SENTENZA N. 35
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela
NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera
a), del decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia
di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo
conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma
dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), promosso
dal Tribunale ordinario di Genova nel procedimento vertente tra M. R. e il
Presidente del Consiglio dei ministri, con ordinanza
del 27 dicembre 2019, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2020 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie
speciale, dell’anno 2020.
Visti l’atto di costituzione di M. R., nonché l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell’udienza pubblica del 27 gennaio 2021 la Giudice relatrice Daria
de Pretis;
uditi l’avvocato Gerolamo Taccogna per M. R., in collegamento da remoto, ai
sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020 e
l’avvocato dello Stato Marco Corsini per il Presidente del Consiglio dei
ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 9 febbraio 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 27 dicembre 2019, iscritta al n. 64 del registro
ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 31 dicembre
2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di
divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze
definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma
63, della legge 6 novembre 2012, n. 190).
1.1.– Il rimettente descrive la controversia oggetto del processo
principale nei seguenti termini.
Con decreto del 5 luglio 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri ha
accertato nei confronti di M. R., ai sensi dell’art. 8, comma 4, del d.lgs. n.
235 del 2012, la sospensione di diritto dalla sua carica di consigliere
regionale della Regione Liguria, in conseguenza della sentenza con la quale il
30 maggio 2019 il Tribunale ordinario di Genova lo ha condannato in primo grado
alla pena complessiva di 3 anni, 2 mesi e 15 giorni di reclusione per i reati
di cui all’art. 478 (falsità ideologica commessa da pubblici ufficiali in atti
pubblici) e all’art. 314 (peculato) del codice penale.
I fatti di reato per i quali è intervenuta la condanna non definitiva di M.
R., analoghi ad altri addebitati a diversi consiglieri regionali nel contesto
di una prassi diffusa, consistono nell’avere speso per finalità
extraistituzionali i contributi economici destinati al funzionamento dei gruppi
consiliari regionali, per una spesa di euro 138,20 personalmente imputabile al
condannato, e nell’avere falsamente attestato nei rendiconti annuali, in
qualità di capogruppo, la veridicità e l’inerenza di spese dichiarate da altri
consiglieri regionali, per alcune decine di migliaia di euro.
Con ricorso presentato al Tribunale di Genova nelle forme del processo
sommario di cognizione, ex art. 22 del decreto legislativo 1° settembre 2011,
n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di
riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi
dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), M. R. ha impugnato il
decreto di sospensione chiedendone la disapplicazione «o per difetto di
legittimo presupposto normativo o per entità sproporzionata del provvedimento»,
previa rimessione degli atti a questa Corte per la declaratoria di
illegittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012.
Lo stesso ricorrente ha contestualmente presentato istanza ex art. 700 del
codice di procedura civile per ottenere in via cautelare, sulla base delle
stesse ragioni esposte a sostegno della domanda di merito, la riammissione
immediata nel Consiglio regionale della Liguria. L’ordinanza non fa menzione
dell’esito di tale istanza.
1.1.1.– Il rimettente ritiene rilevanti e non manifestamente infondate due
delle questioni di illegittimità costituzionale proposte nel giudizio a quo.
Alla stregua della prima eccezione, diretta a una pronuncia ablativa,
l’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, nel prevedere che la sospensione di
diritto a seguito di condanna non definitiva per determinati reati si applichi
anche ai consiglieri regionali, violerebbe gli artt. 117 e 122 della Costituzione,
invadendo la sfera di competenza legislativa regionale, «ovvero» comprimendo
tale competenza nell’esercizio di una potestà legislativa statale incidente in
materia regionale «in difetto di ogni coordinamento e collaborazione».
Alla stregua della seconda, diretta a una pronuncia additiva, il citato
art. 8, nella parte in cui non contempla un vincolo di necessaria
proporzionalità in concreto tra fatto accertato in sede penale e le conseguenze
automatiche previste dalla legge, violerebbe i principi posti dall’art. 3 del Protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, in quanto tale
norma convenzionale esigerebbe, secondo l’interpretazione della Corte europea
dei diritti dell’uomo, una deliberazione bilanciata, individualizzata e
giudiziaria di ogni forma di perdita dell’elettorato attivo e passivo.
1.2.– Passando all’esposizione delle censure, il rimettente prende le mosse
da quella che si incentra sulla mancata previsione di un vaglio di
proporzionalità tra i fatti oggetto della condanna e la sospensione dalla
carica elettiva.
La norma censurata sarebbe connotata da un rigido automatismo applicativo,
che fa seguire la sospensione alla condanna per determinati reati senza
considerare l’esigenza di una connessione concreta tra i fatti accertati e la
carica esercitata, ben potendo trattarsi, come nella specie, di fatti risalenti
nel tempo e seguiti «da condotta difforme nell’esercizio della medesima carica,
oppure generati da una occasione [...] non più attuale, oppure seguiti da una
nuova elezione a una carica diversa».
I titoli di reato per i quali sono previste la sospensione e la successiva
decadenza dalla carica sarebbero gravi solo per la pena edittale, in quanto a
essi potrebbero corrispondere fatti di diversa gravità, sicché le anzidette
misure troverebbero applicazione anche per condotte di lieve entità. Ciò
metterebbe in evidenza l’assoluta insensibilità della norma censurata alla
gravità del fatto, acuita dalla circostanza che a reati come il peculato, anche
se di lieve entità, è inapplicabile la causa di non punibilità ex «art. 133-bis»
(recte: art. 131-bis) cod. pen. Sarebbero dunque assoggettati alla misura
sospensiva anche gli autori di condotte di minima offensività, nonostante
possano ricoprire cariche politiche di notevole rilievo e, per ipotesi,
ottenute con larghissimo consenso di un elettorato consapevole della pendenza
del procedimento penale o della condanna.
La natura cautelare della sospensione opererebbe poi sulla base di una
presunzione legale assoluta di pericolosità, nonostante tale istituto sia
escluso, in ossequio ai principi costituzionali, dall’ambito di applicazione
sia delle misure cautelari sia delle misure di sicurezza.
Tale rigido automatismo contrasterebbe con l’art. 3 Prot. addiz. CEDU, dal
cui contenuto precettivo, come interpretato dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, discenderebbe l’esistenza di un diritto fondamentale di elettorato
attivo e passivo.
In particolare, diverse pronunce della Corte EDU (sono citate le sentenze
27 aprile 2010, grande camera, Tănase contro Moldavia;
8 aprile 2010, Frodl contro
Austria; 5 aprile 2007, Kavakçi
contro Turchia; 15 giugno 2006, Lykourezos contro Grecia;
6 ottobre 2005, grande camera, Hirst contro Regno Unito, n. 2)
avrebbero affermato la necessità che le eventuali limitazioni al diritto degli
eletti di rivestire le loro cariche derivino solo da un processo decisorio
individualizzato, di natura tendenzialmente giurisdizionale, che si fondi su un
concreto collegamento tra il fatto commesso e l’impossibilità di ricoprire la
carica elettiva (nozione, quest’ultima, in cui sarebbe ricompresa anche quella
di consigliere regionale prevista dall’ordinamento italiano).
Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, pur diretta al
condivisibile intento di garantire la qualità morale degli eletti, non
risponderebbe a tali requisiti, facendo dipendere l’adozione della misura
dall’astratta valutazione del legislatore. Infine, sulla valutazione di non
manifesta infondatezza della questione non inciderebbe la possibilità di
impugnare giudizialmente il provvedimento di sospensione, in quanto la mancanza
di parametri decisionali non consentirebbe al giudice adito di raggiungere un
«esito adeguatore» in assenza dell’auspicato intervento correttivo del Giudice
delle leggi.
1.2.1.– Quanto all’altra questione, il giudice a quo – pur prendendo atto
della giurisprudenza costituzionale che riconduce la disciplina su
incandidabilità, sospensione e decadenza alla materia dell’ordine pubblico e
sicurezza, di competenza statale «ex art. 117 comma 2 lettera e) della
Costituzione» – censura l’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 per la sua
significativa incidenza sull’ordinamento regionale, comportante la necessità di
adottare una procedura di leale consultazione con le regioni, in ossequio al
principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 251
del 2016. Secondo il rimettente, il previo coinvolgimento delle regioni
sarebbe stato qui ancora più necessario, potendo incidere l’intervento
legislativo sul loro stesso vertice politico.
2.– Con atto depositato il 24 giugno 2020, si è costituito in giudizio M.
R., ricorrente nel processo principale, che ha concluso perché l’art. 8 del
d.lgs. n. 235 del 2012 «all’occorrenza unitamente all’art. 1, commi 63 e 64,
della l. n. 190/2012» sia dichiarato costituzionalmente illegittimo.
2.1.– In premessa, M. R. riassume i fatti che hanno portato alla sua
condanna penale e lo svolgimento del giudizio a quo, ricordando che l’istanza
cautelare di riammissione nel Consiglio regionale della Liguria, presentata
contestualmente al ricorso di merito, è stata dapprima respinta, per difetto
del solo periculum in mora, e poi accolta in sede di reclamo.
2.2.– Sulla prima questione, riguardante il lamentato contrasto della norma
censurata con gli artt. 117 e 122 Cost., in rapporto al principio di leale
collaborazione, il ricorrente nel processo principale osserva che, pur
prevedendo l’art. 122 Cost. le sole ipotesi dell’ineleggibilità e
dell’incompatibilità, si potrebbe ricondurre ad esso anche l’incandidabilità
per mancanza dei requisiti soggettivi di accesso alla carica, sussistendo
dunque in materia uno spazio di potestà legislativa regionale, al quale si sovrapporrebbe
in modo inestricabile la sfera della potestà legislativa statale in materia di
ordine pubblico.
Tale inestricabile intreccio di competenze imporrebbe un coinvolgimento
delle regioni, secondo quanto affermato dalla sentenza n. 251
del 2016. La mancata previsione di tale coinvolgimento nelle norme di
delega renderebbe costituzionalmente illegittima la legge delega e, in via
derivata, il decreto delegato. Quest’ultimo sarebbe peraltro costituzionalmente
illegittimo anche «in via autonoma», in quanto le regioni avrebbero potuto
essere comunque coinvolte nel suo processo formativo anche in assenza di una
previsione in tal senso della legge delega. In ogni caso, si sostiene che questa
Corte potrebbe sollevare davanti a sé la questione su di essa.
2.3.– Sulla seconda questione, riguardante il lamentato contrasto con
l’art. 3 Prot. addiz. CEDU, «in relazione all’art. 117 Cost.», oltre che «con
gli artt. 1, 3, 24, 51 e 97 Cost.», M. R. osserva che, alla luce
dell’interpretazione data a tale norma convenzionale dalla Corte EDU, le
limitazioni del diritto di elettorato passivo devono corrispondere a un fine
compatibile con il principio democratico ed essere proporzionate al suo perseguimento.
Di conseguenza, sia l’incandidabilità che la sospensione dalla carica elettiva,
ancorché prive di carattere sanzionatorio, non potrebbero discendere
automaticamente da una sentenza di condanna non definitiva, essendo necessaria
una procedura, amministrativa o giurisdizionale, ma dotata di adeguate garanzie
di contraddittorio e imparzialità, per valutare in concreto, secondo le
circostanze del caso specifico, l’eventuale pericolo «rappresentato
dall’eletto-condannato per la funzione amministrativa affidata all’organo
pubblico del quale egli fa parte».
Il caso concreto sarebbe emblematico della mancanza di proporzionalità
della misura, in quanto adottata sulla base di una valutazione compiuta in
astratto dal legislatore, e della necessità di una valutazione specifica che, a
fronte della qualificazione come peculato di condotte anche molto differenti
tra loro, sola consentirebbe di apprezzare l’obiettiva gravità del reato e la
sua idoneità a giustificare la compressione del diritto di elettorato passivo.
La mancanza di proporzionalità della misura si collegherebbe anche al lungo
tempo trascorso tra i fatti sanzionati in sede penale, risalenti al 2010, e
l’adozione della misura. Dovrebbe inoltre essere considerata la rinnovata
legittimazione democratica dell’interessato, rieletto nelle elezioni regionali
del 2015, per apprezzare l’incidenza della misura sospensiva sulla volontà
popolare e l’eventuale pregiudizio all’immagine della regione.
2.4.– Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 8 del
d.lgs. n. 235 del 2012 deriverebbe dall’equiparazione in esso operata delle
cariche di presidente della regione e di consigliere regionale, nonostante
l’evidente diversità tra le due posizioni quanto alla possibilità di
influenzare l’attività legislativa e amministrativa regionale. Sarebbero
violati di conseguenza sia il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., sia
l’art. 51 Cost. e ancora l’art. 3 Prot. addiz. CEDU, sempre per la manifesta
sproporzione della misura.
2.5.– L’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 contrasterebbe altresì con il
principio di buon andamento ex art. 97 Cost., in quanto l’automatismo
applicativo impedirebbe di valutare in concreto il vulnus che la sospensione
cautelare può arrecare all’azione amministrativa regionale. In subordine, la
violazione dell’art. 97 Cost. – oltre che del principio di eguaglianza ex art.
3 Cost. e dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU – deriverebbe dall’omessa previsione
della possibilità per la pubblica amministrazione di revocare la sospensione (è
citata al riguardo la sentenza n. 184
del 1994, sul regime di sospensione automatica dal servizio dei dipendenti
pubblici condannati in via non definitiva per i medesimi reati).
3.– Con atto depositato il 7 luglio 2020 è intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine,
per l’infondatezza delle questioni.
3.1.– L’interveniente ha eccepito l’inammissibilità di tutte le questioni
per genericità nell’identificazione delle norme censurate. Il rimettente
avrebbe omesso di dedurre censure «“puntiformi” e mirate» sull’art. 8 del
d.lgs. n. 235 del 2012, operando «genericissimi rinvii» al testo del d.lgs. n.
235 del 2012 nella sua integralità.
Una specifica inammissibilità investirebbe poi la questione concernente la
violazione del principio di leale collaborazione, per genericità del parametro
invocato, nonché per il tenore dubitativo della questione stessa. In ogni caso,
il fugace riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.,
risulterebbe erroneo, per l’estraneità alla materia della norma censurata.
3.2.– Nel merito, non sussisterebbe la violazione del principio di leale
collaborazione, in quanto la norma censurata, che si colloca nell’ambito di una
disciplina unitaria dei requisiti di assunzione e di mantenimento delle cariche
di pubblico amministratore, dovrebbe essere ricondotta alla competenza
esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., perseguendo
obiettivi di salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza, di tutela
della libera determinazione degli organi elettivi e di buon andamento e
trasparenza della pubblica amministrazione.
3.2.1.– Non sarebbero violati neppure i principi di tutela dell’eletto
ricavabili dall’art. 3 Prot. addiz. CEDU, «per il tramite dell’art. 117 primo
comma della Costituzione».
La norma perseguirebbe infatti un fine legittimo, da identificare, come
visto, nella tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, integranti beni di
rango costituzionale. La misura sarebbe proporzionata per la temporaneità dei
suoi effetti, destinati a cessare decorsi diciotto mesi dalla condanna, salvo
conferma in appello entro tale termine della sentenza di primo grado, nel quale
caso la sospensione è protratta di dodici mesi. Inoltre, non sarebbe essenziale
prevedere una decisione giudiziale sulla meritevolezza in concreto della
sospensione, essendo sufficiente che la valutazione compiuta ex ante dal
legislatore sia l’esito di un ragionevole bilanciamento tra il fine perseguito
e la compressione del diritto di elettorato passivo.
L’interveniente richiama la giurisprudenza costituzionale che – con
riferimento all’analoga fattispecie disciplinata all’art. 11, comma 1, lettera
a), del d.lgs. n. 235 del 2012, ispirato dalla stessa ratio – ha qualificato la
sospensione come una misura cautelare posta a tutela oggettiva del buon
andamento e della legalità della pubblica amministrazione, la cui adeguatezza
non va commisurata alla gravità del fatto commesso, ma alle esigenze cautelari
perseguite, in relazione alla possibile lesione dell’interesse pubblico causata
dalla permanenza dell’eletto nell’organo elettivo (sono citate le sentenze n. 36 del
2019, n.
236 del 2015 e n. 206 del 1999).
La ragionevolezza e la proporzionalità della misura sarebbero confermate
anche dal suo collegamento a condanne per reati di particolare gravità o
compiuti contro la pubblica amministrazione, quindi direttamente connessi alle
funzioni che il sospeso è chiamato ad assumere.
4.– Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, M. R. ha insistito
nelle conclusioni già formulate, ribadendo le ragioni esposte nell’atto di
costituzione e replicando alle deduzioni difensive svolte dal Presidente del
Consiglio dei ministri.
4.1.– In particolare l’eccezione di genericità delle questioni non sarebbe
fondata, essendo esattamente individuata nell’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012
la norma sospettata d’incostituzionalità, solo per sintesi menzionata dal
rimettente, talvolta, come «legge Severino».
Neppure mancherebbe l’evocazione dei parametri violati, in quanto
l’ordinanza di rimessione li indica, nell’un caso, nell’art. 3 Prot. addiz.
CEDU e, nell’altro, nel principio di leale collaborazione tra lo Stato e le
regioni, per la forte sovrapposizione sulla materia di competenza regionale ex
art. 122 Cost.
Inoltre, il richiamo fatto dal rimettente alla lettera e) del secondo comma
dell’art. 117 Cost. si dovrebbe intendere palesemente riferito alla lettera h)
dello stesso secondo comma, relativa alla materia dell’ordine pubblico.
4.2.– Quanto alla violazione del citato art. 3 Prot. addiz. CEDU, M. R.
osserva che le pronunce della Corte richiamate dall’interveniente non sarebbero
pertinenti, perché espressive di principi non contestati, giacché in questa
sede alla Corte è chiesto di affermare che il bilanciamento fra gli interessi
in gioco avvenga mediante una valutazione caso per caso di tutte le circostanze
concrete, come imposto dalla giurisprudenza della Corte EDU.
4.3.– Quanto alla violazione del principio di leale collaborazione, il
fatto che la norma censurata miri alla tutela dell’ordine pubblico non
eliminerebbe la sua incidenza su materie di competenza regionale, alla luce
dell’art. 122 Cost., per l’effetto immediato e diretto della sospensione sulla
permanenza in carica dei titolari di uffici apicali del governo regionale.
L’esigenza di unitarietà di disciplina in tutto il territorio nazionale non
escluderebbe la necessaria osservanza del principio di leale collaborazione,
tramite intesa, in fase di formazione del decreto delegato.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Genova dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235
(Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di
ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della
legge 6 novembre 2012, n. 190), ossia della cosiddetta “legge Severino”.
Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio con cui M. R. ha impugnato
il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di accertamento nei suoi
confronti, ai sensi dell’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012,
dell’avvenuta sospensione di diritto dalla carica di consigliere regionale
della Regione Liguria.
La sospensione è conseguita alla sentenza di condanna in primo grado dello
stesso M. R. alla pena complessiva di 3 anni, 2 mesi e 15 giorni di reclusione,
irrogata dal Tribunale di Genova per i reati di cui agli artt. 314 e 478 del
codice penale.
I fatti di reato per i quali è intervenuta la condanna consistono
nell’avere speso per finalità extraistituzionali i contributi economici
destinati al funzionamento dei gruppi consiliari regionali, per una spesa di
euro 138,20 personalmente imputabile al condannato, e nell’avere falsamente
attestato nei rendiconti annuali, in qualità di capogruppo, la veridicità e
l’inerenza di spese dichiarate da altri consiglieri regionali, per alcune
decine di migliaia di euro.
1.1.– In primo luogo, va rilevata l’inammissibilità delle ulteriori
questioni prospettate nell’atto di costituzione in giudizio del ricorrente nel
processo principale, in quanto diverse da quelle proposte nell’ordinanza di rimessione,
sia per l’oggetto, che investe disposizioni ulteriori rispetto a quelle
censurate dal giudice a quo (art. 1, commi 63 e 64, della legge 6 novembre
2012, n. 190, recante «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione»; art. 7 del d.lgs.
n. 235 del 2012), sia per i parametri invocati (artt. 1, 3, 24, 51 e 97 della
Costituzione).
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio
di costituzionalità in via incidentale è limitato alle norme e ai parametri
indicati nelle ordinanze di rimessione, mentre non possono essere presi in
considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili
di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non
fatti propri dal giudice a quo (come nella specie), sia che siano diretti ad
ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex
plurimis, sentenze
n. 35 del 2017, n. 203 del 2016,
n. 56 del 2015,
n. 271 del 2011
e n. 86 del
2008).
1.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha preliminarmente eccepito
l’inammissibilità di tutte le questioni sollevate dal giudice a quo, per
genericità nell’identificazione delle norme censurate. Pur affermando di
dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 235 del
2012, il rimettente avrebbe omesso di dedurre censure «“puntiformi” e mirate»
su tale disposizione e operato invece «genericissimi rinvii» al testo del
d.lgs. n. 235 del 2012 nella sua integralità, così manifestando l’intento di
«colpire l’impianto della c.d. “Legge Severino”, costantemente richiamata
nell’ordinanza».
L’eccezione non è fondata.
Nella motivazione dell’ordinanza di rimessione è indicato con chiarezza
l’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 come oggetto delle questioni, mentre gli
sparsi e generici richiami alla “legge Severino” nella sua interezza sono
diretti a sottolineare che la disposizione censurata rispecchia nel suo
specifico contenuto l’impianto complessivo del d.lgs. n. 235 del 2012.
1.2.1.– L’oggetto delle questioni proposte va comunque circoscritto alla
lettera a) del comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, perché questa è
la disposizione che, prevedendo la sospensione di coloro che hanno riportato
una sentenza di condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’art.
7, comma 1, lettere a), b) e c), dello stesso d.lgs. n. 235 del 2012, deve
essere applicata nel giudizio a quo, relativo a un provvedimento di sospensione
dalla carica di un consigliere regionale condannato in primo grado (anche) per
il delitto di peculato, compreso nell’elenco di cui al citato art. 7, comma 1,
lettera c).
1.3.– Il petitum delle questioni, ancorché non indicato nel dispositivo
dell’ordinanza di rimessione, è ricavabile dal tenore della motivazione, là
dove, nel sintetizzare il contenuto delle due questioni di legittimità
costituzionale ritenute non manifestamente infondate, il giudice a quo osserva
che l’una – che invoca gli artt. 117 e 122 Cost. e il principio di leale
collaborazione, la cui violazione è declinata come «difetto di ogni
coordinamento e collaborazione» tra lo Stato e le regioni – tende «alla
cancellazione integrale del fondamento normativo dell’istituto adottato in
concreto», attraverso «una pronuncia soppressiva», mentre l’altra – con cui è
dedotta la violazione dell’art. 3 del Protocollo addizionale della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato
a Parigi il 20 marzo 1952, in tema di elettorato passivo – è diretta «alla
introduzione di un potere di vaglio necessario minimo della proporzione tra il
fatto ritenuto e l’effetto sull’elettorato passivo», attraverso «una pronuncia
additiva».
Se ne desume che le questioni sono collegate da un rapporto di logica
subordinazione, in quanto l’addizione normativa è richiesta per il caso in cui
non fosse accolta la domanda, prospettata come prima, di «pronuncia
soppressiva» (id est, totalmente ablativa). Ciò che non osta all’ammissibilità
delle questioni, alla luce del costante orientamento di questa Corte secondo
cui «ben può [...] il giudice rimettente prospettare in termini gradatamente
sequenziali, e quindi subordinati, i possibili esiti dello scrutinio di
costituzionalità pur senza una formale e testuale qualificazione di ciascuna
conclusione rispettivamente come “principale” e “subordinata” (sentenze n. 127
del 2017 e n.
280 del 2011)» (sentenza n. 175
del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 36 del
2019).
2.– Occorre dunque esaminare prioritariamente la questione principale.
Con essa, il giudice a quo lamenta che la disposizione censurata – pur
incidendo su una «materia almeno estremamente affine» a quella dell’eleggibilità
e dell’incompatibilità dei consiglieri regionali, attribuita alla potestà delle
regioni dall’art. 122, primo comma, Cost. – sia stata adottata senza il previo
raccordo con le regioni in sede di Conferenza unificata, in violazione del principio
di leale collaborazione.
Non appartiene al thema decidendum, invece, la censura di invasione della
sfera di competenza regionale ex art. 122 Cost, anch’essa dedotta dal
ricorrente nel giudizio principale, ma non condivisa dal rimettente, che ne
critica la fondatezza, richiamando la tesi secondo cui la disciplina della
sospensione dalle cariche elettive regionali non si inquadra negli istituti
dell’eleggibilità e dell’incompatibilità, bensì in quello dell’incandidabilità,
riconducibile alla diversa materia dell’ordine pubblico e sicurezza, di
competenza esclusiva dello Stato.
2.1.– L’eccezione del Presidente del Consiglio dei ministri di
inammissibilità della questione per erronea e generica indicazione del
parametro invocato, nonché per il suo tenore dubitativo, non è fondata.
L’ordinanza di rimessione, nonostante l’apparente tenore dubitativo che ne
caratterizza gli snodi, offre esplicite ragioni a sostegno della censura e
assume come propri i motivi esposti dal ricorrente nel giudizio principale.
Si deve ritenere inoltre che, nell’invocare un parametro del tutto
inconferente, quale l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., il giudice a
quo sia semplicemente incorso in un lapsus calami, essendo palese che esso
intendeva richiamare la lettera h) dello stesso secondo comma dell’art. 117
Cost., come dimostra l’esplicito riferimento, nello stesso contesto
motivazionale, alla materia «ordine pubblico e sicurezza» ivi prevista.
D’altra parte, nei termini in cui la questione è sollevata, la censura non
investe la norma costituzionale che fonda la competenza esclusiva dello Stato,
ma fa valere la lesione del principio di leale collaborazione, in base al
quale, nella prospettazione del rimettente, l’intervento del legislatore
statale, pur assunto nell’esercizio dell’indicata competenza in funzione della
disciplina unitaria della sospensione dalle cariche regionali, non potrebbe
incidere su materie di competenza regionale senza un coinvolgimento delle
regioni. In questi termini la questione è posta con sufficiente chiarezza dal
rimettente, che dall’assenza di tale coinvolgimento fa derivare la violazione
del principio di leale collaborazione, assolvendo così all’onere di indicare, a
pena di inammissibilità, il parametro alla cui stregua questa Corte è chiamata
a valutare la questione.
2.2.– Nel merito, la questione non è fondata.
Come visto, secondo il rimettente la disposizione censurata, pur
espressione della competenza statale esclusiva in materia di «ordine pubblico e
sicurezza», inciderebbe anche su una materia di competenza regionale, sicché il
legislatore delegato avrebbe potuto adottarla solo dopo aver previamente
coinvolto le regioni.
A sostegno dell’assunto il giudice a quo evoca la sentenza n. 251
del 2016, con cui questa Corte ha affermato che, quantunque il principio di
leale collaborazione non si imponga al procedimento legislativo, «[l]à dove […]
il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su
competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità
del ricorso all’intesa», la quale «si impone quale cardine della leale
collaborazione anche quando l’attuazione delle disposizioni dettate dal
legislatore statale è rimessa a decreti legislativi adottati dal Governo sulla
base dell’art. 76 Cost.», che finiscono «con l’essere attratti nelle procedure
di leale collaborazione, in vista del pieno rispetto del riparto costituzionale
delle competenze».
Nel richiamare tale precedente il giudice a quo omette tuttavia di
verificare se la disposizione statale censurata, che esso stesso riconduce a un
titolo di competenza esclusiva dello Stato, incida effettivamente su ambiti
materiali nei quali concorrono competenze statali e regionali legate da un
intreccio inestricabile, non risolubile tramite un criterio di prevalenza di
una materia sulle altre. Solo in un’ipotesi di questo tipo, infatti, «deve
trovare applicazione il principio generale, costantemente ribadito dalla
giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 140
del 2015), secondo il quale in ambiti caratterizzati da una pluralità di
competenze [...] e, qualora risulti impossibile comporre il concorso di
competenze statali e regionali, tramite un criterio di prevalenza, non è
costituzionalmente illegittimo l’intervento del legislatore statale, purché
agisca nel rispetto del principio di leale collaborazione che deve in ogni caso
permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (ex
plurimis, sentenze
n. 44 del 2014, n. 237 del 2009,
n. 168 e n. 50 del 2008)
e che può ritenersi congruamente attuato mediante la previsione dell’intesa» (sentenza n. 1 del
2016). Impostazione, questa, sulla cui linea si pone la stessa evocata sentenza n. 251
del 2016, che, nel considerare applicabili le procedure di leale
collaborazione all’iter di formazione dei decreti delegati nel caso di
incidenza dell’intervento legislativo su competenze statali e regionali inestricabilmente
connesse, la condiziona all’impossibilità di operare una «valutazione circa la
prevalenza di una materia su tutte le altre», poiché solo ricorrendo questo
presupposto la concorrenza di competenze rende necessario addivenire a
un’intesa.
2.2.1.– Occupandosi della disciplina che si è succeduta nel tempo in tema
di incandidabilità alle cariche elettive, di decadenza di diritto da esse a
seguito di condanna definitiva per determinati reati, nonché di sospensione
automatica in caso di condanna non definitiva (istituto che viene qui
specificamente in rilievo), questa Corte ha più volte affermato che si tratta
di misure «dirette “ad assicurare la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza
pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon
andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo di
fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale coinvolgente gli
interessi dell’intera collettività” (sentenze n. 352
del 2008 e n.
288 del 1993)» (sentenza n. 118
del 2013, in relazione all’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55,
recante «Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo
mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale», i
cui contenuti risultano attualmente trasfusi, per la parte che interessa, negli
artt. 7 e 8 del d.lgs. n. 235 del 2012).
In ragione di questa sua finalità, il «nucleo essenziale» della disciplina
qui segnatamente in esame è stato ricondotto all’ambito della materia «ordine
pubblico e sicurezza», di competenza legislativa statale esclusiva ex art. 117,
secondo comma, lettera h), Cost. (sentenza n. 118
del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 218 del
1993 e n.
407 del 1992, ancora in relazione all’art. 15 della legge n. 55 del 1990),
materia che, come questa Corte ha sottolineato, presenta carattere prevalente
pur quando essa interferisca con la competenza regionale ex art. 122, primo
comma, Cost. (sentenze
n. 36 del 2019 e n. 118 del 2013).
Infatti, anche ritenendo che quest’ultima competenza «comprenda la
disciplina delle decadenze connesse alla sopravvenienza delle cause di
ineleggibilità dopo l’assunzione del mandato, come pure la disciplina delle
ipotesi di sospensione automatica dalla carica collegate, in funzione cautelare
e preventiva, alle cause di decadenza», resta «dirimente il rilievo che le
ragioni che stanno [...] alla base della prevista sospensione di diritto [...]
ascrivono comunque il nucleo essenziale della disciplina, sulla base del
criterio della prevalenza, alla già indicata materia di competenza statale
esclusiva “ordine pubblico e sicurezza”» (sentenza n. 118
del 2013). Né contrasta con la riconduzione della sospensione in esame a
questa materia la circostanza che si tratti della disciplina delle condizioni
per la permanenza in carica di un eletto, giacché in questo caso è proprio
attraverso la previsione di requisiti di onorabilità degli eletti che si perviene
all’obiettivo di garantire, attraverso l’integrità del processo democratico,
nonché la trasparenza e la tutela dell’immagine dell’amministrazione, l’ordine
pubblico e la sicurezza.
In conclusione si deve dunque escludere che, nel caso della sospensione
automatica disciplinata dal censurato art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs.
n. 235 del 2012, si versi in un’ipotesi di intreccio inestricabile di materie,
di competenza statale e regionale, non risolvibile con il criterio della
prevalenza e, di conseguenza, che sia stato violato il principio di leale
collaborazione per mancato coinvolgimento delle regioni nella formazione del
decreto legislativo in cui la disposizione contestata è contenuta.
3.– Con la seconda questione – che, come visto, si pone in rapporto di
logica subordinazione rispetto alla prima – l’art. 8, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 235 del 2012 è censurato nella parte in cui prevede l’applicazione
della misura cautelare della sospensione come automatica conseguenza della
condanna penale non definitiva per determinati reati e preclude così al giudice
chiamato a pronunciarsi sul provvedimento sospensivo di valutare in concreto la
proporzionalità «tra i fatti oggetto di condanna» e la stessa sospensione.
Sarebbe pertanto violato l’art. 3 Prot. add. CEDU, alla cui stregua, sotto
la rubrica «Diritto a libere elezioni», «[l]e Alte Parti contraenti si
impegnano a organizzare, a intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio
segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione
del popolo sulla scelta del corpo legislativo». Ad avviso del rimettente, la
disposizione convenzionale, come interpretata dalla Corte EDU, consentirebbe di
limitare il diritto di elettorato passivo solo a condizione che le eventuali
restrizioni derivino «da un “processo decisorio individualizzato” [...]
tendenzialmente di natura giurisdizionale», perché solo in questo modo sarebbe
possibile valutare la proporzionalità della misura e verificare l’esistenza di
un collegamento tra il fatto commesso e l’impossibilità di ricoprire la carica
elettiva.
3.1.– Sebbene il rimettente invochi l’art. 3 Prot. addiz. CEDU, omettendo
di richiamare esplicitamente l’art. 117, primo comma, Cost., è in riferimento a
tale ultima previsione – rispetto alla quale la citata norma convenzionale
funge da parametro interposto (sentenze n. 348
e n. 349 del
2007) – che la censura può e deve intendersi effettivamente proposta.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la questione di
legittimità costituzionale deve essere scrutinata avendo riguardo anche ai
parametri costituzionali non formalmente evocati ma desumibili in modo univoco
dall’ordinanza di rimessione, qualora tale atto faccia a essi chiaro, sia pure
implicito, riferimento mediante il richiamo ai principi da questi enunciati (ex
plurimis, sentenze
n. 5 del 2021, n. 227 del 2010,
n. 170 del 2008,
n. 26 del 2003,
n. 69 del 1999
e n. 99 del
1997).
Questo è quanto accade nel caso in esame, in cui il giudice a quo, pur
avendo formalmente indicato solo l’art. 3 Prot. addiz. CEDU, mostra di avere
censurato l’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 con
univoco, ancorché implicito, riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., come
è agevole desumere dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, in cui
si sottolinea la necessità costituzionale che l’ordinamento nazionale osservi
la citata norma convenzionale, e come è del resto significativamente confermato
dal fatto che lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri intervenuto in
giudizio ha impostato la sua difesa richiamando testualmente l’art. 117, primo
comma, Cost., e dunque assumendone anch’esso come pacifica l’evocazione.
3.2.– Nel merito, nemmeno la seconda questione è fondata.
3.2.1.– I termini in cui è prospettata impongono un preliminare riferimento
all’interpretazione dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU ad opera dalla Corte EDU e ai
principi dalla stessa formulati sulla portata generale della garanzia in esso
prevista e sulle limitazioni che gli Stati possono introdurre in ragione della
particolare natura del diritto di elettorato, in specie di quello passivo.
In via generale, la Corte di Strasburgo ha affermato che la disposizione
contenuta nell’art. 3 Prot. addiz. CEDU, pur formulata in termini di impegno
degli Stati contraenti «a organizzare elezioni [...] in condizioni tali da
assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del
corpo legislativo», deve essere interpretata – alla luce dei lavori preparatori
e nel quadro della Convenzione considerata nel suo insieme – nel senso che essa
garantisce diritti soggettivi, comprendenti il diritto di voto (che ne
rappresenta l’aspetto “attivo”) e il diritto di presentarsi alle elezioni
(costituente l’aspetto “passivo”) (ex plurimis, Corte europea dei diritti
dell’uomo, grande camera, sentenza 6 ottobre 2005, Hirst contro Regno Unito, n. 2,
paragrafi 56 e 57; sentenza 2 marzo 1987, Mathieu-Mohin e Clearfayt
contro Belgio, paragrafi da 46 a 51).
Ha precisato ancora che il diritto di presentarsi alle elezioni copre anche
il periodo post-elettorale, convertendosi nel diritto di esercitare il mandato
come membro del corpo legislativo (Corte EDU, sentenza 24 maggio 2016, Paunović and
Milivojević contro Serbia, paragrafo 58), e che quest’ultima nozione,
a sua volta, deve essere interpretata alla luce della struttura costituzionale
del singolo Stato (Corte EDU, sentenza Mathieu-Mohin e
Clearfayt contro Belgio, paragrafo 53), includendo in particolare, per
quanto riguarda il nostro Paese, i consigli regionali, in quanto dotati di
attribuzioni e di poteri sufficientemente ampi da essere qualificabili come
elementi del corpo legislativo dello Stato nel suo complesso (Corte EDU,
sentenza 1° luglio 2004, Vito
Sante Santoro contro Italia, paragrafo 52).
Quanto alle limitazioni apportabili dal legislatore nazionale ai diritti di
elettorato attivo e passivo, la Corte EDU ha precisato che si tratta di diritti
non assoluti, che possono essere fatti oggetto di «limitazioni implicite»,
rispetto alle quali gli Stati contraenti godono di un ampio margine di
valutazione, in ragione, tra l’altro, delle peculiarità storiche, politiche e
culturali di ciascun ordinamento (ex plurimis, Corte EDU, sentenza 15 giugno
2006, Lykourezos contro
Grecia, paragrafo 51; sentenza
Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafi 61 e 62; sentenza Mathieu-Mohin e
Clearfayt contro Belgio, paragrafo 52).
Il carattere «implicito» delle limitazioni ammissibili consente agli Stati
contraenti di introdurre misure restrittive di tali diritti anche per finalità
non incluse in elenchi precisi, come quelle enumerate agli articoli da 8 a 11
della CEDU, purché nelle particolari circostanze del caso concreto sia
dimostrata la compatibilità del fine perseguito con il principio del primato
della legge e con gli obiettivi generali della Convenzione. Per la stessa
ragione, nel vagliare la compatibilità delle possibili limitazioni con le
garanzie assicurate dalla Convenzione, la Corte EDU non applica i test
tradizionali usati nella verifica del rispetto degli stessi articoli da 8 a 11
della Convenzione, basati sui criteri della necessità o dell’urgente bisogno
sociale, ma fa riferimento a criteri diversi e specifici. In base ad essi, in
particolare: le limitazioni del diritto di voto e del diritto di candidarsi non
devono violarne la sostanza, né privarli di effettività; le restrizioni devono
perseguire un fine legittimo, compatibile con il principio del primato della
legge e con gli obiettivi generali della CEDU, e segnatamente con la protezione
dell’indipendenza dello Stato, dell’ordine democratico e della sicurezza
nazionale; i mezzi impiegati non devono essere sproporzionati (ex plurimis,
Corte EDU, grande camera, sentenza 27 aprile 2010, Tănase contro Moldavia,
paragrafo 161; sentenza 6 novembre 2009, Etxeberria e altri contro
Spagna, paragrafo 47; sentenza 5 aprile 2007, Kavakçi contro Turchia,
paragrafo 41; sentenza
Lykourezos contro Grecia, paragrafo 52; sentenza Vito Sante Santoro
contro Italia, paragrafo 54; sentenza Hirst contro Regno
Unito, n. 2, paragrafo 62).
Quanto in particolare alle restrizioni al diritto di voto nel suo aspetto
“passivo”, il controllo della Corte EDU è poi ancora più prudente, sul
dichiarato presupposto che al legislatore nazionale deve essere riconosciuto il
potere di disciplinare il diritto di presentarsi alle elezioni, circondandolo
di cautele rigorose, anche più stringenti di quelle predisposte per il diritto
di elettorato attivo (Corte EDU, grande camera, sentenza 16 marzo 2006, Ždanoka contro Lettonia,
paragrafo 115; sentenza
Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafi da 57 a 62). In questa ipotesi
viene infatti in gioco la peculiare esigenza di garantire stabilità ed
effettività di un sistema democratico nel quadro del concetto, del quale la
stessa Corte ha riconosciuto la legittimità, di «democrazia capace di difendere
se stessa» (Corte EDU, sentenza
Ždanoka contro Lettonia, paragrafo 100).
A tale riconosciuta possibilità per gli Stati contraenti di imporre in
questi casi requisiti più stringenti corrisponde dunque in sostanza, nella
valutazione della Corte di Strasburgo ex art. 3 Prot. addiz. CEDU, una minore
severità nel sindacato sulla proporzionalità dei mezzi impiegati nella
limitazione, nel senso che, mentre quando si tratti del diritto di elettorato
attivo la verifica consiste normalmente in un’approfondita valutazione della
proporzionalità delle previsioni che escludono una persona o un certo gruppo di
persone, quella operata sulle limitazioni al diritto di elettorato passivo è
mantenuta nei limiti dell’accertamento della non arbitrarietà delle misure
nazionali che privano un individuo dell’eleggibilità (ex plurimis, Corte EDU, sentenza Etxeberria e altri
contro Spagna, paragrafo 49; sentenza Ždanoka contro
Lettonia, paragrafo 115).
3.2.2.– Ciò premesso, si può passare all’esame della specifica violazione
dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU lamentata dal rimettente.
Secondo il giudice a quo, l’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235
del 2012, precludendo al giudice di valutare in concreto, secondo il criterio
della proporzionalità, la gravità del fatto accertato penalmente rispetto
all’esigenza perseguita con la sospensione, si porrebbe in contrasto con la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui le limitazioni di
qualsiasi tipo al diritto di voto dovrebbero conseguire a un “processo
decisorio individualizzato”, e più precisamente a un provvedimento
giurisdizionale personalizzato, idoneo a garantire una verifica sulla
proporzionalità della misura e la sussistenza di un effettivo collegamento tra
essa e i fatti a causa dei quali essa è applicata.
Al riguardo occorre tuttavia osservare che, nei termini indicati dal
rimettente, la Corte di Strasburgo si è espressa soltanto in una isolata
pronuncia (Corte EDU, sentenza 8 aprile 2010, Frodl contro Austria,
paragrafi 34 e 35), a fronte della quale si è consolidato invece un diverso
orientamento della grande camera della stessa Corte, che riconosce la
possibilità che sia il legislatore a determinare nel dettaglio lo scopo e le
condizioni di una misura restrittiva, e che, in questo caso, sia lasciato ai
giudici solo il compito di verificare se un determinato soggetto appartenga o
meno alla categoria o al gruppo contemplato nella previsione di cui si tratta,
con esclusione di apprezzamenti giurisdizionali sulla proporzionalità della
singola misura (Corte EDU, sentenza 22 maggio 2012, grande camera, Scoppola contro Italia, n. 3,
paragrafi da 97 a 102, dove si confuta l’interpretazione assunta in Frodl contro Austria; sentenza Ždanoka contro
Lettonia, paragrafi da 112 a 115 e 125).
Nei suoi sviluppi più recenti e compiuti, dunque, la giurisprudenza della
Corte EDU non postula affatto la necessità che l’applicazione in concreto delle
misure restrittive del diritto di voto avvenga attraverso un provvedimento
giurisdizionale, come sostiene il rimettente, e afferma invece che gli Stati
contraenti possono scegliere se affidare alla giurisdizione la valutazione del
carattere proporzionale della misura o se “incorporare” tali apprezzamenti nel
testo delle loro leggi, con la precisa definizione, direttamente in esse, delle
circostanze in cui la misura stessa può essere applicata. In questo secondo
caso, il legislatore può bilanciare a priori gli interessi in gioco, con il
limite del divieto di introdurre restrizioni generali e indiscriminate.
Spetterà poi in ogni caso alla Corte EDU di stabilire se, in una determinata
ipotesi, il risultato sia stato raggiunto, se il limite sia stato rispettato e
se, in generale, la soluzione regolativa prescelta ovvero, nell’altro caso, la
decisione giudiziale siano conformi all’art. 3 Prot. addiz. CEDU (Corte EDU, sentenza Scoppola contro
Italia, n. 3, paragrafo 102).
Alla luce di quanto esposto si deve pertanto escludere che la disposizione
censurata contrasti con l’art. 3 Prot. addiz. CEDU solo perché non affida ai
giudici nazionali il potere di individualizzare pienamente la sua applicazione
alla luce della specifica situazione di un soggetto e delle circostanze
particolari del caso concreto (Corte EDU, sentenza Ždanoka contro
Lettonia, paragrafo 125). Essa costituisce invero legittimo esercizio, da
parte dell’ordinamento nazionale, del margine di apprezzamento che la
Convenzione lascia agli Stati nella disciplina della materia, in ragione del
fatto che le particolari condizioni di sviluppo storico, di diversità culturale
e di pensiero politico che caratterizzano le singole esperienze nazionali
modellano, per ciascuna, una sua propria visione democratica (Corte EDU, sentenza Scoppola contro
Italia, n. 3, paragrafo 102). La soluzione adottata in concreto
nell’ordinamento nazionale, di individuare legislativamente le condizioni per
l’applicazione della restrizione e di riservare ai giudici solo la verifica
della loro sussistenza – in particolare se un determinato soggetto appartenga
alla categoria o al gruppo contemplato nella previsione legislativa – senza
apprezzamenti da operare nel caso specifico, non risulta priva di ragioni,
attese la portata e la delicatezza, anche in termini di conseguenze politiche,
del giudizio sulla permanenza in carica degli eletti, così come, nelle altre
ipotesi disciplinate nella medesima normativa del 2012, sulla loro
candidabilità. Si tratta in ogni caso di una scelta legislativa che supera
agevolmente il controllo di non arbitrarietà, stante che la prevista
restrizione del diritto di elettorato passivo non presenta portata né
generalizzata né indiscriminata, essendo circoscritta a una precisa e alquanto
limitata categoria di soggetti, costituita da coloro che hanno subito condanne
per determinati tipi di reati – la cui individuazione ad opera del legislatore
resta comunque estranea alle censure del rimettente – particolarmente gravi o
di specifico rilievo in funzione dell’attitudine a incidere sull’immagine e
l’onorabilità della pubblica amministrazione, come si dirà appresso.
Nella sua sostanza, infine, la scelta operata con il censurato art. 8,
comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 si pone in linea con le
finalità che, secondo la stessa giurisprudenza della Corte EDU, possono legittimare
misure di questo tipo, come quella di proteggere l’integrità del processo
democratico mediante l’esclusione dalla partecipazione all’attività degli
organi rappresentativi di individui che possono pregiudicarne il corretto
funzionamento (Corte EDU, sentenza
Ždanoka contro Lettonia, paragrafo 122).
3.2.3.– Si deve ancora escludere che la norma censurata contrasti con
l’art. 3 Prot. addiz. CEDU sotto il diverso – e in parte concorrente – profilo
della mancata previsione in essa di un collegamento tra la sospensione e i
fatti oggetto della condanna penale, tenuto conto della loro gravità nonché
della loro connessione con la carica esercitata al momento della sospensione.
Ciò che più precisamente il giudice a quo lamenta è il carattere potenzialmente
sproporzionato della misura, derivante dalla presunzione assoluta di pericolo
operata dalla norma, pericolo che potrebbe in concreto non sussistere, «come ad
esempio nel caso in cui l’illecito fosse relativo ad una carica pregressa e
mutata, con impossibilità nella nuova carica di reiterare la condotta».
Secondo il costante orientamento di questa Corte – che si colloca nel solco
tracciato da sentenze su analoghe disposizioni previgenti – le misure
dell’incandidabilità, della decadenza e della sospensione dalle cariche
elettive previste nel d.lgs. n. 235 del 2012, ancorché collegate alla
commissione di un illecito, non hanno carattere sanzionatorio e rappresentano
solo conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle
cariche pubbliche considerate. La sospensione dalla carica, in particolare,
«risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica
amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio» e costituisce,
per la sua natura provvisoria, «misura sicuramente cautelare» (ex plurimis, sentenze n. 276
del 2016 e n.
236 del 2015). Il legislatore ha infatti considerato che la permanenza in
carica di chi sia stato condannato anche in via non definitiva per determinati
reati che offendono la pubblica amministrazione – come il peculato, per il
quale è stato condannato il ricorrente nel giudizio principale – può comunque
incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma,
Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in
modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche il dovere di adempierle con
disciplina ed onore (sentenza n. 36 del
2019, resa sull’art. 11, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 235 del 2012, ma
con argomenti estensibili all’analoga misura prevista dalla norma qui
censurata).
Se questo è il fine perseguito dal legislatore – la cui legittimità non è
dubitabile, come visto, ai sensi dell’art. 3 Prot. addiz. CEDU – la modalità
prescelta per realizzarlo non è in contrasto con il criterio della
proporzionalità, costituendo invece il frutto di un ragionevole bilanciamento
tra gli interessi che vengono in gioco nella disciplina dei requisiti per
l’accesso e il mantenimento delle cariche in questione, e quindi tra il diritto
di elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione, dall’altro.
Come già osservato, la sospensione cautelare in esame non trova
applicazione generalizzata e indifferenziata, ma è riservata a una platea
delimitata di soggetti, costituita dai condannati in via non definitiva per
reati direttamente connessi alle funzioni che sarebbero chiamati ad assumere,
perché di particolare gravità (ex art. 7, comma 1, lettere a e b, del d.lgs. n.
235 del 2012) o perché commessi contro la pubblica amministrazione (ex art. 7,
comma 1, lettera c, del d.lgs. n. 235 del 2012). In ordine a tali reati le
esigenze di tutela del buon andamento e della legalità della pubblica
amministrazione, anche sotto il profilo della perdita di immagine degli
apparati pubblici, sono di immediata evidenza e non richiedono indagini o
apprezzamenti ulteriori rispetto a quelli operati dal legislatore.
In secondo luogo, si tratta di una misura caratterizzata da una strutturale
provvisorietà e dalla gradualità nel tempo dei propri effetti, in attesa che
l’accertamento penale si consolidi nel giudicato, determinando la decadenza
dalla carica (art. 8, comma 6, del d.lgs. n. 235 del 2012). La sospensione,
infatti, cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi, salvo che
entro questo termine la sentenza di condanna sia confermata in appello, nel
quale caso decorre un ulteriore periodo di sospensione di dodici mesi (art. 8,
comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012). Come questa Corte ha già osservato con
riguardo all’analoga previsione dell’art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 235 del
2012 (sentenza
n. 36 del 2019, punto 4.1. del Considerato in diritto), la disciplina
richiamata è il risultato di un ulteriore bilanciamento delle descritte
esigenze di tutela della pubblica amministrazione, da un lato, e dell’eletto
condannato, dall’altro, diretto a temperare gli effetti automatici della
sentenza di condanna non definitiva in ragione del trascorrere del tempo e
della progressiva stabilizzazione della stessa pronuncia, con l’obiettivo di
evitare un’eccessiva compressione del diritto di elettorato passivo.
Inoltre, le esigenze cautelari che la sospensione mira ad assicurare non
vanno identificate nel pericolo di reiterazione del reato, come erroneamente
ritiene il giudice a quo, ma, come visto, nella mera possibilità che la
permanenza dell’eletto nell’organo elettivo determini una lesione
dell’interesse pubblico tutelato. La misura non assolve invero a funzioni
sanzionatorie o di cautela penale, ma è semplicemente diretta a garantire
l’oggettiva onorabilità di chi riveste la carica pubblica di cui si tratta,
sicché nei suoi riguardi – come questa Corte ha più volte affermato – se un’esigenza
di proporzionalità è prospettabile, questa non è rispetto al reato commesso (e,
si deve precisare qui, al pericolo della sua reiterazione, di cui la norma
censurata non si occupa), ma rispetto all’esigenza cautelare perseguita (ex
plurimis, sentenze
n. 276 del 2016 e n. 25 del 2002,
quest’ultima sull’analoga sospensione già prevista dall’art. 15 della legge 19
marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni per la prevenzione della
delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di
pericolosità sociale»), in una logica che prescinde dalla gravità del fatto di
reato e dalla pena in concreto irrogata.
Se perciò il collegamento tra sospensione e condanna è operato
all’esclusivo scopo di realizzare le esigenze cautelari costituenti il fine
legittimo della misura, la sospensione non dipende dalla concreta gravità dei
fatti per i quali vi è stata condanna, ma solo da quest’ultima, che costituisce
l’oggettivo presupposto perché si produca l’effetto ulteriore e distinto
previsto dalla norma, destinato a operare in modo autonomo ed “esterno”
rispetto all’azione pubblica di repressione penale (sentenza n. 276
del 2016). Né, per le medesime ragioni, rileva che il fatto di reato
accertato abbia una qualche incidenza, anche temporale, sull’esercizio del
mandato.
Esaminata da questo angolo visuale, la sospensione dalla carica,
rigorosamente circoscritta nel tempo e destinata a cessare immediatamente nel
caso di sopravvenuti non luogo a procedere, proscioglimento o assoluzione
dell’eletto, non può essere considerata inadeguata o eccedente rispetto al fine
perseguito.
3.2.4.– In conclusione, anche tenuto conto dell’ampio margine di
apprezzamento riconosciuto al legislatore nazionale nella disciplina del
diritto di elettorato passivo, si deve ritenere che la concreta regolazione
della misura della sospensione cautelare contenuta nella norma censurata operi
– per la platea delimitata di soggetti ai quali si applica, per la temporaneità
e la gradualità dei suoi effetti, per la legittimità dei suoi fini e per la sua
adeguatezza rispetto alle specifiche esigenze cautelari perseguite – un non
irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco e in ogni caso non
presenti sintomi di arbitrarietà tali da determinarne il contrasto con l’art. 3
Prot. addiz. CEDU come interpretato dalla Corte EDU.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.
8, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo
unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di
ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della
legge 6 novembre 2012, n. 190), sollevate dal Tribunale ordinario di Genova, in
riferimento agli artt. 117 e 122 della Costituzione e al principio di leale
collaborazione, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art. 3 del Protocollo addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 9 febbraio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Daria de PRETIS, Redattrice
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2021.