Sentenza n. 48 del 2021

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SENTENZA N. 48

ANNO 2021

Commenti alla decisione di

  1. Lara Trucco,Diritti politici fondamentali: la Corte spinge per ampliare ulteriormente la tutela (a margine della sent. n. 48 del 2021), negli Studi e Contributi di questa Rivista, 2021/I, 283.
  2. Giovanni Tarli Barbieri,La necessaria ed auspicabile riforma della disciplina del contenzioso elettorale preparatorio riferito alle elezioni politiche a seguito della sent. 48/2021 della Corte costituzionale, negli Studi di questa Rivista, 2021/II, 601.
  3. Marco Armanno,La garanzia dell’elettorato passivo: Corte costituzionale e Parlamento (ancora) alla ricerca di strumenti adeguati di tutela giurisdizionale, in Dirittifondamentali.it, 2021/III, 103.  
  4. Marco Mancini,Tre manifesti a Palazzo della Consulta, Roma: la Corte traccia la via, del legislatore e dei giudici l’onere di percorrerla (a margine della sentenza n. 48 del 2021), per g.c. della Rivista AIC
  5. Gabriele Maestri,Candidature e raccolta firme: più spazi per tutelare i diritti, ma ora nulla cambia Osservazioni su Corte costituzionale, sentenza n. 48 del 2021, per g.c. dell’Osservatorio costituzionale AIC
  6. Carlo Padula, Azioni di accertamento, questioni incidentali di legittimità costituzionale e zona franca, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, commi 1 e 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), promosso dal Tribunale ordinario di Roma nel procedimento vertente tra Riccardo Magi ed Associazione «+Europa» e il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’interno, con ordinanza del 1° settembre 2020, iscritta al n. 157 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti gli atti di costituzione di Riccardo Magi e dell’Associazione «+Europa», nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 23 febbraio 2021 il giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi gli avvocati Beniamino Caravita di Toritto e Simona Viola per Riccardo Magi e Associazione «+Europa» e l’avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza del 1° settembre 2020, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, commi 1 e 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), per violazione degli artt. 1, secondo comma; 3; 48, secondo comma; 51, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952.

Espone il giudice rimettente che, con ricorso instaurato ai sensi dell’art. 702-bis del codice di procedura civile, Riccardo Magi e l’Associazione «+Europa» hanno chiesto al Tribunale adito di accertare, tra le altre cose:

a) il diritto di candidarsi e presentare liste di candidati alle prossime elezioni politiche raccogliendo un numero di sottoscrizioni non superiore ad un quarto di quello – attualmente fissato in 1.500 – previsto dall’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, previa rimessione alla Corte costituzionale della questione incidentale di legittimità costituzionale del citato art. 18-bis, nonché dell’art. l, comma 1123, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella parte in cui prevede l’applicabilità della riduzione ad un quarto alle sole prime elezioni successive all’entrata in vigore della norma;

b) il diritto di presentare liste di candidati alle prossime elezioni politiche senza raccogliere le sottoscrizioni previste, previa rimessione alla Corte costituzionale della questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui prevede l’esenzione dall’onere in questione esclusivamente per i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi elettorali.

2.– In via preliminare, il giudice a quo si sofferma sulla propria giurisdizione, evidenziando che è in discussione l’accertamento del diritto di elettorato passivo, per il quale dovrebbe escludersi l’appartenenza alla cognizione riservata alle Camere, dovendosi invece ritenersi sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, quale «giudice naturale dei diritti fondamentali».

In particolare, pur dando atto dell’orientamento giurisprudenziale che, «in passato», ha esteso l’ambito di applicazione di cui all’art. 66 Cost. anche al procedimento elettorale preparatorio, il rimettente ritiene che vi sia stata una evoluzione di tale orientamento. Dalla più recente giurisprudenza di legittimità (è citata l’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060) e costituzionale (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014) sarebbe stata infatti acclarata la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario nei casi in cui «la domanda di tutela riguarda proprio il fondamentale diritto di partecipazione al voto dal lato passivo». Circostanza che ricorrerebbe nel presente caso, «essendo in discussione addirittura il diritto di partecipare al procedimento elettorale preparatorio con modalità conformi a Costituzione», e dunque un «ambito d’indagine […] naturalmente e logicamente esterno e preliminare a possibili contestazioni nascenti dal suo svolgimento».

3.– Sussisterebbero altresì l’attualità e la concretezza dell’interesse dei ricorrenti «ad un accertamento giurisdizionale del diritto di candidarsi alle elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati con le richieste modalità, ritenute conformi a Costituzione». Non essendo mai stata attuata la delega contenuta nell’art. 44, comma 2, lettera d), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) – che prevedeva l’introduzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti gli atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo di Camera e Senato – la domanda di accertamento del diritto a candidarsi alle elezioni politiche in conformità alla Costituzione, avanzata nel giudizio a quo, costituirebbe «l’unico strumento di immediata ed efficace tutela giurisdizionale», in mancanza del quale dovrebbe registrarsi l’esistenza di una «zona franca nel sistema di giustizia costituzionale» (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 35 del 2017, n. 165 del 2016, n. 110 del 2015 e n. 1 del 2014).

La differenza tra l’oggetto del giudizio a quo (volto ad accertare la «"pienezza” costituzionale del diritto di elettorato passivo») e l’oggetto del giudizio di costituzionalità (relativo alla conformità a Costituzione della «legge elettorale politica»), nonché il conseguente «[m]argine di autonoma decisione» che residuerebbe in capo al rimettente anche in caso di accoglimento della questione di legittimità costituzionale, escluderebbero che si sia in presenza di un «improprio "visto d’ingresso” per un accesso sostanzialmente diretto alla giurisdizione della Corte costituzionale».

L’interesse ad agire sarebbe anche «peculiarmente connotato dall’incertezza circa natura, contenuto e modalità degli oneri cui è condizionato l’esercizio del diritto» di partecipare alle elezioni politiche. A tal proposito, il rimettente richiama i numerosi interventi legislativi che, dal 2006 in poi, hanno di volta in volta derogato alle norme in tema di sottoscrizione delle candidature, riducendo sistematicamente il numero delle sottoscrizioni richieste «solo in prossimità del decreto di scioglimento delle Camere». Secondo il rimettente, il conseguente «elevatissimo tasso di incertezza» della disciplina del procedimento elettorale preparatorio e della raccolta delle sottoscrizioni, dovuto al «rapidissimo avvicendamento» cui tale disciplina è stata sottoposta, dimostrerebbe le «difficoltà praticamente implicate dalla disciplina ‘ordinaria’». Inoltre, le ripetute modifiche testimonierebbero la «qualificata portata […] dell’interesse dei ricorrenti all’azione di accertamento introduttiva [del] giudizio [a quo], risultando esso ancor di più l’unico strumento di tutela giurisdizionale, immediatamente esperibile ex art. 24 Cost., per rimuovere quella lesione del diritto di elettorato passivo […] che già un’incertezza così oggettiva, vasta e protratta nel tempo, relativamente alle condizioni del suo esercizio, certamente arreca».

4.– Sempre in via preliminare, il giudice a quo sottolinea che il tenore dell’art. 18-bis, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, non consentirebbe interpretazioni diverse da quella letterale, sia per quanto riguarda la disciplina relativa al numero di sottoscrizioni richieste sia per i casi di esenzione dall’onere di raccolta delle sottoscrizioni stesse.

5.– Quanto alla rilevanza, il rimettente afferma che il giudizio a quo richiede la necessaria applicazione dell’art. 18-bis, commi 1 e 2 del d.P.R. n. 361 del 1957. Qualora non venissero sollevate le questioni di legittimità costituzionale eccepite dai ricorrenti, infatti, il ricorso dovrebbe essere rigettato. Viceversa, proprio lo scrutinio di tali questioni consentirà di «verificare se ed eventualmente in quale misura la disciplina vigente dei suddetti oneri pregiudichi l’esercizio del diritto di elettorato passivo» costituzionalmente garantito.

6.– Per quanto concerne la non manifesta infondatezza, il rimettente si sofferma in via preliminare sui principi sanciti dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Viene ricordata l’ampia discrezionalità legislativa che caratterizza la disciplina elettorale, ferma restando la possibilità per il giudice costituzionale di svolgere il controllo di proporzionalità e di non manifesta irragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore (sono evocate le sentenze della Corte costituzionale n. 35 del 2017, n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996, n. 438 del 1993 e n. 1130 del 1988, nonché l’ordinanza n. 260 del 2002). Anche la giurisprudenza della Corte EDU si muoverebbe nella stessa direzione: il diritto di voto, attivo e passivo, sancito dall’art. 3 Prot. addiz. CEDU, può essere oggetto di «ampio margine di apprezzamento» e di limitazioni anche «implicite», purché non venga privato della sua effettività e purché le norme limitatrici del diritto al voto perseguano scopi legittimi, i mezzi non siano sproporzionati, le regole siano chiare e prevedibili (sono citate le sentenze 6 novembre 2012, Ekoglasnost contro Bulgaria; 3 marzo 2012, Saccomanno ed altri contro Italia; 16 marzo 2006, Ždanoka contro Lettonia; 9 aprile 2002, Podkolzina contro Lettonia; 2 marzo 1987, Mathieu-Monin e Clerfayt contro Belgio).

6.1.– Per quanto concerne nello specifico il procedimento elettorale preparatorio, il giudice a quo richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 83 del 1992, che ha individuato la ratio della necessità di raccogliere un certo numero di firme a sostegno delle candidature nell’obiettivo di «evitare la grande dispersione dei voti e lo sfrenarsi della lotta elettorale per fini poco commendevoli». Sarebbe quindi un principio generalizzato dell’ordinamento quello che richiede, per le elezioni dirette, che le candidature siano munite di una «sorta di dimostrazione di seria consistenza e di un minimo di consenso». Più di recente, la sentenza della Corte costituzionale n. 394 del 2006 avrebbe evidenziato che la disciplina in tema di firme contribuisce «a realizzare l’interesse al regolare svolgimento e al libero ed efficace esercizio del diritto di voto», evitando «un’abnorme proliferazione di candidature palesemente prive di seguito o, peggio, volte artatamente a disorientare l’elettorato».

Il rimettente, inoltre, insiste sulla citata sentenza Ekoglasnost della Corte EDU, secondo cui la previsione di un onere di raccolta delle firme a sostegno delle candidature non sarebbe di per sé incompatibile con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, neppure se sia richiesto un numero di firme «relativamente elevato» (sono citate le decisioni della Commissione europea dei diritti dell’uomo, 9 maggio 1994, Asensio Serqueda contro Spagna, e 12 luglio 1976, X contro Austria). Le sottoscrizioni a sostegno delle candidature assicurerebbero infatti «la partecipazione alle elezioni legislative di formazioni politiche stabili, sufficientemente rappresentative della società» e limiterebbero altresì le spese dello scrutinio. Tuttavia, la Corte EDU avrebbe comunque accertato la violazione dell’art. 3 del Prot. addiz. CEDU, poiché l’obbligo di raccolta di circa cinquemila firme in un solo mese di tempo era stato introdotto tardivamente, con il rischio di determinare la «squalifica d’ufficio di partiti e coalizioni di opposizione», che pure avrebbero potuto beneficiare di un sostegno popolare importante, con ovvio vantaggio delle formazioni politiche al potere.

Dalla giurisprudenza citata si desumerebbe dunque che «anche aspetti di dettaglio del procedimento elettorale preparatorio possono incidere in maniera determinante sull’effettività d’esercizio del diritto fondamentale di elettorato passivo». Tale diritto sarebbe intrinsecamente correlato con il libero esercizio dell’elettorato attivo e, di conseguenza, con l’attuazione del principio democratico di rappresentatività popolare.

6.2.– Il dubbio sulla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale emergerebbe in particolare tenendo conto della «‘dimensione temporale’ e ‘numerica’ e [de]gli effetti che, nell’insieme, il sistema delle norme in esame» produrrebbe.

Poiché, in ragione di quanto sancito dal decreto legislativo 12 dicembre 2017, n. 189 (Determinazione dei collegi elettorali della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, in attuazione dell’articolo 3 della legge 3 novembre 2017, n. 165, recante modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali), i collegi plurinominali per l’elezione con sistema proporzionale sono 63, «il numero minimo» di sottoscrizioni, pari a 1.500 per collegio, varierebbe «da un massimo di 94.500 su tutto il territorio nazionale ad un minimo di 47.250» nel caso di scioglimento delle Camere anticipato di oltre centoventi giorni rispetto alla scadenza naturale. Tale onere sarebbe aggravato dalla circostanza che, ai sensi dello stesso art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, ciascuna lista deve presentare, a pena di inammissibilità, candidature in almeno due terzi dei collegi plurinominali di una medesima circoscrizione. Inoltre, poiché, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 361 del 1957, l’assegnazione dei seggi alle singole circoscrizioni viene determinata con decreto del Presidente della Repubblica, emanato contestualmente al decreto di convocazione dei comizi – pubblicato in Gazzetta Ufficiale «non oltre il 45° giorno antecedente quello della votazione» (art. 11, comma 3 del d.P.R. n. 361 del 1957) – e poiché le liste dei candidati nei collegi plurinominali e i nomi dei candidati nei collegi uninominali devono essere presentati «dalle ore 8 del trentacinquesimo giorno alle ore 20 del trentaquattresimo giorno antecedenti quello della votazione» (art. 20 del d.P.R. n. 361 del 1957), le formazioni politiche intenzionate a presentare le candidature su tutto il territorio nazionale disporrebbero «di soli 11 giorni» (risultato di 45 meno 34) per la raccolta delle firme e per il deposito delle candidature in ogni circoscrizione. Termine che sarebbe ancora più ridotto (tra 10 e 8 giorni) per le formazioni politiche che si presentano in coalizione (artt. 14, 14-bis e 15 del d.P.R. n. 361 del 1957).

Se è vero che le formazioni politiche che non presentano candidature in coalizione possono anticipare la raccolta delle sottoscrizioni rispetto all’indizione dei comizi elettorali (art. 14, comma 3, della legge 21 marzo 1990, n. 53, recante «Misure urgenti atte a garantire maggiore efficienza al procedimento elettorale», secondo cui «[l]e sottoscrizioni e le relative autenticazioni sono nulle se anteriori al centottantesimo giorno precedente»), resterebbero in ogni caso margini di incertezza legati: a) alla data di indizione dei comizi; b) alla data dell’eventuale scioglimento anticipato delle Camere, cui sarebbe «connessa anche la variabilità della durata del periodo a disposizione per la raccolta delle sottoscrizioni e di validità delle autentiche delle sottoscrizioni già raccolte»; c) al «numero minimo di sottoscrizioni da raccogliere» nei casi in cui lo scioglimento anticipato delle Camere «si profili a ridosso dei 120 gg. antecedenti rispetto alla naturale scadenza della legislatura, e dunque non sia sicura la riduzione della metà delle sottoscrizioni da raccogliere»; d) al «numero dei seggi da attribuire in ciascuna circoscrizione» (reso noto con d.P.R. pubblicato «non oltre il 45° giorno antecedente quello della votazione») per quelle formazioni politiche che presentino candidature soltanto in alcune circoscrizioni elettorali.

A sostegno delle proprie argomentazioni, il giudice a quo svolge una dettagliata ricognizione diacronica delle norme che, dal 1957 ad oggi, hanno disciplinato il tema della raccolta delle sottoscrizioni, illustrandole nel contesto del sistema elettorale di volta in volta vigente. Tale ricostruzione farebbe emergere come l’attuale disciplina costituisca una «novità assoluta» rispetto al passato.

Inoltre, a partire dal 2006, sarebbero state sistematicamente adottate, nell’imminenza delle elezioni, previsioni dirette ad agevolare l’accesso alla competizione elettorale, evidentemente ritenuto eccessivamente ostacolato «dalle norme ratione temporis vigenti». Il sistematico ricorso a tali norme derogatorie (anche queste dettagliatamente descritte nell’ordinanza di rimessione) evidenzierebbe l’oggettiva incertezza in ordine al regime applicabile.

In particolare, proprio l’art. 1, comma 1123, della legge n. 205 del 2017 – approvata poco tempo dopo l’entrata in vigore della legge 3 novembre 2017, n. 165 (Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali) che ha introdotto la vigente formulazione dell’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957 – dimostrerebbe l’irragionevolezza della disciplina attualmente vigente. In virtù della legge n. 205 del 2017, infatti, il numero delle sottoscrizioni richieste, in via transitoria, solo per le elezioni del 2018, è infatti stato ridotto a un quarto. Il legislatore avrebbe così manifestato consapevolezza della eccessiva onerosità, nonché «della vessatorietà e concreta impraticabilità, per un’ampia platea di formazioni politiche» della disciplina vigente, che coniuga «un ristretto ambito applicativo dell’esenzione dall’onere di raccolta delle sottoscrizioni ad un alto numero di sottoscrizioni da raccogliere in un breve arco temporale certo (11 gg.)»

6.3.– Alla luce di tutto quanto sopra evidenziato, le previsioni in esame – «in assoluto [le] più ristrettive» nel corso della storia repubblicana – violerebbero gli artt. 3 e 51, primo comma, Cost., rivelando «una sproporzione non ragionevole, perché eccessiva, tra il sacrificio imposto al diritto delle formazioni politiche non esentate dall’onere di raccolta delle sottoscrizioni, e dunque dei singoli individui che aderiscano al relativo programma, di poter – ex art. 51, co. 1, Cost. – anche solo partecipare alla competizione elettorale […] e la tutela dell’interesse generale al regolare svolgimento della competizione elettorale mediante l’esclusione dalla stessa delle candidature ‘palesemente prive di seguito, o peggio volte artatamente a disorientare l’elettorato’». Tale sproporzione inciderebbe negativamente sul «libero esercizio del diritto di voto» di cui all’art. 48, secondo comma, Cost. e sull’efficace attuazione del «principio democratico di rappresentatività popolare» di cui all’art. 1, comma secondo, Cost.

Sarebbe «concretamente impraticabile la partecipazione alla competizione elettorale per tutte le formazioni politiche diverse da quelle non costituite in gruppi in entrambe le Camere all’inizio della legislatura». Le prime sarebbero così escluse dalla competizione elettorale «a beneficio della conservazione della rappresentanza […] delle formazioni che non solo alle precedenti elezioni l’abbiano già ottenuta ma l’abbiano ottenuta in entrambe le Camere, ed in entrambe con una consistenza numerica tale da rendere loro possibile la costituzione in gruppi».

Chiarisce il rimettente che il dubbio di legittimità costituzionale non investe, «di per sé, né il numero delle sottoscrizioni che attualmente devono essere raccolte […] e nemmeno l’esistenza, in sé, dell’esenzione dal relativo onere per alcune soltanto delle formazioni politiche», bensì l’effetto congiunto «di una pluralità di limiti all’esercizio del diritto di candidarsi ex art. 51, co. 1, Cost.»: l’effetto moltiplicatore del numero minimo di sottoscrizioni (1.500) per il numero degli ambiti territoriali in cui raccoglierle su tutto il territorio nazionale (63); il limitato intervallo temporale a disposizione per la raccolta (11 giorni), con l’eccezione del maggior intervallo consentito alle sole formazioni politiche che non si candidano in coalizione; il ristretto ambito soggettivo dell’esenzione dall’onere di raccolta delle firme; il connesso margine d’incertezza derivante dall’attribuzione ai regolamenti parlamentari, e non ad una fonte di rango costituzionale o legislativo, della disciplina circa la formazione dei gruppi parlamentari, presupposto determinante per beneficiare dell’esenzione dall’onere di raccolta; il grado d’incertezza storicamente ingenerato dalla prassi di attenuare la disciplina dei presupposti legittimanti la partecipazione alla competizione elettorale. La limitazione al diritto a partecipare alla competizione elettorale sarebbe massima, e «realisticamente insuperabile», per le formazioni politiche che si presentano in coalizione.

Ciò causerebbe anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. «per contrasto con i principi di buona condotta elettorale e di certezza delle regole elettorali, ritenuti dalla Corte edu fondamentali ai fini del rispetto dell’art. 3» Prot. addiz. CEDU.

In definitiva, tutti gli elementi descritti determinerebbero una «sproporzionata distorsione delle legittime finalità dell’onere […] di raccolta delle sottoscrizioni degli elettori e della relativa esenzione per le formazioni politiche già rappresentate in Parlamento». Si tratterebbe di oneri non più considerabili «strumenti di salvaguardia, come bene finale, del libero esercizio del diritto di voto ex art. 48 co. 2 Cost., e con esso del principio democratico di rappresentatività popolare ex art. 1 co. 2 Cost.». Essi, viceversa, infatti si sarebbero trasformati «in strument[i] di relativa surrettizia violazione». La possibilità di rendere meno gravosi tali oneri, come dimostrerebbe la prassi sviluppatasi nel corso degli ultimi decenni, sarebbe subordinata ad una «speciale concessione» delle forze di maggioranza, che possono far approvare, di volta in volta, le norme che, attenuando il regime vigente, consentano anche alle formazioni non costituite in gruppi in entrambe le Camere già all’inizio della legislatura la partecipazione alle successive elezioni politiche.

6.4.– Per dimostrare la fondatezza delle censure sollevate, il rimettente richiama altresì le discipline di alcuni Paesi europei (Francia, Germania, Spagna), a suo avviso meno restrittive.

7.– Nella parte finale dell’ordinanza, il giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale più recente, secondo la quale l’assenza di un’unica soluzione a "rime obbligate” non costituirebbe ostacolo all’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale, quando occorre evitare nell’ordinamento la permanenza di zone franche dal sindacato di legittimità costituzionale. In particolare, l’intervento della Corte costituzionale, di fronte a scelte irragionevoli del legislatore, sarebbe ammissibile anche quando, in sostituzione di quelle, sia possibile l’individuazione di soluzioni alternative tra loro. In tale prospettiva, sarebbe sufficiente che il «sistema nel suo complesso offra alla Corte "precisi punti di riferimento” e soluzioni "già esistenti” […] ancorché non "costituzionalmente obbligate”, che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima» (vengono richiamate le sentenze n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016).

La circostanza che il citato orientamento si sia sviluppato per lo più in decisioni relative alla «dosimetria delle sanzioni penali» non sarebbe d’ostacolo all’ammissibilità delle presenti questioni, in quanto le sentenze della Corte costituzionale n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017 avrebbero evidenziato la necessità che anche nella materia elettorale, pur caratterizzata da amplissima discrezionalità legislativa, «siano evitate ‘zone franche’ in ragione della natura fondamentale delle garanzie costituzionali da salvaguardare».

Nel presente caso, i «precisi punti di riferimento» e le «soluzioni già esistenti» nell’ordinamento, come già evidenziato, sarebbero ravvisabili in alcune scelte che il legislatore ha già «reiteramente compiuto»: sono così richiamati, quanto alla riduzione a un quarto del numero delle sottoscrizioni richieste, l’art. 1, comma 1123, della legge n. 205 del 2017 e l’art. 1 del decreto-legge 18 dicembre 2012, n. 223 (Disposizioni urgenti per lo svolgimento delle elezioni politiche nell’anno 2013) convertito, con modificazioni, in legge 24 dicembre 2012, n. 232; quanto all’estensione dell’ambito soggettivo di esenzione dall’onere di raccolta delle sottoscrizioni anche alle formazioni politiche che hanno formato un gruppo in un solo ramo del Parlamento, l’art. 2, comma 36, della legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezioni della Camera dei deputati), come modificato dall’art. 6, comma 1, della legge n. 165 del 2017.

8.– Con atto depositato il 9 dicembre 2020 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.

8.1.– In primo luogo, il giudice a quo difetterebbe, «in modo macroscopico e manifesto», di giurisdizione, il che dovrebbe condurre la Corte costituzionale a riesaminare la valutazione effettuata dallo stesso rimettente (sono citate le sentenze n. 106 del 2013, n. 41 del 2011, n. 81 e n. 34 del 2010).

In particolare, l’Avvocatura generale sostiene che l’art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, in attuazione dell’art. 66 Cost., riserverebbe alla Camera dei deputati ogni controversia e contestazione relativa al procedimento elettorale, ivi incluso il procedimento elettorale preparatorio. A fondamento di tale tesi viene evocata la sentenza n. 259 del 2009 della Corte costituzionale, nella quale si è affermato che «[l]a natura giurisdizionale del controllo sui titoli di ammissione dei suoi componenti, attribuito in via esclusiva, con riferimento ai parlamentari, a ciascuna Camera ai sensi dell’art. 66 Cost., è pacificamente riconosciuta, nelle ipotesi di contestazioni, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, "quale unica eccezione al sistema generale di tutela giurisdizionale in materia di elezioni”».

Sarebbe poi implausibile il ragionamento del giudice rimettente, che ha individuato il fondamento alla propria giurisdizione nelle motivazioni contenute nell’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060, con la quale è stata rimessa la questione di legittimità costituzionale poi definita con la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014. A differenza di quel caso, nella presente questione non sarebbe infatti in gioco il diritto di elettorato attivo, bensì quello passivo.

Trattandosi di situazioni non equiparabili, non sarebbe possibile applicare alla presente vicenda il principio applicato dalla Corte di cassazione nell’ordinanza citata. Il diritto di voto sarebbe infatti «espressione della sovranità popolare, connesso alla mera qualità di cittadino e al raggiungimento della maggiore età (art. 48 Cost.) e, perciò, soggetto alla giurisdizione del giudice ordinario». Viceversa, il diritto di elettorato passivo sarebbe «espressione della capacità giuridica di accedere alla carica elettiva, esercitabile esclusivamente tramite la candidatura (in assenza della quale, o del verificarsi dei presupposti perché questa si concretizzi, vale a dire l’indizione delle elezioni, esso assume[rebbe] un carattere meramente virtuale), limitabile in determinati casi (art. 65 Cost.) e, perciò, tutelabile esclusivamente in sede di "verifica dei poteri”, alla quale fa riferimento, per quanto riguarda le elezioni politiche, l’art. 66 Cost.».

La stessa Corte di cassazione avrebbe circoscritto la propria pronuncia all’accertamento della pienezza del diritto di elettorato attivo, affermando che «diversa potrebbe essere la conclusione nel caso in cui sia invocato nel giudizio di merito il riconoscimento preventivo della pienezza del diritto di elettorato passivo», poiché la lesione di tale diritto si concretizzerebbe soltanto dopo la decisione della Giunta per le elezioni, «non potendo l’interesse ad agire desumersi dalla mera "intenzione” di un cittadino di candidarsi in una competizione elettorale».

8.2.– In secondo luogo, le questioni sarebbero inammissibili per carenza, in capo ai ricorrenti, dell’interesse ad agire, con riferimento alle questioni prospettate sulla raccolta delle sottoscrizioni «in relazione alla presentazione di liste e candidature in coalizione con altre formazioni politiche», poiché tale presentazione richiederebbe il necessario accordo con altre forze politiche.

8.3.– Le questioni sollevate sarebbero infine inammissibili perché alla Corte costituzionale è richiesto di «emettere una pronuncia additiva o manipolativa, a contenuto non costituzionalmente obbligato». Il giudice a quo – con la richiesta di ridurre per ogni tornata elettorale a un quarto il numero di sottoscrizioni attualmente previste – mirerebbe «a conseguire l’effetto di espandere l’ambito applicativo di una disciplina speciale […]; effetto del tutto inammissibile, stante il carattere eminentemente discrezionale sotteso alla scelta legislativa […] di imporre in un singolo e specifico caso una disciplina dettata da esigenze contingenti» (viene citata la sentenza n. 198 del 2009).

Secondo quanto previsto dall’art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in questo caso la decisione nel merito delle questioni di legittimità costituzionale troverebbe «un limite invalicabile» nel rispetto della discrezionalità del legislatore e nell’assenza di un’unica soluzione costituzionalmente imposta (vengono citate la sentenza n. 110 del 2015 e l’ordinanza n. 270 del 2015).

Né sarebbe condivisibile la tesi affermata dal rimettente, secondo cui i recenti indirizzi della Corte costituzionale in materia penale potrebbero essere applicati anche in materia elettorale, data la non sovrapponibilità delle due materie. Quella penale si collocherebbe «nell’alveo delle peculiari garanzie poste, a garanzia del superiore valore della libertà personale, dallo stesso Legislatore costituzionale, con particolare riferimento ai principi del favor rei e della proporzionalità della pena». Diversamente, invece, la disciplina elettorale non potrebbe «che rimanere nelle prerogative del Parlamento, che nei diversi momenti, ne ha definito i contenuti ed i limiti» (viene citata la sentenza n. 35 del 2017).

Inoltre, nel presente caso si tratterebbe di sostituire la disciplina esistente non con soluzioni normative «già esistenti, a "regime” nell’ordinamento», bensì con norme transitorie o di deroga, «che per loro natura non dovrebbero essere assunte a parametro di compatibilità costituzionale» ai fini della dichiarazione di incostituzionalità.

8.4.– In subordine, l’Avvocatura generale eccepisce la manifesta infondatezza delle questioni sollevate. Alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale evocata dal rimettente (sentenze n. 193 del 2015, n. 394 del 2006 e n. 83 del 1992), la raccolta delle firme per la presentazione delle candidature alle elezioni eviterebbe infatti l’«abnorme proliferare di candidature palesemente prive di seguito o, peggio, volte artatamente a disorientare l’elettorato». Anche l’esenzione dall’onere della raccolta delle firme perseguirebbe l’analoga finalità «di assicurare la competizione elettorale solo alle formazioni politiche dotate di una sicura consistenza rappresentativa» (viene citata anche la sentenza Ekoglasnost della Corte EDU).

Rispetto a ciò, sarebbe indimostrata, ed «anzi smentita da dati di segno opposto», la tesi secondo cui l’attuale disciplina sia particolarmente sproporzionata «rispetto a tutti i periodi pregressi di applicazione delle norme sospettate di illegittimità costituzionale». In particolare, per le elezioni del 1994 e del 1996 sarebbe stato necessario raccogliere un numero di sottoscrizioni «ben superiore a quello attualmente necessario», il che «non [avrebbe] impedito a diverse formazioni politiche di presentarsi alle elezioni nelle suddette tornate elettorali, senza beneficiare di deroghe o riduzioni». Anche nel 2005, il numero di sottoscrizioni richieste sarebbe stato «molto vicino» a quello attualmente vigente.

Infine, l’Avvocatura rileva che le deroghe e le eccezioni succedutesi negli ultimi anni sarebbero «sempre state giustificate dalla necessità di consentire l’applicazione di norme sopravvenute, soprattutto in concomitanza con scioglimenti anticipati delle Camere, giustificazione di per sé pienamente ragionevole e dimostrata da dati storici, sulla cui inattendibilità, peraltro, il Tribunale di Roma non interloquisce».

9. – Con atto del 7 dicembre 2020, Riccardo Magi e l’Associazione «+Europa» si sono costituiti nel presente giudizio per chiedere l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

10.– Con successiva memoria, depositata il 2 febbraio 2021, le parti hanno svolto una serie di argomentazioni volte a sostenere la richiesta di accoglimento.

In replica alle eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale, le parti affermano che il rimettente avrebbe plausibilmente motivato in ordine ai profili processuali. Alla Corte costituzionale sarebbe pertanto precluso, per consolidata giurisprudenza, sovrapporre a tali motivazioni il proprio riesame.

Le argomentazioni dell’Avvocatura generale sarebbero inoltre fondate su «giurisprudenze ormai superate». In particolare, in ragione di quanto affermato nelle sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014, sarebbe errata la tesi dell’insussistenza della giurisdizione del giudice ordinario che la stessa Avvocatura desume dalle diverse forme di tutela che sarebbero riservate al diritto di elettorato attivo e passivo. Saremmo invece in presenza di «due facce della stessa medaglia, in quanto espressive del principio di sovranità popolare». Sarebbe quindi inesatta l’interpretazione secondo cui solo il diritto di elettorato attivo dovrebbe poter trovare una tutela giurisdizionale piena.

Viceversa, come per il diritto di elettorato attivo, anche per quello passivo sarebbe necessario evitare un intollerabile vulnus di tutela, che tale sarebbe qualora la tutela stessa non fosse effettiva. In questa prospettiva, il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 259 del 2009 apparirebbe pertanto «obsoleto e stantio» e le conseguenze desumibili da tale decisione sarebbero «contrarie al principio di espansione della tutela giudiziaria e tali da creare inaccettabili "zone franche”». Infatti, a seguire l’interpretazione dell’Avvocatura generale sulla sentenza n. 259 del 2009, il soggetto escluso dalla competizione elettorale dovrebbe «impugnare l’esclusione davanti all’ufficio elettorale, ricorrere poi alla Giunta delle elezioni, che declinerebbe la propria giurisdizione, sollevare un conflitto di giurisdizione davanti alla Corte di Cassazione, che indicherebbe il giudice competente, recarsi dal giudice così individuato, sollevare la questione di legittimità costituzionale della normativa in tema di raccolta di firme, giungere in Corte a sostenere l’incostituzionalità, vedere annullata tale normativa, tornare dal giudice di competenza per chiedere l’ammissione alle elezioni». Saremmo dunque in presenza di un aggravio procedurale che inciderebbe in modo decisivo sull’effettività (e ovviamente sulla tempestività) della tutela giurisdizionale.

Inoltre, occorrerebbe tenere distinte le controversie concernenti lo status e le prerogative del singolo parlamentare – rimesse al vaglio dei soli organi interni – dalle indagini «sull’esistenza di indebite limitazioni generali e astratte alla possibilità di accedere, per chiunque ne abbia interesse, al novero dei soggetti ammessi alla competizione elettorale». Queste ultime non avrebbero attinenza al regime di autodichia, così come delineato dalla sentenza n. 262 del 2017, e sarebbero invece rimesse alla giurisdizione del giudice ordinario.

Alla luce delle citate sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014, anche il diritto di elettorato passivo – riconducibile alla categoria dei «diritti "necessariamente giustiziabili”» – andrebbe «salvaguardat[o] e […] bilanciat[o], con le pur comprensibili prerogative dell’autonomia parlamentare». In particolare, proprio in virtù di quanto previsto dall’art. 66 Cost., che sottrae alcuni ambiti al controllo giurisdizionale, emergerebbe la «speculare esigenza di consentire una verifica sufficientemente ampia in una fase precedente». A questo scopo, sarebbe pertanto «necessario adottare un criterio esegetico ampliativo nell’interpretazione delle condizioni dell’azione propedeutiche all’accesso a un sindacato giurisdizionale, che, altrimenti, verrebbe negato» (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 387 del 2006 e della Corte di cassazione n. 4103 del 1982).

10.1.– Quanto all’interesse ad agire, le parti ne motivano la sussistenza sia alla luce dell’instabilità e dell’incertezza che ha caratterizzato negli anni la disciplina in materia di procedimento elettorale preparatorio – instabilità in tesi idonea e sufficiente a fondare un’azione di accertamento (sono citate le sentenze della Corte di cassazione n. 2209 del 1966, n. 1952 del 1976, n. 4496 del 2008 e n. 13566 del 2008) – sia in virtù della citata necessità di interpretare in modo non restrittivo le condizioni dell’azione in materia elettorale, al fine di consentire di «rimuovere eventuali illegittime barriere all’ingresso».

Ancora, viene evidenziato come l’effettività del diritto di elettorato passivo dipenderebbe in modo importante dalla tempestività e dalla necessità di definire le regole «prima e non dopo lo svolgimento della fase di ammissione delle candidature». In questa prospettiva, le parti contestano il tentativo dell’Avvocatura dello Stato di effettuare una «segmentazione atomistica delle argomentazioni», che impedirebbe di cogliere una corretta visione di insieme. Da questo punto di vista, il continuo susseguirsi di deroghe e di novazioni dimostrerebbe l’incertezza della normativa, l’insostenibilità degli oneri imposti ai soggetti non esentati e, in definitiva, la «sussistenza di un interesse a ricorrere tempestivamente, a tutela del corretto espletamento del processo democratico».

10.2.– Nel merito, con riferimento all’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, la difesa delle parti dà anzitutto conto della circostanza per cui, anche a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1 (Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari) e della legge 27 maggio 2019, n. 51 (Disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari), la disciplina della raccolta delle sottoscrizioni non avrebbe subito modifiche. Secondo la tesi difensiva, anche a seguito della rideterminazione del numero dei parlamentari, il numero di firme richieste – pari ad un totale per le due Camere di 112.500 ridotte a 56.250 con la rideterminazione del numero dei parlamentari – sarebbe del tutto «irragionevole ed esorbitante l’esigenza costituzionalmente garantita di assicurare l’ordinato svolgimento delle operazioni elettorali».

Considerando che la disciplina elettorale vigente fissa al 3 per cento la soglia di sbarramento, soglia cui corrisponderebbe circa un milione di voti, l’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, produrrebbe l’effetto di pretendere da un partito che tale soglia raggiunga «di ottenere – assumendo prudenzialmente che i sottoscrittori delle liste per il Senato e per la Camera siano perfettamente coincidenti (il che non è) – la sottoscrizione di oltre il 7% (o 5% in caso di elezioni anticipate) del proprio elettorato». Si tratterebbe di un «abnorme onere» anche alla luce di quanto previsto in altri Paesi europei, ove il regime applicato sarebbe nettamente di maggior favore.

La sproporzione dell’onere previsto dalla disciplina censurata troverebbe ulteriore conferma nella stessa tendenza del legislatore italiano ad intervenire frequentemente, in prossimità delle elezioni, con correttivi finalizzati proprio a renderne meno faticoso l’assolvimento.

Anche le tempistiche dettate dal legislatore concorrerebbero a rendere eccessivamente onerosa la disciplina censurata. Le formazioni politiche si vedrebbero infatti costrette a svolgere l’attività di raccolta delle sottoscrizioni in soli 11 giorni.

La difesa dei ricorrenti del giudizio a quo si sofferma poi sulle disposizioni relative ai collegamenti tra le liste, illustrando un’opzione interpretativa, diversa da quella accolta dal rimettente, che eviterebbe di individuare nell’art. 18-bis del d.P.R. n. 361 del 1957 un ulteriore elemento di illegittimo aggravio della procedura a carico delle formazioni politiche che decidano di coalizzarsi. Seguendo la lettura proposta, i moduli per la raccolta delle firme dovrebbero recare i soli nomi dei candidati per i collegi plurinominali e non anche i nomi dei candidati, concordati tra i partiti, per i collegi uninominali. Militerebbe a favore di tale soluzione ermeneutica la circostanza che l’art. 18-bis, comma 1-bis, del d.P.R. n. 361 del 1957 richiede per l’indicazione di tali candidati la sottoscrizione per accettazione dei rappresentanti delle liste collegate.

Laddove, al contrario, si ritenesse, con il giudice a quo, che la disciplina imponga l’inserimento nei moduli per le sottoscrizioni tanto dei nomi dei candidati nei collegi plurinominali quanto dei candidati ai collegi uninominali, se ne dovrebbe dedurre che la stessa irragionevolmente imporrebbe alle forze politiche coalizzate «di (i) concordare con le altre liste i candidati comuni da presentare nei collegi uninominali; (ii) stampare i relativi nomi sui moduli da destinare ai diversi collegi plurinominali e (iii) raccogliere e autenticare circa 112.500 firme, e tutto in un lasso temporale che va da 8 a 10 giorni». Ciò in quanto la dichiarazione di collegamento, ai sensi dell’art. 14-bis del d.P.R. n. 361 del 1957, dovendo avvenire contestualmente al deposito del contrassegno di cui all’art. 14, deve essere effettuata non prima delle ore 8 del quarantaquattresimo giorno antecedente le elezioni. Se si sposasse tale interpretazione, emergerebbe dunque un ulteriore elemento per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale inerente l’art. 18-bis.

10.3.– Con riferimento all’art. 18-bis, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, la difesa delle parti segnala che il regime di esonero ivi previsto rischierebbe di «cristallizzare di fatto le presenze parlamentari a quelle attuali, prevedendo l’esonero dalla raccolta solamente a quelle formazioni politiche che siano costituite in gruppo parlamentare addirittura in entrambi i rami del parlamento». La conseguenza è che, in vista delle prossime elezioni, beneficerebbero del regime di esonero totale solo cinque partiti, mentre l’Associazione «+Europa» dovrebbe adempiere agli oneri di raccolta delle firme pur essendo risultata la sesta lista più votata alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.

A conferma del carattere irragionevole della disciplina legislativa censurata, le parti ripercorrono tutte le modifiche normative intervenute in materia, le quali attesterebbero, da una parte la «massima incertezza» delle regole preparatorie del procedimento elettorale, dall’altro, la «storica consapevolezza della loro concreta impraticabilità».

10.4.– Le parti contestano poi le tesi dell’Avvocatura generale, secondo cui nel 1994 e nel 1996 i partiti sarebbero stati costretti a presentare un numero ben superiore di firme rispetto a quelle richieste dalla disciplina vigente: non sarebbe infatti possibile procedere a un tale paragone alla luce del carattere completamente diverso della disciplina allora applicabile. Oltretutto, proprio l’esempio delle elezioni del 1994 dimostrerebbe l’irragionevolezza di discipline normative tanto rigide. In quell’occasione, infatti, alcune forze politiche che rappresentavano milioni di elettori non sarebbero riuscite a presentare propri candidati in un numero considerevole di circoscrizioni.

Anche il confronto con le elezioni del 2006 sarebbe inconferente. All’opposto, sarebbe invece significativo che, proprio dal 2006, abbia avuto inizio la sequenza di interventi normativi correttivi volti ad ampliare, sia pur in regime transitorio, l’ambito di applicazione degli esoneri.

10.5.– Da ultimo, le parti si soffermano sull’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale in relazione alla richiesta di una pronuncia «a contenuto "non costituzionalmente obbligato”». Secondo la tesi difensiva, la giurisprudenza costituzionale più recente tenderebbe a «superare il rigido principio delle c.d. "rime obbligate”, il quale presta il fianco a zone d’ombra della legislazione, sottratte al sindacato costituzionale sotto lo scudo della discrezionalità legislativa». Vengono a tal proposito citate l’ordinanza n. 207 del 2018 e la sentenza n. 242 del 2019, sul cosiddetto caso Cappato, nonché la sentenza n. 40 del 2019: da tali pronunce si desumerebbe che l’intervento della Corte costituzionale non richiede l’esistenza, nel sistema, di un’unica soluzione costituzionalmente vincolata, essendo viceversa sufficiente che il «sistema nel suo complesso offra alla Corte "precisi punti di riferimento” e soluzioni "già esistenti” (sentenza n. 236 del 2016)», ancorché non "costituzionalmente obbligate”, «che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima». A differenza di quanto assunto dall’Avvocatura generale, questa prospettiva, elaborata nella materia del diritto penale, ove pure vige una rigorosa riserva di legge per la peculiare rilevanza che riveste il valore della libertà personale, troverebbe ancora più spazio nella disciplina elettorale, «particolarmente incline a sfuggire alle maglie del sindacato costituzionale».

A tal proposito, le parti sottolineano come l’ordinanza di rimessione si sia fatta carico di individuare un «preciso punto di riferimento già esistente» nella disciplina derogatoria intervenuta a temperare la rigidità degli oneri di raccolta delle sottoscrizioni. Le previsioni derogatorie susseguitesi nel tempo sarebbero connotate da una «ripetitività dei modelli e delle soluzioni» e sarebbero pertanto suscettibili di assurgere a modello cui fare riferimento, ben potendo comunque il legislatore intervenire in un momento successivo a bilanciare in modo diverso e secondo la propria discrezionalità gli interessi in gioco.

Così, con riferimento alle questioni di legittimità relative al numero delle firme da raccogliere, la disciplina dichiarata costituzionalmente illegittima potrebbe essere sostituita da quanto previsto dall’art. 1, comma 1123, della legge n. 205 del 2017, che ha ridotto a un quarto il numero delle sottoscrizioni per le elezioni del 2018, a nulla rilevando la circostanza che si tratti di disciplina derogatoria.

Con riferimento alla questione di legittimità concernente il regime di esonero, la difesa dei ricorrenti del giudizio a quo richiama le regole applicabili per l’elezione del Parlamento europeo e per alcuni Consigli regionali, che prevedono una deroga a beneficio dei soggetti politici che abbiano anche un solo rappresentante eletto in una delle due Camere o del Parlamento europeo. Anche in questo caso, la natura derogatoria di tale previsione non sarebbe di ostacolo alla decisione della Corte costituzionale, restando ferma la possibilità per il legislatore di un intervento successivo. Discrezionalità legislativa che permarrebbe anche nel caso in cui la Corte costituzionale si determinasse ad una pronuncia di accoglimento «secca» della questione di legittimità costituzionale relativa al numero delle firme, che determinerebbe l’eliminazione radicale dell’onere di raccolta delle sottoscrizioni e, per l’effetto, la stessa necessità del regime di esonero. Una simile pronuncia non determinerebbe infatti alcuna conseguenza sul funzionamento del meccanismo elettorale, né rischierebbe di costituire un «blocco del circuito rappresentativo».

11.– Con memoria depositata il 2 febbraio 2021, l’Avvocatura generale dello Stato ha integrato gli argomenti già sviluppati nell’atto di intervento.

11.1.– Essa ha in particolare dato conto delle modifiche normative sopravvenute per effetto dell’entrata in vigore del decreto legislativo 23 dicembre 2020, n. 177 (Determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, a norma dell’articolo 3 della legge 27 maggio 2019, n. 51), assumendo che le stesse dovrebbero indurre la Corte costituzionale a restituire gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni.

L’Avvocatura generale giunge a tale conclusione evidenziando che il giudice a quo avrebbe fondato la tesi della «sproporzionata distorsione delle legittime finalità» della disciplina in esame sul carattere particolarmente restrittivo della stessa, se posta a confronto con le regole susseguitesi nel corso degli anni. Le norme vigenti, imponendo di raccogliere almeno 1.500 sottoscrizioni per ciascun collegio, obbligherebbero i partiti, secondo il rimettente, a procurarsi, tenuto conto dei 63 collegi plurinominali, un totale di 94.500 firme, che si abbasserebbero a 47.250 in caso di scioglimento anticipato. Di conseguenza, secondo l’Avvocatura dello Stato, sarebbe proprio «la stigmatizzazione dell’elevatezza» di tale risultato a costituire il «punto centrale della motivazione che sorregge l’ordinanza di rimessione».

In tale contesto, dovrebbero allora essere considerate le novità introdotte dal d.lgs. n. 177 del 2020 che, dando seguito alla riduzione del numero di parlamentari stabilita con legge cost. n. 1 del 2020, ha determinato una «consistente diminuzione del numero dei collegi plurinominali per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica». La Tabella A2 allegata al predetto decreto legislativo, infatti, ha portato a 49 il numero dei collegi plurinominali per l’elezione della Camera, con la conseguenza di ridurre a 73.500 il numero delle firme che ogni partito non esonerato dovrà raccogliere su tutto il territorio nazionale; 36.750 nell’ipotesi di scioglimento anticipato. Proprio la centralità assunta nell’ordinanza di rimessione dell’argomento relativo al numero di sottoscrizioni induce l’Avvocatura generale a ritenere che «la sopravvenuta modifica normativa pare incidere in modo significativo sullo scrutinio di rilevanza e non manifesta infondatezza delle stesse compiuta dal Tribunale di Roma». Ne deriva la richiesta di rimettere gli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione a riguardo.

11.2.– In subordine, la difesa erariale insiste per una pronuncia di inammissibilità. Anzitutto ribadisce che la carenza di giurisdizione del giudice ordinario si manifesterebbe ictu oculi in base al disposto dell’art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, attuativo dell’art. 66 Cost., e sarebbe confermata da una diffusa giurisprudenza della Corte costituzionale (vengono citate le sentenze n. 259 del 2009 e n. 113 del 1993). Sarebbe pertanto caduto in errore il giudice a quo che, per dimostrare il contrario, si appoggerebbe ad una implausibile motivazione fondata sulla equiparazione tra diritto di elettorato attivo e passivo. L’Avvocatura insiste poi per una pronuncia di inammissibilità in ragione dell’evidente mancanza di interesse ad agire dei ricorrenti nella causa principale.

11.3.– La difesa erariale eccepisce ex novo che, nel denunciare l’illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, il Tribunale di Roma utilizzerebbe «come tertium comparationis un’ipotesi che […] non corrisponde alla situazione di fatto dei ricorrenti nel giudizio principale, i quali non risulta abbiano costituito un gruppo parlamentare in uno dei rami del Parlamento». Con la conseguenza che «poiché l’eventuale accoglimento della suddetta questione da parte della Corte, come prospettata dal giudice a quo, sarebbe insuscettibile di incidere nel processo principale, la stessa [dovrebbe] ritenersi irrilevante e, quindi, inammissibile anche sotto tale profilo».

11.4.– Per quanto concerne il merito, l’Avvocatura generale contesta la tesi secondo cui le formazioni politiche si vedrebbero costrette ad acquisire le sottoscrizioni richieste in soli 11 giorni e in un periodo di tempo ancora più esiguo (tra 8 e 10 giorni) laddove si tratti di partiti in coalizione. L’assunto sarebbe smentito dal tenore dell’art. 14, comma 3, della legge 21 marzo 1990, n. 53 (Misure urgenti atte a garantire maggiore efficienza al procedimento elettorale), ai sensi del quale «[l]e sottoscrizioni e le relative autenticazioni sono nulle se anteriori al centottantesimo giorno precedente il termine fissato per la presentazione delle candidature». Verrebbe allora meno un fondamentale elemento della ricostruzione da cui muove il giudice rimettente; aspetto cui si aggiunge la già ricordata riduzione, per effetto del d.lgs. n. 177 del 2020, dei collegi e con essi del numero di firme da raccogliere su tutto il territorio nazionale.

Ancora, l’Avvocatura generale ribadisce che, nel motivare i dubbi di costituzionalità, il giudice a quo assumerebbe a tertia comparationis previsioni che avrebbero trovato applicazione in due sole occasioni, che non sarebbero ormai più in vigore e che comunque presenterebbero carattere derogatorio ed eccezionale. Ne deriverebbe che le stesse «non possono essere assunte come utili termini di raffronto ai fini del giudizio sulla corretta osservanza, da parte del legislatore, del principio di eguaglianza e della ragionevolezza delle norme incise dal giudizio di legittimità costituzionale» (viene citata la sentenza della Corte costituzionale n. 208 del 2019).

Inoltre, a dimostrazione del fatto che la disciplina legislativa attualmente vigente non sarebbe sproporzionata rispetto alle sue finalità, la difesa erariale ricorda ancora che per le elezioni del 1994 e del 1996 i partiti hanno dovuto raccogliere sottoscrizioni in numero superiore rispetto a quello ora richiesto. Allora, pur dovendosi considerare il dimezzamento dovuto allo scioglimento anticipato, furono complessivamente richieste 167.150 firme. Nonostante numeri così alti, e nonostante l’assenza di qualsiasi deroga, le formazioni politiche riuscirono a presentarsi alle elezioni. Anche in vista delle elezioni svoltesi nel 2006, quando i partiti sarebbero stati chiamati a raccogliere un numero minimo di sottoscrizioni per la Camera pari a 97.300 – e dunque superiori sia rispetto al numero indicato dal rimettente (94.500), sia a quello derivante dall’applicazione del d.lgs. n. 177 del 2020 (73.500) – il sistema non avrebbe impedito a diverse formazioni politiche di partecipare alle elezioni.

Pertanto, secondo l’Avvocatura generale, le deroghe intervenute nel corso degli ultimi anni, giustificate dagli scioglimenti anticipati, non dimostrerebbero l’insostenibilità dell’onere posto a carico dei partiti. Anzi, in anni in cui erano comunque indisponibili «strumenti tecnologici (social network, flash mobs, eccetera) che attualmente consentono di concentrare in breve tempo bacini consistenti di elettori per raccoglierne le sottoscrizioni», diverse forze politiche sarebbero comunque riuscite a raccogliere sottoscrizioni in numeri superiori rispetto a quelli attualmente richiesti.

Da ultimo, la difesa dello Stato mette in discussione la pertinenza del richiamo ad esperienze straniere. Ciò in quanto il giudice a quo si sarebbe limitato a confrontare i meccanismi di raccolta delle firme senza contestualizzarli «nell’ambito dei diversi sistemi elettorali» e «senza tenere conto delle altre barriere previste dai rispettivi ordinamenti (ad esempio i robusti oneri economici connessi alla presentazione delle liste elettorali in Francia), che concorrono con il predetto limite».

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma solleva questioni di legittimità costituzionale dei commi 1 e 2 dell’art. 18-bis del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati). Tali disposizioni stabiliscono, rispettivamente, il numero minimo di sottoscrizioni che ciascuna lista deve raccogliere per presentarsi alle elezioni per la Camera dei deputati (comma 1) e i soggetti esonerati dal relativo onere (comma 2).

È innanzitutto oggetto di censure il citato art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art.1, comma 10, lettera a), della legge 3 novembre 2017, n. 165 (Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali), «nella parte in cui richiede per la presentazione delle candidature per il rinnovo della Camera dei deputati un numero minimo di 1500 sottoscrizioni per ogni collegio plurinominale, ovvero di 1500 ridotto della metà in caso di scioglimento della Camera dei deputati che ne anticipi la scadenza di oltre centoventi giorni», anziché «tali numeri ridotti a 1/4». Quest’ultimo riferimento numerico, ai fini della richiesta di pronuncia sostitutiva, è rinvenuto dal rimettente nell’art. l, comma 1123, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), che aveva appunto disposto, per le sole prime elezioni successive alla propria entrata in vigore, la citata riduzione ad un quarto delle sottoscrizioni richieste dalla norma censurata.

L’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957 violerebbe gli artt. 1, secondo comma; 3; 48, secondo comma; 51, primo comma e 117, primo comma, della Costituzione. Alla luce soprattutto dell’elevato numero complessivo dei collegi in cui le firme devono essere acquisite, nonché del breve tempo a disposizione per la raccolta, la disciplina in questione determinerebbe, infatti, una irragionevole e sproporzionata limitazione del diritto di elettorato passivo, in contrasto con i principi della rappresentatività democratica e del libero esercizio del diritto di voto, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

I dubbi di legittimità costituzionale del rimettente riguardano anche l’art. 18-bis, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 10, lettera b), della legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati), «nella parte in cui limita l’esenzione dell’onere di raccolta delle sottoscrizioni ai partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere», anziché includere, tra i soggetti esonerati, i partiti o i gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi elettorali. Il riferimento per la pronuncia sostitutiva richiesta è rinvenuto nell’art. 2, comma 36, della legge n. 52 del 2015, come modificato dall’art. 6, comma 1, della legge n. 165 del 2017, recante una previsione che, anche in tal caso, valeva per le sole prime elezioni successive all’entrata in vigore della norma.

Anche per questa seconda censura, i parametri costituzionali evocati sono gli artt. 1, secondo comma; 3; 48, secondo comma; 51, primo comma, e 117, primo comma, Cost. A dire del rimettente, la limitata estensione soggettiva dell’esenzione determinerebbe infatti una irragionevole sproporzione tra il diritto di partecipare alla competizione elettorale riconosciuto alle forze politiche che si siano costituite in gruppi parlamentari in entrambe le Camere e le altre forze politiche, incidendo così sul principio di rappresentatività democratica e sul libero esercizio del diritto di voto, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Osserva, peraltro, il giudice a quo, che i dubbi di legittimità costituzionale sollevati non investono, «di per sé, né il numero delle sottoscrizioni che attualmente devono essere raccolte […] e nemmeno l’esistenza, in sé, dell’esenzione dal relativo onere per alcune soltanto delle formazioni politiche». Quello che il rimettente piuttosto lamenta è l’effetto congiunto «di una pluralità di limiti all’esercizio del diritto di candidarsi ex art. 51, co. 1, Cost.»: l’effetto moltiplicatore del numero minimo di sottoscrizioni (1.500) per l’ampio numero dei collegi in cui la raccolta deve essere effettuata; il ristretto intervallo temporale a disposizione a questo scopo, con l’eccezione del maggior intervallo consentito alle formazioni politiche che non si candidano in coalizione; il limitato ambito soggettivo dell’esenzione dal relativo onere; il connesso margine d’incertezza derivante dall’attribuzione ai regolamenti parlamentari, e non ad una fonte di rango costituzionale o legislativo, della disciplina circa la formazione dei gruppi parlamentari, presupposto determinante per beneficiare dell’esenzione dall’onere di raccolta; il grado d’incertezza ingenerato dalla prassi di attenuare, nell’imminenza dello scioglimento delle Camere, la disciplina dei presupposti legittimanti la partecipazione alla competizione elettorale.

Tutti questi elementi determinerebbero, particolarmente, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. «per contrasto con i principi di buona condotta elettorale e di certezza delle regole elettorali, ritenuti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo fondamentali ai fini del rispetto dell’art. 3» del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952.

2.– Le questioni di legittimità costituzionale all’odierno esame pongono un problema di particolare delicatezza, relativo all’effettività e alla tempestività della tutela giurisdizionale che può essere domandata e ottenuta, in vista dello svolgimento delle elezioni politiche nazionali, nell’ambito del cosiddetto contenzioso elettorale preparatorio. Tale espressione, ha osservato questa Corte, si riferisce alle controversie relative a tutti gli atti del «procedimento preparatorio alle elezioni, nel quale è inclusa la fase dell’ammissione delle liste o di candidati» (sentenza n. 236 del 2010). Il contenzioso che insorge in tale fase si distingue così da quello occasionato dal «procedimento elettorale» vero e proprio, che invece comprende le controversie relative alle operazioni elettorali e alla successiva proclamazione degli eletti.

Va immediatamente precisato che, nel caso di specie, non si versa in un contenzioso interno al procedimento preparatorio, per la semplice ragione che le elezioni politiche, nel momento in cui il giudizio principale è stato promosso, non sono ancora state indette, non essendo stati convocati i comizi elettorali (art. 11 del d.P.R. n. 361 del 1957), né si è perciò in presenza di provvedimenti di alcun genere adottati dagli uffici elettorali.

Ciò non toglie, come si vedrà, che la valutazione circa l’esistenza di un’effettiva e tempestiva tutela giurisdizionale – nell’ambito del procedimento preparatorio alle elezioni, una volta avviato – assume rilievo per la presente pronuncia, condizionando la decisione sull’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale.

3.– In una fase dunque precedente all’avvio del procedimento elettorale preparatorio, tali questioni sono state sollevate nell’ambito di un giudizio instaurato ai sensi dell’art. 702-bis del codice di procedura civile, attraverso la proposizione di un’azione volta, tra l’altro, ad accertare il diritto dei ricorrenti «di candidarsi e presentare liste di candidati alle prossime elezioni politiche raccogliendo un numero di sottoscrizioni non superiore ad un quarto di quello previsto dall’art. 18-bis del d.P.R. n. 361/1957», nonché quello «di presentare liste di candidati alle prossime elezioni politiche senza raccogliere le sottoscrizioni previste dal d.P.R. n. 361/1957».

Poiché la formulazione letterale del citato art. 18-bis del d.P.R. n. 361 del 1957 – che indica sia il numero delle firme da raccogliere, sia il relativo regime di esenzione – non consente l’accoglimento della domanda, risultano rilevanti, così argomenta il giudice a quo, le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei termini precedentemente illustrati.

4.– In via preliminare, il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccepisce che il giudice a quo difetterebbe «in modo macroscopico e manifesto» di giurisdizione.

Sostiene, in particolare, l’Avvocatura generale che l’art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, in attuazione dell’art. 66 Cost., riserverebbe alla Camera dei deputati ogni controversia e contestazione relativa al procedimento elettorale, intendendosi incluso in questa definizione il procedimento elettorale preparatorio.

Sarebbe inoltre implausibile il ragionamento del giudice rimettente, che ha individuato il fondamento della propria giurisdizione nelle motivazioni dell’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060, con cui è stata rimessa la questione di legittimità costituzionale poi definita con la sentenza n. 1 del 2014 di questa Corte.

Infatti, a differenza di quel caso, nelle presenti questioni non sarebbe in gioco il diritto di elettorato attivo, bensì quello passivo, e le due situazioni non sarebbero equiparabili. Il diritto di voto sarebbe infatti «espressione della sovranità popolare, connesso alla mera qualità di cittadino e al raggiungimento della maggiore età (art. 48 Cost.) e, perciò, soggetto alla giurisdizione del giudice ordinario». Invece, il diritto di elettorato passivo sarebbe «espressione della capacità giuridica di accedere alla carica elettiva, esercitabile esclusivamente tramite la candidatura (in assenza della quale, o del verificarsi dei presupposti perché questa si concretizzi, vale a dire l’indizione delle elezioni, esso assume[rebbe] un carattere meramente virtuale), limitabile in determinati casi (art. 65 Cost.) e, perciò, tutelabile esclusivamente in sede di "verifica dei poteri”, alla quale fa riferimento, per quanto riguarda le elezioni politiche, l’art. 66 Cost.».

4.1.– La decisione su tale eccezione sollecita, da parte di questa Corte, alcune puntualizzazioni sull’interpretazione dell’art. 66 Cost. («Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità»), disposizione che si trova in stretta connessione con gli artt. 23 e 87, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957.

Secondo l’art. 23, comma 2, contro le decisioni adottate dagli Uffici centrali circoscrizionali di ricusazione di liste o di dichiarazione d’invalidità delle candidature, i delegati di lista possono ricorrere all’Ufficio centrale nazionale. Come affermato da questa Corte, l’attività di controllo svolta da tali collegi ha natura amministrativa: il fatto che siano collocati presso le Corti d’appello e la Corte di cassazione «non comporta che i collegi medesimi siano inseriti nell’apparato giudiziario, evidente risultando la carenza, sia sotto il profilo funzionale sia sotto quello strutturale, di un nesso organico di compenetrazione istituzionale che consenta di ritenere che essi costituiscano sezioni specializzate degli uffici giudiziari presso cui sono costituiti (sentenza n. 387 del 1996; conformi, ex plurimis, sentenze n. 29 del 2003, n. 104 del 2006, n. 164 del 2008)» (sentenza n. 259 del 2009).

Per parte sua, l’art. 87, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957 dispone che «[a]lla Camera dei deputati è riservata la convalida della elezione dei propri componenti. Essa pronuncia giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e, in generale, su tutti i reclami presentati agli Uffici delle singole sezioni elettorali o all’Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente». Sempre la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il controllo così effettuato dalle Camere si configura come «unica eccezione al sistema generale di tutela giurisdizionale in materia di elezioni» (di nuovo sentenza n. 259 del 2009; in precedenza sentenza n. 113 del 1993).

Sul complesso delle norme citate, come è noto, si è consolidato un orientamento giurisprudenziale di legittimità, qualificabile alla stregua di diritto vivente, secondo cui rispetto alle decisioni dell’Ufficio centrale nazionale sussiste difetto assoluto di giurisdizione, sia del giudice ordinario che del giudice amministrativo, perché proprio l’art. 66 Cost. riserverebbe esclusivamente alle Camere, tramite le rispettive Giunte, anche il giudizio sul contenzioso pre-elettorale, compreso quello relativo all’ammissione delle liste, restando così precluso qualsiasi intervento giurisdizionale, anche di natura cautelare (ex multis, Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze 15 febbraio 2013, n. 3731; 8 aprile 2008, n. 9153, n. 9152 e n. 9151; 6 aprile 2006, n. 8119 e 8118; 9 giugno 1997, n. 5135). Il contenzioso in esame – stabilisce per parte sua la giurisprudenza amministrativa – risulterebbe dunque ripartito fra l’Ufficio centrale nazionale e le Assemblee parlamentari, in virtù di una norma eccezionale di carattere derogatorio (l’art. 66 Cost.), che delineerebbe un regime di riserva parlamentare, strumentale alla necessità di garantire l’indipendenza del Parlamento (ex plurimis, Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda Bis, sentenze 13 febbraio 2018, n. 1719 e n. 1722; 12 febbraio 2018, n. 1645).

Contestualmente, e di converso, le Giunte delle elezioni di Camera e Senato – con orientamento, anche in questo caso, costante almeno a partire dalla XIII Legislatura (1996-2001) – ritengono bensì sussistente la propria competenza a pronunciare giudizio definitivo, ai sensi dell’art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, sui ricorsi e reclami, compresi quelli relativi al procedimento elettorale preparatorio, ma solo al fine di verificare i titoli di ammissione degli eletti. Ritengono cioè le Giunte di conoscere di ogni fase del procedimento elettorale, compresa quella precedente l’apertura dei seggi, ma esclusivamente ai fini del giudizio sulla corretta composizione dell’organo elettivo. In questa lettura, l’art. 66 Cost. non include la possibilità di un sindacato delle Camere sulle esclusioni di contrassegni, liste o candidati, decise prima dello svolgimento delle elezioni (ex plurimis, Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, sedute dell’11 dicembre 2018 e del 2 luglio 2013, nonché Giunta delle elezioni della Camera dei deputati, seduta dell’11 dicembre 2018).

In relazione alle decisioni degli uffici elettorali che abbiano limitato il diritto dei cittadini di presentare liste o di candidarsi, ne risulta un quadro complessivo in cui le controversie che precedono lo svolgimento delle elezioni politiche scontano un evidente vuoto di tutela giurisdizionale; assenza di tutela che si riproduce anche di fronte alle Giunte delle Camere, pur ad elezioni avvenute.

4.2.– I problemi posti da questo peculiare assetto normativo sono giunti, in passato, all’attenzione di questa Corte, sia attraverso la via del conflitto tra poteri, sollevato da associazioni politiche nei confronti di Camera e Senato, sia attraverso il giudizio in via incidentale.

In un primo caso di conflitto, era lamentato che «lo strettissimo lasso di tempo a disposizione per la raccolta delle firme e la necessità di definire le candidature in anticipo rispetto alle altre formazioni politiche» producevano il rischio di esclusione dalla competizione elettorale in numerose circoscrizioni, con conseguente lesione del diritto, sancito dall’art. 49 Cost., di parteciparvi in condizioni di parità con gli altri partiti. Il conflitto è stato dichiarato inammissibile, in ragione dell’impossibilità di riconoscere ai partiti politici la natura di poteri dello Stato (ordinanza n. 79 del 2006).

Similmente, nella recente ordinanza n. 196 del 2020, è stato altresì dichiarato inammissibile, di nuovo per carenza del requisito soggettivo, un conflitto tra poteri promosso dall’Associazione «+Europa», la medesima ricorrente dell’odierno giudizio principale. In quella occasione era lamentata l’asserita violazione degli artt. 48 e 49 Cost., per non aver il legislatore introdotto, a favore dei partiti politici già presenti nel Parlamento nazionale, l’esonero dalla raccolta delle firme per la presentazione delle liste alle elezioni regionali dell’autunno 2020. La ricorrente aveva dato conto, tra l’altro, dell’impossibilità di «percorrere la via del giudizio incidentale», in ragione della impraticabilità del «rimedio dell’impugnazione giudiziale del provvedimento che escludesse la ricorrente dalle competizioni elettorali a causa della mancata raccolta delle firme».

Sollevata invece in via incidentale, la questione di legittimità costituzionale relativa all’impossibilità di ricorrere a un giudice nei confronti delle decisioni adottate dall’Ufficio centrale nazionale è stata dichiarata manifestamente inammissibile, sia perché il rimettente non aveva indicato la giurisdizione cui riteneva necessario devolvere la cognizione, sia perché si era ritenuto che, attraverso la questione di legittimità costituzionale, fosse in realtà sollecitata «una radicale riforma legislativa che eccede[va] i compiti di questa Corte» (ordinanza n. 512 del 2000).

Successivamente, la sentenza n. 259 del 2009 ha nuovamente affrontato una questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale nei confronti degli artt. 23 e 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui non prevedono l’impugnabilità davanti al giudice amministrativo delle decisioni dell’Ufficio centrale nazionale. Anche in tal caso la pronuncia è stata d’inammissibilità, ma ad essa si è giunti attraverso affermazioni di rilievo per il caso ora in esame.

La sentenza osservava che, pur non essendosi in presenza di un vuoto di tutela, si versava in una situazione di «incertezza» sul giudice competente, frutto di una «divergenza interpretativa» sul significato degli artt. 23 e 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, da risolvere «con gli strumenti giurisdizionali, comuni e costituzionali, esistenti». Affermava, inoltre, che il diniego di giurisdizione da parte del Parlamento sulle situazioni giuridiche soggettive, in ipotesi lese nel procedimento elettorale preparatorio alle elezioni politiche, comporterebbe, al più, che sulla questione «possa sorgere un conflitto di giurisdizione, che non spetta a questa Corte risolvere» (analogamente, nell’ordinanza n. 117 del 2006, era stato dichiarato «irricevibile» un ricorso per conflitto tra poteri che richiedeva, in realtà, la risoluzione di un conflitto negativo di giurisdizione).

Peraltro, la sentenza n. 259 del 2009 negava l’esistenza di un vuoto di tutela sottolineando, soprattutto, che «le questioni attinenti le candidature, che vengono ammesse o respinte dagli uffici competenti, nel procedimento elettorale preparatorio, riguardano un diritto soggettivo, tutelato per di più da una norma costituzionale, come tale rientrante, in linea di principio, nella giurisdizione del giudice ordinario» (ciò che, in quel caso, giustificava l’inammissibilità della questione, volta invece a ottenere, come si è detto, con sentenza additiva, l’impugnabilità davanti al giudice amministrativo delle decisioni dell’Ufficio centrale nazionale: mentre soltanto una legge, ai sensi dell’art. 103 Cost., potrebbe introdurre in materia un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva).

Confortava, inoltre, nella medesima direzione la vigenza dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che delegava il Governo – con delega i cui termini non erano scaduti nel momento in cui la Corte decideva la questione – ad introdurre, appunto, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Per questa parte, la delega è poi stata lasciata scadere. Quel che ora conta, tuttavia, è che questa Corte – affermando, pur solo in principio, la giurisdizione del giudice ordinario in materia – già allora riteneva che la forza precettiva dell’art. 66 Cost. non copre il contenzioso pre-elettorale, che perciò ben può essere escluso dal perimetro di efficacia della norma costituzionale.

4.3.– A distanza di oltre un decennio, scaduta inutilmente la delega ricordata, consolidatosi il citato "diritto vivente” della giurisprudenza di legittimità, condiviso da quella amministrativa, confermatasi la ricordata prassi interpretativa delle Giunte parlamentari, questa conclusione – già presente nella sentenza n. 259 del 2009 – va ribadita e ulteriormente argomentata.

Essa è coerente sia con il tenore testuale dell’art. 66 Cost., sia con l’ispirazione fondamentale che guidò i Costituenti nell’approvazione di questa norma costituzionale: garantire l’autonomia delle Assemblee parlamentari nella decisione circa le controversie relative ai titoli di ammissione dei propri componenti e perciò, deve intendersi, dei proclamati eletti, e solo di questi ultimi.

In Assemblea Costituente fu vivacemente discussa la scelta se riservare la verifica sulle elezioni alle Camere o ad organi (anche giurisdizionali) ad esse estranee, ma non venne mai messo in dubbio che la verifica da disciplinare in Costituzione dovesse avere ad oggetto esclusivamente l’accertamento della condizione di quanti, a seguito del voto, fossero stati proclamati eletti. Ad esempio, il riferimento esplicito ad un accertamento da condurre solo nei confronti di chi fosse «eletto deputato» era stato svolto dall’on. Ambrosini nella seduta del 19 settembre 1946 della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione; e nella stessa seduta l’on. Codacci Pisanelli evidenziava come alle Giunte parlamentari fosse rimesso il compito di accertare l’esistenza «negli eletti» di determinati requisiti.

Ferma, quindi, questa ratio essenziale, come emerge dai lavori dell’Assemblea costituente, il tenore dell’art. 66 Cost. non sottrae affatto al giudice ordinario, quale giudice naturale dei diritti, la competenza a conoscere della violazione del diritto di elettorato passivo nella fase antecedente alle elezioni, quando non si ragiona né di componenti eletti di un’assemblea parlamentare né dei loro titoli di ammissione.

È, del resto, il rilievo stesso del diritto di elettorato passivo, «aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita democratica» (sentenza n. 141 del 1996), a imporre questa soluzione. La giurisprudenza costituzionale riconosce in effetti nell’elettorato passivo un diritto politico fondamentale, che l’art. 51 Cost. garantisce a ogni cittadino con i caratteri propri dell’inviolabilità ex art. 2 Cost. (ex multis, sentenze n. 25 del 2008, n. 288 del 2007, n. 160 del 1997, n. 344 del 1993, n. 539 del 1990, n. 571 del 1989 e n. 235 del 1988).

Inoltre, se è vero che una tutela dei diritti effettiva richiede l’accesso a un giudice (art. 24 Cost.: tra le tante, sentenze n. 182 del 2014 e n. 119 del 2013), risulta ancora più evidente che il presidio della tutela giurisdizionale deve assistere un diritto inviolabile, quale quello ora in esame.

Previsione del diritto inviolabile e garanzia del ricorso al giudice per assicurarne la tutela devono insomma coesistere e sorreggersi reciprocamente. Del resto, questa Corte non ha esitato ad ascrivere il diritto alla tutela giurisdizionale «tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio» (sentenza n. 18 del 1982, nonché, nello stesso senso, n. 82 del 1996). Particolarmente nella prospettiva dell’effettività, «[a]l riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale» (sentenza n. 26 del 1999): pertanto, l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli artt. 24 e 113 Cost., da annoverarsi tra quelli inviolabili e caratterizzanti lo stato democratico di diritto. «Né è contestabile che il diritto al giudice ed a una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti inviolabili è sicuramente tra i grandi principi di civiltà giuridica in ogni sistema democratico del nostro tempo» (sentenza n. 238 del 2014).

In definitiva, se «la "grande regola” del diritto al giudice e alla tutela giurisdizionale effettiva dei propri diritti, in quanto scelta che appartiene ai grandi principi di civiltà del tempo presente, non può conoscere eccezioni», salvo quelle strumentali alla necessità di garantire l’indipendenza del Parlamento (sentenza n. 262 del 2017), non vi sono ragioni per attribuire all’art. 66 Cost. il significato di estendere, anziché ridurre, quelle eccezioni.

Spetta naturalmente alla giurisprudenza comune tenere in conto questa interpretazione, quanto alla conseguente lettura delle disposizioni di legge ordinaria che con l’art. 66 Cost. fanno sistema, e fra queste, soprattutto, dell’art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957.

4.4.– Né è decisiva – come assume l’Avvocatura generale dello Stato – la distinzione, ritenuta di natura strutturale, tra diritto di elettorato attivo e diritto di elettorato passivo, affermando che essa condurrebbe di necessità a riservare il secondo diritto alla cognizione delle Camere.

A prescindere dalle innegabili differenze che qualificano il modo d’essere dei due diritti, il ragionamento fin qui condotto, in relazione alla fase precedente lo svolgimento delle elezioni, non ammette una tale distinzione. Entrambi gli aspetti del diritto di voto esigono tutela, in quella fase, di fronte a un giudice: quello ordinario, che ne è in principio il giudice naturale, oppure, se così la legge preveda, il giudice amministrativo, in via di giurisdizione esclusiva (art. 103 Cost.).

Sotto un profilo diverso da quello evocato dall’Avvocatura generale, la cennata distinzione tra il diritto di elettorato attivo e quello passivo consente semmai di evidenziare ancor più il vuoto di tutela che caratterizza l’attuale regime del secondo.

Laddove il diritto di elettorato attivo sia messo in discussione nella sua stessa esistenza, l’ordinamento appresta un idoneo rimedio giurisdizionale: così, per contestare un provvedimento (delle competenti Commissioni elettorali) di cancellazione dalle liste elettorali, oppure la mancata iscrizione in queste, la legge attribuisce il diritto di agire davanti al giudice ordinario (art. 42 del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, recante «Approvazione del testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali»), con procedura regolata dal rito sommario di cognizione (art. 24, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69»), e la relativa controversia è trattata in ogni grado in via d’urgenza (art. 24, comma 9, del d.lgs. appena citato). Nel corso della procedura, inoltre, ben possono essere sollevate questioni di legittimità costituzionale sulla disciplina che regola l’elettorato attivo e la tenuta e la revisione delle liste elettorali, come testimonia la sentenza n. 47 del 1970 di questa Corte, che dichiarò costituzionalmente illegittime alcune previsioni del d.P.R. n. 223 del 1967.

Come è noto, inoltre, le sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017 hanno considerato ammissibili questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione a norme di legge dalla cui applicazione possa derivare non già – come da quelle sulla tenuta e sulla revisione delle liste elettorali – una lesione all’esistenza stessa del diritto di elettorato attivo, bensì un’incertezza circa la pienezza del diritto di voto e la sua conformità ai principi costituzionali, come ritenevano in quelle occasioni i giudici a quibus a causa delle norme del sistema elettorale – o, più precisamente, della formula elettorale – di volta in volta vigente.

Sollevate di fronte al giudice ordinario, investito di ricorsi che miravano appunto ad ottenere l’accertamento della pienezza del diritto di voto e della conformità della sua regolamentazione a Costituzione, l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale su leggi elettorali è stata motivata – oltre che sulla base del positivo riscontro del rapporto di pregiudizialità tra giudizio a quo e giudizio costituzionale e sulla scorta del rilievo essenziale del diritto oggetto di accertamento – soprattutto in nome dell’«esigenza che non siano sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato […]. Ciò per evitare la creazione di una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale, in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico dell’ordinamento» (sentenza n. 35 del 2017, che richiama testualmente la sentenza n. 1 del 2014).

Viceversa, in casi in cui le disposizioni oggetto di censura, relative alle elezioni per il Parlamento europeo, avrebbero potuto pervenire al vaglio di legittimità costituzionale in un giudizio originatosi in via incidentale nel contenzioso elettorale, le questioni sono state dichiarate inammissibili. Essendo previsto un apposito procedimento in cui il diritto di voto può trovare tutela di fronte a un giudice (quello amministrativo), non solo successivamente alle elezioni, ma anche prima di esse, nell’ambito del procedimento elettorale preparatorio, appunto in tale sede possono essere sollevate questioni di legittimità costituzionale e non sussiste perciò alcuna zona franca (sentenza n. 110 del 2015; ordinanza n. 165 del 2016).

Nel caso del diritto di elettorato passivo, la situazione, come si è visto, è ben diversa. Qui, particolarmente per ciò che concerne le elezioni politiche nazionali, manca una disciplina legislativa che assicuri accesso tempestivo alla tutela giurisdizionale nei confronti di decisioni in ipotesi lesive dell’esistenza stessa del diritto, quali i provvedimenti di ricusazione di liste o d’incandidabilità, a differenza di quel che accade per le elezioni europee o amministrative (artt. 5, 9 e 12 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190», nonché art. 22 del d.lgs. n. 150 del 2011), nel cui ambito è ben possibile ricorrere al giudice avverso analoghe decisioni e, in quella sede, eccepire le pertinenti questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 214 del 2017, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015).

Secondo l’art. 2, comma 2, del citato d.lgs. n. 235 del 2012, infatti, l’accertamento dell’incandidabilità alle elezioni politiche nazionali è demandato agli Uffici elettorali in occasione della presentazione delle liste e l’unico rimedio ammesso avverso la decisione è il ricorso all’Ufficio centrale nazionale. Con la conseguenza – già sopra illustrata – che sulle disposizioni di legge (art. 1 del d.lgs. n. 235 del 2012) che prevedono le fattispecie d’incandidabilità in questione il controllo di legittimità costituzionale è di fatto precluso.

In questo specifico ambito, è giocoforza riconoscere che si è in presenza di una zona franca dalla giustizia costituzionale, e dalla giustizia tout-court, quantomeno nella sua dimensione effettiva e tempestiva, ciò che non è accettabile in uno Stato di diritto.

È per questa essenziale ragione che l’eccezione dell’Avvocatura generale va rigettata. L’affermazione del giudice a quo circa l’esistenza della propria giurisdizione sul ricorso che ha dato origine alle odierne questioni di legittimità costituzionale non solo non risulta implausibile, come richiede la giurisprudenza costante di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 267, n. 99, n. 44 e n. 24 del 2020, n. 52 e n. 39 del 2018), ma si rivela conforme al quadro costituzionale, in cui al riconoscimento di un diritto deve necessariamente accompagnarsi la garanzia della sua tutela in sede giurisdizionale.

4.5.– In effetti, nel caso di specie, lo stesso interesse a ricorrere dei proponenti l’azione di accertamento nel giudizio principale si fonda, ed è persuasivamente argomentato dal rimettente, con la necessità di esperire l’azione in un momento largamente anticipato rispetto alla data in cui dovranno essere indette le elezioni e, quindi, ben prima dell’avvio del vero e proprio procedimento elettorale preparatorio. Solo in questo modo, infatti, è attualmente possibile ottenere – particolarmente se insorgano in via incidentale dubbi sulla legittimità costituzionale delle norme che regolano l’accesso alla competizione elettorale – una pronuncia tempestiva, prima dello svolgimento delle elezioni.

Con riferimento alle elezioni amministrative, ma con considerazioni estensibili a quelle politiche nazionali, questa Corte (sentenza n. 236 del 2010) ha affermato che «la posticipazione dell’impugnabilità degli atti di esclusione di liste o candidati ad un momento successivo allo svolgimento delle elezioni preclude la possibilità di una tutela giurisdizionale efficace e tempestiva delle situazioni soggettive immediatamente lese dai predetti atti, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 Cost. Infatti, posto che l’interesse del candidato è quello di partecipare ad una determinata consultazione elettorale, in un definito contesto politico e ambientale, ogni forma di tutela che intervenga ad elezioni concluse appare inidonea ad evitare che l’esecuzione del provvedimento illegittimo di esclusione abbia, nel frattempo, prodotto un pregiudizio».

In un quadro in cui è la stessa Costituzione a disporre termini stringenti (in base all’art. 61 Cost., le elezioni delle nuove Camere devono svolgersi entro 70 giorni dalla fine delle precedenti), ne deriva la necessità, anche per le elezioni politiche, della previsione di un rito ad hoc, che assicuri una giustizia pre-elettorale tempestiva.

In attesa del necessario intervento del legislatore, allo stato attuale della normativa e delle interpretazioni su di essa prevalenti, l’azione di accertamento di fronte al giudice ordinario – sempre che sussista l’interesse ad agire (art. 100 cod. proc. civ.) – risulta l’unico rimedio possibile per consentire la verifica della pienezza del diritto di elettorato passivo e la sua conformità alla Costituzione.

5.– Sulla prima delle due censure sollevate dal rimettente – quella relativa all’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui richiede, per la presentazione delle candidature per il rinnovo della Camera dei deputati, un numero minimo di 1.500 sottoscrizioni per ogni collegio plurinominale (ridotte alla metà in caso di scioglimento della Camera che ne anticipi la scadenza di oltre centoventi giorni), anziché tali numeri ridotti a un quarto – l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che le modifiche normative sopravvenute per effetto dell’entrata in vigore del decreto legislativo 23 dicembre 2020, n. 177 (Determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, a norma dell’articolo 3 della legge 27 maggio 2019, n. 51), dovrebbero indurre a restituire gli atti al giudice a quo, per una nuova valutazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate.

Per l’Avvocatura generale, la motivazione del rimettente si baserebbe essenzialmente sulla considerazione del numero eccessivo delle sottoscrizioni complessivamente richieste (1.500 per 63 collegi, quindi 94.500 in totale, oppure 47.250 in caso di scioglimento anticipato). Poiché il d.lgs. n. 177 del 2020, dando seguito alla riduzione del numero di parlamentari stabilita con legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1 (Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari), ha determinato una «consistente diminuzione del numero dei collegi plurinominali per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica», la riduzione giustificherebbe la restituzione degli atti.

In effetti, secondo la Tabella A2 allegata al predetto decreto legislativo, il numero dei collegi plurinominali per l’elezione della Camera dei deputati è stato ridotto a 49, sicché il numero delle sottoscrizioni che ogni lista non esonerata dovrà raccogliere su tutto il territorio nazionale si è corrispondentemente ridotto a 73.500, ovvero a 36.750 nell’ipotesi di scioglimento anticipato.

La tesi dell’Avvocatura generale, tuttavia, non convince.

In primo luogo, la disposizione oggetto della questione di legittimità costituzionale non è direttamente incisa dalla modifica normativa sopravvenuta: il numero di sottoscrizioni richieste per ciascun collegio plurinominale rimane infatti stabilito in 1.500 (750 in caso di scioglimento anticipato).

In secondo luogo, il numero dei collegi, per quanto criticamente sottolineato dal rimettente, è soltanto uno degli argomenti che sostengono le censure. Come già si è detto, l’irragionevolezza della disciplina deriverebbe piuttosto dal «congiunto e concreto effetto di una pluralità di limiti all’esercizio del diritto di candidarsi»: il numero delle firme, essenzialmente, ma anche il breve intervallo temporale per la loro raccolta, il ristretto ambito soggettivo del regime di esenzione, l’incertezza ingenerata «dalla prassi, consolidatasi nell’ultimo decennio», della riduzione dell’onere di raccolta solo in prossimità del decreto di scioglimento delle Camere.

Infine, anche valutando isolatamente l’effetto della diminuzione dei collegi sul numero complessivo di sottoscrizioni richieste, tale riduzione, a livello nazionale, finisce per incidere per poco meno di un quarto rispetto al totale di quelle necessarie nella vigenza del d.lgs. n. 189 del 2017: e il rimettente chiede a questa Corte una pronuncia che riduca quel numero non di un quarto, ma ad un quarto.

Si è pertanto in presenza di modifiche normative sopravvenute solo parziali, seppur non marginali, che non incidono sul significato delle censure e non determinano una modifica dei termini essenziali di esse (sentenze n. 165 del 2020 e n. 125 del 2018).

6.– L’Avvocatura generale eccepisce ulteriormente l’inammissibilità per irrilevanza della censura sollevata dal giudice a quo in relazione all’art. 18-bis, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957.

Il rimettente ha chiesto che, con pronuncia d’accoglimento sostitutiva, la disposizione sia dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui limita l’esenzione dell’onere di raccolta delle sottoscrizioni ai partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere, anziché includere, tra i soggetti esonerati, i partiti o i gruppi politici che un gruppo parlamentare abbiano costituito in almeno una delle due Camere, all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi elettorali.

L’Avvocatura generale obietta che il rimettente avrebbe utilizzato, come termine di riferimento per la pronuncia sostitutiva, «un’ipotesi che […] non corrisponde alla situazione di fatto dei ricorrenti nel giudizio principale, i quali non risulta abbiano costituito un gruppo parlamentare in uno dei rami del Parlamento». Da qui, a suo dire, l’inammissibilità della questione, il cui accoglimento non gioverebbe alle parti dei giudizi principali.

In effetti, all’inizio della corrente legislatura, l’associazione ricorrente nel giudizio principale non aveva costituito alcun gruppo parlamentare: al Senato, il 28 marzo 2018, essa rappresentava soltanto una componente del Gruppo misto («Più Europa con Emma Bonino»). Analogamente, alla Camera, in data 3 aprile 2018, l’Associazione «+Europa» costituiva una componente del Gruppo misto («+Europa-Centro Democratico»). La circostanza è confermata dalla memoria delle parti stesse, nella quale è affermato che l’Associazione «+Europa» «non ha ottenuto un numero di eletti sufficiente a formare gruppi parlamentari alla Camera o al Senato».

La questione è inammissibile per carenza di motivazione sulla rilevanza, cioè per una ragione parzialmente diversa da quella indicata dall’Avvocatura dello Stato.

Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il presupposto della rilevanza non si identifica necessariamente con l’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione di accoglimento (sentenze n. 254 del 2020, n. 253 e n. 174 del 2019 e n. 20 del 2018).

Nel caso di specie, però, il problema non riguarda tanto il risultato cui il rimettente mira, bensì soprattutto la condizione in cui si trovano, in partenza, i ricorrenti nel giudizio principale, nel momento in cui le censure vengono sollevate. Essi sono direttamente soggetti al comma 1 del citato art. 18-bis (che stabilisce il numero delle sottoscrizioni da raccogliere), come riconosce la stessa ordinanza di rimessione, mentre non sono annoverabili – se non indirettamente in quanto soggetti esclusi (tra i tanti) – fra i destinatari del comma 2 del medesimo articolo, che detta una disciplina applicabile alle sole forze politiche costituite in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all’inizio della legislatura, esonerandole dalla necessità di raccogliere le sottoscrizioni.

Ebbene, la pur peculiare natura del giudizio di accertamento non può essere dilatata fino al punto di diventare mera occasio per sottoporre a censura di legittimità costituzionale disposizioni che compongono il contesto normativo in cui è collocata quella direttamente applicabile alla controversia. Invece, il comma 2 dell’art. 18-bis del d.P.R. n. 361 del 1957 viene coinvolto dal rimettente nelle censure per un’esigenza "sistematica”, nell’ambito della complessiva trasformazione delle regole che disciplinano l’accesso delle liste alla competizione elettorale, che l’ordinanza di rimessione auspica.

Ciò non appartiene alla logica del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

Il rimettente, inoltre, se non spiega le ragioni per cui – in "entrata”, cioè al momento in cui le questioni vengono sollevate – la disposizione ora in esame sia applicabile ai ricorrenti, nulla dice nemmeno sulle ragioni per cui l’intervento sostitutivo richiesto (l’estensione dell’ambito di esonero ai soggetti politici che hanno costituito un gruppo in una sola delle Camere) garantirebbe ai ricorrenti – in "uscita”, cioè dopo l’eventuale pronuncia di accoglimento – la ricercata "pienezza” del diritto di elettorato passivo: ciò che risulta anche contraddittorio rispetto alla natura stessa del giudizio da questi promosso. Tutto questo comporta anche una insufficiente motivazione sull’interesse ad agire nel giudizio principale, e, di riflesso, sulla rilevanza della questione.

Da questo punto di vista, non è senza rilievo che, nei propri atti d’intervento, i ricorrenti stessi chiedano una pronuncia sostitutiva ben diversa da quella prospettata dal rimettente, cioè l’estensione dell’ambito di esonero ai soggetti politici che abbiano anche un solo rappresentante eletto in una delle due Camere o nel Parlamento europeo: richiesta, come noto, inammissibile, perché non idonea ad allargare il perimetro dell’esame di questa Corte, vincolato alle prospettazioni contenute nell’ordinanza di rimessione, ma sintomatica delle aporie della questione ora in esame.

7.– Residuano quindi le sole censure relative all’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui prevede, per la dichiarazione di presentazione delle liste di candidati per l’attribuzione dei seggi nel collegio plurinominale, la sottoscrizione di almeno 1.500 elettori (la metà in caso di scioglimento anticipato superiore ai centoventi giorni rispetto alla scadenza naturale delle Camere), anziché di tali numeri ridotti a un quarto.

L’Avvocatura generale eccepisce in proposito un’altra causa d’inammissibilità, perché sarebbe richiesta a questa Corte la pronuncia di una sentenza additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato, in ragione del carattere eminentemente discrezionale di ogni scelta legislativa in materia elettorale, compresa quella in discussione. In particolare, l’inammissibilità delle censure del rimettente deriverebbe dalla richiesta di sostituzione della disciplina vigente, in quanto ritenuta irragionevole, con soluzioni normative definite «già esistenti» nell’ordinamento (prevedendosi, cioè, un quarto delle sottoscrizioni attualmente richieste), ma in realtà non più vigenti, perché relative a precedenti tornate elettorali, e comunque non a rime costituzionalmente obbligate, in quanto a loro volta frutto di libere valutazioni del legislatore.

Questa Corte ritiene tuttavia, come già in precedenti occasioni (sentenze n. 252 e n. 152 del 2020, n. 222 del 2018, n. 179 del 2017 e n. 236 del 2016), che a fronte di un’eccezione d’inammissibilità fondata sulla pluralità di scelte alternative possibili, rimesse alla discrezionalità legislativa, l’assenza di una soluzione a rime obbligate non è preclusiva di per sé sola dell’esame nel merito delle censure.

8.– Nel merito, le ricordate questioni di legittimità costituzionale non sono fondate.

La giurisprudenza costituzionale ha già ripercorso origini, ratio e natura delle previsioni che, per le elezioni sia amministrative che politiche, richiedono la raccolta di un certo numero di sottoscrizioni a corredo delle candidature.

Citando le parole della Relazione governativa di presentazione del decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1 (Ricostituzione delle Amministrazioni comunali su base elettiva), alle origini della disciplina in questione, la sentenza n. 83 del 1992 ha ricordato quali sono gli inconvenienti – diffusi nell’ordinamento precedente, che non prevedeva oneri di sorta – che simili previsioni mirano ad evitare: «da un lato, lo sfrenarsi della lotta elettorale tra coloro che per sola ambizione, o per fini ancor meno commendevoli, aspiravano alla conquista del pubblico potere, pur non riscuotendo alcun credito fra la popolazione; dall’altro, una grande dispersione di voti, che si polverizzavano fra un numero eccessivo di nomi».

La medesima sentenza ha sottolineato che le disposizioni sull’onere di raccolta delle sottoscrizioni sono adottate «nell’esercizio dei poteri previsti dall’art. 51 della Costituzione, al fine di soddisfare un’esigenza certamente non irragionevole», perché la fissazione di un numero minimo di firme è giustificato «"dalla duplice esigenza di garantire da un lato una certa consistenza numerica di base ad una compagine che mira ad assumere elettoralmente un ruolo di rappresentanza politico-amministrativa della comunità e di assicurare, dall’altro, a tale compagine un minimo di credibilità ed affidabilità”»; ha rimarcato, poi, che, nel nostro ordinamento, è «ormai un principio generalizzato che in ogni tipo di elezione diretta le candidature debbano essere munite di una sorta di dimostrazione di seria consistenza e di un minimo di consenso attestata dalla sottoscrizione di un determinato numero di elettori» .

Questa Corte ha anche indicato il fondamento delle disposizioni che, in materia, stabiliscono reati di falso nelle autenticazioni delle sottoscrizioni, notando che esse proteggono il bene della «genuinità della competizione elettorale» (sentenza n. 84 del 1997), ed anche quello della «serietà delle candidature» (sentenza n. 45 del 1967); ha contestato l’idea che la raccolta delle sottoscrizioni sia una formalità di scarso rilievo, e ha nuovamente sottolineato la ratio delle disposizioni penali in materia, ricordando che il bene finale tutelato «è di rango particolarmente elevato, anche sul piano della rilevanza costituzionale, in quanto intimamente connesso al principio democratico della rappresentatività popolare: trattandosi di assicurare il regolare svolgimento delle operazioni elettorali ed il libero ed efficace esercizio del diritto di voto» (sentenza n. 394 del 2006).

Il giudice a quo è consapevole dell’ampia discrezionalità attribuita in materia al legislatore, conosce la giurisprudenza costituzionale appena riassunta, non nega la sussistenza di un interesse istituzionale ed obiettivo al regolare svolgimento della competizione elettorale, garantita dalle previsioni in parola. Ritiene, ciononostante, che 1.500 sottoscrizioni per collegio plurinominale rappresentino un onere eccessivo e sproporzionato, considerando soprattutto che tale cifra (da moltiplicare per il totale dei collegi stabiliti sull’intero territorio nazionale) è prevista, come varie volte si è detto, nel contesto di una disciplina che richiede tempi ristretti per la raccolta, ed è caratterizzata da incertezza rispetto al momento in cui la raccolta stessa deve iniziare, nonché da instabilità, perché soggetta a mutamenti a ridosso delle elezioni.

A suo avviso, l’operare congiunto di questi aspetti renderebbe la disciplina vigente la più onerosa tra tutte quelle adottate dal 1957 in poi, come confermerebbe la circostanza che essa sia stata oggetto di deroga pochi mesi dopo la sua adozione. Proprio al fine di dimostrarne la manifesta irragionevolezza, il rimettente si sofferma, con ampio dettaglio, sulle previsioni che, a partire dal 1957, si sono finora succedute in materia.

Questa analitica indagine comparativa non raggiunge tuttavia il suo obbiettivo, perché il confronto tra le varie normative non consente di dimostrare che la disciplina vigente sia la più restrittiva per i soggetti non esonerati dall’obbligo di raccolta delle sottoscrizioni, giungendo oltretutto a superare la soglia della irragionevolezza manifesta.

Non è sufficiente limitarsi al confronto tra le quantità delle sottoscrizioni di volta in volta richieste. Troppo numerose, infatti, sono le variabili da considerare. Conta il numero dei collegi istituiti sull’intero territorio nazionale, la loro dimensione e popolazione (ma il rimettente non censura la previsione di un numero sempre uguale di sottoscrizioni, pur in collegi plurinominali non comparabili, appunto per dimensione, popolazione, articolazione territoriale); ha decisivo rilievo il tipo di sistema elettorale adottato a livello nazionale, nonché la specifica formula elettorale con cui sono assegnati i seggi del singolo collegio, poiché un conto è raccogliere sottoscrizioni per un candidato, magari assai popolare, che concorre per un collegio uninominale, ben diverso è farlo per presentare una lista in un collegio plurinominale che assegna seggi con formula proporzionale. Ancora, ha notevole peso la possibilità o meno di presentare liste in coalizione; non è secondario il numero dei soggetti abilitati alla raccolta e all’autenticazione delle sottoscrizioni; sono certo importanti i termini previsti per le varie fasi del procedimento pre-elettorale; non è irrilevante nemmeno il modo in cui la legge di volta in volta configura l’elenco dei soggetti esonerati dall’onere di raccolta delle sottoscrizioni.

Nelle diverse regolamentazioni succedutesi nel tempo tutti questi elementi sono stati variamente disciplinati, affiancandosi in combinazioni sempre diverse, ciò che rende non solo incerto, ma anche fallace, il confronto fra discipline lontane nel tempo e nell’ispirazione.

L’esame comparato delle diverse normative succedutesi nel tempo non può essere dunque decisivo, ai fini della valutazione della manifesta irragionevolezza della soluzione attualmente vigente sulla raccolta delle sottoscrizioni. Ciascuna delle regolamentazioni sul punto è legata allo specifico sistema elettorale nel cui ambito è stata adottata, e va valutata insieme ad esso, non invece isolatamente coinvolta in comparazioni diacroniche.

La ristrettezza dei tempi in cui le firme devono essere raccolte può senza dubbio costituire un aggravio (sul quale il legislatore potrebbe opportunamente intervenire), ma essa è nota in partenza ai destinatari, e non costituisce un accadimento improvviso e imprevedibile. Per parte loro, i ricordati e frequenti mutamenti di disciplina a ridosso delle elezioni – pur espressione di un non commendevole costume legislativo, nell’ambito di una disciplina che dovrebbe presentare i caratteri della stabilità e della certezza – esibiscono la costante natura di interventi più favorevoli, che diminuiscono l’onerosità degli adempimenti. In quanto tali – e, beninteso, purché tali – non possono perciò avere un peso decisivo nell’orientare verso un giudizio di irragionevolezza manifesta della disciplina censurata.

Infine, converge nella medesima direzione la diminuzione stessa del numero complessivo dei collegi plurinominali – e perciò delle sottoscrizioni da raccogliere – operata dal ricordato d.lgs. n. 177 del 2020, che dà seguito alla riduzione del numero di parlamentari stabilita con legge cost. n. 1 del 2020.

In definitiva, alla luce dell’ampia discrezionalità che è attribuita al legislatore in materia elettorale, in considerazione dell’interesse costituzionale al regolare svolgimento delle competizioni elettorali assicurato dalla disciplina in esame, l’insieme delle argomentazioni proposte dal rimettente non conduce a un giudizio di manifesta irragionevolezza della scelta censurata.

Caduta questa censura, seguono la medesima sorte quelle proposte per violazione degli artt. 51, primo comma, 48, secondo comma, e 1, secondo comma, Cost., per asserita lesione del libero esercizio del diritto di voto e del principio democratico di rappresentatività popolare: censure tutte in realtà dipendenti dalla prima.

Infine, non sussiste nemmeno la prospettata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 Prot. addiz. CEDU.

Come recentemente rammentato da questa Corte (sentenza n. 35 del 2021), la Corte EDU, nel quadro di una giurisprudenza che manifesta notevole prudenza nella valutazione delle restrizioni al diritto di voto nel suo aspetto passivo, muove dal dichiarato presupposto che al legislatore nazionale deve essere riconosciuto il potere di disciplinare il diritto di presentarsi alle elezioni, circondandolo di cautele rigorose, anche più stringenti di quelle predisposte per il diritto di elettorato attivo, purché tali restrizioni perseguano un fine legittimo, compatibile con il principio del primato della legge e con gli obbiettivi generali della Convenzione.

Per gli aspetti qui rilevanti, la Corte EDU ha ritenuto non incompatibile con la Convenzione l’imposizione ai partecipanti alla competizione elettorale dell’obbligo di presentare un certo numero di sottoscrizioni, anche se il numero di firme sia relativamente elevato (sentenze 6 novembre 2012, Ekoglasnost contro Bulgaria, punto 63; 9 maggio 1994, Asensio Serqueda contro Spagna e 12 luglio 1976, X. contro Austria), giacché misure di questo genere perseguono il legittimo obiettivo di scoraggiare candidature fittizie. Vero che nella sentenza Ekoglasnost la Corte di Strasburgo ha sanzionato la Bulgaria per violazione del citato art. 3: ma non per l’onere di raccolta delle sottoscrizioni in sé, bensì per il fatto che tale onere – unito a quello di depositare una cauzione elettorale – era stato introdotto tardivamente, cioè nell’imminenza delle elezioni, tipo di censura che non potrebbe certo muoversi alla disciplina interna vigente (che, come si è ampiamente visto, è piuttosto caratterizzata dalla frequente introduzione, in prossimità delle elezioni, di discipline che diminuiscono la gravosità dell’onere di raccolta).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati) sollevate, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione quest’ultimo in relazione all’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, dal Tribunale ordinario di Roma, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, sollevate, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 3 Prot. addiz. CEDU, dal Tribunale ordinario di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2021.