Ordinanza n. 296 del 2005

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ORDINANZA N. 296

 

ANNO 2005

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Piero Alberto          CAPOTOSTI                              Presidente

- Fernanda                CONTRI                                     Giudice

- Guido                     NEPPI MODONA                      "

- Annibale                 MARINI                                     "

- Franco                    BILE                                           "

- Giovanni Maria      FLICK                                         "

- Francesco               AMIRANTE                               "

- Ugo                        DE SIERVO                               "

- Romano                  VACCARELLA                         "

- Paolo                      MADDALENA                          "

- Alfio                       FINOCCHIARO                        "

- Alfonso                  QUARANTA                              "

- Franco                    GALLO                                       "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 164, quarto comma, e 168, primo comma, numero 2, del codice penale promosso con ordinanza del 28 giugno 2004 dal Tribunale di Reggio Calabria nel procedimento di esecuzione nei confronti di M.A., iscritta al n. 989 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2004.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 22 giugno 2005 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

 

Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale:

 

a) dell’art. 164, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che la sospensione condizionale della pena non possa essere concessa più di due volte, anche quando il superamento di tale limite numerico sia determinato dalla sopravvenienza di condanne per reati commessi anteriormente alla concessione del beneficio ed a pene che – cumulate alla parte residua della pena sospesa che, ad avviso del giudice, dovrebbe espiarsi, tenuto conto del periodo di sospensione condizionale trascorso e della condotta tenuta in esso dal condannato, avuto riguardo ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. – non superino i limiti indicati dall’art. 163 cod. pen.;

 

b) dell’art. 168, primo comma, numero 2, cod. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice, investito della richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena per sopravvenienza di condanne per fatti commessi anteriormente alla concessione del beneficio, determini – tenuto conto del periodo di sospensione condizionale trascorso e della condotta in esso tenuta dal condannato, avuto riguardo ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. – la misura residua in cui la pena sospesa deve essere eseguita; e che, ove tale pena residua, cumulata alle pene da eseguirsi per effetto delle condanne sopravvenute, non superi i limiti indicati dall’art. 163 cod. pen., possa rigettare la richiesta di revoca, qualora ritenga che il beneficio resti idoneo a perseguire le sue finalità;

 

che il rimettente riferisce di doversi pronunciare, quale giudice dell’esecuzione, sulla richiesta del pubblico ministero di revoca, ex art. 168, primo comma, numero 2, cod. pen., della sospensione condizionale della pena concessa ad una persona, in atto detenuta, in relazione a due sentenze di condanna per ricettazione (art. 648 cod. pen.): la prima alla pena di un anno di reclusione, oltre la multa; la seconda alla pena di un anno e sei mesi di reclusione, oltre la multa;

 

che la richiesta era motivata dalla sopravvenienza, nei confronti della stessa persona, di due ulteriori sentenze di condanna per delitti di ricettazione anteriormente commessi: l’una alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, oltre la multa; l’altra alla pena di due anni di reclusione, oltre la multa;

 

che il rimettente osserva come, in tale situazione, le norme impugnate imporrebbero una «vincolata e meccanica» revoca del beneficio, basata unicamente sul superamento «astratto» dei limiti di pena e di numero di condanne inflitte: senza tener conto – come sarebbe viceversa imposto dagli artt. 3 e 27 Cost. – dell’impatto che il ripristino dell’esecuzione della pena, per un verso, e la parziale positiva «esecuzione del beneficio della sospensione condizionale», per un altro verso, assumono rispetto al processo rieducativo del reo;

 

che, alla luce della giurisprudenza di legittimità, difatti, l’istituto della sospensione condizionale della pena parteciperebbe – alla stessa stregua delle misure alternative alla detenzione previste dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – di una finalità di prevenzione speciale, intesa alla rieducazione del reo: finalità che, peraltro, si realizza non già consentendo al condannato di scontare la pena con modalità più o meno distanti dal comune trattamento carcerario; ma sospendendo la stessa esecuzione della pena, che viene mantenuta solo come «minaccia», per l’ipotesi in cui il condannato tradisca le aspettative insite nella prognosi favorevole riguardo alla sua astensione dalla commissione di nuovi reati;

 

che, in simile prospettiva, i limiti alla possibilità di concessione originaria, di nuova concessione e di mantenimento del beneficio contemplati dagli artt. 163 e 164 cod. pen. – limiti relativi tanto all’entità delle pene inflitte che al numero delle condanne riportate – esprimerebbero una presunzione legislativa di inidoneità della sospensione condizionale a dispiegare la propria finalità di prevenzione speciale: presunzione destinata ad operare anche quando il superamento dei predetti limiti consegua alla sopravvenienza di condanne per fatti anteriormente commessi;

 

che tale disciplina rifletterebbe l’impronta ideologica dell’ordinamento vigente all’epoca di emanazione del codice penale del 1930, che non contemplava alternative al trattamento penitenziario ed attribuiva alla pena una finalità marcatamente retributiva: impronta, peraltro, profondamente alterata dalle successive modifiche legislative, introdotte a fini di adeguamento dell’ordinamento stesso ai principì di personalità della responsabilità penale e della finalità tendenzialmente rieducativa della pena, di cui all’art. 27, primo e terzo comma, Cost.;

 

che, al riguardo, verrebbe soprattutto in rilievo l’avvenuta introduzione, con l’art. 47 della legge n. 354 del 1975, della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, la quale – pur comportando limitazioni più o meno penetranti alla libertà del condannato – sottrae quest’ultimo non solo al regime penitenziario ordinario, ma allo stesso regime detentivo;

 

che detta misura affiancherebbe, dunque, la sospensione condizionale della pena, quale istituto che consente di attuare una finalità di prevenzione speciale e rieducativa senza esporre i condannati al contatto col circuito carcerario: potendo l’affidamento in prova essere attualmente concesso anche a chi non abbia subito neppure in parte l’esecuzione della pena nelle forme ordinarie;

 

che l’unica differenza risiederebbe nel fatto che nell’affidamento in prova al servizio sociale la finalità rieducativa non è esclusiva, prevedendo tale misura limitazioni della libertà del condannato che assumono un significato anche solo indirettamente afflittivo e punitivo; mentre lo sarebbe nella sospensione condizionale della pena, dato che essa solo facoltativamente può essere subordinata a determinate condizioni, peraltro non necessariamente limitative della libertà;

 

che la finalità in tutto o in parte rieducativa di una misura, la quale si ponga in alternativa al carcere, peraltro, postulerebbe necessariamente – anche alla luce del principio di personalità della responsabilità penale e della conseguente esigenza di personalizzazione del trattamento – che ogni giudizio, circa la persistente idoneità del condannato a fruire del beneficio, si basi sulla valutazione della sua condotta e della sua personalità nel momento in cui l’eventuale esecuzione della pena nelle forme ordinarie dovrebbe aver luogo; e non già su verifiche riferite al momento «astratto» in cui i reati sono stati commessi o le condanne sono state inflitte;

 

che, rispetto all’affidamento in prova al servizio sociale, tale inderogabile esigenza risulterebbe rispettata, nell’ipotesi che viene in rilievo: ove sopravvenga una nuova condanna per fatti anteriormente commessi, il tribunale di sorveglianza dovrebbe, difatti, sottrarre al cumulo delle pene inflitte il periodo trascorso in regime di affidamento che abbia avuto parziale esito positivo allo stato degli atti; e, qualora la pena complessiva così risultante non superi i limiti di fruibilità della misura, potrebbe disporne la continuazione, a prescindere dal numero di condanne sopravvenute;

 

che a diversa conclusione dovrebbe pervenirsi, invece, quanto alla sospensione condizionale della pena, avuto riguardo segnatamente al disposto dell’art. 168, primo comma, numero 2, cod. pen., nella parte in cui – in caso di sopravvenienza di condanne per fatti antecedenti alla concessione del beneficio ed a pene che, cumulate con quella sospesa, superino i limiti di legge – obbliga il giudice ad un’automatica revoca del beneficio stesso;

 

che sarebbe, difatti, «assolutamente intollerabile», sul piano costituzionale, che una sentenza di condanna per fatti anteriori al momento in cui il giudice della cognizione ha formulato la prognosi favorevole – richiesta ai fini della concessione del beneficio – possa travolgere gli effetti positivi di quest’ultimo, desumibili da «dati concreti e verificabili»: e, cioè, non soltanto dall’effettiva astensione del condannato dalla commissione di ulteriori reati; ma anche dalla condotta complessiva tenuta dal medesimo in pendenza del termine della sospensione condizionale, valutata alla luce dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen;

 

che il trattamento discriminatorio dei due istituti non potrebbe essere giustificato, d’altra parte, con la considerazione che l’affidamento in prova al servizio sociale costituisce, per consolidata giurisprudenza – al pari delle altre misure alternative alla detenzione – esso stesso una modalità di esecuzione della pena; mentre non lo è la sospensione condizionale, che non ha, di massima, alcun effetto restrittivo della libertà del condannato;

 

che a tale obiezione potrebbe infatti replicarsi che il tribunale di sorveglianza – allorché valuta se l’esito dell’affidamento sia stato positivo o meno, al fine di determinare la pena residua da espiare – prende in considerazione non già gli effetti afflittivi, ma esclusivamente quelli rieducativi della misura: ed analoga valutazione sarebbe senz’altro possibile anche in rapporto alla condotta tenuta dal condannato durante la fruizione della sospensione condizionale della pena;

 

che l’unico modo per rimuovere la discriminazione denunciata consisterebbe, dunque, nell’attribuire al giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena, poteri omologhi a quelli accordati al giudice della sorveglianza rispetto all’affidamento in prova al servizio sociale: ossia, da un lato, il potere di determinare in quale residua misura la pena condizionalmente sospesa – avuto riguardo al tempo decorso dalla concessione del beneficio ed alla condotta tenuta in esso dal condannato – debba essere eseguita; e, dall’altro lato – qualora il residuo così determinato, cumulato alle pene inflitte con le condanne sopraggiunte, non superi i limiti di cui all’art. 163 cod. pen. – il potere di rigettare la richiesta di revoca, ove permangano gli altri presupposti di fruibilità del beneficio;

 

che le considerazioni che precedono varrebbero a rendere palese l’incompatibilità con i parametri costituzionali evocati anche della disposizione dell’art. 164, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui preclude il mantenimento del beneficio nel caso di superamento del limite numerico delle due condanne a seguito della sopravvenienza di condanne per fatti anteriori;

 

che in tale ipotesi, difatti – oltre alla discriminazione tra condannati, determinata dal mero «dato formale» della pluralità o unicità delle condanne per fatti diversi, in rapporto ai quali possa esservi riunione o separazione di processi – si avrebbe ugualmente una «meccanicistica» revoca della sospensione condizionale, che oblitera le esigenze di rieducazione del reo;

 

che nessuna «coloritura», in termini di gravità dei fatti complessivamente ascritti al condannato, potrebbe essere in effetti aggiunta dalla sopravvenienza di una nuova condanna, allorché i limiti di pena di cui all’art. 163 cod. pen. non vengano comunque superati: e ciò tanto se si abbia riguardo alle attuali previsioni dell’art. 168, primo comma, numero 2, cod. pen.; quanto se si tenga conto dell’intervento che – alla stregua della prospettazione dello stesso giudice a quo – sarebbe necessario al fine di rendere tale norma costituzionalmente legittima;

 

che la norma denunciata, d’altro canto, determinerebbe una ingiustificata discriminazione rispetto agli affidati in prova al servizio sociale, in rapporto ai quali il numero delle condanne sopravvenute, per fatti anteriori alla concessione del beneficio, resta privo di rilevanza, ai fini dell’eventuale revoca della misura;

 

che è intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

 

Considerato che il giudice rimettente solleva due distinte questioni di legittimità costituzionale, inerenti alla disciplina della sospensione condizionale della pena;

 

che egli censura, in primo luogo, la disposizione dell’art. 168, primo comma, numero 2, cod. pen., il quale prevede la revoca di diritto del beneficio nel caso di sopravvenienza di un’altra condanna per un delitto anteriormente commesso a pena che, cumulata con quella sospesa, supera i limiti stabiliti dall’art. 163 cod. pen.;

 

che, ad avviso del giudice a quo, la disposizione contrasterebbe con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui non riconosce al giudice il potere di stabilire in quale misura, nell’ipotesi di revoca, la pena sospesa dovrebbe essere espiata, tramite scomputo di una frazione proporzionata al periodo di sospensione trascorso ed alla condotta in esso tenuta dal condannato; e, correlativamente, nella parte in cui non prevede che solo tale pena residua debba essere sommata a quella inflitta con la condanna sopravvenuta, al fine della verifica del superamento dei limiti indicati dall’art. 163 cod. pen.: con conseguente possibilità per il giudice – qualora tale verifica dia esito negativo – di mantenere in vita il beneficio, ove esso appaia ancora idoneo a perseguire le sue finalità (in sostanza, la revoca si trasformerebbe da obbligatoria in facoltativa, sulla falsariga della previsione del secondo comma dello stesso art. 168 cod. pen.);

 

che, al riguardo, va peraltro preliminarmente osservato che, secondo quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione, il condannato nel giudizio a quo – che aveva fruito di due sospensioni condizionali per pene già complessivamente superiori al limite dei due anni di pena detentiva, previsto dall’art. 163 cod. pen. riguardo ai soggetti di età compresa tra i ventuno ed i settanta anni (quale l’interessato) – ha riportato due nuove condanne per fatti anteriormente commessi a pene che, sommate, superano a loro volta, da sole, addirittura i tre anni di reclusione (e ciò anche a tener conto della sola pena detentiva);

 

che non si comprende, pertanto, in qual modo il rimettente potrebbe evitare, anche in caso di accoglimento del petitum, di revocare il beneficio nell’ipotesi di specie: sicché, nella sua seconda parte, la questione appare irrilevante nel giudizio a quo;

 

che quanto, poi, alla prima parte del quesito – e con particolare riferimento alla censura di violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento, rispetto alla disciplina dell’affidamento in prova al servizio sociale – giova puntualizzare che l’obbligo del giudice di tener conto del periodo di prova trascorso, nel caso di annullamento o revoca dell’anzidetta misura, consegue a pronunce di questa Corte: pronunce le quali trovano la loro ratio nell’esigenza di evitare che – a fronte dei contenuti intrinsecamente afflittivi della misura stessa – i provvedimenti in parola determino un sostanziale aggravamento del trattamento sanzionatorio del condannato, che risulterebbe privo di titolo (cfr. sentenze n. 343 del 1987; n. 312 e 185 del 1985);

 

che alla stregua di dette pronunce, peraltro, nell’ipotesi in cui l’affidamento in prova venga a cessare per sopravvenienza di ulteriori sentenze di condanna per fatti anteriormente commessi, il tribunale di sorveglianza non è affatto chiamato – come mostra di ritenere il giudice a quo – a determinare discrezionalmente la pena residua da espiare, tenuto conto della durata del periodo di prova e del comportamento in esso tenuto dal condannato (tale regime trova applicazione, difatti, nella diversa ipotesi della revoca dell’affidamento per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova: cfr. sentenza n. 343 del 1987); ma deve considerare il periodo di affidamento puramente e semplicemente come espiazione di pena (cfr. sentenza n. 185 del 1985);

 

che, ciò posto, risulta comunque palese l’inidoneità del tertium comparationis evocato dal giudice rimettente, stante l’eterogeneità delle situazioni poste a confronto;

 

che, alla stregua di una consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, difatti – e come lo stesso giudice a quo riconosce – l’affidamento in prova al servizio sociale è una forma di esecuzione della pena, alternativa rispetto alla detenzione in carcere: la misura fa perno, infatti, sull’imposizione di regole di condotta («prescrizioni») – talune previste in via obbligatoria, altre solo facoltativamente – le quali, nella duplice ottica di incentivare la risocializzazione del condannato e di neutralizzare i fattori di recidiva, incidono sotto vari profili sulla libertà personale (cfr., in particolare, art. 47, commi 5 e 6, della legge n. 354 del 1975);

 

che, al contrario, la sospensione condizionale si traduce in una semplice «astensione a tempo» dall’esecuzione della pena, che – alla stregua della disciplina vigente al tempo della concessione dei benefici di cui si discute nel giudizio a quo – non implica alcuna limitazione della libertà personale del condannato;

 

che in base a detta disciplina, invero, il beneficio poteva (come può tuttora) essere subordinato all’adempimento di determinati obblighi (art. 165 cod. pen.): ma, a prescindere dal fatto che non consta che tale evenienza si sia verificata nel caso concreto, gli obblighi in parola – restituzioni; pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso; pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno; eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato – non possono essere configurati come limitazioni della libertà personale, connettendosi sostanzialmente alla commissione del fatto criminoso in quanto illecito civile o amministrativo; mentre non viene comunque in rilievo, nella presente sede, la possibilità – introdotta solo successivamente alle sentenze oggetto del giudizio a quo dalla legge 11 giugno 2004, n. 145 (Modifiche al codice penale ed alle relative disposizioni di coordinamento e transitorie in materia di sospensione condizionale della pena e di termini per la riabilitazione del condannato) – di subordinare il beneficio anche alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività, ove il condannato vi consenta (nuovo art. 165, primo comma, ultima parte, cod. pen.);

 

che questa stessa Corte, d’altro canto – in occasione dei ricordati interventi, che hanno imposto di tener conto del periodo trascorso, nel caso di annullamento o revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale – non ha mancato di sottolineare la sostanziale diversità tra tale istituto e la sospensione condizionale della pena: motivando la sua decisione anche, e proprio, con la necessità di evitare di «porre l’affidamento in prova sullo stesso piano di misure clemenziali quali la sospensione condizionale della pena (art. 168 cod. pen.) e l’amnistia, l’indulto e la grazia condizionati (art. 596 cod. proc. pen.), nei quali manca del tutto un assoggettamento a restrizioni della libertà personale» (cfr. sentenza n. 343 del 1987; per analogo rilievo, quanto ai rapporti tra sospensione condizionale della pena e liberazione condizionale, cfr. altresì, nella sentenza n. 282 del 1989, l’espressa affermazione che rispetto alla prima – a differenza che per la seconda – «non si pongono problemi di “scomputo”, dalla prefissata pena detentiva, del tempo trascorso tra l’ordine di sospensione e la sua revoca», trattandosi di lasso temporale caratterizzato dall’assenza di vincoli alla libertà del condannato);

 

che quanto, poi, alla concorrente censura di violazione degli artt. 27, primo e terzo comma, Cost., vale osservare che l’istituto della sospensione condizionale della pena trova il suo presupposto fondante nella prognosi favorevole sulla futura condotta del condannato: prognosi che, peraltro – come rimarcato anche all’Avvocatura dello Stato – può essere formulata solo quando la pena complessivamente inflitta al condannato non superi i limiti stabiliti dal legislatore, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui – per costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex plurimis, sentenza n. 85 del 1997; ordinanze n. 475 del 2002 e n. 377 del 1990) – egli gode nella conformazione dell’istituto stesso;

 

che nessuna violazione dei principì di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena può essere pertanto ravvisata in riferimento ad una disciplina che – nel caso di sopravvenienza di sentenze di condanna per fatti anteriormente commessi a pena che, cumulata con quella sospesa, determini il superamento degli anzidetti limiti e, con esso, la caduta del presupposto per la concessione del beneficio – ripristini l’esecuzione della pena già sospesa, senza prevedere alcuna «detrazione» per il periodo di sospensione trascorso, che è un periodo di «non esecuzione» di alcuna sanzione penale;

 

che la questione va pertanto dichiarata manifestamente infondata;

 

che il giudice a quo dubita, in secondo luogo, della legittimità costituzionale dell’art. 164, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede che la sospensione condizionale della pena non possa essere concessa più di due volte, anche quando il superamento di tale limite numerico sia determinato dalla sopravvenienza di condanne per reati anteriormente commessi a pene che – cumulate alla parte residua della pena sospesa che, ad avviso del giudice, dovrebbe espiarsi – non superino i limiti indicati dall’art. 163 cod. pen.;

 

che tale questione risulta, peraltro, del tutto irrilevante nel giudizio a quo;

 

che il giudice rimettente non è difatti chiamato né a valutare la concedibilità del beneficio per una eventuale terza volta; né a revocare, in sede esecutiva, una precedente sospensione condizionale per violazione del limite numerico in discorso, in base al combinato disposto degli artt. 168, terzo comma, cod. pen. e 674, comma 1-bis, cod. proc. pen.: e, d’altra parte, dall’ordinanza di rimessione non consta neppure che le condanne sopravvenute, che si aggiungono alle due con pena sospesa, dispongano ulteriori sospensioni condizionali;

 

che il quesito verte, pertanto, su norma della quale il rimettente non deve fare applicazione: e ciò a prescindere dal rilievo, già in precedenza formulato, che il livello delle pene inflitte risulterebbe comunque ostativo tanto ad una nuova concessione del beneficio, che al mantenimento dei benefici già concessi;

 

che la questione va dunque dichiarata manifestamente inammissibile.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 164, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Reggio Calabria con l’ordinanza indicata in epigrafe;

 

2) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 168, primo comma, numero 2, del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Reggio Calabria con la medesima ordinanza.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2005.

 

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

 

Giovanni Maria FLICK, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2005.