Sentenza n. 439 del 2005

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SENTENZA N. 439

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Annibale                     MARINI                                Presidente

- Franco                         BILE                                        Giudice

- Giovanni Maria           FLICK                                          "

- Francesco                    AMIRANTE                                 "

- Ugo                             DE SIERVO                                 "

- Romano                      VACCARELLA                           "

- Paolo                           MADDALENA                            "

- Alfonso                       QUARANTA                               "

- Franco                         GALLO                                        "

- Luigi                           MAZZELLA                                "

- Gaetano                      SILVESTRI                                  "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 5 marzo 1990, n. 45 (Norme per la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti), promosso dal Tribunale di Torino, nel procedimento civile vertente tra G. V. e la Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti, con ordinanza del 9 marzo 2004, iscritta al n. 616 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2004.

Visti gli atti di costituzione di G. V. e della Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 25 ottobre 2005 il Giudice relatore Francesco Amirante;

uditi l’avvocato Michele Iacoviello per la Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti e l’avvocato dello Stato Giuseppe Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.–– Nel corso di un procedimento civile instaurato nei confronti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti, il Tribunale di Torino con ordinanza del 20 aprile 2002 sollevava, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 5 marzo 1990, n. 45 (Norme per la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti), nella parte in cui dispone che nei confronti dei soggetti che si siano avvalsi della facoltà di ricongiunzione non si applica l’art. 21 della legge 29 gennaio 1986, n. 21, il quale consente a coloro che cessano dall’iscrizione alla Cassa convenuta senza aver maturato i requisiti per il diritto a pensione – ed, eventualmente, agli eredi di questi che, come la ricorrente, non abbiano diritto alla pensione indiretta – di richiedere la restituzione dei contributi versati alla Cassa stessa.

Premetteva il giudice a quo che la ricorrente aveva promosso il giudizio al fine di ottenere la condanna della Cassa alla restituzione di quanto complessivamente versato dal fratello defunto a titolo sia di contributi relativi al periodo 1° gennaio 1970-27 giugno 2000 di iscrizione alla Cassa convenuta sia di onere per la ricongiunzione di cinque anni di anzianità contributiva maturati presso l’INPS (nel periodo 1° gennaio 1963-31 gennaio 1969) chiesta ed ottenuta dal de cuius il 19 aprile 1994.

Il remittente – dopo aver precisato che la domanda di rimborso formulata dalla ricorrente non poteva essere accolta in considerazione del «limite insormontabile» costituito dall’impugnato art. 8 della legge n. 45 del 1990 – osservava che la previsione della restituzione dei contributi nell’ipotesi in cui non vengano raggiunti i requisiti per il diritto a pensione era da ritenere in contrasto con la logica finanziaria sottesa ad un qualunque contratto di tipo aleatorio; ciò nonostante egli, non avendo elementi per contestare la legittimità costituzionale del citato art. 21, riteneva di dover dubitare della razionalità della disposizione del citato art. 8 che, senza alcuna valida giustificazione, porta a trattare in modo diverso situazioni uguali.

Al riguardo il giudice a quo precisava che, in casi come quello in esame, doveva senz’altro escludersi la possibilità di rimborsare i contributi trasferiti dall’INPS alla Cassa, in quanto essi avevano avuto a suo tempo una precisa funzione assicurativa; in base all’art. 21 della legge n. 21 del 1986, invece, non vi era alcun motivo per negare, in conseguenza del mero esercizio della facoltà di ricongiunzione, la restituzione dei contributi versati direttamente alla Cassa e di quanto ad essa corrisposto come onere per la ricongiunzione (il cui trattenimento da parte della Cassa si sarebbe risolto in una sorta di arricchimento senza causa). L’equilibrio finanziario della prestazione gravante su quest’ultima, infatti, non subisce alcuna modifica per effetto della ricongiunzione perché l’ente, per dare attuazione alla relativa istanza dell’assicurato, non si limita a chiedere ed ottenere i contributi versati a suo tempo nella gestione di provenienza, ma ottiene dal professionista cospicue integrazioni di tale somma sulla base del calcolo della riserva matematica, come previsto dall’art. 2 della legge n. 45 del 1990. Nel caso di specie, ad esempio, il quinquennio di contributi presso l’INPS, pari al valore nominale di lire 4.379.000 (comprensivo di interessi), era stato significativamente integrato con il versamento da parte dell’assicurato della somma di lire 44.802.000, onde raggiungere la riserva matematica calcolata in lire 49.181.000.

2.–– La questione così prospettata veniva dichiarata manifestamente inammissibile da questa Corte, con ordinanza n. 235 del 2003, per carenze di motivazione del provvedimento di remissione.

3.–– Il medesimo Tribunale di Torino, dopo aver ricevuto comunicazione della menzionata pronuncia di questa Corte, con successiva ordinanza del 9 marzo 2004, emessa nel corso dello stesso giudizio, ha sollevato nuovamente identica questione di legittimità costituzionale, riportando testualmente la precedente ordinanza di remissione ed aggiungendo, a titolo di integrazione, che l’assicurato è morto il 27 giugno 2000 all’età di sessantatré anni, senza aver mai fatto domanda di pensione di anzianità pur avendone i requisiti contributivi e senza essersi cancellato dall’albo; con la conseguenza che vi è certamente una base contributiva non utilizzabile della cui ripetibilità si controverte nel giudizio a quo.

4.–– Nel giudizio davanti alla Corte si è costituita la Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile ed in subordine infondata.

Osserva la Cassa, preliminarmente, che l’odierna ordinanza di remissione è identica a quella precedente, con la sola aggiunta dei dati anagrafici del defunto e della precisazione che questi non aveva conseguito il diritto alla pensione.

Ciò premesso, la parte rileva che l’art. 3 Cost. è richiamato solo sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, senza alcun riferimento a quello di ragionevolezza, e che questa Corte (sentenza n. 421 del 1995) ha chiarito che l’invocato principio non può essere utilizzato per estendere situazioni di privilegio; analogamente, nessuna censura è prospettata in riferimento all’art. 38 della Costituzione. La giurisprudenza di questa Corte, d’altra parte, ha evidenziato che la ripetizione dei contributi ha natura eccezionale (sentenza n. 404 del 2000), limitata alla sola previdenza dei liberi professionisti e sconosciuta al sistema dell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori; sicché la tesi secondo cui nel caso di specie la mancata restituzione delle somme versate darebbe luogo ad una ipotesi di arricchimento senza causa è destituita di fondamento in quanto essa non considera che, data la natura solidaristica dei sistemi previdenziali anche dei liberi professionisti, non è configurabile un generale diritto degli assicurati, che non abbiano goduto delle prestazioni attese, ad ottenere la restituzione di quanto versato agli enti previdenziali di appartenenza. Il versamento dei contributi, infatti, è finalizzato al conseguimento di un interesse collettivo, senza che esista alcuna relazione di sinallagmaticità tra obbligazione contributiva ed erogazione di prestazioni previdenziali.

Ne consegue che il diritto dell’interessato alla restituzione dei contributi non utilizzati può sussistere solo se specificamente attribuito da apposite norme derogatorie rispetto ai principi generali applicabili in materia di previdenza e, come tali, di stretta interpretazione. Una di queste norme è rappresentata dall’art. 21 della legge n. 21 del 1986, invocato dalla ricorrente, la cui applicazione presuppone che chi vuole ottenere la restituzione delle somme versate fornisca la prova della sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per conseguire il risultato sperato. Nel caso di specie tali requisiti non sussistono, in quanto l’art. 8 della legge n. 45 del 1990 esclude espressamente il diritto al suddetto rimborso nei confronti dei soggetti che si siano avvalsi della facoltà di ricongiunzione prevista dalla stessa legge n. 45 del 1990.

Tale esclusione non può destare stupore alla luce di quanto si è detto in merito alla natura solidaristica dei sistemi previdenziali e alla assoluta eccezionalità delle norme che prevedono la possibilità di conseguire la restituzione delle somme versate. Occorre poi tenere presente, secondo la Cassa, che i contributi oggetto di ricongiunzione sono «il risultato di una confluenza fra vari tipi di contributi», per cui l’interessato non potrebbe invocare per la totalità dei medesimi il regime più favorevole riconosciuto ad una sola parte di tali contributi; nel caso di specie, infatti, l’accoglimento della questione porterebbe all’assurda conseguenza di consentire la ripetizione di contributi versati presso l’INPS, pacificamente irripetibili per tutti i lavoratori dipendenti.

L’esercizio della facoltà di ricongiunzione, del resto, è un diritto potestativo del libero professionista che è chiamato a compiere un bilanciamento tra le varie opzioni che gli si offrono, onde valutarne le conseguenze più o meno favorevoli; sicché l’irripetibilità dei contributi, nota all’interessato, è da considerare uno dei rischi collegati con l’esercizio della facoltà di ricongiunzione.

Va detto, infine, che, anche limitando, come fa lo stesso giudice a quo, l’eventuale diritto al rimborso ai contributi versati direttamente alla Cassa e alle somme corrisposte per la ricongiunzione, l’attuale questione di legittimità costituzionale, secondo quanto si desume dalla stessa ordinanza di rimessione, è condizionata «alla sussistenza dei presupposti finanziari e di bilancio … che da lungo tempo la Corte considera valore del sistema da apprezzare unitamente agli altri parametri di costituzionalità» (sentenza n. 404 del 2000).

5.–– Si è costituita in giudizio anche la ricorrente chiedendo, invece, che la questione sia dichiarata fondata.

La parte privata, nel ribadire, sostanzialmente, le argomentazioni del giudice remittente, evidenzia che la norma in oggetto viola il principio di uguaglianza in quanto «tratta irragionevolmente in modo diverso situazioni uguali»; sarebbe possibile, ad esempio, la ripetizione per chi avesse versato trentaquattro anni di contributi tutti in favore della Cassa e sarebbe invece negata analoga possibilità per chi avesse versato i medesimi anni di contribuzione tramite la ricongiunzione.

L’auspicata rimborsabilità dovrebbe quindi essere estesa anche ai contributi trasferiti dall’INPS alla Cassa convenuta, mentre altri profili, come quello relativo alla legittimità o meno della previsione del diritto alla ripetizione dei contributi, non sono oggetto di rimessione e comunque attengono al merito di scelte discrezionali del legislatore non sindacabili davanti alla Corte costituzionale.

6.–– E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

La difesa erariale afferma, in primo luogo, di non condividere la premessa logica da cui muove il remittente, rappresentata dalla asserita identità della situazione del professionista che versa esclusivamente i contributi alla rispettiva Cassa previdenziale e di quella del professionista che si avvalga della facoltà, prevista dalla legge n. 45 del 1990, di chiedere la ricongiunzione di tutti i periodi di contribuzione ovunque versati.

La specificità dell’istituto della ricongiunzione, nei termini esattamente individuati dalla Corte di cassazione specialmente nella sentenza 13 dicembre 1999, n. 13987, «svincola del tutto la relativa disciplina dalle regole che sovrintendono al differente rapporto tra professionista e Cassa previdenziale e, quindi, giustifica il diverso trattamento anche con riferimento alla ripetizione dei contributi versati».

In altri termini, la contestata esclusione del diritto al rimborso è perfettamente corrispondente alla logica che ispira tutta la normativa dettata dalla legge n. 45 del 1990 nella quale va attribuito un ruolo centrale alla disposizione dell’art. 4, comma 3, secondo cui l’accettazione – che può anche essere implicita e consistere nel versamento, anche parziale, di quanto dovuto – da parte dell’interessato della proposta della gestione previdenziale circa le modalità e l’entità dell’onere della ricongiunzione, determinando l’irrevocabilità della relativa domanda, esclude che eventi sopravvenuti possano influire sull’avvenuto perfezionamento dell’intervenuto negozio bilaterale di natura pubblicistica al cui complesso iter formativo ha dato l’avvio la scelta iniziale dell’assicurato di esercitare la facoltà prevista dalla legge n. 45 del 1990.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di Torino dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 5 marzo 1990, n. 45 (Norme per la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti), nella parte in cui dispone che non si applichi l’art. 21 della legge 29 gennaio 1986, n. 21 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti), il quale prevede il diritto alla restituzione dei contributi a favore dei dottori commercialisti che cessano dalla iscrizione alla Cassa senza aver maturato i requisiti per il diritto a pensione, o dei loro eredi.

Secondo il remittente la norma censurata è irragionevole perché, mentre la ricongiunzione non comporta alcun onere per la Cassa, costituisce un arricchimento privo di causa il trattenimento dei contributi versati dal professionista senza che alcuna prestazione costui o i suoi eredi abbiano conseguito.

2.— In via preliminare si rileva l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, prospettata dalla Avvocatura dello Stato sul rilievo che non risulterebbe che il dante causa della ricorrente nel giudizio di merito non avesse maturato i requisiti per il diritto a pensione. Infatti, il remittente riferisce che il professionista è morto senza aver raggiunto l’età per ottenere la pensione di vecchiaia e che, non essendosi cancellato dall’albo e non avendo presentato la relativa domanda, non aveva maturato i requisiti per il diritto alla pensione di anzianità. Con motivazione non implausibile, quindi, il giudice a quo conclude che, qualora non esistesse la norma impugnata, la ricorrente avrebbe diritto alla restituzione dei contributi versati dal de cuius.

3.— Nel merito, la questione non è fondata.

Occorre premettere che la ricongiunzione delle posizioni previdenziali costituite a favore di un lavoratore presso gestioni diverse è istituto di carattere generale, ancorché sia, rispettivamente e diversamente, disciplinato dalla legge 7 febbraio 1979, n. 29 (Ricongiunzione dei periodi assicurativi dei lavoratori ai fini previdenziali), per i lavoratori dipendenti e dalla legge n. 45 del 1990 per i liberi professionisti. L’istituto della restituzione dei contributi, invece, è di carattere eccezionale (v. sentenza n. 404 del 2000), previsto solo a favore di determinate categorie di professionisti e non regolato da norme uniformi. A tal proposito è significativa la constatazione che l’art. 8 censurato, per escludere la restituzione dei contributi nei riguardi dei professionisti che si siano avvalsi della facoltà di chiedere la ricongiunzione, si riferisce a quattro diverse leggi, perché la restituzione dei contributi è diversamente regolata nei sistemi previdenziali delle singole categorie professionali.

La ricongiunzione comporta, da un lato, il trasferimento dei contributi versati alla o alle gestioni dove l’assicurato aveva avuto in precedenza una posizione previdenziale in favore di quella presso la quale avviene la ricongiunzione; dall’altro, il versamento a quest’ultima, da parte dell’assicurato, di una somma determinata secondo criteri stabiliti in funzione della durata delle diverse posizioni, dell’entità dei contributi, delle modalità di calcolo della prestazione previdenziale, delle peculiarità cioè di ogni rapporto; peculiarità che è irrilevante in questa sede individuare.

La domanda di ricongiunzione – attraverso la quale si esercita il relativo diritto potestativo – diviene irrevocabile con la formale accettazione oppure tramite il versamento, anche parziale, dell’importo dovuto (art. 4, comma 3, della legge n. 45 del 1990 ed art. 5 della legge n. 29 del 1979), determinandosi in tal modo l’unificazione irreversibile delle somme di diversa provenienza ed entità e la creazione di una posizione previdenziale nuova. La riconducibilità della domanda ad una libera scelta dell’assicurato, unitamente al carattere eccezionale della restituzione dei contributi, fa sì che, qualora la facoltà di ricongiunzione venga esercitata, non possa essere affermata l’irragionevolezza della scelta legislativa di far rivivere la regola generale (ossia quella dell’inesistenza di un diritto alla restituzione).

La ricongiunzione, d’altra parte, per quello che qui interessa, con la varietà delle fonti che vengono a costituire il coacervo della contribuzione, comporta che la posizione previdenziale che si viene a costituire sia diversa da quella di coloro che hanno avuto la sola posizione previdenziale presso la Cassa di previdenza a favore dei dottori commercialisti. E’ opportuno soggiungere che, non potendo la restituzione comunque comprendere anche la contribuzione inerente ad un rapporto cui tale istituto è estraneo – nella specie quello a suo tempo intercorso con l’INPS – si configurerebbe una restituzione sui generis, priva cioè di qualsiasi fondamento normativo.

Vizi di irragionevolezza non si riscontrano neppure, infine, sotto i profili dell’indebito pagamento da parte dell’assicurato o dell’arricchimento senza causa che la Cassa conseguirebbe, essendo i versamenti giustificati dalle situazioni esistenti e dalle norme vigenti all’epoca della loro effettuazione, tanto più che in un sistema solidaristico la circostanza che al pagamento dei contributi non corrispondano prestazioni previdenziali non dà luogo ad arricchimento senza causa della gestione destinataria dei contributi (v. sentenza n. 390 del 1995).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 5 marzo 1990, n. 45 (Norme per la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza di cui in epigrafe.

            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 2005.

Annibale MARINI, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 9 dicembre 2005.