SENTENZA N.
5
ANNO 2021
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo
CORAGGIO;
Giudici: Giuliano AMATO,
Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio
BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge
della Regione Veneto 16 luglio 2019, n. 25 (Norme per introdurre l’istituto
della regolarizzazione degli adempimenti o rimozione degli effetti nell’ambito
dei procedimenti di accertamento di violazioni di disposizioni che prevedono
sanzioni amministrative), promosso dal Presidente del Consiglio dei
ministri con ricorso
notificato il 23-27 settembre 2019, depositato in cancelleria il 30 settembre
2019, iscritto al n. 101 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di
costituzione della Regione Veneto;
udito nell’udienza
pubblica del 2 dicembre 2020 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi l’avvocato dello
Stato Gianni De Bellis per il Presidente del
Consiglio dei ministri e gli avvocati Andrea Manzi e Franco Botteon
per la Regione Veneto, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del
decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;
deliberato nella camera
di consiglio del 2 dicembre 2020.
1.– Con ricorso notificato
il 23-27 settembre 2019 e depositato il 30 settembre 2019, il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, ha impugnato gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge della Regione
Veneto 16 luglio 2019, n. 25 (Norme per introdurre l’istituto della
regolarizzazione degli adempimenti o rimozione degli effetti nell’ambito dei
procedimenti di accertamento di violazioni di disposizioni che prevedono
sanzioni amministrative), per violazione complessivamente degli artt. 3, 25 e 97 della Costituzione,
nonché per contrasto «con la legge
n. 689/1981 che detta la disciplina generale in tema di sanzioni
amministrative».
1.1.– Secondo il
ricorrente, l’art. 1 della legge regionale impugnata – che vieta l’irrogazione
di sanzioni amministrative in materie di competenza esclusiva della Regione
laddove non sia consentita la previa «regolarizzazione degli adempimenti o la
rimozione degli effetti della violazione da parte del soggetto interessato» –
comporterebbe in sostanza l’introduzione di una causa di non punibilità
subordinata alla regolarizzazione della condotta o alla rimozione degli effetti
della violazione da parte del trasgressore nel termine che gli venga assegnato;
ciò che finirebbe per far venire totalmente meno l’efficacia deterrente della
sanzione, con conseguente irragionevolezza della disposizione ai sensi
dell’art. 3 Cost., nonché contrasto della stessa con
il principio del buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art.
97 Cost.
1.2.– Il medesimo art.
1, d’altra parte – rinviando a successivi provvedimenti della Giunta regionale,
da assumere entro novanta giorni dall’entrata in vigore della medesima legge
regionale impugnata, la definizione della «tipologia della violazione» e degli
«adempimenti che la regolarizzazione o la rimozione degli effetti della
violazione comportano», nonché l’individuazione delle «fattispecie per le quali
non è possibile ricorrere alla regolarizzazione degli adempimenti o rimozione
degli effetti, attesa la non sanabilità ad opera dell’autore o dell’obbligato
in solido degli effetti dell’azione od omissione costituente la violazione
sanzionata in via amministrativa» – risulterebbe incompatibile con il principio
di legalità di cui all’art. 25 Cost., così come
interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte (è citata la sentenza n. 134 del
2019). Alla luce di tale giurisprudenza, secondo il ricorrente il
legislatore regionale non avrebbe potuto «concedere alla Giunta una così ampia
discrezionalità nel disciplinare il procedimento irrogativo
delle sanzioni amministrative e addirittura nell’individuare i casi in cui può
essere esclusa – mediante il meccanismo della diffida al ripristino – la
irrogazione stessa della sanzione».
1.3.– Impugnato è
infine – per violazione degli artt. 3, 25 e 97 Cost.
– anche l’art. 4 della legge reg. Veneto n. 25 del 2019, che ha abrogato l’art.
2-bis della legge della Regione Veneto 28 gennaio 1977, n. 10 (Disciplina e
delega delle funzioni inerenti all’applicazione delle sanzioni amministrative
di competenza regionale), il quale prevedeva l’istituto della diffida
amministrativa, con la quale la normativa regionale veneta già prevedeva la possibilità
che, prima del suo accertamento formale, venisse formulato un invito a sanare
la violazione entro un termine non superiore a dieci giorni, in presenza di una
serie di condizioni positive e negative non più riprodotte dalla nuova
disciplina.
2.– Si è costituita in
giudizio la Regione Veneto, la quale ha anzitutto eccepito l’inammissibilità
della censura relativa all’art. 4 della legge regionale impugnata, abrogativa
del previgente istituto della diffida amministrativa, rilevando come tale
abrogazione non leda alcuna competenza statale, né possa essere qualificata in
termini di irragionevolezza; e ciò «[a] meno di voler considerare l’istituto
della diffida amministrativa alla stregua di un principio inderogabile,
immanente all’ordinamento, e, in quanto tale, oggetto di una previsione
necessaria da parte del legislatore, statale o regionale, titolare della
competenza amministrativa cui accede la potestà sanzionatoria». Il che non
troverebbe però alcun riscontro né a livello costituzionale, né sul piano della
legislazione ordinaria.
Quanto al merito delle
censure relative all’art. 1 della legge reg. Veneto n. 25 del 2019, esse
sarebbero infondate.
2.1.– Sarebbe in
particolare da escludere la censura di irragionevolezza della disposizione
impugnata, dal momento che essa si limiterebbe a introdurre «una fase subprocedimentale prodromica» all’accertamento
dell’illecito, «diretta a verificare il possibile concreto soddisfacimento
degli interessi sottesi alla disciplina tutelata dalla previsione sanzionatoria
[…] in uno spirito di collaborazione con i cittadini, senza in tal modo
rinunciare alla potestà punitiva, ove la stessa sia necessaria a presidio
dell’interesse generale».
Ciò, peraltro, soltanto
con riferimento alle materie di competenza esclusiva della Regione: materie
nelle quali, in base al principio della relazione biunivoca esistente tra
competenza amministrativa e competenza sanzionatoria (sono citate le sentenze
di questa Corte n.
90 del 2013, n.
240 del 2007, n.
384 del 2005 e n. 12 del 2004),
«appare del tutto naturale che siano le Regioni a decidere, secondo scelta
insindacabile di discrezionalità politica e legislativa, se prevedere
l’irrogazione di una sanzione amministrativa al compimento di una determinata
condotta o se, invece, introdurre delle forme di ‘sanatoria’, che precedano
l’accertamento e l’irrogazione della sanzione».
La difesa regionale
prosegue evocando vari esempi, nella stessa legislazione statale, di
regolarizzazioni analoghe a quelle ora previste dal legislatore regionale, e in
particolare l’art. 1, comma 6, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al
Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il
lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina
dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione
delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), nonché l’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)».
La previsione della
«regolarizzazione» o della «rimozione degli effetti della violazione» da parte
dell’art. 1, comma 1, della legge regionale impugnata dovrebbe dunque intendersi
come preliminare rispetto al perfezionamento dell’accertamento, sì che il
verbale di accertamento divenga poi la semplice «ricognizione di un accadimento
storico non più afflittivo del bene giuridico protetto dalla norma
sanzionatoria».
La finalità della legge
sarebbe, d’altra parte, «quella della promozione della massima consapevolezza
della sussistenza della previsione sanzionatoria in capo al soggetto sottoposto
alla norma», attraverso una «opportuna interlocuzione preventiva tra pubblica
amministrazione» e destinatario del precetto; finalità tanto più rilevante a
fronte della crescente complessità normativa che rende più difficoltoso, per il
cittadino, comprendere il significato delle previsioni legislative e ad esse
adeguarsi.
2.2.– Quanto poi al
comma 2 dell’art. 1 impugnato, la difesa regionale obietta che alla Giunta
regionale competerebbe esclusivamente «la determinazione delle modalità di
applicazione dell’istituto introdotto dal legislatore regionale», onde
chiarirne la portata ed «enucleare termini e modalità del procedimento di
regolarizzazione»: un compito che sarebbe dunque «meramente compilatorio», e
che non attribuirebbe all’organo amministrativo «alcun ruolo “creativo” o
definitorio dei confini tra il lecito e l’illecito», conformemente ai principi
che questa Corte avrebbe affermato nella sentenza n. 134 del
2019, pure invocata nel ricorso statale.
2.3.– Anche la censura
di violazione dell’art. 97 Cost. sarebbe, infine,
infondata, giacché la norma regionale non determinerebbe alcuna rinuncia alla
potestà punitiva affidata alle cure regionali, avendo all’opposto «lo scopo di
garantire, mediante un dialogo collaborativo con il cittadino, il
soddisfacimento degli interessi generali sottesi alla disciplina
amministrativa. In una visione in cui le istituzioni non si contrappongo[no] al
cittadino, ma si pongono invece in ascolto dello stesso al fine di realizzare
l’interesse pubblico con comunione di intenti e di azione».
3.– In prossimità
dell’udienza, la Regione Veneto ha depositato memoria in cui ha eccepito
altresì la manifesta inammissibilità delle censure statali, in ragione della
«assenza di specifiche argomentazioni a sostengo delle doglianze», ribadendo
poi le proprie argomentazioni a sostegno della non fondatezza del ricorso
statale.
1.– Con il ricorso
indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 1, commi 1
e 2, e 4 della legge della Regione Veneto 16 luglio 2019, n. 25 (Norme per
introdurre l’istituto della regolarizzazione degli adempimenti o rimozione
degli effetti nell’ambito dei procedimenti di accertamento di violazioni di
disposizioni che prevedono sanzioni amministrative), per violazione
complessivamente degli artt. 3, 25 e 97 della Costituzione, nonché per
contrasto «con la legge n. 689/1981 che detta la disciplina generale in tema di
sanzioni amministrative».
L’art. 1, comma 1,
impugnato recita: «Nei procedimenti di accertamento per violazione di
disposizioni normative, sanzionate in via amministrativa, in materie di
competenza esclusiva della Regione, nessun provvedimento sanzionatorio può
essere irrogato se prima non sia consentita la regolarizzazione degli
adempimenti o la rimozione degli effetti della violazione da parte del soggetto
interessato».
Prosegue il comma 2:
«Ai fini di cui al comma 1 si provvede, secondo le modalità e nei termini
definiti dalla Giunta regionale con propri provvedimenti da assumere, sentita
la competente commissione consiliare, entro e non oltre novanta giorni dalla
entrata in vigore della presente legge, in relazione alla tipologia della
violazione e agli adempimenti che la regolarizzazione o la rimozione degli
effetti della violazione comportano; alla Giunta regionale compete altresì, e
con le stesse modalità, individuare le fattispecie per le quali non è possibile
ricorrere alla regolarizzazione degli adempimenti o rimozione degli effetti,
attesa la non sanabilità ad opera dell’autore o dell’obbligato in solido degli
effetti della azione od omissione costituente la violazione sanzionata in via
amministrativa».
L’art. 4, infine,
dispone l’abrogazione dell’istituto della diffida amministrativa, così come previsto
dall’art. 2-bis della legge della Regione Veneto 28 gennaio 1977, n. 10
(Disciplina e delega delle funzioni inerenti all’applicazione delle sanzioni
amministrative di competenza regionale).
2.– Va anzitutto
dichiarata manifestamente inammissibile la censura – peraltro solo accennata
nel ricorso statale – fondata sul preteso contrasto tra le disposizioni
impugnate e la disciplina generale delle sanzioni amministrative dettata dalla
legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che non ha rango
costituzionale e non è qui evocata come parametro interposto rispetto ad alcun
parametro attinente al riparto di competenze tra Stato e Regioni (sentenza n. 134 del
2019).
3.– Devono invece
essere disattese le eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa
regionale: sia quelle (formulate soltanto con la memoria illustrativa
depositata in prossimità dell’udienza) relative al complesso delle restanti
censure statali, che la difesa regionale ritiene essere del tutto sprovviste di
motivazione, e che appaiono invece a questa Corte supportate da sintetica ma
chiara argomentazione; sia quella concernente l’impugnato art. 4 della legge
reg. Veneto n. 25 del 2019, dal momento che l’abrogazione da esso operata
dell’indicato istituto della diffida amministrativa appare – nella stessa
logica della legge oggetto della presente impugnazione – inscindibilmente
connessa alla introduzione, da parte dell’impugnato art. 1, comma 1, in luogo
della precedente diffida, di un nuova causa di non punibilità dell’illecito
amministrativo, concepita quale più favorevole per il destinatario della norma.
4.– Nel merito, possono
essere esaminate congiuntamente le questioni promosse in riferimento agli artt.
3 e 97 Cost., che si basano entrambe sull’argomento
secondo cui la previsione di una possibilità di «regolarizzazione degli
adempimenti» o di «rimozione degli effetti della violazione» da parte del
soggetto interessato, nella fase prodromica al suo accertamento, vanificherebbe
di fatto l’efficacia deterrente della sanzione; con conseguente
irragionevolezza intrinseca della disciplina e connesso pregiudizio al buon
andamento della pubblica amministrazione.
Questa Corte ritiene
che tali censure non siano fondate.
4.1.– Il ricorrente
assume il contrasto delle disposizioni impugnate con principi – discendenti
dagli artt. 3 e 97 Cost. – che vincolano, allo stesso
modo, il legislatore statale e quello regionale.
La difesa regionale
ribatte anzitutto che, nell’ambito stesso della legislazione statale, sarebbero
rinvenibili vari istituti strutturati attorno a una logica analoga a quella
della disciplina impugnata.
Peraltro, gli esempi
formulati dalla difesa regionale non appaiono particolarmente calzanti: il primo
– quello previsto dall’art. 1, comma 6, della legge 10 dicembre 2014, n. 183
(Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei
servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino
della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e
conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) – perché contenuto
in una legge delega mai attuata sul punto specifico; il secondo –
l’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del d.P.R.
6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia (Testo A)» – giacché riferita a un istituto
che, da un lato, presuppone l’originaria conformità dell’intervento edilizio
alla disciplina urbanistica ed edilizia, e che, dall’altro lato, è subordinato
al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione maggiorato,
in chiave evidentemente sanzionatoria per l’illecito realizzato in assenza di
permesso di costruire o delle condizioni equiparate.
Anche altri istituti di
carattere riparatorio previsti dalla legislazione statale tengono ferme talune
conseguenze sanzionatorie – sia pure significativamente attenuate – a carico
del trasgressore che abbia rimosso le conseguenze dell’illecito, conformandosi
al precetto precedentemente violato, entro un termine concessogli all’uopo
dall’autorità che ha accertato l’illecito (si vedano, ad esempio, l’art. 13 del
decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, recante «Razionalizzazione delle
funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, a norma
dell’articolo 8 della L. 14 febbraio 2003, n. 30»; gli artt. 20 e 21 del
decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758, recante «Modificazioni alla
disciplina sanzionatoria in materia di lavoro»; l’art. 301 del decreto
legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante «Attuazione dell’articolo 1 della
legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro»; gli artt. da 318-bis a 318-septies del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale»).
Nell’ambito del diritto
penale tributario, poi, l’art. 13, comma 1, del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul
valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205),
come sostituito dall’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 24 settembre
2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo
8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23), prevede la non punibilità di
taluni reati tributari se, prima della dichiarazione di apertura del
dibattimento di primo grado, i debiti tributari – comprensivi però degli
interessi e delle sanzioni irrogate dall’amministrazione – siano stati
integralmente estinti.
Nel meccanismo
disegnato dalla legge regionale qui impugnata, invece, la «regolarizzazione
degli adempimenti» o la «rimozione degli effetti» dell’illecito avviene senza
alcuna conseguenza sanzionatoria per il suo autore, una volta che l’illecito
sia stato scoperto dagli organi preposti, ma ancora non formalmente accertato.
Dal che la
preoccupazione, sottesa al ricorso statale, che la disciplina qui censurata
possa indebolire l’efficacia deterrente delle sanzioni comminate dal
legislatore regionale, incentivando in sostanza il destinatario della norma a
tenere il comportamento vietato o a non adempiere l’obbligo imposto dalla norma
sino a che l’inosservanza non venga scoperta dagli organi a ciò preposti,
confidando nella possibilità di un adempimento successivo, in grado di impedire
l’irrogazione di ogni sanzione a suo carico.
4.2.– Tuttavia, nel
sostenere la legittimità costituzionale della disposizione impugnata la difesa
regionale pone altresì l’accento – da un lato – sull’elevato livello di
complessità di molte prescrizioni sanzionate a livello amministrativo, e –
dall’altro – sulla prospettiva di un rapporto tra pubblica amministrazione e
consociati imperniato su uno schema dialogico-collaborativo anziché oppositivo,
che si traduce qui nell’imposizione di un obbligo di “avvertire” il privato
circa la necessità di conformarsi al precetto, opportunamente chiaritogli nella
sua portata dall’organo preposto all’accertamento, e nella conseguente
concessione in suo favore di un termine per consentirgli l’adeguamento al
precetto stesso, prima che possa essere dato avvio al vero e proprio
procedimento sanzionatorio. Un meccanismo, questo, che – osserva la difesa
regionale – potrebbe anche risultare più efficace in termini di tutela degli
interessi sostanziali tutelati dalla norma sanzionatoria, preoccupandosi di
ottenere l’adempimento (ancorché tardivo) del precetto, piuttosto che di
assicurare l’indefettibilità della sanzione.
4.3.– A fronte di tali
opposte prospettazioni, nessuna delle quali sfornita di plausibilità, il
sindacato di questa Corte – al metro degli evocati artt. 3 e 97 Cost. – non può che cedere il passo alla discrezionalità
del legislatore, in questo caso regionale, nell’individuazione dei meccanismi
sanzionatori che meglio garantiscano, secondo le (non irragionevoli)
valutazioni del legislatore medesimo, la tutela degli interessi sottostanti
alle norme amministrativamente sanzionate.
Non sfugge, tra
l’altro, a questa Corte che in riferimento all’ambito contiguo del diritto
penale la possibilità di riservare maggiore spazio a meccanismi di riduzione o
addirittura di esclusione della pena, a fronte di condotte riparatorie delle
conseguenze del reato da parte del suo autore, è stata esplorata recentemente
anche dal legislatore statale con l’introduzione del nuovo art. 162-ter del
codice penale ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice
penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che
prevede per l’appunto l’estinzione dei delitti procedibili a querela soggetta a
remissione – senza alcuna residua sanzione per il trasgressore – quando, anche
in assenza di remissione della querela da parte della persona offesa, questi
abbia riparato interamente il danno cagionato dal reato ed eliminato, ove
possibile, le conseguenze dannose o pericolose di esso entro l’apertura del
dibattimento di primo grado.
Scelte legislative
siffatte corrispondono a legittime opzioni di politica criminale o di politica
sanzionatoria, che questa Corte ha il dovere di rispettare, nella misura in cui
non trasmodino nella manifesta irragionevolezza o non si traducano – nella
materia delle sanzioni amministrative – in un evidente pregiudizio al principio
del buon andamento dell’amministrazione; ciò che appare da escludere rispetto a
una disciplina come quella in questa sede all’esame.
5.– Sono, invece,
fondate le questioni promosse in riferimento al principio di legalità delle
sanzioni amministrative, da intendersi come implicitamente riferite all’art. 23
Cost. anziché, come erroneamente indicato dal
ricorrente, all’art. 25, secondo comma, Cost., come
si evince dal tenore complessivo della motivazione del ricorso.
5.1.– Va
preliminarmente rammentato che, secondo l’ormai costante giurisprudenza di
questa Corte, le garanzie discendenti dall’art. 25, secondo comma, Cost. si applicano anche agli illeciti e alle sanzioni
amministrative di carattere sostanzialmente punitivo (sentenze n. 134 del 2019,
n. 223 del 2018,
n. 121 del 2018,
n. 68 del 2017,
n. 276 del 2016
e n. 104 del
2014), con l’eccezione però della riserva assoluta di legge statale, che
vige per il solo diritto penale stricto sensu, come da ultimo precisato dalla sentenza n. 134 del
2019. Tale pronuncia ha altresì ribadito che il potere sanzionatorio
amministrativo – che il legislatore regionale ben può esercitare, nelle materie
di propria competenza – resta comunque soggetto alla riserva di legge relativa
all’art. 23 Cost., intesa qui anche quale legge
regionale.
Anche rispetto al
diritto sanzionatorio amministrativo – di fonte statale o regionale che sia –
si pone, in effetti, un’esigenza di predeterminazione legislativa dei
presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio, con riferimento sia alla
configurazione della norma di condotta la cui inosservanza è soggetta a sanzione,
sia alla tipologia e al quantum della sanzione stessa, sia – ancora – alla
struttura di eventuali cause esimenti. E ciò per ragioni analoghe a quelle
sottese al principio di legalità che vige per il diritto penale in senso
stretto, trattandosi, pure in questo caso, di assicurare al consociato tutela
contro possibili abusi da parte della pubblica autorità (sentenza n. 32 del
2020, punto 4.3.1. del Considerato in diritto): abusi che possono radicarsi
tanto nell’arbitrario esercizio del potere sanzionatorio, quanto nel suo
arbitrario non esercizio.
Questa esigenza è
stata, del resto, già posta in evidenza da una risalente pronuncia di questa
Corte, che ha altresì ricollegato espressamente la ratio della necessaria «prefissione ex lege di rigorosi
criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non
applicazione)» delle sanzioni amministrative al principio di imparzialità
dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., oltre
che alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. (sentenza n. 447 del
1988).
Tutto ciò impone che a
predeterminare i presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio sia
l’organo legislativo (statale o regionale), il quale rappresenta l’intero corpo
sociale, consentendo anche alle minoranze, nell’ambito di un procedimento
pubblico e trasparente, la più ampia partecipazione al processo di formazione
della legge (sentenza
n. 230 del 2012); mentre tale esigenza non può ritenersi soddisfatta
laddove questi presupposti siano nella loro sostanza fissati da un atto
amministrativo, sia pure ancora di carattere generale.
È bensì vero che la
riserva di legge espressa dall’art. 23 Cost. è intesa
quale riserva relativa, che tollera come tale maggiori margini di integrazione
da parte di fonti secondarie (così anche la già citata sentenza n.
134 del 2019); ma questa Corte ha già avuto modo di precisare che tale
carattere della riserva in questione «non relega […] la legge sullo sfondo, né
può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi
concreti ridotto al mero richiamo formale ad una prescrizione normativa “in
bianco” […], senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e
modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei
cittadini»; dovendosi anzi riconoscere rango di «principio supremo dello Stato
di diritto» all’idea secondo cui i consociati sono tenuti «a sottostare
soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale
dalla legge» (sentenza
n. 115 del 2011, e numerosi precedenti ivi richiamati).
Tale principio implica
dunque che – laddove la legge rinvii a un successivo provvedimento
amministrativo generale o ad un regolamento – sia comunque la legge stessa a
definire i criteri direttivi destinati a orientare la discrezionalità
dell’amministrazione (sentenza n. 174 del
2017; in senso analogo, sentenze n. 83 del 2015
e n. 435 del
2001). Ciò che non può non valere anche quando la prestazione imposta abbia
natura sanzionatoria di una condotta illecita.
5.2.– Una simile
esigenza di predeterminazione, da parte della fonte primaria, dei presupposti
dell’applicazione (o non applicazione) della sanzione amministrativa non può,
all’evidenza, ritenersi soddisfatta da una disciplina come quella all’esame,
che affida quasi interamente a un atto della Giunta la disciplina di un
istituto che, secondo le dichiarate intenzioni del legislatore regionale, ha lo
scopo di evitare di sanzionare chi pure sia stato sorpreso a violare la legge.
Tale disciplina – lungi
dal limitarsi ad affidare all’autorità amministrativa un ruolo «meramente
compilatorio», come sostenuto dalla difesa regionale, e lungi dal riservare
alla stessa semplici specificazioni di carattere tecnico del precetto, come nel
caso deciso da questa Corte con la sentenza n. 134 del
2019 – omette infatti radicalmente di definire il preciso ambito di
applicazione dell’istituto, ivi compresi i casi in cui la sanabilità della
violazione è da escludere; né indica il termine entro il quale il trasgressore
è ammesso a «regolarizzare gli adempimenti» o a «rimuovere gli effetti» della
violazione, nonché – non da ultimo – le conseguenze delle medesime condotte,
dal momento che la legge regionale non precisa in alcun luogo se la conseguenza
della regolarizzazione o rimozione degli effetti sia effettivamente il venir
meno di qualsiasi sanzione, ovvero una mera riduzione di quella originariamente
prevista.
Tutti questi profili
sono affidati pressoché interamente alle determinazioni di un atto della Giunta
regionale, da assumere semplicemente «sentita la competente commissione
consiliare», anziché essere predeterminati dalla legge regionale stessa.
Dal che il contrasto
della disciplina medesima con il principio di legalità delle sanzioni
amministrative di cui all’art. 23 Cost.
6.– La radicale lacuna
nella predeterminazione legislativa della disciplina della «regolarizzazione
degli adempimenti o rimozione degli effetti nell’ambito dei procedimenti di accertamento
di violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative» introdotta
con la legge reg. Veneto n. 25 del 2019 determina l’illegittimità
costituzionale tanto dell’art. 1, commi 1 e 2, che prevedono – senza
compiutamente disciplinarlo – l’istituto; quanto dell’art. 4, che abroga il
previgente istituto della diffida previsto dall’art. 2-bis della legge reg.
Veneto n. 10 del 1977, sull’evidente presupposto della sua sostituzione con la
normativa ora dichiarata costituzionalmente illegittima.
Visto l’art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale va
peraltro estesa anche alle restanti disposizioni della legge reg. Veneto n. 25 del
2019, che appaiono tutte inscindibilmente dipendenti dalla regolamentazione del
nuovo istituto contenuta nei primi due commi dell’art. 1.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2,
e 4 della legge della Regione Veneto 16 luglio 2019, n. 25 (Norme per
introdurre l’istituto della regolarizzazione degli adempimenti o rimozione
degli effetti nell’ambito dei procedimenti di accertamento di violazioni di
disposizioni che prevedono sanzioni amministrative);
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge
11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 3, 4, 5 e
6, 2, 3, 5 e 6 della legge reg. Veneto n. 25 del 2019;
3) dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge reg. Veneto n. 25
del 2019, promosse, per contrasto «con la legge n. 689/1981 che detta la
disciplina generale in tema di sanzioni amministrative», dal Presidente del
Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge reg. Veneto n. 25 del 2019,
promosse, in riferimento complessivamente agli artt. 3 e 97 della Costituzione,
dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 dicembre
2020.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO,
Presidente
Francesco VIGANÒ,
Redattore
Filomena PERRONE,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 18 gennaio 2021.