Ordinanza n. 297 del 2005

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ORDINANZA N. 297

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Piero Alberto  CAPOTOSTI             Presidente

- Fernanda         CONTRI                      Giudice      

- Guido             NEPPI MODONA           “

- Annibale         MARINI                           “

- Franco             BILE                                 “

- Giovanni Maria FLICK                            “

- Francesco        AMIRANTE                     “

- Ugo                 DE SIERVO                     “

- Romano          VACCARELLA               “

- Paolo               MADDALENA                “

- Alfio               FINOCCHIARO              “

- Alfonso           QUARANTA                   “

- Franco             GALLO                            “

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 24, 25, 26 e 28 del decreto legislativo 21 maggio 2000, n. 146 (Adeguamento delle strutture e degli organici dell'Amministrazione penitenziaria e dell'Ufficio centrale per la giustizia minorile, nonché istituzione dei ruoli direttivi ordinario e speciale del Corpo di polizia penitenziaria, a norma dell'articolo 12 della L. 28 luglio 1999, n. 266), promossi con n. 2 ordinanze del 30 luglio 2004 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sui ricorsi proposti da Giardinetto Amiello ed altri e da Rinaldi Giuseppe ed altri contro la Presidenza del Consiglio dei ministri ed altri iscritte ai nn. 925 e 926 del registro ordinanze 2004 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2004.

  Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 22 giugno 2005 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

Ritenuto che con due ordinanze di contenuto pressoché identico (r.o. n. 925 e n. 926 del 2004), del 30 luglio 2004, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione I quater, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 24, 25, 26 e 28 del decreto legislativo 21 maggio 2000, n. 146, (Adeguamento delle strutture e degli organici dell'Amministrazione penitenziaria e dell'Ufficio centrale per la giustizia minorile, nonché istituzione dei ruoli direttivi ordinario e speciale del Corpo di polizia penitenziaria, a norma dell'articolo 12 della L. 28 luglio 1999, n. 266), con riferimento agli articoli 3, 76 e 97 della Costituzione;

che il rimettente premette che i giudizi a quo, promossi da alcuni appartenenti al Corpo della Polizia penitenziaria nei confronti del Ministero della giustizia e della Presidenza del Consiglio dei ministri, hanno ad oggetto la domanda con cui si chiede di annullare gli «atti relativi al passaggio di qualifiche nel ruolo direttivo speciale del Corpo di Polizia penitenziaria, ovvero gli atti di indizione e disciplina dei relativi concorsi, nonché di nomina dei ricorrenti alla qualifica di vice commissario» e la domanda di accertamento del diritto dei ricorrenti al passaggio nella qualifica corrispondente (vice commissario), «con decorrenza dei medesimi termini previsti per il passaggio di qualifiche nel ruolo direttivo speciale della Polizia di Stato»;

che i ricorrenti lamentano, nei giudizi a quo, la violazione dell’art. 12 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell'Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), con la quale il Governo è stato delegato ad emanare, tra l’altro, norme per il riordino delle carriere del personale dell’Amministrazione penitenziaria;

che, in particolare, il citato art. 12, comma 1, lettera b), ha previsto l’istituzione di un «ruolo direttivo ordinario del Corpo di polizia penitenziaria, con carriera analoga a quella del personale di pari qualifica del corrispondente ruolo della Polizia di Stato»

che, ad avviso del rimettente, l’esercizio della delega, attraverso il d.lgs. n. 146 del 2000, avrebbe condotto all’emanazione di una disciplina meno favorevole, per i dipendenti interessati, rispetto a quella prevista, per gli appartenenti alla Polizia di Stato, dalla legge 31 marzo 2000, n. 78 (Delega al Governo in materia di riordino dell’Arma dei carabinieri, del Corpo forestale dello Stato, del Corpo della Guardia di finanza e della Polizia di Stato. Norme in materia di coordinamento delle Forze di polizia), e dal successivo decreto legislativo 5 ottobre 2000, n. 334 (Riordino dei ruoli del personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato, a norma dell'articolo 5, comma 1, della legge 31 marzo 2000, n. 78);

che, in particolare, il trattamento deteriore, ad avviso del giudice a quo, si ricaverebbe dal maggior numero di anni necessari, per gli appartenenti al Corpo della Polizia penitenziaria, per accedere alla qualifica più elevata, a partire dal momento dell’ingresso nel ruolo, «in contrasto con l’equiordinazione prevista dal ricordato art. 12 della legge n. 266 del 1999»;

che secondo il rimettente «il ricorso postula, sostanzialmente, una questione di costituzionalità, non potendo applicarsi alla Polizia penitenziaria disposizioni dettate per la Polizia di Stato – e non sussistendo, quindi, alcuna possibilità di riconoscere la qualifica di commissario al termine del corso di formazione, finalizzato ex lege all’attribuzione di una qualifica inferiore – a meno che non si ravvisi nella segnalata disparità di trattamento una violazione di precetti costituzionali, atti a giustificare un intervento anche additivo della Suprema Corte»;

che il giudice a quo afferma, peraltro, di ritenere fondata l’eccezione della difesa erariale relativa all’assenza, in concreto, di una discriminazione in peius per i ricorrenti «rispetto al corrispondente personale della Polizia di Stato», alla luce delle modalità di accesso dei ricorrenti medesimi alla qualifica di vice commissario;

che tuttavia, nonostante tale rilievo, il rimettente ritiene di argomentare per un verso «l’assenza di un effettivo coordinamento fra le normative di cui si discute», e, per altro verso, il maggior lasso di tempo richiesto ai vice commissari della Polizia penitenziaria dalla normativa censurata per il passaggio alla qualifica di commissario, rispetto a quello – inferiore – relativo ai vice-commissari della Polizia di Stato per la progressione alla medesima qualifica (“commissario”);

che alla luce di quest’ultima conclusione, il giudice a quo afferma che dal raffronto delle relative normative non possa configurarsi, per il personale della Polizia penitenziaria, una «carriera analoga a quella del personale di pari qualifica del corrispondente ruolo della Polizia di Stato», secondo quanto previsto dal citato art. 12, comma 1, lettera b), della legge n. 266 del 1999;

che secondo il rimettente la delega non implicava «necessariamente identità di disciplina, ma non autorizzava differenze arbitrarie, scollegate da una oggettiva non corrispondenza di funzioni»;

che secondo il giudice a quo, in ipotesi di introduzione di «sensibili differenze nello sviluppo di carriera nei ruoli direttivi in questione», avrebbero dovuto essere «desumibili dalle disposizioni, emanate dal legislatore delegato, i criteri delle scelte operate»;

che ad avviso del rimettente tali criteri differenziali non sarebbero desumibili dal testo delle norme censurate, né sarebbe condivisibile l’indicazione in tal senso fornita dalla difesa erariale nel giudizio a quo, che ha fatto leva sulla posteriorità della normativa, regolante la Polizia di Stato, cui si pretende di parametrare l’omogeneità del trattamento stabilito dalle disposizioni impugnate: ciò in quanto l’esercizio della delega relativa alla Polizia penitenziaria è in realtà avvenuto (con d.lgs n. 146 del 2000) quando la delega relativa alla Polizia di Stato era già stata conferita (con la legge n. 78 del 2000), ancorché non esercitata (lo sarebbe stata, con successivo d.lgs. n. 334 del 2000);

che alla luce di questa ricostruzione, il giudice a quo conclude nel senso di ritenere che si porrebbe «una questione di corretta e razionale attuazione della delega, in conformità alle intenzioni del legislatore nonché alle esigenze del settore, sottoposto a regolamentazione»;

che di tale questione il rimettente afferma sia la rilevanza («con particolare riguardo alla disciplina transitoria, dettata dall’art. 28 del d.lgs. n. 146 del 2000, in correlazione al precedente art. 24»), sia la non manifesta infondatezza, in relazione agli artt. 3, 76 e 97 della Costituzione;

che, in relazione al merito della censura, il giudice a quo sollecita un sindacato «della Suprema Corte in rapporto al principio di ragionevolezza» riconducibile agli articoli 3 e 97 della Costituzione, «dovendo coniugarsi in base al combinato disposto di tali articoli imparzialità e non arbitrarietà della disciplina adottata (Corte costituzionale, sentenza 12.6.1991, n. 277 cit.)»;

che tale sindacato, secondo il giudice a quo, dovrebbe verificare l’esistenza di «un vero e proprio vizio di eccesso di potere legislativo», avuto riguardo alla «ratio legis, assunta come parametro di riferimento della norma»;

che con riferimento alla specifica questione dedotta, il rimettente afferma che la frequenza del ricorso allo strumento della delega legislativa «induce a ricercare detta ratio legis in modo non atomistico, ma nello spirito di un rinvio dinamico» (secondo il principio affermato dalla Corte nella sentenza n. 40 del 1994), di modo che sarebbe «difficile negare che la normativa, attualmente sottoposta all’esame del Collegio, non sia satisfattiva delle finalità indicate nella legge delega n. 266 del 1999»;

che da ciò, ad avviso del rimettente, discenderebbe la fondatezza delle questioni sollevate, dal momento che «era nella facoltà del Governo, delegato ad effettuare il riordino dei ruoli sia della Polizia penitenziaria che della Polizia di Stato, operare il necessario coordinamento a livello di normazione delegata, affinché non si realizzasse nel medesimo periodo una ingiustificata disparità di trattamento fra categorie di personale, che il legislatore intendeva regolamentare in modo analogo»;

che in entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito, in via preliminare, la manifesta inammissibilità della questione, in quanto essa tenderebbe non già ad ottenere la «cessazione di efficacia della norma impugnata» ma «una pronuncia additiva tesa a riconoscere ai ricorrenti la qualifica superiore di commissario al termine del corso di formazione finalizzato, per legge, all’attribuzione di una qualifica inferiore (vicecommissario)»;

che, ad avviso della difesa erariale, le censure, nel merito, sarebbero infondate dal momento che il presupposto interpretativo della equiparazione delle carriere potrebbe essere riferito, in base al dato testuale contenuto nella legge di delega [art. 12, comma 1, lettera b), della legge n. 266 del 1999], soltanto agli appartenenti al ruolo direttivo ordinario del Corpo di Polizia penitenziaria;

che successivamente, peraltro, il legislatore delegato avrebbe equiparato il ruolo direttivo ordinario al ruolo direttivo speciale: ma solo per il primo il legislatore delegante avrebbe previsto che lo sviluppo di carriera sia analogo a quello dei corrispondenti ruoli della Polizia di Stato, sicché non potrebbe contestarsi la mancata estensione di tale rapporto di analogia anche al ruolo direttivo speciale della Polizia penitenziaria (cui appartengono i ricorrenti nel giudizio a quo);

che l’Avvocatura dello Stato osserva che, comunque, il rapporto di analogia stabilito, fra le due carriere, dalla richiamata disposizione della legge delega, deve essere valutato sulla base della normativa della Polizia di Stato vigente al momento dell’emanazione di tale disposizione, e non anche in relazione a normative sopravvenute;

che, infine, l’Avvocatura dello Stato sottolinea che il contenuto della delega non implicherebbe una «assoluta identità di disciplina» fra le carriere dei ruoli direttivi dei due Corpi, ma unicamente un «parallelismo fra i ruoli».

Considerato che le ordinanze prospettano le medesime questioni, sicché i relativi giudizi devono essere riuniti e decisi con unico provvedimento;

che le ordinanze di rimessione sono inficiate da carenze e contraddittorietà nella prospettazione delle censure;

che, in particolare, risulta carente la descrizione della fattispecie oggetto dei giudizi a quibus, dal momento che dalle ordinanze di rimessione non si comprende con chiarezza quale sia l’oggetto di tali giudizi e, in particolare, in cosa si identifichi la pretesa sostanziale dei ricorrenti, nonché quale sia la loro specifica posizione rispetto alla vicenda – concorsuale, o di progressione in carriera, attuale o potenziale – dedotta;

che da ciò discende l’impossibilità di vagliare l’effettiva applicabilità della norma censurata ai casi dedotti (sulla quale peraltro il rimettente non ha fornito alcuna plausibile motivazione), a prescindere dall’esame nel merito della opinabile argomentazione tendente a sollecitare la valutazione di una pretesa disparità di trattamento discendente, in tesi, non dalla normativa censurata, ma da un tertium comparationis ad essa successivo;

che un ulteriore, e concorrente, motivo di inammissibilità delle questioni sollevate va ravvisato nel fatto che i ricorrenti nei due giudizi a quibus appartengono, per espressa affermazione del rimettente, al ruolo direttivo speciale di cui al comma 2 dell’art. 12 della legge n. 266 del 1999, laddove entrambe le ordinanze di rimessione indicano come norma interposta, in relazione alla asserita violazione dell’art. 76 Cost., l’art. 12, comma 1, lettera b), della legge n. 266 del 1999, relativa, invece, alla istituzione (ed alla disciplina della relativa carriera) del ruolo direttivo ordinario del Corpo di polizia penitenziaria;

che, conseguentemente, anche sotto questo profilo le questioni sollevate sono manifestamente inammissibili, non potendo le norme censurate, anche se – in via meramente ipotetica – interessate da una eventuale modifica additiva quale quella sollecitata dal rimettente, trovare applicazione nei giudizi a quibus.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli articoli 24, 25, 26 e 28 del decreto legislativo 21 maggio 2000, n. 146 (Adeguamento delle strutture e degli organici dell’Amministrazione penitenziaria e dell'Ufficio centrale per la giustizia minorile, nonché istituzione dei ruoli direttivi ordinario e speciale del Corpo di polizia penitenziaria, a norma dell'articolo 12 della legge 28 luglio 1999, n. 266), sollevate, in riferimento agli articoli 3, 76 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione I quater, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2005.

 

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

 

Ugo DE SIERVO, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2005.