Sentenza n. 36 del 2019

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SENTENZA N. 36

ANNO 2019

 

Commento alla decisione di

 

Valentina Pupo

La Corte costituzionale di nuovo sulla “legge Severino”: legittima la sospensione di diritto degli amministratori locali anche in caso di condanne non definitive antecedenti all’elezione

 

per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), promosso dal Tribunale ordinario di Lecce, nel procedimento vertente tra F. F. e altra e il Ministero dell’interno e altri, con ordinanza del 31 marzo 2017, iscritta al n. 163 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti l’atto di costituzione di F. F., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 gennaio 2019 il Giudice relatore Daria de Pretis;

uditi l’avvocato Carlo Malinconico per F. F. e gli avvocati dello Stato Gabriella Palmieri e Agnese Soldani per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione.

La questione è sorta nel corso di un giudizio promosso da F. F. ed avente ad oggetto il decreto del 2 agosto 2016 con cui il Prefetto di Lecce ha accertato la sussistenza in capo al ricorrente di una causa di sospensione di diritto dalla carica di consigliere del Comune di Gallipoli, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, secondo il quale «[s]ono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10 […] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)».

Il rimettente riferisce che la sospensione si fonda sulla sentenza di condanna non definitiva pronunciata dal Tribunale ordinario di Lecce ai danni di F. F. il 21 gennaio 2016, prima della sua candidatura alla carica di sindaco di Gallipoli e della sua elezione alla carica di consigliere comunale (avvenute rispettivamente nel maggio e nel giugno del 2016), per i delitti (commessi nel 2008) di cui agli artt. 319, 323 e 326 del codice penale, compresi tra quelli indicati all’art. 10, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 235 del 2012.

La norma è censurata nella parte in cui non prevede che la sospensione dalla carica consegua solo alle sentenze non definitive di condanna pronunciate «dopo l’elezione o la nomina», come è previsto invece alla lettera b) del medesimo art. 11, comma 1, che assoggetta alla stessa misura «coloro che, con sentenza di primo grado, confermata in appello per la stessa imputazione, hanno riportato, dopo l’elezione o la nomina, una condanna ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo».

Il rimettente non ritiene possibile l’interpretazione conforme a Costituzione (secondo la quale la norma si applicherebbe solo in caso di condanne successive all’elezione), perché la diversa interpretazione, secondo cui la sospensione si applica anche in caso di condanna precedente l’elezione, sarebbe consolidata e formerebbe «diritto vivente» (sono citate la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 30 luglio 2012, n. 13653, e le sentenze della Corte costituzionale n. 276 del 2016 – che esprimerebbe tale orientamento «indirettamente» – e n. 141 del 1996).

1.1.– Quanto alla rilevanza, il rimettente afferma che l’applicazione dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 è necessaria per definire il giudizio principale, il cui esito in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente dipenderebbe, pertanto, dalla risoluzione della questione sollevata.

1.2.– Il giudice a quo ricostruisce poi l’evoluzione normativa della materia, dalla quale emergerebbe che anche l’art. 59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) collegava la sospensione solo alle condanne non definitive successive all’elezione.

1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente svolge diversi argomenti.

In primo luogo, sostiene che l’«intrinseca finalità» della sospensione, quale risulta anche dalla sua applicazione originaria, sarebbe quella di «disciplinare […] le situazioni che sopravvengono dopo l’elezione o la nomina», mentre il diritto vivente determinerebbe una «discrasia del quadro normativo», dovuta al «fatto che la medesima situazione (sentenza non definitiva di condanna prima dell’elezione), del tutto priva di influenza all’inizio e nel corso del processo elettorale fino all’elezione, assuma poi rilevanza tale da incidere direttamente sui risultati di quest’ultima, pur svoltasi in condizioni di piena regolarità e, soprattutto, senza che nel frattempo sia intervenuto alcun mutamento delle circostanze». Disattendendo l’«implicito presupposto» della sospensione (cioè, che il requisito soggettivo venga meno dopo l’elezione), la norma censurata non avrebbe operato un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, in quanto è nel caso di condanna successiva all’elezione che si porrebbe «concretamente e, comunque, in maggiore e più rilevante misura, il problema della “credibilità” dell’amministrazione, che “incrinerebbe il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione”, se si consentisse la permanenza nella carica del soggetto attinto da una sentenza di condanna, pur non definitiva, successiva alla sua elezione». In questo caso, la sospensione sarebbe «misura proporzionata e ragionevole al fine di impedire, non l’accesso all’esercizio della carica, bensì la permanenza nell’esercizio della stessa». In questo senso, dunque, le due situazioni (condanna precedente o successiva all’elezione) sarebbero diverse nella prospettiva della volontà del cittadino elettore.

In secondo luogo, sarebbe irragionevole il diverso trattamento riservato alla fattispecie in esame rispetto a quella disciplinata alla lettera b) dello stesso art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012. Ad avviso del rimettente, la minore gravità dei reati considerati alla lettera b) giustifica la scelta legislativa di pretendere, in questa ipotesi, un maggiore grado di stabilità della condanna non definitiva (che dev’essere stata confermata in appello) ai fini della sospensione, ma non vi sarebbe alcuna «correlazione automatica, e tantomeno logica, tra grado e momento della pronunzia», per cui sarebbe «irragionevole che il legislatore abbia inteso prevedere anche un differente ambito applicativo a livello temporale, tra le ipotesi di cui alla lett. a) e quelle di cui alla lett. b)».

In terzo luogo, secondo il rimettente, «l’applicabilità della misura della sospensione a sentenze non definitive di condanna intervenute prima dell’elezione» falserebbe «la libera concorrenza elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la libera scelta del cittadino elettore dal lato attivo». In sostanza, la norma censurata inciderebbe «pesantemente sui meccanismi di partecipazione al voto», ledendo il diritto di elettorato attivo e quello di elettorato passivo (artt. 48 e 51 Cost.), con conseguente violazione degli artt. 1, 2 e 3 Cost.

1.4.– Infine, il rimettente rileva che, «per mitigare l’irragionevolezza» della disposizione censurata, potrebbe essere sufficiente «delimitarne l’applicazione al solo periodo precedente l’elezione, quello cioè […] compreso tra la candidatura e l’elezione», rimanendo l’illegittimità circoscritta, in tale ipotesi, alla parte in cui la norma non prevede l’inciso «dopo la candidatura».

2.– Con atto depositato in cancelleria il 3 novembre 2017 si è costituito in giudizio F. F., ricorrente nel processo principale, chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevate dal giudice a quo.

2.1.– Con una memoria depositata in cancelleria il 12 dicembre 2017, F. F., da un lato, ha svolto argomenti adesivi in riferimento ai parametri evocati nell’ordinanza di rimessione, dall’altro ha avanzato ulteriori censure di illegittimità della norma censurata.

Sotto il primo profilo, F. F. osserva, tra l’altro, che, mentre con la sentenza n. 141 del 1996 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la previsione della incandidabilità in caso di condanna non ancora passata in giudicato, la norma censurata avrebbe introdotto «una sorta di incandidabilità di fatto», sia perché al corpo elettorale e agli altri candidati è noto che il candidato condannato sarà sospeso (se eletto), sia perché la sospensione ha una durata significativa.

Sotto il secondo profilo, la norma censurata violerebbe anche gli artt. 27, 97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto imporrebbe un automatismo sanzionatorio senza consentire alcuna valutazione delle circostanze del caso concreto.

Infine, la norma censurata violerebbe sotto un diverso profilo l’art. 3 Cost. per l’ingiustificata disparità di trattamento esistente tra i parlamentari, per i quali «gli effetti sanzionatori non possono che conseguire ad una sentenza definitiva», ex art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012, e i titolari di cariche elettive regionali e locali, per i quali soltanto è prevista la sospensione a seguito di condanna non definitiva.

3.– Con atto depositato in cancelleria il 12 dicembre 2017 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

L’inammissibilità deriverebbe, in primo luogo, dalla mancanza di «rime obbligate» dell’«intervento additivo» richiesto, che dovrebbe essere riservato alla scelta discrezionale del legislatore.

Inoltre, gli argomenti addotti dal giudice a quo non si differenzierebbero da quelli già valutati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 236 del 2015 per affermare l’infondatezza di un’analoga questione, sollevata in riferimento agli artt. 2 e 51, primo comma, Cost., con particolare riguardo alla natura cautelare della sospensione e alla non irragionevolezza del bilanciamento di interessi effettuato dal legislatore.

Di conseguenza, per alcuni reati ostativi (al mantenimento della carica) come la corruzione e l’abuso d’ufficio, rilevanti nel caso concreto, l’adozione della misura sospensiva sarebbe giustificata in ragione dello stretto nesso delle condotte illecite con la funzione svolta, a prescindere dal momento in cui interviene la condanna. Per altri reati, non strettamente collegati «agli oneri pubblici derivanti dalla carica», il legislatore avrebbe invece ragionevolmente richiesto un maggiore grado di plausibilità dell’accertamento penale – cioè, una condanna confermata in appello, ex art. 11, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012 – e non imposto la sospensione se la condanna interviene prima dell’elezione.

Il sistema appare razionale, in quanto una condanna pregressa per un reato «avulso» dalla carica non sarebbe ritenuta condizione sufficiente per limitare il diritto inviolabile di elettorato passivo, mentre la condanna sopravvenuta in corso di mandato potrebbe rilevare ai fini della sospensione per il possibile danno da essa inferto «all’immagine dell’amministratore».

Tali considerazioni non sarebbero scalfite dagli ulteriori dubbi manifestati dal rimettente su aspetti sovrapponibili a quelli già vagliati dalla Corte «sul piano delle esigenze che la normativa in esame tende a corrispondere». La condanna non definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione farebbe sorgere l’esigenza cautelare di sospendere il condannato, «per evitare un “inquinamento” dell’amministrazione» e per garantire la «“credibilità” dell’amministrazione presso il pubblico».

Pertanto, essendo già state respinte dalla Corte questioni analoghe a quella in esame, se ne dovrebbe pronunciare l’inammissibilità, nonostante il tentativo del rimettente di qualificarla diversamente, o comunque la manifesta infondatezza nel merito.

4.– Il 27 dicembre 2018 il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria integrativa. In essa si cita la sentenza della Corte di cassazione n. 13653 del 2012 (già richiamata dal giudice a quo) e si nega che la sospensione dalla carica, qualora prevista in caso di condanna precedente l’elezione, produca gli stessi effetti dell’incandidabilità, in quanto la prima non impedisce di partecipare all’elezione e ha durata limitata nel tempo.

L’interveniente nega poi che sia irragionevole la diversa disciplina dettata dalle lettere a) e b) dell’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012. Nell’esercizio legittimo della propria discrezionalità, il legislatore avrebbe rimesso agli elettori, nei casi di reati meno gravi, «la valutazione prognostica in ordine alla capacità o meno della condotta penalmente sanzionata di incidere sul mandato elettivo», mentre, per le condanne più gravi, «la valutazione prognostica circa il rischio di inquinamento» sarebbe stata fatta, a monte, dal legislatore. La diversa gravità dei reati giustificherebbe «un diverso livello di “barriere di protezione” per gli organi elettivi».

In relazione alla violazione dell’art. 48 Cost., l’Avvocatura eccepisce l’inammissibilità della relativa questione perché il giudice a quo avrebbe erroneamente invocato l’art. 48, quarto comma, Cost. invece dell’art. 48, secondo comma, Cost. Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata perché, in caso di condanne per gravi reati, sarebbe ragionevole la scelta di applicare la misura cautelare della sospensione per preservare le istituzioni, a prescindere dal momento di conclusione del processo penale: ciò anche al fine di evitare che, a parità di condanna, sia il «mero fatto della tempistica» del processo penale a fare la differenza ai fini della prosecuzione del mandato. La scelta del legislatore non sarebbe obbligata ma neanche illegittima, perché risponderebbe a un’esigenza ragionevole.

Quanto alla violazione del diritto di elettorato passivo (art. 51 Cost.), l’Avvocatura osserva che la norma censurata realizza un corretto equilibrio degli interessi in gioco, dato il carattere interinale della sospensione, coerente con il suo carattere cautelare e non sanzionatorio.

4.1.– Il 31 dicembre 2018 anche la parte costituita ha depositato una memoria integrativa. In essa osserva che l’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 non disciplinerebbe il caso della condanna precedente l’elezione, per cui l’applicazione della sospensione in tale ipotesi sarebbe frutto di un’interpretazione estensiva della disposizione censurata, che sarebbe preclusa nella materia dell’ineleggibilità, restando invece possibile la sua interpretazione conforme a Costituzione.

La parte aggiunge, poi, che nel caso della condanna precedente l’elezione mancherebbero le esigenze cautelari, dato che la condanna sarebbe conosciuta dal corpo elettorale; infatti, nel caso di cui all’art. 11, comma 1, lettera b), la sospensione è prevista solo per la condanna successiva. Secondo la parte, non sarebbe giustificato il diverso trattamento previsto dalla lettera a).

Ancora, la parte osserva che la norma censurata sarebbe incostituzionale in quanto imporrebbe una sospensione automatica, senza consentire alcuna valutazione delle circostanze del caso concreto.

L’art. 11, comma 1, lettera a), sarebbe poi incostituzionale perché il legislatore, per aggirare la Costituzione, avrebbe «mascherato» l’incandidabilità sotto forma di sospensione, incorrendo in «eccesso di potere legislativo».

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Lecce dubita della legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione.

La norma è censurata nella parte in cui non prevede che la sospensione dalla carica consegua solo alle sentenze non definitive di condanna pronunciate «dopo l’elezione o la nomina» («o, al più, “dopo la candidatura”»), come è previsto invece alla lettera b) del medesimo art. 11, comma 1, che assoggetta alla stessa misura «coloro che, con sentenza di primo grado, confermata in appello per la stessa imputazione, hanno riportato, dopo l’elezione o la nomina, una condanna ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo».

Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 1, secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, Cost., in quanto: a) l’«intrinseca finalità» della sospensione sarebbe di «disciplinare […] le situazioni che sopravvengono dopo l’elezione o la nomina», cosicché la norma censurata non avrebbe operato un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, poiché è nel caso di condanna successiva all’elezione che si porrebbe «concretamente e, comunque, in maggiore e più rilevante misura, il problema della “credibilità” dell’amministrazione»; b) sarebbe irragionevole la diversità di trattamento tra la fattispecie in esame e quella disciplinata dalla lettera b) dello stesso art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012; c) «l’applicabilità della misura della sospensione a sentenze non definitive di condanna intervenute prima dell’elezione» falserebbe «la libera concorrenza elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la libera scelta del cittadino elettore dal lato attivo».

2.– In via preliminare, occorre soffermarsi sulle eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato.

L’Avvocatura generale eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità della questione in quanto il giudice «sollecita un intervento additivo che però non si configura a “rime obbligate”». L’eccezione non è fondata perché la norma da aggiungere per rimediare al vizio di costituzionalità, qualora si condividessero gli argomenti del giudice a quo, sarebbe una sola, cioè la limitazione della sospensione dalla carica ai casi di condanna non definitiva intervenuta dopo l’elezione o la nomina. Questa stessa limitazione dell’ambito temporale di applicazione della regola, del resto, è già contenuta nell’art. 11, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 235 del 2012, sicché, in caso di accoglimento, questa Corte non la introdurrebbe ex novo.

L’Avvocatura eccepisce poi l’inammissibilità della questione sollevata in relazione all’art. 48 Cost. perché il giudice a quo avrebbe erroneamente invocato il quarto comma di tale articolo invece del secondo. Nemmeno tale eccezione è fondata. Il rimettente invoca in più punti (compreso il dispositivo) l’art. 48 Cost. nella sua interezza e illustra la lesione del diritto di voto in modo tale da rendere chiaro che le norme evocate come parametro sono quelle contenute nel primo e nel secondo comma dello stesso art. 48. Il riferimento operato all’art. 48, quarto comma, Cost. deve dunque considerarsi un mero spunto argomentativo.

2.1.– Sempre in via preliminare, occorre rilevare che sono inammissibili le ulteriori questioni di costituzionalità, diverse da quelle sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce, prospettate dalla parte costituita nelle sue difese, non essendo consentito alle parti di estendere il thema decidendum fissato nell’ordinanza di rimessione (ex multis, sentenze n. 248, n. 239, n. 200, n. 194, n. 161, n. 33, n. 14, n. 12 e n. 4 del 2018; ordinanza n. 96 del 2018).

3.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Lecce non è fondata.

Il giudice a quo presenta la norma censurata come un’anomalia, che “tradisce” la vocazione della sospensione (di intervenire a seguito di eventi che si verificano in corso di mandato), quale emergerebbe anche dalle passate applicazioni dell’istituto. La ricostruzione dell’effettiva evoluzione della disciplina della misura della sospensione dalla carica di consigliere comunale non conforta, tuttavia, la tesi del rimettente.

La scelta legislativa della sospensione automatica degli amministratori degli enti locali dalla loro carica in conseguenza di vicende penali si è espressa, per la prima volta, nell’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale). La norma si caratterizzava per il fatto di prevedere la sospensione prima della condanna (in caso di sottoposizione a procedimento penale per il delitto previsto dall’art. 416-bis del codice penale). In essa, inoltre, non era prevista la conseguenza dell’incandidabilità per il caso in cui la condizione si fosse verificata prima dell’elezione.

La misura dell’incandidabilità è stata poi introdotta con la legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), che, modificando l’art. 15, comma 1, della legge n. 55 del 1990, la prevedeva come conseguenza, di regola (essendo stabilito che, in determinati casi, essa conseguisse già al semplice rinvio a giudizio ovvero solo alla condanna confermata in appello), della condanna non definitiva per determinati delitti a carico degli aspiranti amministratori di regioni ed enti locali, nonché degli aspiranti titolari di incarichi conferiti dai medesimi amministratori. Il comma 4-bis dello stesso art. 15 disponeva a sua volta che, se i casi di cui al comma 1 si fossero verificati dopo l’elezione o la nomina, ciò avrebbe comportato l’«immediata sospensione» dalla carica. In base al comma 4-quinquies del medesimo articolo, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna avrebbe poi comportato la decadenza «di diritto» dalla carica. All’epoca c’era dunque una perfetta corrispondenza tra le cause di incandidabilità e le cause di sospensione, e il discrimine tra l’una e l’altra conseguenza era costituito dal momento in cui si fosse verificato il fatto ostativo.

Dopo che la legge 12 gennaio 1994, n. 30 (Disposizioni modificative della legge 19 marzo 1990, n. 55, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali, e della legge 17 febbraio 1968, n. 108, in materia di elezioni dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario) aveva apportato modifiche minori all’art. 15 della legge n. 55 del 1990, la disciplina introdotta nel 1992 è stata sottoposta al giudizio di questa Corte, che ha censurato la previsione della incandidabilità in conseguenza di provvedimenti precedenti la condanna definitiva, per gli evidenti caratteri di «incongruenza e […] sproporzione di una misura irreversibile come la non candidabilità, in forza di quei presupposti ai quali la legge attribuisce fisiologicamente – ove sopravvenuti – l’effetto meramente sospensivo» (sentenza n. 141 del 1996). Nella pronuncia è tuttavia chiarito che le vicende penali precedenti l’elezione non restano irrilevanti, dovendo esse, al pari di quelle successive all’elezione, far scattare la sospensione; in particolare, era precisato che «[l]a declaratoria di illegittimità costituzionale non tocca la disposizione dell’art. 15, comma 4-bis, che sancisce la sospensione di diritto degli eletti per i quali sopraggiunga una delle situazioni di cui al medesimo art. 15, comma 1. Disposizione, questa, che – letta nel sistema – dovrà considerarsi applicabile anche al caso in cui tali situazioni sussistano già al momento dell’elezione, sì che una contraria interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e fonte di ingiustificata disparità di trattamento» (sentenza n. 141 del 1996).

L’adeguamento legislativo richiesto in conseguenza della citata pronuncia veniva poi operato con la legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all’articolo 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni), che interveniva sull’art. 15, comma 1, della legge n. 55 del 1990, sostituendo la condanna definitiva a quella non definitiva come causa di incandidabilità e modificando la disposizione sulla sospensione (art. 15, comma 4-bis), la quale non poteva più rinviare a quella sulla incandidabilità (ormai collegata alla sola condanna definitiva). L’art. 15, comma 4-bis, come modificato nel 1999, era formulato in modo non diverso dalle disposizioni ora vigenti, in quanto prevedeva, fra l’altro, che la sospensione scattasse in caso di condanna non definitiva (senza precisazioni temporali) per i delitti di associazione mafiosa, in materia di stupefacenti o armi e per alcuni delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, mentre, in caso di condanna «ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo», richiedeva che la condanna intervenisse «dopo l’elezione o la nomina» e che fosse confermata in appello.

La disciplina della sospensione degli amministratori degli enti locali è poi confluita nell’art. 59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), senza modifiche sostanziali (per quello che qui rileva).

Su questo sistema sono intervenuti dapprima la legge delega 6 novembre 2012, n. 190, recante «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione» (si veda, in particolare, l’art. 1, commi 63-65), che innova tuttavia solo in materia di incandidabilità, non in materia di sospensione, e quindi il d.lgs. n. 235 del 2012, di attuazione della delega, il quale mantiene il regime previgente della sospensione.

In base a tale regime, sono sospesi automaticamente dalla carica gli eletti che, a prescindere dal momento della condanna, sono stati condannati in via non definitiva per i reati più gravi o connessi alla funzione di pubblico amministratore; mentre coloro che sono stati condannati per reati meno gravi sono sospesi dalla carica solo alla duplice condizione che la condanna sia intervenuta «dopo l’elezione o la nomina» e sia stata confermata in appello. Per quanto riguarda la prima delle due menzionate ipotesi, si ricorda, per completezza di esposizione, che la previsione contenuta all’art. 8, comma 1, lettera a), del citato d.lgs. n. 235 del 2012 (formulato negli stessi termini dell’art. 11, comma 1, lettera a, oggetto del presente giudizio), la quale, con riferimento alle cariche politiche regionali, assoggetta alla sospensione anche coloro che risultano essere stati condannati prima dell’elezione o della nomina, è stata contestata in questa sua parte per eccesso di delega, ma questa Corte ha ritenuto che essa non violi il criterio direttivo contenuto nella legge delega, cioè l’art. 1, comma 64, lettera m), della legge n. 190 del 2012 (sentenza n. 276 del 2016).

Dal descritto quadro normativo risulta che le condanne penali non definitive intervenute prima dell’elezione possono essere considerate in modi diversi dal legislatore, ossia restare irrilevanti (come prevede il tertium comparationis invocato dal rimettente, cioè l’art. 11, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 235 del 2012 con riferimento alle condanne «ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo»), oppure essere trattate alla stregua delle condanne successive all’elezione (come prevede la norma censurata). Mentre non possono essere considerate causa di incandidabilità, secondo quanto prevedeva la legge n. 16 del 1992, poi dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 141 del 1996.

Se ne deve concludere che l’assunto del giudice a quo – il quale auspica la soluzione dell’irrilevanza anche per le condanne per reati più gravi o comunque connessi alla funzione, pretendendo di desumere dalle passate applicazioni dell’istituto una vocazione della sospensione a intervenire solo a seguito di eventi che si verificano in corso di mandato – non è corretto, giacché la scelta legislativa di applicare la sospensione anche per condanne che hanno preceduto l’elezione risulta risalente e mantenuta nel tempo fino alla normativa del 2012 qui in esame.

4.– Tale scelta costituisce ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa e non viola le norme costituzionali invocate dal giudice a quo.

Lo scopo della disciplina era, in origine, «di costituire una sorta di difesa avanzata dello Stato contro il crescente aggravarsi del fenomeno della criminalità organizzata e dell’infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali» e la sua finalità era «la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche» (sentenza n. 407 del 1992). Successivamente, le permanenti esigenze di contrasto della diffusa illegalità nella pubblica amministrazione hanno indotto il legislatore ad allargare l’ambito soggettivo e oggettivo della disciplina, a tutela degli interessi costituzionali protetti dagli artt. 54, secondo comma, e 97, secondo comma, Cost.

Questa Corte ha già messo in evidenza che gli istituti della sospensione e della decadenza svolgono una funzione di tutela oggettiva del buon andamento e della legalità dell’amministrazione, costituendo «strumenti di prevenzione dell’illegalità nella pubblica amministrazione» (sentenza n. 276 del 2016). In particolare ha osservato che «la permanenza in carica di chi sia stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendono la pubblica amministrazione può comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche “il dovere di adempierle con disciplina ed onore”», e che «[b]en può quindi il legislatore, nel disciplinare i requisiti per l’accesso e il mantenimento delle cariche che comportano l’esercizio di quelle funzioni, ricercare un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, dall’altro» (sentenza n. 236 del 2015).

4.1.– Le stesse considerazioni devono essere riferite alla misura della sospensione da applicare nei casi oggetto della disposizione censurata: anche in questi casi, infatti, la sospensione costituisce una misura cautelare diretta a evitare che coloro che sono stati condannati anche in via non definitiva per determinati reati gravi o comunque offensivi della pubblica amministrazione rivestano cariche amministrative, mettendo così in pericolo il buon andamento dell’amministrazione stessa e la sua onorabilità, e anche in questi casi il bilanciamento operato dal legislatore fra il menzionato interesse pubblico e gli altri interessi, pubblici e privati, in gioco, non appare irragionevole.

Con specifico riferimento all’ipotesi qui in esame, alle ragioni già emergenti dalla citata giurisprudenza di questa Corte si devono aggiungere, per un verso, la considerazione che non a qualsiasi condanna precedente l’elezione è collegata la conseguenza dell’automatica sospensione ma solo a quelle per reati di particolare gravità e per reati contro la pubblica amministrazione, quindi direttamente connessi alla funzione che il sospeso sarebbe chiamato ad assumere, e, per altro verso, la constatazione che la sospensione ha la durata limitata di 18 mesi (art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012), decorsi i quali senza che la sentenza di condanna sia stata confermata in appello (nel quale caso decorre un ulteriore periodo di sospensione di dodici mesi: art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012) o sia divenuta definitiva (con conseguente decadenza dell’eletto: art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 235 del 2012), l’eletto entrerà comunque in carica. È dunque evidente che, nell’ipotesi di specie, il legislatore ha ulteriormente bilanciato le descritte esigenze di tutela della pubblica amministrazione, da un lato, e dell’eletto condannato, dall’altro, temperando in maniera non irragionevole gli effetti automatici della sentenza di condanna non definitiva in ragione del trascorrere del tempo e della progressiva stabilizzazione della stessa pronuncia.

Non può condurre a conclusioni diverse l’argomento secondo cui l’intervenuta elezione, a dispetto della precedente condanna, esprimerebbe una consapevole scelta degli elettori, idonea a superare anche l’eventuale carattere ostativo della precedente sentenza non definitiva. Se infatti la ratio della sospensione è prevalentemente quella della tutela oggettiva del buon andamento e della legalità nella pubblica amministrazione, e solo in misura limitata quella della protezione del rapporto di fiducia tra eletti ed elettori (sentenze n. 214 del 2017, n. 276 del 2016, n. 236 del 2015, n. 118 del 2013, n. 257 del 2010, n. 352 del 2008, n. 25 del 2002, n. 132 del 2001, n. 141 del 1996, n. 295 del 1994, n. 118 del 1994, n. 288 del 1993, n. 218 del 1993, n. 407 del 1992), la scelta del legislatore di non attribuire rilievo, nei casi considerati, all’intervenuta investitura popolare del condannato, e di far prevalere, nei termini e nei limiti detti, l’interesse alla legalità dell’amministrazione non risulta irragionevole.

è significativo, a questo proposito, che, quando in relazione alla normativa di cui si sta trattando sono sorte questioni attinenti ai rapporti fra lo Stato e le regioni, questa Corte ha negato che essa rientrasse nella competenza regionale in materia di ineleggibilità e di incompatibilità e l’ha ricondotta alla competenza statale esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza (sentenze n. 118 del 2013, n. 218 del 1993 e n. 407 del 1992). In questa logica, l’“atto di fiducia” di una parte dell’elettorato che elegge il candidato già condannato (in via non definitiva) non è sufficiente a far venir meno l’esigenza di tutela oggettiva dell’ente territoriale. Senza considerare le esigenze di garanzia dell’intero corpo elettorale, le cui altrettanto meritevoli aspirazioni all’onorabilità e alla credibilità dell’eletto possono essere messe in discussione dall’elezione del condannato.

Si deve ricordare infine che questa Corte, nel momento in cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che prevedeva l’incandidabilità come conseguenza di provvedimenti precedenti la condanna definitiva, ha chiarito che nondimeno le vicende penali precedenti l’elezione non possono restare irrilevanti, dovendo conseguire a esse la sospensione (prevista per le stesse vicende, qualora intervenute durante il mandato), perché «una contraria interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e fonte di ingiustificata disparità di trattamento» (sentenza n. 141 del 1996).

4.2.– Nemmeno sussiste la lamentata disparità di trattamento fra le ipotesi disciplinate dalla disposizione oggetto di censura e quelle ricadenti nell’ambito di applicazione della lettera b) del comma 1 dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, che prevede, in caso di «condanna ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo», la sospensione dalla carica solo qualora la condanna intervenga dopo l’elezione o la nomina e sia confermata in appello.

La ratio che ispira il diverso regime riservato alle due diverse situazioni è evidente: al di fuori dei reati più gravi e dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, il legislatore ha ritenuto, non irragionevolmente, che l’esigenza di tutela oggettiva dell’ente territoriale venga meno o si indebolisca, ragion per cui ha considerato prevalenti gli interessi sottesi agli artt. 48 e 51 Cost., in caso di condanna precedente l’elezione.

4.3.– Quanto al terzo argomento speso dal rimettente – secondo il quale la sospensione in seguito a sentenze non definitive di condanna intervenute prima dell’elezione falserebbe «la libera concorrenza elettorale dal lato passivo» e finirebbe «col pregiudicare la libera scelta del cittadino elettore dal lato attivo» – è agevole osservare che il condizionamento delle elezioni (derivante dal fatto che il candidato già condannato è destinato provvisoriamente alla sospensione in caso di elezione) è l’inevitabile conseguenza di fatto della scelta del legislatore, espressiva del punto di equilibrio da esso individuato. Esclusa la soluzione dell’incandidabilità in quanto si tratterebbe di una conseguenza irreversibile e dunque sproporzionata rispetto ad una condanna non definitiva (come chiarito da questa Corte nella citata sentenza n. 141 del 1996), ed escluso, all’opposto, che la condanna precedente (per gravi reati) possa essere ritenuta irrilevante per l’irragionevole disparità di trattamento che ne deriverebbe rispetto all’ipotesi della condanna successiva (sentenza n. 141 del 1996), il legislatore ha scelto di consentire al condannato in modo non definitivo di candidarsi, ma ne ha previsto la sospensione subito dopo l’elezione.

In conclusione, anche in relazione agli interessi protetti dagli artt. 48 e 51 Cost., il legislatore ha operato un bilanciamento fra essi e gli altri interessi costituzionali in gioco (artt. 54 e 97 Cost.) che non può essere giudicato irragionevole.

5.– Nella parte finale dell’ordinanza, il Tribunale ordinario di Lecce prospetta un’altra soluzione come possibile rimedio al vizio della norma censurata, osservando che, «per mitigare l’irragionevolezza» della disposizione censurata, potrebbe essere sufficiente «delimitarne l’applicazione al solo periodo precedente l’elezione, quello cioè […] compreso tra la candidatura e l’elezione», rimanendo così l’illegittimità circoscritta, in tale ipotesi, alla parte in cui la norma non prevede l’inciso «dopo la candidatura».

Prospettando tale soluzione aggiuntiva, il rimettente colpisce in realtà una diversa lacuna dell’art. 11, comma 1, lettera a), individuando così un diverso oggetto delle sue censure, ciò che dà luogo a una seconda, distinta questione di legittimità costituzionale.

Tale ulteriore questione va considerata come proposta in via subordinata. Benché infatti il rimettente non la qualifichi espressamente come tale, il tenore complessivo della motivazione e l’inciso «al più», accostato alla soluzione in essa prospettata, inducono a ritenere che la stessa sia sottoposta a questa Corte per il caso in cui la questione principale sia respinta (per un caso analogo, sentenza n. 175 del 2018).

5.1.– La questione subordinata è comunque inammissibile.

A sostegno della sua prospettazione, il giudice a quo si limita infatti a osservare, come visto, che l’irragionevolezza della disposizione censurata sarebbe mitigata se l’applicazione della sospensione per una condanna precedente l’elezione fosse limitata alle condanne intervenute successivamente alla candidatura. Nessuna ulteriore spiegazione viene fornita.

Poiché gli argomenti che il rimettente spende per sostenere l’illegittimità della norma censurata nella parte in cui estende l’applicazione della sospensione anche alle condanne intervenute prima dell’elezione sono ugualmente riferibili all’ipotesi in cui tale applicazione sia limitata ai casi di condanna intervenuta dopo la candidatura (ma comunque prima dell’elezione), non si comprende per quale ragione sia invocata tale distinta soluzione, che si presterebbe, in realtà, alle stesse critiche.

Il petitum subordinato è dunque incoerente rispetto agli argomenti svolti nell’ordinanza di rimessione, con la conseguenza che la relativa questione è inammissibile (ordinanza n. 243 del 2017).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), sollevata, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza in epigrafe;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, sollevata in via subordinata, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 2, 3, 48 e 51, primo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2019.