione lattiera in zone determinate del territorio a scapito delle altre e, di riflesso, la programmazione regionale, «i criteri non avrebbero potuto essere stabiliti se non dopo avere acquisito in maniera formale il parere delle Regioni e delle Province espresso nella sede appropriata». Nella specie, peraltro, la questione di legittimità costituzionale sollevata su alcune disposizioni statali che determinano i criteri della compensazione statale senza alcun coinvolgimento delle Regioni viene dichiarata non fondata, in quanto, dalla disamina della documentazione prodotta a seguito dell’ordinanza istruttoria del 15 dicembre 1999, risulta che sul disegno di legge, il cui contenuto è stato poi trasfuso nelle disposizioni censurate, la Commissione permanente ha formulato apposito parere.

L’acquisizione di tale parere in ordine ai criteri di priorità individuati permette alla Corte di ritenere esente dai profili di incostituzionalità anche un’altra disposizione censurata, con la quale il legislatore, «nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità modulata in attuazione degli obblighi comunitari, ha esteso la validità di tali criteri anche al periodo 1999-2000».

Sempre in tema di compensazione, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sulla norma che prevede che l’AIMA effettui la compensazione sulla base di dati certi per il periodo 1997-1998 entro 30 giorni dalle determinazioni definitive da parte delle Regioni e delle Province autonome e comunque entro e non oltre il 30 settembre, sottolineando che, «a prescindere dalla sussistenza della effettiva necessità di prevedere, nel caso di specie, strumenti di concertazione con le Regioni, la norma in esame garantisce il coinvolgimento delle Regioni stesse, e dunque il rispetto del principio di leale collaborazione, prevedendo che la compensazione venga effettuata tenendo conto di quelle determinazioni definitive formulate da Regioni (e Province autonome), le cui modalità procedurali sono fissate con decreto del Ministro per le politiche agricole da emanarsi d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome».

Problematiche concernenti l’applicazione del principio di leale cooperazione sono state affrontate anche in sede di conflitto intersoggettivo, ciò che è testimoniato dalle sentenze nn. 133 e 339.

Nella sentenza n. 133, la Corte rileva, preliminarmente, che la Provincia autonoma di Trento non può invocare le norme di attuazione dello statuto speciale (decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 e decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463), con cui lo Stato ha trasferito alla Regione il demanio idrico, delegando altresì alle Province autonome di Trento e di Bolzano, per il rispettivo territorio, l’esercizio delle funzioni statali in materia di concessioni di grandi derivazioni a scopo idroelettrico ai fini della loro applicabilità anche al di fuori del territorio della Regione Trentino-Alto Adige.

Tale normativa, rileva la Corte, riguarda i rapporti tra le due Province della Regione Trentino-Alto Adige, e certamente non può trovare applicazione nei confronti della finitima ricorrente Regione Veneto.

L’autonomia speciale è infatti limitata al territorio regionale, e sarebbe contrastante con l’impianto costituzionale e con i principî ad esso sottesi di parità istituzionale e di leale collaborazione tra gli enti territoriali l’attribuzione di effetti extraterritoriali ad una norma di attuazione dello statuto regionale (cfr. sentenze n. 743 del 1988 e n. 55 del 1997).

È viceversa conforme ai principî costituzionali ritenere che nei casi di Regioni finitime trovi applicazione il d.lgs. n. 112 del 1998, che ha conferito alle regioni competenti per territorio l’intera gestione del demanio idrico, comprensivo di tutte le funzioni amministrative relative alle derivazioni di acqua pubblica, ed ha previsto, all’art. 89, comma 2, che le concessioni che interessano il territorio di più regioni sono rilasciate d’intesa tra le regioni coinvolte.

Si tratta di una norma che risponde ad esigenze unitarie ed al principio di leale collaborazione, e che certamente è applicabile anche ai rapporti tra Regioni ordinarie e Regioni a statuto speciale (sentenza n. 353 del 2001).

In relazione alla Provincia di Trento, occorre inoltre sottolineare che si tratta di funzioni delegate e non di una competenza statutaria, sicché ancora più agevole diventa l’estensione a detta Provincia di una norma originariamente prevista per le Regioni a statuto ordinario.

In conclusione, la Provincia di Trento, per un verso, ha agito senza poteri, essendo la norma del citato d.lgs. n. 463 del 1999, applicabile soltanto nell’ambito del territorio della Regione Trentino-Alto Adige, e, per altro verso, ha leso le competenze della Regione Veneto, avendo provveduto ad emanare gli atti impugnati senza aver prima raggiunto l’intesa, la quale attiene ad ogni aspetto della funzione concessoria e si riferisce anche all’individuazione dei canoni e ad eventuali regole per il loro riparto tra gli enti interessati.

Pertanto, non spetta alla Provincia di Trento, in difetto della necessaria intesa di cui all’art. 89, comma 2, del d.lgs. n. 112 del 1998, l’esercizio delle funzioni relative alle concessioni di derivazioni di acqua pubblica che interessino, oltre alla Provincia di Trento, anche la Regione Veneto, e conseguentemente devono essere annullati gli atti oggetto di conflitto, i quali sono stati adottati dalla Provincia di Trento sull’infondato presupposto di tale unilaterale ed esclusivo potere.

Con la sentenza n. 339 la Corte accoglie il conflitto di attribuzione proposto dalla Regione Toscana nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, dichiarativa della non spettanza a quest’ultimo a provvedere alla nomina del Commissario dell’Autorità portuale di Livorno in mancanza della intesa con la Regione, prevista dall’art. 8 della legge 28 gennaio 1994, n. 84.

Motiva, in proposito la Corte che, in base alla citata legge, la nomina del Presidente dell’Autorità portuale avviene nell’ambito di una terna di persone designate dalla Provincia, dai Comuni interessati e dalle Camere di commercio; e in una seconda eventuale fase – che si apre ove il Ministro, con atto motivato, richieda di comunicare una seconda terna di candidati – la individuazione del nominativo del designando diviene libera, qualora non pervenga alcuna indicazione nel termine di trenta giorni dalla richiesta. Peraltro, per la nomina del Presidente è comunque richiesta l’intesa con la Regione interessata. Tale quadro normativo di riferimento non risulta svilito a seguito della introduzione (ad opera dell’art. 6 del d.l. n. 136 del 2004, convertito, con modificazioni, nella legge n. 186 del 2004), nel medesimo art. 8 della legge n. 84 del 1994, del comma 1-bis, il quale prevede una terza eventuale fase procedimentale, per l’ipotesi in cui non venga comunque raggiunta l’intesa con la Regione interessata, in quanto essa non soltanto non preclude, ma anzi presuppone che la ricerca di una intesa prosegua, specie laddove si versi – come nella vicenda in esame – in una situazione interinale ed extra ordinem, quale certamente è quella riconducibile ad una gestione commissariale.

L’intesa è, dunque, procedimento intermedio e strumentale all’adozione dell’atto deliberativo, il quale rappresenta il frutto di una necessaria compartecipazione fra gli enti od organi tra i quali l’intesa stessa deve svilupparsi, anche – ove occorra – attraverso reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo.

La Corte, dopo aver ricordato che al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti spetta il potere di nomina del relativo Commissario straordinario, onde assicurare il soddisfacimento delle esigenze di continuità della azione amministrativa ed al fine impedire stasi connesse alla decadenza degli organismi ordinari (sentenze nn. 27 del 2004 e 208 del 1992), sottolinea che la adozione del provvedimento presuppone l’avvio e lo sviluppo – in termini di leale cooperazione – di reiterate trattative volte a raggiungere l’intesa; e che qualora questa non sia stata conseguita, le trattative devono proseguire anche dopo la nomina del Commissario, rappresentando, questo, un epilogo interinale, che non arresta né impedisce l’ordinario procedimento di nomina; ma ne richiede un’effettiva prosecuzione. Conseguentemente, la natura necessariamente transitoria della gestione commissariale e l’esigenza di non frustrare il pronto ripristino della autorità ordinaria comportano che essa abbia una durata ragionevole.

Nel caso di specie, «l’illegittimità della condotta dello Stato non risiede […] nella nomina in sé di un Commissario straordinario senza la previa intesa con il Presidente della Regione Toscana», ma nel mancato concreto sviluppo della procedura della intesa per la nomina del Presidente dell’Autorità portuale di Livorno: procedura la quale esige «lo svolgimento di reiterate trattative volte a superare, nel rispetto del principio di leale cooperazione tra Stato e Regione, le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo e che sole legittimano la nomina del primo» (sentenza n. 27 del 2004).

Come, infatti, evidenzia il ricorso, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con nota del 10 marzo 2003, ricevute le designazioni dei vari enti, richiedeva alla Regione Toscana la prescritta intesa sul nominativo proposto dalla Camera di Commercio, quale candidato all’incarico di Presidente della Autorità portuale di Livorno. La Regione Toscana, con nota del 27 marzo 2003, esprimeva il proprio motivato dissenso sul nominativo indicato dal Ministro, sottolineando, peraltro, la opportunità di «uno specifico incontro», quale «ulteriore occasione per sperimentare il metodo della concertazione.

Tale richiesta di incontro, peraltro ignorata, veniva reiterata con successiva nota del Presidente della Regione Toscana del 7 maggio 2003, ove si rappresentava l’urgenza in vista della prossima scadenza del mandato del Presidente in carica. Anche tale richiesta rimaneva, però, priva di effetti.

A questo punto, il Ministro designava, quale Commissario della Autorità portuale di Livorno, il candidato sul quale la Regione aveva già manifestato il proprio dissenso. In sostanza, non soltanto venivano eluse le procedure volte a ricercare una effettiva intesa, ma venivano a realizzarsi le premesse per una designazione sine die di un organo «sostitutivo» di quello designando ex lege.

Da ciò la giusta doglianza relativa alla sostanziale elusione della procedura della intesa, con il corollario della illegittimità di una procedura «alternativa» destinata a consentire, nei fatti, alla amministrazione statale la scelta unilaterale della persona cui affidare la presidenza della Autorità portuale di Livorno.

5. Il potere estero delle Regioni

Con riferimento ai limiti entro i quali le Regioni possono svolgere attività che si proiettino oltre i confini nazionali, è da sottolineare la sentenza n. 387, nella quale la Corte non ravvisa una esorbitanza dai limiti assegnati dalla Costituzione alle regioni in materia di politica estera nell’art. 13 della legge della Regione Veneto 9 gennaio 2003, n. 2, il quale prevede che la Giunta regionale, nel caso si verifichino all’estero calamità naturali o particolari eventi sociali, economici o politici, può stipulare accordi con il Governo interessato che prevedano prestazioni di tipo socio-sanitario a favore dei cittadini italiani emigrati nati nel Veneto. Al riguardo, osserva la Corte che la questione è stata sollevata sul presupposto della mancanza – al momento della pubblicazione della legge regionale – di una disciplina statale di dettaglio e del carattere autoapplicativo (in senso marcatamente restrittivo) del nono comma dell’art. 117 Cost.; successivamente alla proposizione del ricorso, peraltro, è entrata in vigore la legge statale per l’esercizio del potere estero regionale riconosciuto direttamente dalla Costituzione (art. 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131), in relazione alla quale, nella sentenza n. 238 del 2004, si è affermato che le nuove disposizioni costituzionali non si discostano dalle linee fondamentali già enunciate in passato, consistenti nella riserva allo Stato della competenza sulla politica estera, nell’ammissibilità di un’attività internazionale delle Regioni e nella subordinazione di questa alla possibilità effettiva di un controllo statale sulle iniziative regionali, al fine di evitare contrasti con le linee della politica estera nazionale, fermo restando l’espresso riconoscimento di un «potere estero» delle Regioni, cioè della potestà, nell’ambito delle proprie competenze, di stipulare, oltre ad intese con enti omologhi esteri, anche veri e propri accordi con Stati, sia pure nei casi e nelle forme determinati da leggi statali. In conclusione, la Corte ritiene che la sopravvenuta emanazione della legge statale per l’esercizio del potere estero regionale riconosciuto direttamente dalla Costituzione fa venir meno i dubbi di legittimità sollevati col ricorso del Governo.

6. Le funzioni amministrative

Nelle decisioni passate in rassegna relativamente al riparto di competenze legislative sono presenti numerose, anche significative, affermazioni precipuamente concernenti le funzioni amministrative (si pensi, ad esempio, alla attrazione in sussidiarietà).

Non mancano, tuttavia, passaggi argomentativi che possono in questa sede essere analizzati, anche per la loro «autonomia» rispetto al riparto di competenze normative.

A tal proposito, viene in particolare rilievo il principio di continuità nell’esercizio delle funzioni amministrative. Nella sentenza n. 50, la Corte chiarisce che, se è vero che «l’allocazione delle funzioni amministrative nelle materie, come quella di cui si tratta [tutela e sicurezza del lavoro], di competenza concorrente, non spetta, in linea di principio, allo Stato», è però altresì vero che «vi sono funzioni e servizi pubblici che non possono subire interruzioni se non a costo di incidere su diritti che non possono essere sacrificati». Tali rilievi comportano che le funzioni delle Province continueranno a svolgersi secondo le disposizioni vigenti fin quando le Regioni non le avranno sostituite con una propria disciplina. La normativa va intesa, quindi, nel senso che le funzioni amministrative sono mantenute in capo alle Province senza precludere la possibilità di diverse discipline da parte delle Regioni. Sulla base di questa ratio è stata dichiarata non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera e), della legge n. 30 del 2003, che stabilisce, come principio e criterio direttivo da seguire nella nuova disciplina del collocamento, il «mantenimento da parte delle province delle funzioni amministrative, attribuite dal decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469».

In applicazione dei medesimi principî, la sentenza n. 384 ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera d), prima parte, della legge 14 febbraio 2003, n. 30, il quale enuncia tra i principî e criteri direttivi della delega di cui al comma 1 dello stesso articolo «il mantenimento da parte dello Stato delle funzioni amministrative relative alla vigilanza in materia di lavoro».

Precipuamente riguardanti l’esercizio di funzioni amministrative sono anche le questioni decise con la sentenza n. 388. In essa si esaminano le doglianze dello Stato avverso la legge della Regione Puglia 23 dicembre 2003, n. 29, che disciplina le funzioni amministrative in materia di tratturi. Nel ricorso si rileva che i tratturi, per la loro qualità di beni di interesse archeologico, rientrerebbero nella materia «tutela dei beni culturali» di competenza esclusiva statale. La Corte, dopo aver evidenziato che il demanio armentizio, nel quale rientrano i tratturi, è stato trasferito alle regioni, unitamente alle funzioni, ad opera dell’art. 66 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, ricorda che la legislazione della Regione Puglia ha stabilito che i tratturi vanno considerati alla stregua di un monumento della storia economica e sociale del territorio pugliese interessato dalle migrazioni stagionali degli armenti e testimonianza archeologica di insediamenti di varia epoca, che costituiscono il «Parco dei tratturi della Puglia». Tanto premesso, la Corte rileva che il Governo ricorrente, pur richiamando la competenza esclusiva dello Stato riguardo alla tutela dei beni culturali, non contesta in radice la legittimazione della Regione Puglia a stabilire la disciplina dei tratturi, quanto piuttosto si duole del modo in cui la Regione ha esercitato i propri poteri.

In particolare, il ricorrente censura anzitutto le disposizioni che disciplinano la formazione e i contenuti del piano dei tratturi, assumendo che tale normativa «si pone in contrasto con gli articoli 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto può determinare una utilizzazione delle aree tratturali in deroga al regime di tutela loro imposto ed una conseguente successiva alienazione o destinazione ad altri fini pubblici non precisati», e che «l’esercizio della tutela è prerogativa dello Stato e può essere oggetto di intesa e coordinamento con le regioni solo entro i limiti fissati dalla legge statale, che nel caso è stata violata con l’effetto che la disposizione risulta in contrasto anche con l’art. 118, terzo comma, Cost.».

Le disposizioni regionali vengono, inoltre, censurate perché consentono la realizzazione di opere in zone di interesse archeologico e sottoposte a vincolo paesaggistico senza le prescritte autorizzazioni, mediante il solo parere della Soprintendenza, ed inoltre perché prevedono la regolarizzazione di opere edilizie abusive, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e s), Cost., «potendo la sanatoria comportare il venir meno delle sanzioni penali collegate all’abuso».

Tutto ciò, secondo il ricorrente, sul presupposto che la normativa attenga alla tutela dei beni culturali in questione, ma – sempre ad avviso del ricorrente – se si volesse far riferimento alla materia di competenza ripartita della valorizzazione dei detti beni, le disposizioni sarebbero egualmente illegittime perché in contrasto con il principio fondamentale fissato nell’art. 97 del t.u. n. 490 del 1999, secondo il quale le norme sulla valorizzazione dei beni culturali devono essere in armonia con quelle sulla loro tutela.

La Corte, nel dichiarare le censure non fondate, sottolinea che il ricorrente, pur evocando il secondo comma, lettera s), dell’art. 117 Cost., non solo non contesta la competenza legislativa in materia della Regione, ma neppure ha impugnato la legge regionale là dove stabilisce che i tronchi tratturali sono conservati e tutelati dalla Regione Puglia, che ne promuove la valorizzazione anche per mezzo di forme indirette di gestione.

Se dunque ciò di cui il ricorrente si duole non è il fatto in sé che la Regione abbia legiferato sui tratturi e sulla loro valorizzazione quali testimonianze del passato, resta anzitutto privo di fondamento il richiamo agli articoli 9 e 117 Cost.

Sulle censure relative al contenuto specifico delle disposizioni, la Corte rileva che il piano dei tratturi, proposto dal Comune, viene discusso in una Conferenza di servizi nel cui ambito non soltanto la Soprintendenza archeologica ma anche quella per i beni architettonici e per il paesaggio esprimono parere vincolante. Alle Soprintendenze spetta quindi un potere che va molto al di là di una funzione meramente consultiva, in quanto i loro pareri non possono essere disattesi. Gli atti degli organi statali, ancorché assumano la forma del parere, svolgono una funzione determinante per il contenuto del Piano dei tratturi, tanto da potersi rilevare che spetta alle Soprintendenze esprimersi in modo vincolante per gli altri enti sulla individuazione e sulla perimetrazione dei tratturi che conservano l’originaria consistenza o possono in questa essere reintegrati.

Il Piano dei tratturi, nella cui formazione lo Stato, mediante il giudizio vincolante dei suoi organi a ciò deputati per la loro competenza, ha una parte decisiva, costituisce la base dell’ulteriore disciplina dei tratturi, distinti nel modo che si è detto.

La previsione della costruzione di opere pubbliche e di pubblico interesse da parte di enti pubblici, disciplinata dall’art. 3, comma 2, della legge regionale n. 29 del 2003, per quanto riguarda i tronchi tratturali va messa in relazione con quanto disposto dal comma 1 dello stesso articolo (non impugnato), nella parte in cui attribuisce alla Regione la valorizzazione dei detti beni anche mediante forme di gestione indiretta.

Ma ciò che più conta è che la costruzione delle suindicate opere è subordinata al parere favorevole della Soprintendenza, alla quale perciò spetta il potere di impedirla qualora ne possa venir compromessa la consistenza originaria del tratturo.

A conclusioni simili si deve pervenire riguardo alla regolarizzazione delle opere già esistenti, ma successive alla imposizione del vincolo.

È vero che in questo caso il parere della Soprintendenza non è definito «né vincolante né favorevole», ma la lettura corretta della disposizione nel contesto della complessa normativa in cui è inserita – e nella quale i pareri finora esaminati sono tutti da considerare «vincolanti» (il termine «favorevole» assume lo stesso significato) – comporta che anche per la regolarizzazione delle opere già edificate, come per quelle da costruire, il parere della Soprintendenza deve ritenersi vincolante. Sarebbe illogico ritenere che la Soprintendenza sia competente a giudicare se una nuova opera sia compatibile con la natura del bene da tutelare e non lo sia invece – dovendosi limitare in ipotesi a manifestare una mera opinione riguardo ad una costruzione già esistente – quando anche da questa possa derivare una compromissione della peculiare natura del bene. Si deve ribadire, con riguardo alla disposizione in esame, il principio secondo il quale, tra diverse possibili interpretazioni, è necessario scegliere quella che non dà luogo a contrasti con principî costituzionali.

A quanto detto la Corte aggiunge che il comma 3 dell’art. 3, relativo all’apposizione del vincolo, si apre con l’espressione «fermi restando tutti gli altri vincoli territoriali», e condiziona inoltre esplicitamente la regolarizzazione alla conformità «alla vigente normativa». Ciò significa che le particolarità della disposizione, con l’espressa previsione del parere della Soprintendenza, da intendersi vincolante, si aggiungono alla disciplina generale sulle sanatorie (come dimostra il rinvio finale alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, di cui al comma 4 dello stesso articolo) e la sostituiscono soltanto per quanto concerne il prezzo (v. art. 3, comma 3, lettera b, e art. 4). E tanto esclude in radice la lamentata interferenza con la «materia penale», prospettata dal ricorrente evocando l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

Non fondata, infine, è altresì la censura che si appunta sul comma l, lettera b), dell’art. 4 della stessa legge regionale, che disciplina l’alienazione all’utilizzatore possessore di tronchi tratturali inclusi sotto le lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 2.

Trattasi, infatti, di tronchi dei quali, con il parere vincolante delle Soprintendenze, è stata già accertata la perdita irreversibile della originaria consistenza, cioè della loro caratteristica di tratturi e, come tale, di beni di interesse archeologico, per i quali l’alienazione è subordinata alla sdemanializzazione.

7. L’autonomia finanziaria

La Corte è ripetutamente intervenuta, nel corso del 2005, sulla tematica dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali. Molte statuizioni sono già state prese in considerazione nei paragrafi precedenti, dal momento che ai profili dell’autonomia finanziaria si associavano problemi connessi al riparto di competenze normative. Di seguito si riportano, dunque, le decisioni che hanno avuto precipuo riguardo all’applicazione dell’art. 119 della Costituzione.

7.1. La potestà normativa in tema di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»

In varie occasioni, la Corte ha avuto modo di fornire indicazioni relative alla ripartizione di competenze normative in materia di «finanza pubblica» (articoli 117, terzo comma, e 119 della Costituzione).

Sulla base della giurisprudenza pregressa, la Corte, nella sentenza n. 64, rileva che «non è contestabile il potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, pur se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti»; ma «se rientra nei limiti delle norme che lo Stato ha la competenza ad emanare nella materia del coordinamento della finanza pubblica, la previsione di un’ingerenza, nell’attività di Regioni ed enti locali, esercitata da un organo dello Stato, a maggior ragione deve ritenersi legittimo il controllo svolto da un organo terzo quale è la Corte dei conti» (l’eliminazione dei controlli di legittimità sugli atti amministrativi degli enti locali, a seguito dell’abrogazione del primo comma dell’art. 125 e dell’art. 130 della Costituzione, non esclude «la persistente legittimità, da un lato, dei c.d. controlli interni […] e, dall’altro, dell’attività di controllo esercitata dalla Corte dei conti». Alla luce di tali considerazioni, viene stabilito che l’art. 23, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (secondo cui i provvedimenti di riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente procura della Corte dei conti), è espressione di un principio fondamentale in materia di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica», tendente a soddisfare esigenze di contenimento della spesa pubblica e di rispetto del patto di stabilità interno.

La Corte riconosce – con la sentenza n. 417 – la natura di principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alle disposizioni dettate, per il contenimento della spesa pubblica, dall’art. 1, comma 4, del decreto legge 12 luglio 2004, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2004, n. 191, che attribuiscono alle amministrazioni pubbliche la facoltà di scegliere tra il ricorso alle convenzioni stipulate dal Ministero del tesoro, cosiddette convenzioni Consip e, in alternativa, l’utilizzazione dei parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l’acquisto di beni e servizi comparabili e che fissano l’obbligo di trasmissione alle strutture e agli uffici interni preposti al controllo di gestione dei provvedimenti con cui le amministrazioni pubbliche deliberano di procedere in modo autonomo a singoli acquisti di beni e servizi.

Ribadisce, infatti, la Corte (sentenza n. 36 del 2004) che «non può contestarsi la legittimità costituzionale della norma che consente agli enti autonomi di aderire alle convenzioni statali, trattandosi di previsione meramente facoltizzante. Ma anche l’obbligo imposto di adottare i prezzi delle convenzioni come base d’asta al ribasso per gli acquisti effettuati autonomamente, pur realizzando un’ingerenza non poco penetrante nell’autonomia degli enti quanto alla gestione della spesa, non supera i limiti di un principio di coordinamento adottato entro l’ambito della discrezionalità del legislatore statale».

Anche le norme che fissano l’obbligo di trasmissione agli organi interni di revisione contabile delle delibere di acquisto in via autonoma vanno ricondotte agli stessi principî fondamentali di coordinamento, in ragione del loro «carattere strumentale» rispetto al suddetto obbligo di adottate i parametri previsti da dette convenzioni.

Non viene, inoltre, ravvisato alcun contrasto con le norme statutarie che attribuiscono alla ricorrente Regione Valle d’Aosta la potestà legislativa esclusiva e le correlative funzioni amministrative nelle materie dell’«ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla regione» e «dell’ordinamento degli enti locali» (articoli 2, primo comma, lettere a e b, e 4 dello statuto speciale), poiché le attività dirette all’acquisto di beni o servizi da parte delle amministrazioni non sono riconducibili a tali materie, dovendo esse considerarsi, al più, strumentali al funzionamento di detti uffici ed enti.

La disposizione secondo la quale, nell’ambito dei sistemi di controllo di gestione sugli enti locali, la struttura operativa cui è assegnata la funzione del controllo di gestione fornisce la conclusione del controllo stesso, oltre che agli amministratori e ai responsabili dei servizi, anche alla Corte dei conti, non crea, contrariamente a quanto sostiene la Regione Campania, un’irragionevole interferenza fra controllo interno di gestione e accertamenti della Corte dei conti, poiché secondo la Corte, un tale obbligo non è di per sé idoneo a pregiudicare l’autonomia delle regioni e degli enti locali, in quanto esso deve essere considerato «espressione di un coordinamento meramente informativo».

La Corte ricorda, poi, la sua costante giurisprudenza sulla legittimità costituzionale delle norme che disciplinano gli obblighi di trasmissione di dati finalizzati a consentire il funzionamento del sistema dei controlli sulla finanza di regioni ed enti locali, riconducendole ai principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, con funzione regolatrice della cosiddetta «finanza pubblica allargata», allo scopo di assicurare il rispetto del patto di stabilità.

A tale finalità dell’azione di coordinamento finanziario consegue che «a livello centrale si possono collocare non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia», ma altresì la determinazione di norme e puntuali, quali quelle relative alla disciplina degli obblighi di invio di informazioni sulla situazione finanziaria dalle regioni e dagli enti locali alla Corte dei conti. La fissazione di dette norme da parte del legislatore statale è diretta, infatti, a realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario – che per sua natura eccede le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali – e, proprio perché viene «incontro alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di rispetto del patto di stabilità interno», è idonea a realizzare l’ulteriore finalità del buon andamento delle pubbliche amministrazioni (sentenza n. 64 del 2005).

Pertanto, va escluso che la norma impugnata, determinando un puntuale obbligo di comunicazione di dati a carico degli enti locali, si ponga in contrasto con gli evocati parametri costituzionali.

Ne discende che non sussiste alcuna irragionevole interferenza tra controllo interno di gestione e accertamenti della Corte dei conti, perché proprio la finalità del coordinamento finanziario giustifica il raccordo tra i due tipi di controllo, operato dalla norma censurata attraverso la fissazione dell’obbligo di comunicazione alla Corte dei conti dell’esito del controllo interno, realizzando così quella finalità collaborativa cui fa espresso riferimento l’art. 7, comma 7, della legge n. 131 del 2003.

Sempre nella sentenza n. 417, la Corte viene chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dei commi 9, 10, 11 dell’art. 1 del decreto legge n. 168 del 2004, i quali introducono puntuali vincoli riguardanti le spese per studi e incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all’amministrazione, missioni all’estero, rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni, nonché le spese per l’acquisto di beni e servizi.

In particolare, il comma 9 limita, per l’anno 2004, la spesa di Regioni ed enti locali, relativa a «studi ed incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all’amministrazione»; prevede che «l’affidamento di incarichi di studio o di ricerca, ovvero di consulenze a soggetti estranei all’amministrazione in materie e per oggetti rientranti nelle competenze della struttura burocratica dell’ente, deve essere adeguatamente motivato» e limitato ai soli casi previsti dalla legge o all’ipotesi di eventi straordinari, previa comunicazione – a pena di illecito disciplinare e conseguente responsabilità erariale – agli organi di controllo ed agli organi di revisione di ciascun ente; stabilisce che le pubbliche amministrazioni adottano le direttive – comunicate in via preventiva alla Corte dei conti – conseguenti all’applicazione dei suddetti vincoli di spesa, «nell’esercizio dei diritti dell’azionista nei confronti delle società di capitali a totale partecipazione pubblica».

Ad avviso delle ricorrenti, che le norme in questione non si limiterebbero a fissare l’entità massima del disavanzo o del complesso della spesa corrente di Regioni ed enti locali, ma specificando ed elencando le singole tipologie delle spese che gli enti territoriali devono contenere nell’ambito delle percentuali previste dalle stesse norme, porrebbero vincoli non riconducibili a principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica.

Nel dichiarare le questioni fondate, la Corte ribadisce il principio costantemente affermato, per cui le norme che fissano vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle regioni e degli enti locali non costituiscono principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, e ledono pertanto l’autonomia finanziaria di spesa garantita dall’art. 119 della Costituzione.

Secondo tale giurisprudenza, il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio (ancorché si traducano, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti), ma solo, con «disciplina di principio», «per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari». Perchè detti vincoli possano considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali debbono avere ad oggetto o l’entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo «in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale» – la crescita della spesa corrente degli enti autonomi; in altri termini, la legge statale può stabilire solo un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» (sentenza n. 36 del 2004).

Nella specie, la Corte constata che le disposizioni censurate – introducendo limiti alle spese per studi e incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all’amministrazione, alle spese per missioni all’estero, rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni, nonché alle spese per l’acquisto di beni e servizi – stabiliscono vincoli che, riguardando singole voci di spesa, non costituiscono principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ma comportano una inammissibile ingerenza nell’autonomia degli enti quanto alla gestione della spesa.

Infine, sulla base di principî giurisprudenziali ormai consolidati, la Corte dichiara, con la sentenza n. 449, la incostituzionalità dell’art. 3, comma 75, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, nella parte in cui stabilisce che al «personale delle amministrazioni che si reca all’estero per ragioni di servizio nell’ambito dell’Unione europea spetta il pagamento delle sole spese di viaggio aereo nella classe economica».

La Corte ribadisce che la previsione, da parte della legge statale, di limiti all’entità di una singola voce di spesa della Regione non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica, perché pone un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa e si risolve perciò in una indebita invasione dell’area riservata dall’art. 119 della Costituzione alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi. Pertanto, il vincolo puntuale di spesa deve essere dichiarato illegittimo, nella parte in cui si applica al personale delle Regioni.

La distinzione tra «principî fondamentali» e «norme di dettaglio», che disegna il riparto di competenze nelle materie di legislazione concorrente, peraltro, non sempre è agevolmente percepibile. In tal senso, giova dar conto dell’iter argomentativo seguito dalla Corte nella sentenza n. 30, là dove sono state rintracciate entrambe le due categorie di norme. L’art. 25 della legge 23 dicembre 2002, n. 289, oggetto del giudizio, che disciplina il pagamento e la riscossione delle somme di modesto ammontare, operando anche un rinvio a regolamenti ministeriali, di cui fissa il contenuto «in modo specifico e preciso», viene ricondotto pianamente all’ambito competenziale del «coordinamento della finanza pubblica».

Atteso che, con riferimento ai destinatari, la disciplina dettata dalla norma è applicabile a tutte le amministrazioni pubbliche, la Corte evidenzia che «la normativa impugnata è pienamente legittima per quanto riguarda gli uffici statali dal momento che lo Stato può legiferare, anche con le modalità previste dall’art. 25, riguardo ai propri uffici, rientrando, oltretutto, tale incombenza, nella competenza esclusiva prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost.».

A diverse conclusioni si perviene per la parte in cui la norma si indirizza anche ad enti non statali (Regioni, Province, Comuni, Comunità montane). A tal proposito, si è opera una distinzione tra la disciplina rimessa ai regolamenti e la disciplina positiva direttamente dettata.

La disposizione legislativa rinvia alla normazione secondaria, della quale al primo comma si indica l’oggetto, che è appunto quello della «disciplina del pagamento e della riscossione di crediti di modesto ammontare e di qualsiasi natura, anche tributaria», e al secondo comma se ne fissa il contenuto imprescindibile, costituito da: a) gli importi corrispondenti alle somme considerate di modesto ammontare; b) le modalità di considerazione di detti importi (nel senso che occorrerà stabilire quali somme dovranno considerarsi onnicomprensive di interessi o sanzioni comunque denominate); c) le norme riguardanti l’esclusione di qualsiasi azione cautelativa, ingiuntiva ed esecutiva. Per quanto riguarda questa disciplina, rimessa a regolamenti di delegificazione, si sottolinea che la legge «non può spogliarsi della funzione regolativa affidandola a fonti subordinate, neppure predeterminandone i principî che orientino l’esercizio della potestà regolamentare per circoscriverne la discrezionalità […], con la conseguente illegittimità costituzionale della norma che prevede l’applicabilità degli emanandi regolamenti anche alle Regioni».

Per altro verso, la norma reca disposizioni direttive per le emanande norme secondarie, stabilendo che: a) esse possono riguardare anche periodi d’imposta precedenti; b) non devono in ogni caso intendersi come franchigia, nel senso che, per debiti di maggior ammontare rispetto agli importi fissati come modesti, l’importo modesto non può essere previsto come riduzione del debito o del credito (ultima parte del secondo comma); c) gli importi vanno arrotondati all’unità euro (quarto comma, prima parte); d) in sede di prima applicazione dei decreti, l’importo minimo non può essere inferiore a 12 euro; e) non possono ricomprendersi tra le somme considerate di modesto ammontare i corrispettivi per servizi resi dalle pubbliche amministrazioni a pagamento (terzo comma). Ad avviso della Corte, «la disciplina positiva introdotta deve essere intesa non soltanto come complesso di direttive per la redazione della normativa secondaria, che riguarderà la sola organizzazione statale, ma anche come nucleo di principî fondamentali cui deve ispirarsi l’esercizio della legislazione concorrente delle Regioni». Per quanto il carattere della «modestia» del credito debba essere stabilito caso per caso – e questo può essere oggetto d’intervento regolamentare per lo Stato e di legislazione concorrente per le Regioni – la seconda parte dell’art. 25 pone regole di cui, pur nell’applicabilità a quanto sarà via via considerato «somma di modesto ammontare», non si può non riconoscere il carattere di legislazione di principio.

Dalla così ricostruita compenetrazione di principî e norme di dettaglio, la Corte deduce la necessità di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, «nella parte in cui prevede che, con uno o più decreti, il Ministro dell’economia e delle finanze adotti, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, disposizioni relative alla disciplina del pagamento e della riscossione di crediti di modesto ammontare e di qualsiasi natura, anche tributaria, applicabili alle Regioni, valendo tuttavia le disposizioni direttive positivamente dettate, come nucleo di principî fondamentali cui deve ispirarsi l’esercizio della legislazione concorrente delle Regioni».

Dalla giurisprudenza costituzionale, emerge una frequente compenetrazione del titolo competenziale inerente al coordinamento della finanza pubblica con altri. In particolare, nella sentenza n. 35 viene in rilievo il collegamento con la competenza relativa al «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» (art. 117, secondo comma, lettera r). Oggetto del giudizio della Corte è l’art. 28 della legge 27 novembre 2002, n. 289, che disciplina l’attività di acquisizione, da parte del Ministero dell’economia, delle informazioni concernenti la gestione finanziaria delle amministrazioni pubbliche, mirando in tal modo ad assicurare al Ministero gli strumenti conoscitivi necessari per seguire le complessive dinamiche della finanza pubblica, così da facilitare la verifica del rispetto degli obblighi derivanti, in via diretta (art. 104 TCE) o mediata (alla stregua del cosiddetto «Patto di stabilità interno»), dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (commi 1-4). Il medesimo articolo, ai commi 5 e 6, abilita lo Stato, con decreti ministeriali, a determinare le caratteristiche uniformi nella rappresentazione dei dati contabili delle amministrazioni pubbliche, nonché le modalità di invio dei bilanci da parte degli enti locali alla competente sezione di controllo della Corte dei conti.

I primi quattro commi dell’articolo impugnato sono ritenuti espressione della competenza legislativa concorrente in tema di «coordinamento della finanza pubblica»; materia che, «come [la] Corte ha avuto modo di chiarire (sentenza n. 36 del 2004), legittima l’imposizione di vincoli agli enti locali quando lo rendano necessario ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali (comprensivi, dunque, della cosiddetta “finanza pubblica allargata”), a loro volta condizionati dagli obblighi comunitari». I poteri di determinazione, rispettivamente, della cosiddetta «codificazione» dei dati contabili e delle modalità di invio da parte degli enti locali dei propri bilanci alla Corte dei conti sono, in tal senso, pienamente partecipi della finalità di coordinamento e insieme di regolazione tecnica, rilevazione dati e controllo, che connotano la legislazione in tema di coordinamento della finanza pubblica.

In ordine al denunciato carattere puntuale della disciplina statale, la Corte ribadisce quanto affermato nella sentenza n. 376 del 2003, onde precisare che «il coordinamento finanziario “può richiedere, per la sua stessa natura, anche l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo”, e che il carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento postula che “a livello centrale si possano collocare non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia, ma altresì i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento”, per sua natura eccedente le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali, “possa essere concretamente realizzata”».

Con specifico riguardo ai commi 5 e 6 (relativi, rispettivamente, alla predisposizione di modalità uniformi di codificazione di dati di rilievo contabile e di trasmissione dei bilanci degli enti locali alla competente sezione della Corte dei conti), viene individuato un puntuale titolo di competenza legislativa esclusiva dello Stato nel coordinamento statistico ed informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale: la predisposizione di modalità uniformi di rappresentazione (comma 5) e di trasmissione (comma 6) di dati contabili (incassi e pagamenti) ha la funzione di rendere omogenei e, quindi, di aggregare questi dati, «per poter così predisporre la base informativa necessaria al controllo delle dinamiche reali della finanza pubblica».

Ora, versandosi in un ambito riservato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, deve dichiararsi non fondata la denunciata violazione del riparto costituzionale della potestà regolamentare, per avere le disposizioni impugnate affidato a decreti ministeriali la concreta predisposizione delle modalità di «codificazione»: «in una materia rimessa alla propria competenza legislativa esclusiva, lo Stato ben può, infatti, esercitare, nelle forme che ritenga più opportune, la potestà regolamentare».

«Neppure – prosegue la sentenza – si può sostenere che, pur in una materia ascritta alla competenza legislativa esclusiva, il rispetto del principio di leale collaborazione imporrebbe allo Stato di garantire alle Regioni, quando esso regoli attività di queste ultime, una forma di codeterminazione paritaria del contenuto dell’atto». Peraltro, la previsione, nel comma 5, di un parere della Conferenza unificata «appare del tutto idonea ad assicurare il necessario coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali, tanto più in considerazione della natura eminentemente tecnica della disciplina di coordinamento statale».

L’autonomia finanziaria degli enti infrastatuali conosce limitazioni in relazione agli interessi che sono in gioco in determinate discipline. Ciò è particolarmente evidente nella sentenza n. 36, concernente alcune disposizioni in materia di sanità pubblica.

Il comma 4 dell’art. 52 della legge n. 289 del 2002, il quale prevede un adeguamento del finanziamento del servizio sanitario nazionale per gli anni 2003, 2004, 2005, cui le Regioni possono accedere subordinatamente a specifici adempimenti e condizioni, non risulta – ad avviso della Corte –lesivo dell’autonomia regionale, né determina, in violazione dell’art. 119, comma quarto, della Costituzione, uno «squilibrio strutturale» tra risorse finanziarie ed obbligazioni di spesa delle Regioni, incompatibile con il principio dell’integrale finanziamento delle funzioni pubbliche attribuite alle Regioni.

Al riguardo, la Corte ricorda che già in precedenti accordi tra Governo e Regioni e province autonome – finalizzati a definire «un quadro stabile di evoluzione delle risorse pubbliche destinate al finanziamento del servizio sanitario nazionale che, tenendo conto degli impegni assunti con il patto di stabilità e crescita, consenta di migliorarne l’efficienza razionalizzando i costi» lo Stato si era espressamente impegnato ad integrare, nei termini fissati nello stesso accordo, il finanziamento del servizio stesso, condizionatamente all’adozione di una serie di adempimenti da parte delle Regioni, al fine di conseguire la migliore efficienza e qualità del servizio sanitario, il cui mancato rispetto comportava per la Regione inadempiente il ripristino del livello di finanziamento stabilito nel precedente accordo.

La disposizione in esame va dunque inserita in questo articolato quadro normativo, dal quale emerge costante il carattere «incentivante» del finanziamento statale ai fini del conseguimento degli obiettivi di programmazione sanitaria e del connesso miglioramento del livello di assistenza. Pertanto, gli ulteriori adempimenti richiesti alle Regioni costituiscono condizione necessaria per «l’accesso all’adeguamento del finanziamento del S.s.n.», in conformità al consolidato schema perdurando l’attuale regime transitorio di applicazione dell’art. 119 della Costituzione (cfr. sentenza n. 36 del 2004) di regolazione finanziaria tra Stato e Regioni nel settore sanitario.

Altresì non fondata risulta la censura concerne concernente l’art. 52, comma 4, lettera c), della legge n. 289 del 2002, nella parte in cui subordina l’accesso delle Regioni al finanziamento integrativo alla condizione che siano eliminate o significativamente contenute le liste di attesa, mediante lo svolgimento, presso gli ospedali pubblici, degli accertamenti diagnostici in maniera continuativa, fino alla copertura del servizio per i sette giorni della settimana.

Rileva la Corte che la previsione della legge statale concernente «adeguate iniziative» regionali per favorire lo svolgimento continuativo degli accertamenti diagnostici non impone obblighi lesivi della competenza legislativa regionale, ma costituisce la prefissione di un principio in termini di risultato, che lascia alla discrezionalità delle Regioni la scelta delle misure organizzative più appropriate per la realizzazione degli scopi indicati. È infatti evidente che l’individuazione delle prestazioni essenziali, cui hanno diritto gli assistiti del servizio sanitario nazionale, rientra tra i compiti specifici del legislatore e della programmazione statali, anche per rendere confrontabili, nell’ambito dell’unitarietà del servizio sanitario, le prestazioni rese (sentenze nn. 507 e 63 del 2000).

Né la norma impugnata vincola l’autonomia regionale nel settore dell’organizzazione sanitaria, tenendo, a tale scopo, presenti (cfr. sentenza n. 88 del 2003) gli accordi in materia, sulle modalità di accesso alle prestazioni diagnostiche e indirizzi applicativi sulle liste di attesa, iniziative dirette al conseguimento di obiettivi, senza maggiori oneri per lo Stato e neppure per le Regioni, dovendosi fare fronte a tali spese con il recupero di risorse inutilizzate e conseguenti forme di risparmio.

La Corte non ritiene inoltre che l’art. 52, comma 4, lettera d) della legge n. 289 del 2002 – nella parte in cui subordina l’accesso delle Regioni al finanziamento integrativo del servizio sanitario nazionale alla condizione che esse adottino provvedimenti diretti a prevedere la decadenza automatica dei direttori generali nell’ipotesi di mancato raggiungimento dell’equilibrio economico delle aziende sanitarie ed ospedaliere – sia lesiva dell’autonomia legislativa e finanziaria regionale.

Rileva, in proposito, la Corte che la norma impugnata non può essere considerata, per il suo tenore letterale, come impositiva di un obbligo cogente, che elimini in materia ogni spazio di autonomia legislativa ed organizzativa regionale, spettando, comunque, al legislatore regionale la competenza a determinare i presupposti sostanziali e le forme procedimentali per infliggere la predetta sanzione ai direttori generali. Pertanto, la norma in esame deve essere letta come recante un principio che «sollecita» le Regioni a configurare, per le ipotesi di mancato conseguimento dell’equilibrio economico delle aziende sanitarie, un’apposita disciplina relativa all’irrogazione della misura della decadenza dei rispettivi direttori generali.

Non fondata risulta pure la censura avente ad oggetto il medesimo art. 52, comma 19, della legge n. 289 del 2002, nella parte in cui limita la possibilità per le imprese farmaceutiche di contribuire ad organizzare, mediante finanziamenti anche indiretti, convegni, congressi o riunioni, nella misura massima del 50% di quelli notificati al Ministro della salute, esonerando da tale limitazione solo gli eventi espressamente autorizzati dalla Commissione nazionale per la formazione continua.

La norma in esame, sottolinea la Corte, contiene un principio di razionalizzazione e contenimento della spesa farmaceutica a carico del servizio sanitario nazionale, dato il concreto rischio che i predetti oneri organizzativi delle imprese farmaceutiche possano trasferirsi sui prezzi anche dei medicinali forniti dalle stesse al servizio sanitario, con conseguente aumento dei costi da esso sopportati. In ogni caso, le eventuali limitazioni alle iniziative «promozionali» delle imprese farmaceutiche non possono pregiudicare in alcun modo l’autonomia organizzativa della Regione.

7.2. La disciplina dei tributi

In ordine alla disciplina dei tributi, si segnalano due decisioni, entrambe relative a disposizioni legislative regionali o provinciali.

La sentenza n. 431, nell’ambito del giudizio sulla legge della Provincia autonoma di Bolzano 19 ottobre 2004, n. 7, recante disposizioni per la valorizzazione nella Provincia del servizio civile, la Corte respinge la doglianza avverso l’art. 6, comma 7, secondo cui la Giunta provinciale determina le esenzioni o riduzioni sui tributi locali a favore dei volontari e degli enti di servizio civile. La censura è stata avanzata dal Governo sul presupposto della genericità di tali benefici fiscali, che non indicherebbe se si tratti di tributi propri o attribuiti dallo Stato. La Corte replica che la disposizione si riferisce solo a quelli che possono definirsi a pieno titolo «propri» delle Province o degli enti locali, nel senso che essi sono frutto di una loro autonoma potestà impositiva, e quindi possono essere disciplinati da leggi o regolamenti della Provincia, nel rispetto solo dei principî di coordinamento.

Nella sentenza n. 455, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, e dell’art. 11 della legge della Regione Liguria 4 febbraio 2005, n. 3, dove si prevedono casi di esenzione dalla tassa automobilistica, non contemplati dalla norma statale, per i veicoli di particolare interesse storico o collezionistico, e si dispone che per i veicoli adibiti al trasporto merci con massa complessiva sino a 6 tonnellate non è dovuta la maggiorazione della tassa automobilistica in relazione alla massa rimorchiabile.

Al riguardo, la Corte ricorda che, in tema di ripartizione delle competenze legislative concernenti la cosiddetta tassa automobilistica regionale, il legislatore statale, pur attribuendo alle Regioni ad autonomia ordinaria il gettito della tassa ed un limitato potere di variazione dell’importo originariamente stabilito, oltre che l’attività amministrativa concernente la riscossione, i rimborsi, il recupero della tassa stessa e l’applicazione delle sanzioni, non ha tuttavia fino ad ora sostanzialmente mutato gli altri elementi costitutivi del tributo. Quindi, la tassa automobilistica non può oggi definirsi come un «tributo proprio della Regione» ai sensi dell’art. 119, secondo comma, della Costituzione, dal momento che la tassa stessa è stata «attribuita» alle Regioni, ma non rientra nella asserita competenza legislativa residuale delle stesse ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. Si deve quindi confermare il principio per cui «allo stato della vigente legislazione, la disciplina delle tasse automobilistiche rientra nella competenza esclusiva dello Stato in materia di tributi erariali», ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione (sentenze nn. 311, 297 e 296 del 2003).

Sulla base di tale principio, conclude la Corte, la norme regionali impugnate sono illegittime, perché intervengono su aspetti della disciplina sostanziale del tributo riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

7.3. Gli interventi finanziari diretti dello Stato

Uno dei temi sui quali la Corte costituzionale è stata più frequentemente chiamata ad intervenire è quello relativo ai finanziamenti diretti da parte dello Stato a favore di enti infrastatuali o di privati. Le relative decisioni sono già state esaminate in relazione alla ripartizione delle competenze normative, ché è sulla base del titolo competenziale adducibile che tali finanziamenti possono dirsi legittimi o meno.

In due occasioni, peraltro, più che sulla precisa individuazione della competenza materiale, la Corte – una volta constatata la competenza regionale in merito alla disciplina dettata – si è concentrata essenzialmente sul tipo di finanziamento previsto dalle disposizioni legislative statali, onde escludere la loro legittimità.

Con la sentenza n. 77, si accolgono le doglianze della regione ricorrente avverso l’art. 4, commi 209, 210 e 211, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che reca incentivi agli investimenti delle imprese marittime per il rinnovo e l’ammodernamento della flotta nonché per la costruzione e trasformazione di unità navali.

Motiva la Corte che è stato più volte affermato che – dopo la riforma costituzionale del 2001 ed in attesa della sua completa attuazione in tema di autonomia finanziaria delle Regioni – l’art. 119 della Costituzione pone, sin d’ora, al legislatore statale precisi limiti in tema di finanziamenti in materie di competenza legislativa regionale, residuale o concorrente.

In primo luogo, la legge statale non può – in tali materie – prevedere nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, che possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza.

In secondo luogo – poiché le funzioni attribuite alle Regioni comprendono la possibilità di erogazione di contributi finanziari a soggetti privati, dal momento che in numerose materie di competenza regionale le politiche pubbliche consistono appunto nella determinazione di incentivi economici ai soggetti in esse operanti e nella disciplina delle modalità per loro erogazione – il tipo di ripartizione delle materie fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost. vieta comunque che in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze.

I finanziamenti in esame non concernono materie rientranti nella competenza esclusiva dello Stato.

Non si può invocare, al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte sulla portata della «tutela della concorrenza», attribuita alla competenza esclusiva dello Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione (sentenze nn. 14 e 272 del 2004).

Questa norma, infatti, «evidenzia l’intendimento del legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese; strumenti tutti finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico. L’intervento statale si giustifica, dunque, per la sua rilevanza macroeconomica: solo in tale quadro è mantenuta allo Stato la facoltà di adottare sia specifiche misure di rilevante entità, sia regimi di aiuto ammessi dall’ordinamento comunitario (fra i quali gli aiuti de minimis), purché siano in ogni caso idonei ad incidere sull’equilibrio economico generale» (sentenza n. 14 del 2004).

L’esame delle norme impugnate dimostra invece che i finanziamenti in questione sono inidonei «ad incidere sull’equilibrio economico generale», essendo privi tanto del requisito soggettivo dell’«accessibilità a tutti gli operatori», quanto di quello oggettivo dell’«impatto complessivo».

Il primo requisito manca per la limitatezza dell’ambito dei soggetti beneficiari, circoscritto alle sole imprese che abbiano effettuato investimenti di un certo tipo nell’anno 2003; il secondo per l’esiguità dei mezzi economici impegnati nel quadro della complessiva manovra disposta con la legge finanziaria del 2004.

La manovra mira piuttosto ad incentivare, con misure di carattere straordinario e transitorio, non tutto il sistema armatoriale ma taluni investimenti effettuati dalle imprese marittime, per il rinnovo e l’ammodernamento della flotta, nonché per la costruzione e la trasformazione delle unità navali.

Le norme in esame non possono neppure essere ricondotte alla materia della «tutela dell’ambiente», evocata dall’Avvocatura nel senso che gli interventi in esame sarebbero giustificati (anche) dalla finalità di promuovere la costruzione di navi cisterna a basso impatto ambientale.

Infatti la «tutela dell’ambiente» è estranea (o, comunque, assolutamente marginale) rispetto alle specifiche finalità dei finanziamenti in esame, che quindi non possono, sotto tale profilo, essere ricondotti ad una materia di competenza statale.

Pertanto le norme impugnate – non essendo riconducibili alle materie attribuite dall’art. 117, secondo comma, della Costituzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ed essendo come tali lesive della sfera di competenza costituzionalmente garantita alle Regioni – devono essere dichiarate costituzionalmente illegittime.

Nella sentenza n. 107, si dichiara l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117 della Costituzione, dell’art. 4, commi 215, 216 e 217, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, in quanto non è dato rinvenire un titolo di attribuzione della materia alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

La Corte, dopo aver descritto il contenuto delle norme – nelle quali a) è prevista l’istituzione di un apposito fondo (con dotazione di 1 milione di euro per l’anno 2004, 1 milione di euro per l’anno 2005 e 1 milione di euro per l’anno 2006), al fine di sostenere le attività dei distretti industriali della nautica da diporto; b) si stabilisce che il fondo è «destinato all’assegnazione di contributi, per l’abbattimento degli oneri concessori, a favore delle imprese o dei consorzi di imprese operanti nei distretti industriali dedicati alla nautica da diporto, che insistono in aree del demanio fluviale e che ospitano in approdo almeno cinquecento posti barca»; c) è rimessa ad un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze la individuazione delle aree di cui innanzi e la definizione delle modalità di assegnazione dei contributi – respinge la tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale le disposizioni impugnate prevedrebbero un abbattimento dei canoni di concessione demaniale e sarebbero, pertanto, di natura «parafiscale», per l’evidente incompatibilità tra l’asserita natura e la peculiarità e selettività dei requisiti richiesti ai potenziali beneficiari delle c.d. misure agevolative.

In definitiva, la peculiarità dei requisiti e l’esiguità delle somme globalmente stanziate escludono in radice la possibilità di qualificare le disposizioni impugnate come volte a favorire la concorrenza ovvero anche di ricondurle alla facoltà, riconosciuta allo Stato dall’art. 119, comma quinto, Cost., di destinare risorse al fine di promuovere lo sviluppo economico; tanto meno è possibile sostenere che il finanziamento di «imprese operanti nei distretti industriali dedicati alla nautica da diporto, che insistono in aree del demanio fluviale e che ospitano in approdo almeno cinquecento posti barca» rientri in taluna delle materie di cui all’art. 117, comma secondo, della Costituzione.

Consegue da ciò che va dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate.

7.4. Il demanio regionale

Nella sentenza n. 302, la Corte dichiara che spetta allo Stato, e per esso al Provveditorato regionale alle opere pubbliche – Magistrato alle acque di Venezia – invitare le Agenzie del demanio a non procedere al trasferimento degli immobili adibiti a casello e/o magazzino idraulico, funzionali ad assicurare il servizio di piena nella tratta del torrente Judrio che delimita il confine di Stato e nelle tratte dei fiumi Livenza e Tagliamento che delimitano il confine tra le Regioni Veneto e Friuli – Venezia Giulia. La tesi della Regione Friuli – Venezia Giulia, ricorrente – che intende attribuire alla stessa le funzioni amministrative, diverse dai «compiti nazionali» di cui all’art. 88 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, sui beni del demanio idrico restati allo Stato –, non è condivisibile alla luce del chiaro parallelismo tra titolarità del bene demaniale (e relative pertinenze) ed esercizio delle relative funzioni amministrative di gestione e cura, posto dagli articoli 1 e 2 del decreto legislativo 25 maggio 2001, n. 265.

In quest’ambito, infatti, lungi dal configurare competenze accessorie o ulteriori della ricorrente, come dalla ricorrente dedotto sulla base di una errata interpretazione dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 265 del 2001, viene, dalla medesima norma, specificato il contenuto delle funzioni trasferite alla Regione speciale ai sensi del precedente art. 2, salvaguardando, non diversamente da quanto è avvenuto in relazione alle Regioni a statuto ordinario, l’esercizio unitario dei compiti di indirizzo e di programmazione.

8. I poteri sostitutivi

L’esercizio di poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali minori è stato oggetto di due importanti statuizioni, l’una relativa al potere disciplinato all’art. 120, secondo comma, della Costituzione, l’altra ad una fattispecie in esso non contemplata.

Con la sentenza n. 383, la Corte decide – tra l’altro – l’impugnativa della Provincia di Trento avverso l’art. 1-sexies, comma 5, del decreto legge n. 239 del 2003, nella parte in cui prevede che «in caso di inerzia o mancata definizione dell’intesa» (che deve intervenire fra le diverse Regioni interessate ad adottare le autorizzazioni alla costruzione ed esercizio delle reti di competenza regionale allorché le relative opere ricadono nel territorio di più Regioni), «lo Stato esercita il potere sostitutivo ai sensi dell’art. 120 della Costituzione».

Contrariamente all’assunto della ricorrente, secondo cui si estenderebbe il potere sostitutivo statale al di là delle ipotesi previste dalla norma costituzionale, la Corte ritiene che il secondo comma dell’art. 120 Cost. individua una serie di situazioni che legittimano l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del Governo per garantire taluni interessi essenziali, situazioni entro le quali potrebbe essere ricondotta – nell’ambito di specifici contesti definiti in via legislativa – la situazione di mancato conseguimento dell’intesa fra le Regioni cui si riferisce il comma 5 dell’art. 1-sexies. La disposizione censurata non pone un obbligo generalizzato di esercizio del potere governativo e proprio attraverso l’esplicito rinvio all’art. 120 Cost., non configura una autonoma e, diversa fattispecie di potere sostitutivo, il cui esercizio in concreto dovrà comunque fondarsi su una specifica verifica della sussistenza dei presupposti sostanziali contemplati nella norma costituzionale, nonché sul rispetto delle condizioni procedimentali previste dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).

Nella sentenza n. 167, invece, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Abruzzo 23 gennaio 2004, n. 4, che detta disposizioni sul controllo sostitutivo sugli atti degli enti locali e degli enti dipendenti dalla Regione. Al riguardo, la Corte rileva che l’art. 120, secondo comma, della Costituzione non preclude, in linea di principio, la possibilità che la legge regionale, nel disciplinare materie di propria competenza, disponga l’esercizio di poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, in caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente locale ordinariamente competente (sentenze nn. 43, 69, 70, 71, 72, 73, 112 e 173 del 2004). Tuttavia, nel prevedere ipotesi di interventi sostitutivi, la legge regionale è tenuta al rispetto di alcuni principî connessi all’esigenza di salvaguardare il valore costituzionale dell’autonomia degli enti locali. Tra tali principî emerge, in particolare, quello secondo cui l’esercizio del potere sostitutivo deve essere affidato in ogni caso ad un organo di governo della Regione o almeno deve essere attuato sulla base di una decisione di questi (cfr. sentenze nn. 112 del 2004, 313 del 2003 e 342 del 1994), in considerazione dell’incidenza dell’intervento sull’ordine delle competenze e sull’autonomia costituzionale dell’ente sostituito.

Al contrario, la Regione Abruzzo delinea una disciplina del potere sostitutivo regionale incentrata totalmente sul difensore civico regionale, e proprio sotto questo profilo non appare conforme al principio individuato, giacché la predetta figura non può considerarsi organo di governo della Regione. La Corte, infatti, ha avuto modo di argomentare (cfr. sentenze nn. 173 e n. 112 del 2004) che il difensore civico generalmente è titolare soltanto di funzioni connesse alla tutela della legalità e della regolarità dell’azione amministrativa; un soggetto essenzialmente preposto alla vigilanza sull’operato dell’amministrazione regionale, con limitati compiti di intervento sulle disfunzioni amministrative, al quale non può pertanto essere riconosciuta la qualificazione di organo di governo regionale, qualificazione necessaria per consentire, a date condizioni, il legittimo esercizio, nei confronti degli enti locali inadempienti, di poteri sostitutivi. Tali poteri, infatti, determinando spostamenti, anche se in via eccezionale, nell’ordine delle competenze ed incidendo direttamente sull’autonomia costituzionale di enti politicamente rappresentativi, postulano che alla loro adozione siano legittimati i soli organi di vertice regionali cui istituzionalmente competono le determinazioni di politica generale e delle quali essi assumono la responsabilità.

9. I ricorsi decisi sulla base del Titolo V nel testo anteriore alla riforma del 2001

Nel corso del 2005 si è esaurito il contenzioso tra Stato e Regioni radicatosi anteriormente alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, contenzioso che ha visto l’applicazione – per le ultime volte – dei parametri costituzionali nella formulazione oggi non più vigenti.

Vengono in rilievo, in questa sede, tre decisioni, di cui due rese in giudizi di legittimità costituzionale in via principale ed una in sede di conflitto intersoggettivo.

Con la sentenza n. 33, la Corte disattende le doglianze avanzate dalla Regione Lombardia avverso la legge 10 marzo 2000, n. 62 (che detta nuove norme sulla parità scolastica e sul diritto all’istruzione), fondate sul presupposto di una pretesa invasione o di un preteso mancato coinvolgimento delle regioni. La motivazione su cui si basa il rigetto di tutte le questioni viene per tutte dedotta dalla finalità che la legge impugnata del tutto chiaramente intende perseguire.

In particolare, viene ritenuta non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 10 marzo 2000, n. 62, censurato in quanto detterebbe criteri irragionevolmente ristretti e incongruamente vincolanti per il riconoscimento della parità scolastica, impingendo sulla capacità di programmazione della rete scolastica delle Regioni, e non coinvolgerebbe la Conferenza Stato-Regioni nella definizione dei requisiti per il riconoscimento della parità alle scuole non statali. Al riguardo, la Corte sottolinea che la legge n. 62 del 2000 non ha tra le sue finalità quella di intervenire sul sistema di riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni, ma unicamente quella di delineare il sistema nazionale di istruzione, anche individuando i requisiti che le scuole devono possedere per poter ottenere il riconoscimento della parità ed essere inserite nel sistema nazionale di istruzione. Pertanto, tali disposizioni costituiscono esercizio della potestà legislativa statale in materia di istruzione, in relazione al quale non può configurarsi un obbligo di concertazione con le Regioni, non essendo individuabile un fondamento costituzionale dell’obbligo di adottare procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni; né la disposizione censurata incide sulle funzioni delegate alle Regioni dall’art. 138, lettera b), del decreto legislativo n. 112 del 1998, in ordine alla programmazione, sul piano regionale, della rete scolastica, potendo tali funzioni – che non abilitano le Regioni ad interferire con la individuazione, da parte dello Stato, dei requisiti che le scuole debbono possedere per ottenere il riconoscimento della parità – essere esercitate dalle Regioni solo con riferimento ai soggetti che, in base alla legge statale, siano in possesso dei requisiti per essere inseriti nel sistema nazionale di istruzione.

Non fondata risulta anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 9 e 10, della legge 10 marzo 2000, n. 62, censurato nella parte in cui (comma 9) prevede un piano straordinario di finanziamento delle Regioni e delle Province autonome a sostegno della spesa sostenuta e documentata dalle famiglie per l’istruzione mediante l’assegnazione di borse di studio, affidando al Presidente del Consiglio dei ministri il potere di stabilire con decreto i criteri per la ripartizione di tali somme tra le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, i criteri per l’individuazione dei beneficiari e le modalità per la fruizione dei benefici e per la indicazione del loro utilizzo, e nella parte in cui (comma 10) stabilisce direttamente una delle modalità di fruizione dei benefici, disponendo che i soggetti aventi i requisiti individuati con decreto del Presidente del Consiglio, di cui al comma 9, possono fruire della borsa di studio mediante detrazione di una somma equivalente dall’imposta lorda riferita all’anno in cui la spesa è stata sostenuta, ed attribuendo alle Regioni e alle Province autonome il compito di disciplinare le modalità con cui sono annualmente comunicati al Ministero delle finanze e al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica i dati relativi ai soggetti che intendono avvalersi della detrazione fiscale. Dalla mancata previsione di una consultazione in sede di adozione del decreto previsto dall’art. 1, comma 9, non può farsi discendere automaticamente la illegittimità della disposizione censurata, trovando comunque applicazione le disposizioni generali che quella consultazione impongono prima dell’esercizio delle funzioni di competenza dello Stato in materie di concorrente interesse delle Regioni e delle autonomie locali; né la ricorrente ha dedotto la lesione delle proprie competenze a causa della intervenuta consultazione della Conferenza unificata in luogo della Conferenza permanente, essendosi limitata ad osservare in proposito che il Governo ha ritenuto sussistente in materia anche un concorrente interesse delle autonomie locali. La disposizione censurata, inoltre, non contiene norme di dettaglio invasive delle competenze regionali, poiché, al contrario, stabilisce un principio fondamentale della materia, valido per tutte le scuole inserite nel sistema nazionale di istruzione, volto a rendere effettivo il diritto allo studio anche per gli alunni iscritti alle scuole paritarie, da essa legge disciplinate.

Nella sentenza n. 272 la Corte si occupa delle cosiddette quote-latte e del relativo prelievo supplementare, esaminando le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei ricorsi proposti dalla regione Lombardia e dalla Sicilia (il Veneto ha rinunciato al ricorso e lo Stato ha accettato la rinuncia, pertanto è stata dichiarata l’estinzione del giudizio) su numerose disposizioni contenute nei decreti legge n. 11 del 1997, n. 411 del 1997, n. 43 del 1999 e nelle relative leggi di conversione, testi normativi che rappresentano un segmento della disciplina adottata nel tempo dal legislatore italiano per regolare il settore delle quote latte secondo quanto prevede la normativa comunitaria.

Nella sentenza si affrontano molteplici aspetti della disciplina.

La Corte ribadisce, innanzi tutto, come già chiarito in precedenti pronunce (le sentenze nn. 398 del 1998 e 304 del 1987), che la disciplina delle c.d. quote latte rientra nell’ambito della materia agricoltura e non in quella della regolazione dei mercati, dal momento che «il comparto della produzione lattiera e delle strutture produttive intese in senso lato assume un rilievo distinto ed autonomo rispetto alla regolazione dei prezzi e dei mercati, sicché il nesso strumentale tra l’agricoltura, che è l’oggetto specifico delle misure in questione, e la politica del mercato agricolo non può giustificare l’attrazione della prima nell’ambito della seconda».

In questa materia, nel vigore del vecchio Titolo V, pur sussistendo una competenza legislativa concorrente delle Regioni, nondimeno era configurabile un titolo di legittimazione dello Stato ad intervenire. In particolare, «l’intervento del legislatore statale rinveniva la propria legittimazione a livello costituzionale, nella necessità di adottare una normativa di carattere uniforme sull’intero territorio nazionale, e ciò soprattutto in vista della conformazione delle regole dell’ordinamento, nella materia oggetto dell’intervento, alla normativa comunitaria. In altri termini, la sussistenza di un interesse nazionale (categoria all’epoca, certamente rilevante agli effetti del riparto di competenza legislativa tra Stato e Regioni) rendeva costituzionalmente legittimo l’intervento della legge statale, pur nel rispetto dell’esigenza di assicurare, nelle forme e nei modi necessari o opportuni, il coinvolgimento delle singole Regioni e delle Province autonome, e giustificava nella materia in questione anche la competenza amministrativa dello Stato».

Il fine di garantire l’interesse unitario all’accertamento tempestivo sull’intero territorio nazionale della effettiva quantità di latte prodotta e commercializzata, per assicurare la corretta esecuzione del regime comunitario delle quote latte, ha giustificato – ad avviso della Corte – l’istituzione da parte dello Stato di una Commissione di garanzia con il compito di verificare la conformità alla vigente legislazione delle procedure e delle operazioni effettuate per la determinazione della quantità di latte prodotta e commercializzata nei periodi 1995-1996 e 1996-1997.

Sempre in considerazione della presenza di un interesse nazionale sotteso a verifiche necessariamente unitarie, la Corte afferma che sussiste la competenza statale in relazione agli accertamenti che investono i contratti di circolazione delle quote latte. Tale interesse giustifica altresì la previsione di controlli a posteriori volti a garantire che la produzione lattiera non superi, nel rispetto di quanto previsto dalla normativa comunitaria, il quantitativo globale garantito.

La medesima ratio giustifica sia la determinazione statale di alcuni «criteri obiettivi» per la riassegnazione ai produttori delle quote resesi disponibili, sia la scelta di escludere dall’assegnazione di quote i produttori che in precedenza hanno venduto, ovvero affittato, in tutto o in parte, la quota di propria spettanza.

Così, in attesa della riforma organica del settore, non è irragionevole ed è strettamente proporzionata allo scopo di garantire il corretto funzionamento del complessivo regime delle quote latte l’assegnazione all’AIMA di funzioni amministrative in materia di aggiornamento del bollettino 1997-1998, di riserva nazionale e di programmi volontari di abbandono. Ciò anche in considerazione della natura dichiaratamente provvisoria di tale assegnazione.

Esigenze di celere attuazione degli obblighi comunitari e la necessità di determinare l’effettivo quantitativo di produzione lattiera sono alla base anche dell’attribuzione all’AIMA del potere di rideterminare le quote a seguito della verificata non compatibilità tra la quantità di latte commercializzato e la consistenza di stalla accertata.

Allo stesso modo, non è lesiva delle attribuzioni regionali la competenza della Commissione governativa di indagine in ordine alla individuazione delle tipologie contrattuali di circolazione delle quote latte da considerarsi anomale ai fini della determinazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto e commercializzato. Come sottolinea la Corte, infatti, «la norma incide indirettamente su istituiti di diritto privato la cui regolamentazione spetta al legislatore statale in considerazione della necessità di garantire un trattamento uniforme sull’intero territorio nazionale».

Funzionale ad una efficace operatività del prelievo supplementare sul latte, nonché in generale ad una applicazione corretta della normativa comunitaria sull’intero territorio nazionale, è poi l’attribuzione all’AIMA delle funzioni di accertamento ed aggiornamento dei dati anche in relazione a campagne lattiere già concluse.

In relazione, poi, alla compensazione, vale a dire alla possibilità, consentita a ciascuno Stato membro dalla normativa comunitaria, di compensare i quantitativi di latte assegnati e non utilizzati da taluni produttori per ridurre o eliminare le sanzioni a carico di produttori che, al contrario, hanno prodotto latte in misura eccedente la quota agli stessi concessa, la Corte ribadisce, come già affermato nella sentenza n. 398 del 1998, la piena legittimità costituzionale della scelta compiuta dal legislatore statale «di introdurre il sistema di compensazione nazionale, in ragione di adeguare la normativa italiana alle determinazioni comunitarie, e di prevedere un meccanismo operativo che, per l’infrazionabilità dell’interesse sotteso, operi necessariamente sull’intero territorio nazionale».

La Corte sottolinea inoltre che la previsione, successivamente introdotta dalla legge di conversione, della possibilità attribuita all’AIMA di valutare comparativamente i risultati della compensazione nazionale e per APL non è lesiva delle competenze regionali, in quanto la suddetta regolamentazione per il periodo 1995-1996 prevede, all’esito della comparazione, l’applicazione del metodo nazionale o di quello provinciale a seconda di quale dei due consenta un prelievo meno oneroso per i produttori.

Per quanto attiene, invece, alla retroattività delle rettifiche della compensazione nazionale per il periodo 1995-1996, ci si rifà all’interpretazione seguita dalla Corte di giustizia europea, secondo la quale i regolamenti n. 3950/92 e n. 536/93 consentono alle autorità nazionali, successivamente alla campagna lattiera interessata, di effettuare le rettifiche necessarie a far sì «che la produzione esonerata da prelievo supplementare di uno Stato membro non superi il quantitativo globale garantito assegnato a tale Stato».

Da questa interpretazione della normativa statale censurata dalle Regioni discende anche la non fondatezza della questione sollevata in relazione all’attribuzione al Governo del potere di comunicare all’Unione europea l’esatta produzione delle annate 1995-1996 e 1996-1997 per la rettifica dei prelievi dovuti. Secondo la Corte, infatti, tale disposizione costituisce adempimento dell’obbligo comunitario di comunicare in tempi necessariamente rapidi tutte le modifiche dei dati che possano condurre ad una rettifica di tali prelievi.

In questo quadro, il potere di aggiornamento dei quantitativi individuali – attribuito in via transitoria all’AIMA – ai fini dell’esecuzione della compensazione nazionale, si giustifica, sul piano costituzionale, per l’esigenza di perseguire interessi territorialmente infrazionabili. Allo stesso modo, «rientra nella discrezionalità del legislatore nazionale determinare le concrete modalità di gestione delle funzioni assegnate all’AIMA nei limiti in cui le stesse siano strettamente funzionali al raggiungimento delle suddette finalità. Né assume rilevanza la natura retroattiva di talune previsioni, in quanto le stesse si giustificano, in ossequio alle prescrizioni comunitarie e di quanto già riconosciuto dalla Corte di giustizia, alla luce della necessità di adeguare i quantitativi individuali e il sistema di compensazione alle risultanze delle verifiche svolte dagli organi a ciò preposti».

Ancora, secondo la Corte, «non è irragionevole la scelta del legislatore statale, a garanzia dell’interesse nazionale, di prevedere, con norme proporzionate allo scopo, termini brevi di definizione dei ricorsi amministrativi proposti dai produttori, in considerazione della necessità di definire in tempi rapidi i procedimenti pendenti al fine di dare celere attuazione agli obblighi imposti sul piano comunitario, né, nel caso di specie, sarebbe possibile stabilire quale altro termine potrebbe essere considerato congruo, senza invadere sfere riservate alla discrezionalità legislativa dello Stato. Ne consegue che immune da censure è la connessa previsione della responsabilità civile, penale e amministrativa degli autori del ritardo o dell’omissione, poiché tale previsione costituisce la conseguenza, sul piano sanzionatorio, della mancata osservanza di termini non irragionevoli imposti dal legislatore statale e rappresenta espressione di principî generali che la norma impugnata si limita soltanto ad enunciare formalmente».

Analogamente non irragionevole risulta la previsione di un potere sostitutivo conferito al Presidente del Consiglio dei ministri, che agisce su proposta del Ministro per le politiche agricole e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, in caso di inadempienza nel rispetto dei termini relativi alla decisione dei ricorsi. Infatti, tale potere si fonda sull’esigenza di assicurare il rispetto di un termine da considerare congruo, nonché strettamente necessario a garantire l’interesse nazionale ad una celere definizione dei procedimenti in esame.

Sempre per quanto riguarda le operazioni di riesame, la Corte ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 1, comma 2, del decreto legge n. 43 del 1999, che, nel testo risultante dalla relativa legge di conversione, dispone che l’AIMA recepisca le correzioni degli errori effettuati nelle operazioni di riesame, motivatamente segnalati dalle Regioni e dalle Province autonome, correzioni da queste effettuate, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, sulla base delle tipologie individuate nella relazione finale della Commissione di garanzia quote latte. Secondo la Corte, infatti, «in considerazione dell’esigenza di garantire un trattamento uniforme sull’intero territorio nazionale, deve ritenersi che le disposizioni in esame non determinino alcun vulnus alle competenze regionali. L’AIMA, infatti, si limita a «recepire» le correzioni degli errori intervenuti nelle operazioni di riesame, senza sovrapporre proprie autonome valutazioni a quelle regionali, effettuate «sulla base delle tipologie individuate nella relazione finale della Commissione di garanzia quote latte». È inoltre congruo il termine di trenta giorni per la segnalazione imposta dalla norma, considerata l’urgenza, ancora una volta prescritta per ragioni connesse ad una celere attuazione della normativa comunitaria, di definire in tempi rapidi i procedimenti di riesame». Non fondata è stata ritenuta anche la censura relativa al comma 14 del medesimo articolo 1 del decreto legge n. 43 del 1999, secondo il quale ogni questione relativa alle operazioni di riesame, non risolta ai sensi del comma 2, dovrà essere definita, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, con provvedimenti del Ministro per le politiche agricole, adottati d’intesa con la Conferenza permanente. Secondo la Corte, «la suddetta disposizione non comporta alcuna compromissione di prerogative regionali, attesa, da un lato, la natura “residuale” del precetto in essa contenuto, dall’altro, la garanzia del coinvolgimento delle Regioni attraverso la previsione della necessità che i decreti ministeriali siano adottati d’intesa con la Conferenza permanente».

Ad altro proposito, la Corte ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 13, del decreto legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 118 del 1999, secondo il quale le decisioni amministrative o giurisdizionali concernenti i ricorsi in materia, notificate oltre il trentesimo giorno precedente la scadenza del termine fissato per l’effettuazione delle compensazioni previste dallo stesso decreto legge, non producano effetti sui risultati delle compensazioni, che restano fermi nei confronti dei produttori estranei ai relativi procedimenti,prevedendo altresì che al produttore, il ricorso sia stato accolto, il prelievo versato per la parte non dovuta. Secondo la Corte, infatti, «la ricorrente muove da un erroneo presupposto interpretativo, ritenendo che la norma in esame persegua la finalità di limitare l’efficacia dei provvedimenti giurisdizionali e amministrativi emanati su ricorsi di associazioni di categoria. Invero, la disposizione in esame, stabilendo che tali provvedimenti non producono effetti nei confronti “dei produttori estranei ai procedimenti” nei quali tali provvedimenti sono stati emessi, intende escludere la possibilità che la pubblica amministrazione estenda gli effetti del giudicato o della decisione amministrativa anche ad altri eventuali soggetti non ricorrenti».

Relativamente al c.d. ripristino di liquidità, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 5 del 1998. In effetti, «il legislatore statale ha previsto – nell’esercizio della sua discrezionalità e al fine di garantire un trattamento uniforme sull’intero territorio nazionale connesso alla introduzione di misure unitarie di stabilizzazione del sistema in una fase transitoria di accertamento – il c.d. “ripristino di liquidità”, limitando gli effetti della disposizione […] soltanto agli anni 1996-1997. La ratio è quella di assicurare la restituzione delle somme prelevate per l’anno in corso al momento dell’entrata in vigore del decreto legge, rinviando all’esito degli accertamenti della produzione lattiera la definizione dei procedimenti di dare e avere per gli anni 1995-1996. La scelta legislativa non è irragionevole garantendo un equo contemperamento degli interessi in gioco: in una situazione di incertezza derivante dalla esistenza di una procedura di accertamento in corso per gli anni 1995-1996 e 1996-1997, che potrebbe, in tesi, condurre a mantenere integralmente fermo il pagamento del prelievo supplementare già effettuato, ai produttori è “garantita” la restituzione delle somme riferite ad uno soltanto dei bienni presi in considerazione dalla legge».

Parimenti, secondo la Corte, «rientra nella discrezionalità del legislatore statale limitare l’obbligo di restituzione in capo agli acquirenti dell’importo trattenuto a titolo di prelievo supplementare limitatamente al periodo 1997-1998 e soltanto in riferimento ad una parte delle quote A e B. La scelta è il frutto di un equo contemperamento degli interessi in gioco, in attesa della definizione della compensazione nazionale».

Secondo la Corte, poi, non incide sulla potestà programmatoria delle Regioni la norma che prevede che la validità delle garanzie fideiussorie, surrogatorie del prelievo, sia, a richiesta, prorogata sino al 31 maggio 1998, in quanto tale proroga non è automatica, bensì è subordinata alla presentazione di una «richiesta» da parte del produttore: il contenuto precettivo della disposizione impugnata non potrebbe, pertanto, incidere sui calcoli economici dei produttori stessi e dunque sulla potestà programmatoria delle Regioni.

Per quanto attiene al regime delle quote latte, la Corte sottolinea che «la competenza relativa all’affitto e all’acquisto di quote latte appartiene allo Stato, investendo direttamente o indirettamente istituti di diritto privato. Spetta, inoltre, allo Stato stabilire l’incidenza temporale della disposizione in esame, in quanto essa si risolve nella valutazione della efficacia o inefficacia, sotto il profilo civilistico, dei contratti già conclusi». Sulla base di questo assunto viene dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, del decreto legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 118 del 1999, il quale prevede che, con effetto dal periodo 1996-1997, il termine per la stipula dei contratti di affitto e vendita di quota senza trasferimento di azienda sia fissato al 31 dicembre di ciascun anno, fatti salvi gli accertamenti eseguiti ai sensi del decreto legge n. 411 del 1997 e che per il periodo 1996-1997 tali atti abbiano effetto su concorde volontà delle parti, comunicata all’AIMA.

Peraltro, osserva ancora la Corte, non può ritenersi che «la norma si ponga “in contrasto” con quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 398 del 1998, in quanto la norma oggetto del presente scrutinio di costituzionalità, si inserisce in un contesto normativo parzialmente mutato, in cui gran parte delle funzioni relative agli adempimenti dello Stato nei confronti dell’Unione europea nel settore lattiero caseario sono state affidate, ancorché in via transitoria, all’AIMA. A ciò si aggiunga che tale norma fa comunque salvi gli accertamenti della produzione lattiera già eseguiti ai sensi del decreto legge n. 411 del 1997. Deve, pertanto, escludersi la necessità di un coinvolgimento delle Regioni, dovendosi ritenere legittima la previsione ex novo del termine del 31 dicembre indicato dal legislatore nazionale nell’esercizio non irragionevole della propria discrezionalità».

Finalmente, si dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 01, comma 2, del decreto legge n. 11 del 1997, nel testo introdotto dalla legge di conversione n. 81 del 1997, il quale prevede che al Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali rimangono assegnate le funzioni di indirizzo e coordinamento, nonché le azioni sostitutive nel caso di eventuale inadempienza delle Regioni e delle Province autonome. Secondo la Corte tale l’articolo non rispetta i puntuali requisiti di forma cui il potere di indirizzo e coordinamento è soggetto. Infatti, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere necessario che tale potere trovi svolgimento attraverso atti collegiali del Governo e cioè attraverso una deliberazione del Consiglio dei Ministri. Da qui la illegittimità dell’articolo impugnato nella parte in cui attribuisce tale potere al singolo Ministro e non al Consiglio dei Ministri.

Anche per quanto riguarda il potere sostitutivo, la Corte afferma che mancano quelle garanzie sostanziali e procedurali da cui deve essere assistita ogni forma di controllo sostitutivo. In particolare, la disposizione censurata viene dichiarata non conforme ai requisiti costituzionali nella parte in cui, individuando l’organo competente in un singolo Ministro, non prevede la deliberazione del Consiglio dei Ministri.

Strettamente connesso alla sentenza n. 272 è il rigetto – con la sentenza n. 324 – del ricorso per conflitto proposto dalla Regione Lombardia avverso il regolamento del Ministro delle politiche agricole 21 maggio 1999, n. 159, concernente le competenze dell’AIMA in ordine alla determinazione dei quantitativi individuali e delle produzioni commercializzate, in riferimento a campagne lattiere già concluse o in via di esaurimento, con l’assegnazione in via retroattiva di quantitativi, destinata a costituire l’unico presupposto per l’effettuazione delle operazioni di compensazione e di determinazione del prelievo supplementare. Tale disposizione viene impugnata perché non sarebbe stato preceduta da una valida intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni e sarebbe inoltre lesiva delle competenze regionali in materia di agricoltura. Al riguardo, la Corte, dopo aver constatato che dagli atti depositati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri risulta confermato che nella seduta del 22 aprile 1999 è stata raggiunta in sede di Conferenza permanente l’intesa tra Stato, Regioni e Province autonome in merito allo schema di decreto presentato dal Ministro per le politiche agricole, sottolinea che già in occasione dell’esame del decreto legge n. 43 del 1999, oggetto di giudizio di costituzionalità in via principale, è stato chiarito che le funzioni attribuite all’AIMA, «dal punto di vista costituzionale» trovano un idoneo presupposto giustificativo nella necessità, non solo di dare puntuale e corretta applicazione in via amministrativa agli obblighi comunitari, ma anche di garantire, per esigenze unitarie, una attuazione uniforme della normativa comunitaria in tutto il territorio nazionale in settori nevralgici per il corretto funzionamento del complessivo regime delle quote latte. Tale scelta inoltre appare non irragionevole e strettamente proporzionata allo scopo perseguito, alla luce, in particolare, della natura dichiaratamente provvisoria della norma in esame. Pertanto, le disposizioni regolamentari impugnate si limitano a specificare ed a rendere operative le competenze già provvisoriamente attribuite dal decreto legge n. 43 del 1999 ad organi statali, coordinandole con le funzioni amministrative o strumentali restate nella generale competenza regionale in materia di agricoltura.

Anche l’ulteriore censura concernente la funzione ministeriale di coordinamento, al fine di garantire l’uniforme applicazione del regolamento su tutto il territorio nazionale (art. 5, commi 2 e 3 del regolamento), viene respinta: il potere di cui si discute non va, infatti, confuso con il tradizionale potere di indirizzo e coordinamento all’epoca vigente, ma attiene al più limitato potere di assicurare la uniforme applicazione delle norme in questione, riconosciuto al Ministero d’intesa con la Regione.


10. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome

Sono state molte le decisioni che, nel 2005, hanno avuto riguardo alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano. In buona parte dei casi, le problematiche affrontate hanno riguardato l’applicazione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in ragione della disposizione di cui all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ai termini del quale «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della […] legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomie più ampie rispetto a quelle già attribuite».

Siffatta disposizione ha veicolato, in effetti, l’applicazione alle autonomie differenziate di molti parametri costituzionali dettati con precipuo riferimento alle Regioni ordinarie (tra i vari esempi, può citarsi la sentenza n. 383, in cui si sottolinea che quanto ai poteri legislativi ed amministrativi spettanti alla Provincia autonoma di Trento, le competenze statutarie in materia di energia sono sicuramente meno ampie rispetto a quelle riconosciute in tale materia alle Regioni dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione, per cui la Provincia di Trento ben può, sulla base dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, rivendicare una propria competenza legislativa concorrente nella materia della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» identica a quella delle Regioni ad autonomia ordinaria, e quindi anche una potestà amministrativa più ampia, in quanto fondata sui principî dell’art. 118 della Costituzione). In questa sede, ci si limiterà, dunque, a passare in rassegna le decisioni che hanno avuto ad oggetto, per l’essenziale, disposizioni ed atti impugnati per la loro non conformità con la disciplina degli statuti speciali (o delle norme di attuazione degli statuti speciali).

a) L’ambito numericamente più cospicuo di decisioni è quello riconducibile all’esercizio, da parte delle Province autonome, della competenza statutaria in materia di assistenza pubblica.

Nella sentenza n. 106, la Corte esamina le censure riferite agli articoli 1 e 6 della legge della provincia di Bolzano 3 ottobre 2003, n. 15, con i quali si prevede che, nell’ambito della competenza della Provincia di Bolzano in materia di assistenza e beneficenza pubblica, si possa procedere all’erogazione anticipata al genitore o al diverso soggetto affidatario «delle somme destinate al mantenimento del minore, che versi in condizioni di disagio economico, qualora esse non vengano corrisposte dal genitore obbligato nei termini ed alle condizioni stabilite dall’autorità giudiziaria». Contrariamente a quanto assume il ricorrente, l’intervento pubblico previsto appare riconducibile, non alla materia «ordinamento civile» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., bensì alla nozione di «assistenza pubblica», materia certamente di competenza della Provincia autonoma di Bolzano ai sensi dell’art. 8, n. 25, dello statuto speciale di autonomia per il Trentino-Alto Adige (cfr. sentenza n. 267 del 2003).

Tale intervento, continua la Corte, non interferisce in alcun modo con il diritto al mantenimento da parte del soggetto obbligato, né con le pronunce dell’autorità giudiziaria; essa non crea alcun nuovo credito, né eroga indiscriminatamente prestazioni a favore di tutti i minori, ma solo di quelli che si trovino nelle condizioni previste dalla stessa legge.

La circostanza che la legge non preveda automaticamente la sostituzione della Provincia a colui che è obbligato al mantenimento del minore, ed anzi la considerazione che essa disciplina le condizioni particolari per beneficiare dell’anticipazione dell’assegno di mantenimento non crea alcun automatismo, ma concorre a definire un’area di intervento della «assistenza pubblica» che appare legittima alla luce della competenza legislativa esclusiva spettante alla Provincia di Bolzano in materia.

La Corte condivide, nella sentenza n. 145, le censure della Provincia autonoma di Trento avverso gli articoli 7, comma 2, e 10 della legge 9 gennaio 2004, n. 4 (Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici), ritenuti illegittimi perché, imponendo anche alle Province autonome di vigilare sull’attuazione, da parte dei propri uffici, delle disposizioni della stessa legge, ne presuppone la diretta operatività nei confronti della Provincia autonoma di Trento, pur riguardando materie – quelle dell’assistenza sociale, dell’ordinamento degli uffici provinciali e dell’istruzione e della formazione professionale – appartenenti per statuto alla competenza legislativa della stessa Provincia (art. 7). A sua volta, l’art. 10 contrasterebbe con lo statuto di autonomia della Provincia, prevedendo, nelle stesse materie, l’emanazione di un regolamento statale.

La Corte, dopo aver verificato che le disposizioni presuppongono necessariamente la loro diretta applicabilità alla Provincia, richiama l’art. 2, commi 1 e 4, del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266, che esclude in via generale l’immediata applicabilità alla Provincia autonoma della legislazione statale, sancendo solo un obbligo di adeguamento della legislazione regionale e provinciale alle condizioni e nei limiti specificati in tale norma.

Inoltre, una volta ritenuta priva di fondamento la tesi del Governo, secondo la quale la diretta applicabilità della legge alla Provincia deriverebbe dalla competenza esclusiva dello Stato in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», la Corte esclude la sussistenza di disposizioni costituzionali che possano comportare limitazioni alla sfera di competenza legislativa già attribuita in materia alla Provincia ricorrente per effetto dello statuto di autonomia.

Pertanto, l’art. 7, comma 2, della legge n. 4 del 2004, comportando la diretta applicabilità alla Provincia delle disposizioni di tale legge, è dichiarato costituzionalmente illegittimo.

Considerazioni analoghe valgono per l’art. 10 della legge, in quanto la potestà regolamentare dello Stato non può essere esercitata riguardo a materie che appartengono alla competenza legislativa della Provincia autonoma di Trento.

Né può in contrario assumere rilevanza alcuna la previsione dell’intesa con la Conferenza unificata, sia perché tale intesa può in concreto non esserci, sia perché non può, in ogni caso, valere quale titolo attributivo di una competenza in ipotesi mancante.

Con la sentenza n. 263, la Corte accoglie il conflitto di attribuzione proposto dalla Provincia autonoma di Trento in relazione al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 28 febbraio 2002, n. 70, che reca disposizioni regolamentari concernenti condizioni e modalità per l’erogazione dei contributi di cui all’art. 80, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, in materia di servizi di telefonia rivolti alle persone anziane.

Rileva la Corte che il fondo in questione, istituito nell’ambito di quello nazionale per le politiche sociali, riguarda una materia (servizi di telefonia rivolti alle persone anziane) che rientra nell’assistenza e beneficenza pubblica, per la quale la Provincia, ai sensi dell’art. 8, n. 25, dello statuto, ha competenza legislativa esclusiva.

L’art. 5, comma 2, della legge 386 del 1989 (Norme per il coordinamento della finanza della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria) stabilisce che, in materie provinciali, lo Stato con legge può istituire fondi per scopi determinati, i quali devono essere utilizzati, nell’ambito del settore definito dalla legge statale stessa, secondo normative provinciali, e quindi esclude che condizioni e modalità per l’utilizzo di detti fondi possano essere stabiliti con regolamento statale.

Appare evidente, pertanto, l’illegittimità del regolamento statale, nella parte in cui si applica alla Provincia autonoma di Trento.

Motivazioni sostanzialmente analoghe a quelle della sentenza n. 263 sono alla base dell’accoglimento, con la sentenza n. 287, del ricorso per conflitto di attribuzione proposto sempre dalla Provincia autonoma di Trento nei confronti dello Stato, in relazione al regolamento di cui al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 13 dicembre 2001, n. 470, concernente criteri e modalità per la concessione e l’erogazione dei finanziamenti di cui all’art. 81 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, in materia di interventi in favore dei soggetti con handicap grave privi dell’assistenza dei familiari.

Sottolinea la Corte che la disciplina contenuta nelle disposizioni impugnate rientra, ai sensi dell’art. 8, n. 25, dello statuto speciale, nella materia dell’assistenza e beneficenza pubblica, nella quale la Provincia autonoma ha competenza legislativa esclusiva e che le norme regolamentari non concernono – come invece sostenuto dall’Avvocatura dello Stato – i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l’assistenza e la beneficenza pubblica.

La riconduzione della disciplina in questione alla materia dell’assistenza e beneficenza pubblica implica, quindi, una diretta interferenza, da parte del regolamento impugnato, nella competenza legislativa esclusiva della Provincia autonoma in tale materia, in palese violazione del principio per cui un decreto ministeriale non può comunque disciplinare materie di competenza legislativa delle Province autonome (si vedano, fra le altre, le sentenze nn. 267 del 2003 e 371 del 2001).

In conseguenza delle esposte considerazioni, la Corte dichiara che non spetta allo Stato il potere di disciplinare con regolamento ministeriale i criteri e le modalità per la concessione e l’erogazione da parte della Provincia autonoma di Trento dei finanziamenti previsti dall’articolo 80, comma 14, della legge n. 388 del 2000, e devono, conseguentemente, annullarsi gli articoli del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali n. 470 del 2001, nella parte in cui si applicano alla Provincia autonoma di Trento.

b) La sentenza n. 407 accoglie il ricorso del Governo avverso l’art. 4, comma 1 della legge della Provincia di Trento 17 giugno 2004, n. 6, che prevede che il personale insegnante temporaneo ed il restante personale con contratto a termine di durata non superiore ad un anno o con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno, possa, previa autorizzazione della competente struttura, svolgere «altra attività» a condizione che ciò non determini conflitto di interessi con l’amministrazione di appartenenza o sia incompatibile con il rispetto degli obblighi di lavoro. Al riguardo, la Corte ritiene che la disposizione censurata ecceda la competenza concorrente che lo statuto attribuisce alla Provincia di Trento in materia di istruzione elementare e secondaria (art. 9, n. 2), poiché rende possibile, per il predetto personale, lo svolgimento di «altra attività», senza alcuna limitazione di oggetto, laddove, invece, la legge statale consente al personale docente unicamente l’esercizio della libera professione, previa autorizzazione del dirigente scolastico (art. 508, comma 15, del d.lgs. n. 297 del 1994). Né è possibile condividere l’interpretazione riduttiva data dalla Provincia di Trento alla disposizione impugnata, nel senso che essa verrebbe riferita al solo personale docente delle scuole materne e degli istituti professionali, per i quali la Provincia di Trento gode di potestà legislativa primaria, ai sensi dell’art. 8, nn. 26 e 29 dello Statuto, poiché la norma denunciata conserva una virtualità interpretativa tale da rendersi applicabile anche ai docenti temporanei delle scuole a «carattere statale». Pertanto, si impone la declaratoria di incostituzionalità della disposizione denunciata, nella parte in cui si riferisce anche al personale insegnante temporaneo delle scuole di istruzione elementare e secondaria della Provincia di Trento a «carattere statale».

c) Con una interpretazione adeguatrice della norma impugnata, la Corte, nella sentenza n. 249, risolve la questione sollevata in via principale dalla Provincia di Trento nei confronti dell’art. 17, comma 2, lettera f), della legge 3 maggio 2004, n. 112, secondo cui il servizio pubblico generale televisivo comunque garantisce «la diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive in lingua tedesca e ladina per la provincia autonoma di Bolzano, in lingua ladina per la provincia autonoma di Trento».

Lamentava la ricorrente la limitazione alle sole popolazioni di lingua ladina a fronte del più ampio obbligo a carico del gestore del servizio pubblico radiotelevisivo stabilito dal decreto legislativo 16 dicembre 1993, n. 592 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige concernenti disposizioni di tutela delle popolazioni di lingua ladina, mochena e cimbra della provincia di Trento), secondo cui (art. 3-quater, comma 1) «la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, anche mediante apposite assicura tutte le necessarie misure e condizioni per la tutela delle popolazioni ladina, mochena e cimbra della provincia di Trento».

La Corte rileva che, anche nel giudizio in via principale, deve essere privilegiata fra le interpretazioni possibili di una norma quella conforme a Costituzione (sentenza n. 170 del 2001), donde le disposizioni legislative statali devono essere interpretate in modo da assicurarne la conformità con la posizione costituzionalmente garantita alle province autonome del Trentino-Alto Adige (sentenze n. 412 del 2004 e n. 228 del 2003).

Nella specie, la norma statale impugnata non presenta alcun indice testuale o sistematico che si opponga ad una lettura in linea con la garanzia della sfera di attribuzioni propria della provincia autonoma ricorrente, fondata sulle evocate disposizioni dello statuto speciale di autonomia ed in particolare sulle relative norme di attuazione in materia di doverosa tutela delle popolazioni di lingua ladina, mochena e cimbra, anche a mezzo di trasmissioni radiotelevisive (art. 3-quater, comma 1, del d. lgs. n. 592 del 1993).

Tale conclusione si giustifica in ragione, non tanto della salvezza delle competenze provinciali, espressa dall’art. 26 della stessa legge n. 112 del 2004, quanto piuttosto della naturale cedevolezza (anche nel momento interpretativo) della legge ordinaria statale rispetto sia alle disposizioni dello statuto speciale che alle relative norme di attuazione. Queste ultime infatti – essendo emanate con l’osservanza di speciali procedure – sono dotate di forza prevalente, anche per la loro valenza integrativa del precetto statutario (sentenze n. 406 e n. 341 del 2001; n. 520 del 2000; n. 213 e n. 137 del 1998).

La conseguente inidoneità dell’impugnato precetto normativo statale a menomare le specifiche garanzie delle minoranze linguistico-culturali insediate nel territorio provinciale, predisposte dalle evocate disposizioni dello statuto di autonomia e dalle relative norme di attuazione, conduce pertanto alla declaratoria di non fondatezza della questione.

d) Con riferimento alle tematiche ambientali, è da segnalare la sentenza n. 214, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 77, comma 4 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sollevata dalla Provincia autonoma di Trento, in riferimento allo Statuto speciale di autonomia nonché alle «relative norme di attuazione». La disposizione censurata prevede che l’autorizzazione integrata ambientale sia rilasciata con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, «sentite le regioni interessate», senza alcun richiamo alle Province autonome. Peraltro, come rilevato dalla ricorrente, la legge n. 289 del 2002 contiene, all’art. 95, comma 2, una clausola di salvaguardia per le attribuzioni delle autonomie speciali, essendo espressamente sancito che «le disposizioni della presente legge sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti».

La ricorrente, pur dichiarando di privilegiare una diversa soluzione ermeneutica, solleva la questione di legittimità costituzionale per la denegata ipotesi che la disciplina contenuta nel summenzionato art. 77, comma 4, debba intendersi nel senso di portare alla competenza statale autorizzazioni in materia ambientale che già appartengano alla competenza provinciale o di ridurre il ruolo delle determinazioni provinciali nell’ambito delle procedure di competenza statale.

Al riguardo, la Corte sottolinea che le disposizioni legislative statali devono essere interpretate in modo da assicurarne la conformità con la posizione costituzionalmente garantita alle Province autonome del Trentino-Alto Adige (sentenze nn. 406 del 2001, 170 del 2001 e 520 del 2000), rilevando anche che, in difetto di indici contrari, l’esplicita affermazione della salvezza delle competenze provinciali si risolve nell’implicita conferma della sfera di attribuzioni delle Province autonome, fondata sullo statuto speciale e sulle relative norme di attuazione (sentenza n. 228 del 2003).

Nella specie, appare agevole ricavare una interpretazione rispettosa della posizione costituzionalmente garantita alla ricorrente, in assenza di un espresso riferimento nella norma censurata alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome e in presenza della richiamata clausola di salvaguardia delle competenze delle autonomie speciali contenuta nell’art. 95, comma 2. La disposizione impugnata non può pertanto intendersi nel senso di trasferire alla competenza statale autorizzazioni in materia ambientale che già appartengano alla competenza provinciale o di ridurre il ruolo delle determinazioni provinciali nell’ambito delle procedure di competenza statale.

e) Ancora con riguardo alle Province autonome, nella sentenza n. 321 si dichiara l’incostituzionalità della legge della Provincia autonoma di Bolzano 18 dicembre 2002, n. 15 (Testo unico dell’ordinamento dei servizi antincendi e per la protezione civile), nella parte in cui attribuisce al Centro operativo provinciale il compito di dirigere e coordinare l’attività di pronto intervento, non solo «dell’amministrazione provinciale dei comuni e dei servizi antincendio e per la protezione civile», ma anche dell’amministrazione «dello Stato». A tale conclusione la Corte giunge una volta esaminata la ripartizione delle competenze legislative fra lo Stato e le Province autonome della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol in tema di protezione civile regolata dalle norme di attuazione dello statuto introdotte con il d.P.R. n. 381 del 1974, il cui art. 33 distingue gli eventi calamitosi cui le Province possono fare fronte con l’esercizio delle proprie competenze esclusive o delegate e quelli che trascendono tali capacità e impongono l’intervento sussidiario dello Stato. In riferimento alle situazioni di quest’ultimo tipo, il commissario del Governo provvede al coordinamento degli interventi dello Stato con quelli effettuati dagli organismi delle Regioni e delle province. La legge provinciale impugnata è, quindi, in sintonia con tale quadro normativo, nella parte in cui regola situazioni di pericolo che la Provincia può fronteggiare, esercitando le sue competenze ed impiegando le risorse umane e materiali di cui dispone; essa viola, però, l’art. 87 dello statuto, che attribuisce ad un organo statale (il commissario del Governo) il coordinamento dell’attività degli uffici statali esistenti nella Regione. E, con particolare riferimento alla materia della protezione civile, viola l’art. 35 delle norme di attuazione dello statuto speciale approvate con il d.P.R. n. 381 del 1974, secondo cui spetta al commissario nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri, in sede di dichiarazione dello stato di catastrofe o di calamità naturale, provvedere al coordinamento degli interventi dello Stato con quelli regionali e provinciali.

Non fondata risulta, invece, l’altra questione, concernente l’attribuzione al Presidente della Provincia del potere di provvedere, per l’attuazione degli interventi conseguenti alla dichiarazione dello stato di calamità, a mezzo di ordinanze in deroga alle disposizioni vigenti relative alle materie di competenza provinciale, nel rispetto dei principî generali dell’ordinamento giuridico. La norma impugnata, infatti, come si desume dalla sua formulazione letterale, limita l’ambito delle ordinanze in esame alle sole «materie di competenza provinciale» e prescrive la loro emanazione «nel rispetto dei principî generali dell’ordinamento giuridico». Pertanto, il potere derogatorio da essa previsto non può estendersi a materie (come la tutela dell’ordine pubblico) estranee alle competenze provinciali.

Parimenti infondata è l’impugnativa della disposizione che conferisce al Presidente della Provincia il potere di requisire beni mobili ed immobili: la formulazione della norma non rivela alcun elemento che ne giustifichi un’interpretazione tanto estensiva da far ritenere i beni dello Stato inclusi fra quelli assoggettabili a requisizione.

f) La sentenza n. 286 ha ad oggetto una tematica su cui la Corte è intervenuta a più riprese, nel corso dell’anno, principalmente facendo applicazione di parametri del Titolo V anteriori alla riforma del 2001. Nella decisione, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale degli articoli 17, commi 1 e 2, e 20, della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 12 dicembre 2002, n. 27, che disciplinano, rispettivamente, un sistema di «compensazione regionale» ed una «riserva regionale». Le norme dello statuto Valle d’Aosta e quelle di attuazione dello stesso (decreto legislativo n. 238 del 2001, art. 1) demandano alla Regione stessa la regolamentazione in materia di agricoltura, nel cui ambito deve essere ricompresa la disciplina delle c.d. «quote-latte». Tuttavia, sottolinea la Corte, tale potestà legislativa deve esercitarsi nel «rispetto degli obblighi internazionali», compresi gli obblighi comunitari. La normativa comunitaria, infatti, in ordine alle modalità operative della compensazione, circoscrive «la discrezionalità lasciata agli Stati membri» alla scelta tra due soli livelli: «quello degli acquirenti ovvero quello nazionale»; mentre, per la riserva, le disposizioni comunitarie autorizzano la istituzione di una riserva solo a livello nazionale. Ne consegue che le norme censurate, prevedendo, l’una, un diverso sistema di compensazione a base regionale, e l’altra, una «riserva regionale», non consentita dalla normativa comunitaria, si pongono in contrasto con i parametri costituzionali evocati.

g) Due decisioni, rese in sede di conflitto di attribuzione tra enti, riguardano un indebito uso dei poteri di controllo da parte della Corte dei Conti nei confronti di enti ad autonomia differenziata (rispettivamente, la Provincia di Trento e la Regione Siciliana).

Con la sentenza n. 171, la Corte dichiara che non spetta allo Stato, e per esso alla Corte dei conti, sottoporre alla certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio, sulla base di una disposizione legislativa provinciale non più applicabile, l’ipotesi di accordo di settore per il personale con la qualifica di direttore della Provincia autonoma di Trento.

La Corte premette che, in tema di estensione alla Provincia di Trento del controllo previsto per i contratti collettivi nazionali dall’art. 51, comma 2, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche, non rientra nella competenza legislativa provinciale disciplinare le funzioni di controllo della Corte dei conti, anche se la loro eventuale incidenza su materie di competenza esclusiva provinciale deve essere regolata alla stregua della rispettiva normativa di carattere statutario. I procedimenti di controllo contabile debbono quindi svolgersi secondo la disciplina statale, ma in modo tale che il necessario adeguamento legislativo provinciale li renda compatibili con l’ordinamento di appartenenza, senza che in proposito possano essere invocati eventuali vincoli derivanti da norme fondamentali di riforma economico-sociale.

Sulla base di questi rilievi, la Corte esclude che l’art. 60, comma 3, della legge provinciale 3 aprile 1997, n. 7 (peraltro abrogato dalla legge provinciale 19 febbraio 2002, n. 1) – il quale, attraverso il rinvio, da ritenersi fisso e non dinamico o mobile, all’art. 51, comma 2, del citato decreto legislativo n. 29 del 1993, rendeva applicabile nell’ordinamento provinciale il modello di controllo contabile da detta disposizione previsto attraverso la sottoposizione al controllo della Corte dei conti dell’autorizzazione giuntale alla sottoscrizione dei contratti collettivi – possa trovare applicazione pur dopo che l’art. 47, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ha superato la precedente logica del controllo di legittimità formale previsto dal citato art. 51, comma 2, optando per un controllo effettivo della spesa basato sulle procedure di «certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio»; ciò in quanto, in ambito provinciale, il controllo della Corte dei conti è limitato ad una tipologia puntuale di procedure ed atti e non possono essere previsti tipi di controllo diversi, sotto il profilo formale ed oggettivo, da quelli espressamente indicati, sicché gli atti impugnati, che proprio sull’art. 60, comma 3, della legge provinciale n. 7 del 1997 hanno fondato il rispettivo dispositivo, sono illegittimi ed arrecano una menomazione alle attribuzioni costituzionali della Provincia di Trento in materia (v. sentenza n. 182 del 1997 ed ordinanza n. 310/1998).

Con la sentenza n. 337, la Corte dichiara, invece, che non spetta allo Stato e, per esso, al Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione siciliana emettere ordini di esibizione diretti ai rappresentanti legali di tutti i gruppi parlamentari costituiti presso l’Assemblea regionale siciliana, con i quali viene ordinato di esibire in forma integrale la documentazione e gli atti contabili pertinenti le contribuzioni ed i finanziamenti liquidati dall’Assemblea regionale siciliana. Non sussistendo, infatti, in capo all’organo emanante un potere di controllo generalizzato e permanente, come peraltro, la Corte ha già avuto modo di sottolineare (sentenza n. 100 del 1995), gli ordini di esibizione impugnati si distinguono per una genericità «soggettiva» ed «oggettiva», sintomatica di attribuzioni esercitate in modo eccedente rispetto ai confini tipizzati dall’ordinamento, sì da produrre una menomazione nella sfera presidiata dalle garanzie di autonomia della funzione legislativa della Regione ricorrente.

h) Tra le decisioni riguardanti le Regioni speciali, resta da segnalare la sentenza n. 173, avente ad oggetto una disposizione legislativa della Regione Friuli – Venezia Giulia relativa alla disciplina delle elezioni comunali. Ad essa già si è avuto modo di far riferimento supra, cap. II, sez. IV, par. 1).