Ordinanza n. 413 del 2005

 CONSULTA ONLINE 

ORDINANZA N. 413

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

- Fernanda CONTRI              

- Guido NEPPI MODONA           

- Annibale MARINI                 

- Franco BILE                   

- Giovanni Maria FLICK                  

- Francesco AMIRANTE               

- Ugo DE SIERVO              

- Romano VACCARELLA             

- Paolo MADDALENA              

- Alfio FINOCCHIARO            

- Alfonso QUARANTA               

- Franco GALLO                  

- Luigi MAZZELLA               

- Gaetano SILVESTRI              

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 516, 517 e 519 del codice di procedura penale promosso, nell'ambito di un procedimento penale, dal Tribunale di Milano con ordinanza in data 11 novembre 2004, iscritta al n. 155 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2005.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 28 settembre 2005 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

    Ritenuto che il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 516, 517 e 519 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevedono la facoltà, per l'imputato, di richiedere al giudice del dibattimento il rito abbreviato, relativamente al fatto diverso o reato concorrente, quando la nuova contestazione risulti tardivamente formulata dal pubblico ministero»;

    che il rimettente premette che alcuni degli imputati erano stati rinviati a giudizio per i reati previsti dall'art. 4, comma 1, lettere d) e f), del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito nella legge 7 agosto 1982, n. 516 (come sostituito dall'art. 6 del decreto-legge 16 marzo 1991, n. 83, convertito con modificazioni nella legge 15 maggio 1991, n. 154), e dagli artt. 223, commi primo e secondo, numeri 1 e 2, 216, comma primo, numeri 1 e 2, 219, comma primo e secondo, n. 1, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), e che il pubblico ministero, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, aveva provveduto, ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., alla «sintetica riformulazione delle imputazioni» a seguito delle modifiche normative introdotte dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e dal decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366);

    che il difensore di uno degli imputati aveva eccepito l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono all'imputato di accedere al giudizio abbreviato in caso di «nuove contestazioni tardive» del pubblico ministero e aveva chiesto il rinvio dell'udienza al fine di munirsi della procura speciale per presentare, a seguito della modifica delle imputazioni, richiesta di giudizio abbreviato;

    che nell'udienza successiva l'imputato aveva formulato richiesta di giudizio abbreviato condizionata alla escussione del proprio consulente;

    che il rimettente fa propria l'eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla difesa, salvo a precisarla nei termini di cui si dirà, ritenendo peraltro la questione rilevante solo in relazione alla posizione dell'imputato che ha formulato richiesta di giudizio abbreviato, e rileva che l'integrazione probatoria appare compatibile con le finalità di economia processuale proprie del rito e necessaria ai fini della  decisione;

    che il rimettente precisa che nel decreto che dispone il giudizio erano contestate nel capo A) plurime violazioni dell'art. 4, comma 1, lettere d) [emissione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti] e f) [indicazione nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio o rendiconto ad essa allegato, di ricavi proventi od altri componenti positivi di reddito, ovvero spese od altri componenti negativi di reddito in misura diversa da quella effettiva], del decreto-legge n. 429 del 1982, convertito nella legge n. 516 del 1982;

    che il giudice a quo rileva peraltro che «dalla  mera  lettura  delle singole condotte al tempo contestate […] si evince come il riferimento all'art. 4, comma 1, lettera f), appaia meramente declamato», essendo contestata nelle singole imputazioni solo la «condotta di emissione (ai nn. 1-12) ovvero utilizzazione (ai nn. 13-17) di fatture per operazioni inesistenti, senza alcuna contestazione del concreto successivo impiego di tale documentazione non genuina mediante inserimento nelle dichiarazioni dei redditi ovvero nei documenti ad essi allegati e finalizzati alla determinazione dell'imponibile fiscale»;

    che per effetto della nuova contestazione operata in udienza dal pubblico ministero il capo A) «subiva  una integrale riscrittura in adeguamento allo ius superveniens» costituito dal decreto legislativo n. 74 del 2000, che all'art. 25 ha abrogato l'art. 4 del decreto-legge n. 429 del 1982;

    che, in particolare, «la pubblica accusa procedeva a suddividere in due tronconi l'originario ed  unitario» capo di imputazione, all'interno dei quali venivano contestate nel nuovo capo A) le condotte di emissione di fatture per operazioni inesistenti, ora previste dall'art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, e nel nuovo capo B) le condotte di utilizzazione di cui all'attuale art. 2 del medesimo decreto, «integrate dalla contestazione dell'inserimento della documentazione fiscale asseritamente falsa nelle dichiarazioni annuali di imposta e dalla indicazione degli elementi passivi fittizi esposti in tal modo alla amministrazione finanziaria»;

    che inoltre nel decreto che dispone il giudizio erano contestati nell'originario capo B) «fatti di falsificazione di bilancio in qualità di amministratore della società fallita»;

    che in relazione a tali contestazioni il pubblico ministero, «adeguandosi alla modifica normativa» di cui all'art. 4 del decreto legislativo n. 61 del 2002, aveva inserito «un nuovo capo C» e completato «l'accusa individuando l'evento del dissesto della società fallita siccome eziologicamente connesso a quegli episodi di alterazione del bilancio già previamente descritti»;

    che il rimettente rileva che la nuova contestazione può ritenersi «tardivamente operata dall'organo della pubblica accusa» solo in relazione al reato di emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, su cui ha inciso il decreto legislativo n. 74 del 2000, entrato in vigore quando era ancora in corso l'udienza preliminare, ma non in riferimento al reato di bancarotta fraudolenta impropria, in quanto le modifiche normative riguardanti tale fattispecie erano intervenute nel corso del dibattimento;

    che in ossequio a quanto previsto dall'art. 423 cod. proc. pen. il pubblico ministero avrebbe quindi dovuto modificare l'imputazione relativamente al reato di emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti già nel corso dell'udienza preliminare, e non attendere due anni per provvedervi prima dell'apertura del dibattimento, così impedendo all'imputato di accedere al rito abbreviato nella sua sede naturale; 

    che secondo il rimettente la «perdita» del giudizio abbreviato non è da addebitare a negligenza dell'imputato né deriva da una sua consapevole scelta, in quanto durante l'udienza preliminare, nel corso della quale avrebbe dovuto esercitare la facoltà di scelta in ordine al rito, non era stato «posto nelle condizioni di confrontarsi con quelle imputazioni che, per altro verso, già si preannunciavano come di prossima elevazione»;

    che ad avviso del giudice a quo la «perdita» del rito abbreviato si prospetta, allo stato, irrimediabile, poiché da un lato il termine per la presentazione della richiesta è ormai decorso e dall'altro la Corte costituzionale nella sentenza n. 265 del 1994 ha espressamente escluso la possibilità di un «recupero del rito abbreviato» negli atti preliminari al dibattimento, sul presupposto che il giudizio abbreviato «si realizza attraverso una vera e propria “procedura” inconciliabile con quella dibattimentale»;

    che tuttavia il rimettente sostiene che «la radicale metamorfosi del rito abbreviato operata dalla  legge n. 479 del 1999» e i successivi interventi della Corte costituzionale impongano una nuova disamina del problema e in particolare consentano di ritenere ormai «superata la asserzione circa la […] radicale inconciliabilità del rito abbreviato con il dibattimento»;

    che infatti – prosegue il giudice a quo - la stessa Corte costituzionale ha in altre occasioni rilevato che la acritica riproposizione di soluzioni ermeneutiche emerse nel quadro normativo previgente è incongrua rispetto all'attuale disciplina, in conseguenza della sopravvenuta modifica complessiva del rito abbreviato;

    che proprio alla luce della sentenza n. 265 del 1994, secondo cui, a fronte di contestazioni della pubblica accusa patologiche ovvero tardive, è necessario porre l'imputato nella «medesima situazione processuale in cui si sarebbe trovato ove la nuova contestazione fosse stata tempestiva», non può che apparire gravemente pregiudizievole per il diritto di difesa precludere all'imputato l'accesso al rito abbreviato nelle situazioni considerate;

    che la disciplina censurata violerebbe altresì l'art. 3 Cost. perché determina una irragionevole disparità di trattamento «tra l'imputato sottoposto ad un fisiologico svolgimento della udienza preliminare e chi, senza colpa, risulti privato di facoltà processuali in conseguenza di tardive scelte della pubblica accusa»;

    che, infine, il rimettente ribadisce che la questione riguarda nella specie solo la modificazione delle imputazioni relative alle violazioni penali tributarie (emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti) tardivamente contestate dall'organo della pubblica accusa;

   che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata, in quanto la situazione verificatasi nel giudizio a quo sarebbe «addebitabile all'imputato» e non sussisterebbe quindi alcuna violazione dei principi costituzionali evocati.

    Considerato che il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 516, 517 e 519 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di chiedere al giudice del dibattimento il rito abbreviato, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente, quando la nuova contestazione risulti tardivamente formulata dal pubblico ministero;

    che risulta, in fatto, che alcuni degli imputati erano stati rinviati a giudizio, tra l'altro, per i reati di emissione e di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e di dichiarazione fraudolenta dei redditi previsti dall'art. 4, comma 1, lettere d) e f), del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito nella legge 7 agosto 1982, n. 516 (come sostituito dall'art. 6 del decreto-legge 16 marzo 1991, n. 83, convertito con modificazioni nella legge 15 maggio 1991, n. 154), norma abrogata dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, che ha riformulato le originarie fattispecie incriminatrici;

    che a seguito delle sopravvenute modifiche legislative il pubblico ministero aveva provveduto a riformulare i capi di imputazione relativi alle lettere d) e f) dell'art. 4 del citato decreto-legge solo all'udienza dibattimentale del 28 ottobre 2002, pur essendo il decreto legislativo n. 74 del 2000 già in vigore al momento – 28 ottobre 2000 – in cui aveva avuto inizio l'udienza preliminare;

    che in particolare nel novellato capo B) dell'imputazione il pubblico ministero aveva contestato «l'inserimento della documentazione fiscale asseritamente falsa nelle dichiarazioni annuali di imposta», riferendosi al reato previsto dall'art. 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000;

    che il rimettente denuncia pertanto la violazione dell'art. 24 Cost., in quanto la tardiva contestazione operata dal pubblico ministero ha determinato la perdita irrimediabile del rito abbreviato, perdita non addebitabile a negligenza né derivante da una consapevole scelta processuale dell'imputato, nonché dell'art. 3 Cost., a cagione della irragionevole disparità di trattamento tra l'imputato che può esercitare la facoltà di presentare richiesta di giudizio abbreviato nel corso dell'udienza preliminare e chi risulta privato di tale facoltà in conseguenza di «tardive scelte della pubblica accusa»;

    che tuttavia, come è stato precisato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, l'emissione di fatture per operazioni inesistenti è ora contemplata dall'identica fattispecie di cui all'art. 8 del predetto decreto legislativo, la quale perciò si pone in rapporto di continuità normativa con l'identica fattispecie prevista dal decreto-legge n. 429 del 1982, mentre la condotta di mera utilizzazione mediante registrazione in contabilità delle fatture emesse per operazioni inesistenti non è più prevista come reato, e pertanto l'intervenuta abrogazione determina la non punibilità di tale condotta;

    che l'utilizzazione di tali fatture rimane quindi sanzionata soltanto in quanto integri la fattispecie di dichiarazione fraudolenta dei redditi mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti, ora prevista dall'art. 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000, che si pone anch'esso in rapporto di continuità normativa con l'analoga previsione di cui al previgente art. 4, comma 1, lettera f), del decreto-legge n. 429 del 1982 e nello stesso tempo prevede il nuovo reato di dichiarazione fraudolenta in tema di imposta sul valore aggiunto;

    che il rimettente dà atto che nell'originaria formulazione del capo di imputazione il pubblico ministero aveva contestato il reato di cui all'art. 4, comma 1, lettera f), del decreto-legge n. 429 del 1982, ma rileva come «dalla mera lettura delle singole condotte» il riferimento alla lettera f) «appaia meramente declamato, senza alcuna effettiva corrispondenza nei comportamenti rimproverati all'imputato» e «senza alcuna contestazione del concreto successivo impiego di tale documentazione non genuina mediante inserimento nelle dichiarazioni dei redditi»;

    che sulla base di tali considerazioni non è dato comprendere se ci si trovi di fronte ad un fatto nuovo, ad un fatto diverso o ad un reato concorrente, ovvero, nel caso in cui risulti che l'utilizzazione delle false fatture nelle dichiarazioni annuali di imposta era stata contestata in fatto, sia possibile fare applicazione dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen.;

    che il giudice a quo sostiene inoltre che non può «revocarsi in dubbio come il principio del necessario adeguamento […] dell'imputazione al fatto effettivamente emergente dagli atti […] debba valere anche quando detto adeguamento si imponga in ragione del mutamento del quadro normativo», senza peraltro esporre le ragioni per cui detta evenienza debba necessariamente comportare la modifica dell'imputazione da parte del pubblico ministero;

    che l'incertezza in ordine alla situazione processuale su cui si innesta la questione di legittimità costituzionale si traduce nella sua manifesta inammissibilità per difetto di motivazione.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 516, 517 e 519 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Milano con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 24 ottobre 2005.

F.to:

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 3 novembre 2005.