SENTENZA N. 35
ANNO 2017
Commenti alla decisione di
I.
Roberto Bin, La
Corte ha spiegato, nulla è cambiato, per g.c. di laCostituzione.info
II.
Stefano Ceccanti, I
sistemi elettorali per le elezioni politiche dopo la 35/2017: una sentenza
figlia del referendum, ma per il resto deludente per i proporzionalisti,
per g.c. di Federalismi.it
III.
Renzo Dickmann, La
Corte costituzionale trasforma l’Italicum in sistema elettorale maggioritario 'eventuale' ma
lascia al legislatore l'onere di definire una legislazione elettorale omogenea
per le due Camere, per g.c. di Federalismi.it
IV.
Andrea Morrone, Dopo
la decisione sull’Italicum: il maggioritario è salvo,
e la proporzionale non un obbligo costituzionale, per g.c.
del Forum di Quaderni
Costituzionali
V. Antonio Ruggeri, La
Corte alla sofferta ricerca di un accettabile equilibrio tra le ragioni della
rappresentanza e quelle della governabilità: un’autentica quadratura del
cerchio, riuscita però solo a metà, nella pronunzia sull’Italicum,
per g.c.
del Forum di Quaderni
Costituzionali
VI. Fabio Ferrari, Perché
la Corte non avrebbe dovuto giudicare nel merito l’Italicum,
per g.c. di laCostituzione.info
VII. Alessandro Mangia, L’azione
di accertamento come surrogato del ricorso diretto, di Alessandro Mangia,
per g.c. di laCostituzione.info
VIII. Fabio Ferrari, Sotto
la punta dell’iceberg: fictio litis e
ammissibilità della q.l.c. nella sent. n. 35/2017, per
g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali.
IX. Lara Trucco, “Sentenza Italicum”: la Consulta tra detto,
non considerato e lasciato intendere, in questa Rivista, Studi, 2017/I.
X. Renzo Dickmann, Le questioni all’attenzione del legislatore dopo la sentenza n. 35 del 2017 della Corte costituzionale, per g.c. di Diritti fondamentali
XI. Pasquale Pasquino, La Corte decide di decidere ma non coglie la natura del ballottaggio, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
XII. Vincenzo Tondi della Mura, Ma la discrezionalità legislativa non è uno spazio vuoto. Primi spunti di riflessione sulle sentenze della Consulta n. 1/2014 e n. 35/2017, per g.c. di Diritti fondamentali
XV. Gabriele
Maestri, Orizzonti
di tecnica elettorale: problemi superati, irrisolti ed emersi alla luce della
sentenza n. 35 del 2017, per g. c. di Nomos
XVI. Roberto Bin, Chi
è responsabile delle «zone franche»? Note sulle leggi elettorali davanti alla
Corte, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
XVII. Anna Alberti, Discrezionalità
del legislatore v. bilanciamento tra rappresentatività e governabilità. Una
critica alla sent. n. 35 del 2017, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
XVIII. Roberto Martinelli, La
sentenza n. 35/2017 della Corte costituzionale: nota critica, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
XIX. Tommaso F. Giupponi, «Ragionevolezza
elettorale» e discrezionalità del legislatore, tra eguaglianza del voto e art.
66 Cost., per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
XX. Silvio Troilo, Le
liste (in tutto o in parte) bloccate e le candidature multiple dopo la sentenza
costituzionale n. 35/2017: dall’arbitrio (soltanto) dei politici a quello
(anche) della sorte, e poi di nuovo dei politici?, per g.c.
del Forum
di Quaderni Costituzionali
XXI. Giovanni Comazzetto, Fictio litis e azioni di accertamento del diritto costituzionale
di voto dopo la sentenza 35/2017, per g.c.
del Forum
di Quaderni Costituzionali
XXII. Ilenia Massa Pinto, Dalla
sentenza n. 1 del 2014 alla sentenza n. 35 del 2017 della Corte costituzionale
sulla legge elettorale: una soluzione di continuità c’è e riguarda il ruolo dei
partiti politici, per g.c. di Costituzionalismo.it
XXIII. Adriana Ciancio, Electoral laws, judicial review and the principle of “communicating vessels”, per g.c. di Diritti
fondamentali
XXIV. Giorgio Sobrino,
Il
problema dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale della
legge elettorale alla luce delle sentenze n. 1/2014 e n. 35/2017 e le sue
possibili ricadute: dalla (non più tollerabile) “zona franca” alla
(auspicabile) “zona a statuto speciale” della giustizia costituzionale?,
per g.c. di Federalismi.it
XXV. Davide De Lungo, Il premio
di maggioranza alla lista, fra governabilità e legittimità costituzionale.
Considerazioni (anche) a valle della sentenza n. 35 del 2017, per g.c. della Rivista
AIC
XXVI. Martina Maria Minincleri,
Il sindacato di legittimità
costituzionale sulle leggi elettorali, tra ruolo “legislativo” della Consulta,
“moniti” al Parlamento ed ipotesi di introduzione del controllo preventivo,
in questa Rivista, Studi 2017/III
XXVII. Vincenzo
Tondi Dalla Mura, La discrezionalità del legislatore in materia
elettorale, la «maieutica» della Consulta e il favor (negletto)
verso il compromesso legislativo: continuità e discontinuità fra le sentenze
n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017, per g.c. della Rivista
AIC
XXVIII. Giampietro Ferri, I
sistemi elettorali delle Camere dopo le sentenze della Corte costituzionale (n.
1/2014 e n. 35/2017) e la legge n. 165/2017, per g.c.
dell’Osservatorio
sulle fonti
XXIX. Alessandro
Mangia, L’azione
di accertamento come surrogato funzionale del ricorso diretto, per g.c.
del Forum
di Quaderni Costituzionali
XXX. Luciana Pesole, Il
ruolo della Corte nel contesto storico-politico segnato dalla bocciatura della
riforma costituzionale, per g.c.
di Federalismi.it
XXXI. Claudio Rossano, Note su premio di maggioranza ed esigenze
di omogeneità delle leggi elettorali della Camera dei Deputati e del Senato
della Repubblica nella sentenza della Corte costituzionale n. 35/2017, per g.c. della Rivista
AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli
artt. 1, comma 2, 18-bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo,
83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, 83-bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), 84, commi 1,
2 e 4, e 85 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico
delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), come
sostituiti, modificati e/o aggiunti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 1, 10,
lettera c), 11, 25, 26 e 27 della legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in
materia di elezione della Camera dei deputati); degli artt. 16, comma 1,
lettera b), e 17 del decreto
legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per
l’elezione del Senato della Repubblica), come novellati dall’art. 4, commi 7 e
8, della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); e degli artt. 1,
comma 1, lettere a), d), e), f) e g), e 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015,
promossi dai Tribunali ordinari di Messina, Torino, Perugia, Trieste e Genova
con ordinanze, rispettivamente, del 17 febbraio, del 5 luglio, del 6 settembre,
del 5 ottobre e del 16 novembre 2016, iscritte ai nn. 69, 163, 192, 265 e 268
del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 14, 30, 41 e 50, prima serie speciale, dell'anno 2016.
Visti gli atti di costituzione di V.P. e altri, di L.P.C.
e altri, di M.V. e altri, di F.S. e altri, e di S.A. e altri, nonché gli atti
di intervento di F.C.B. e altri, di C.T. e altri, di S.M., di F.D.M. e altro
(intervenuti nel giudizio iscritto al n. 163 del registro ordinanze 2016 con
due atti, il primo nei termini e il secondo fuori termine), del Codacons
(Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e la tutela dei
diritti di utenti e consumatori) e altro (intervenuti nei termini nei giudizi
iscritti ai nn. 265 e 268 del registro ordinanze 2016, e fuori termine nei
giudizi iscritti ai nn. 69 e 163 del registro ordinanze 2016), di V.P., di E.P.
e altra, di M.M. ed altri e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 gennaio 2017 il
Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Enzo Paolini per E.P. e altra, per
F.C.B. e altri, per S.M. e per V.P., Claudio Tani per C.T. e altri, Carlo
Rienzi per il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa
dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e consumatori) e altro,
Vincenzo Palumbo e Giuseppe Bozzi per V.P. e altri, Roberto Lamacchia
per L.P.C. e altri, Michele Ricciardi per M.V. e altri, Felice Carlo Besostri per F.S. e altri e per S.A. e altri, Lorenzo
Acquarone e Vincenzo Paolillo per S.A. e altri, e gli
avvocati dello Stato Paolo Grasso e Massimo Massella Ducci Teri
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1.– Con ordinanza del 17 febbraio 2016 (reg. ord. n.
69 del 2016), il Tribunale ordinario di Messina ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 6
maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei
deputati) e degli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico
delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), questi
ultimi come modificati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, per
violazione degli artt.
1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma,
48, secondo comma,
49, 51, primo comma, e 56, primo comma, della
Costituzione, e dell’art. 3 del Protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso
esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848; dell’art. 1, comma 1, lettere
a), d) e e), della legge n. 52 del 2015 e degli artt.
83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e 84, commi 2 e 4, del d.P.R.
n. 361 del 1957, questi ultimi come sostituiti dall’art. 2, commi 25 e 26,
della legge n. 52 del 2015, per violazione dell’art. 56, primo e quarto
comma, Cost.; dell’art. 1, comma 1, lettera g), della legge n. 52 del 2015
e degli artt. 18-bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo, e 84,
comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati
e/o sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 10, lettera c), 11 e 26,
della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, primo e secondo
comma, 2, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 56, primo e quarto
comma, Cost.; degli artt. 16, comma 1, lettera b), e 17 del d.lgs. 20
dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del
Senato della Repubblica), come novellati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge
21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei
deputati e del Senato della Repubblica), per violazione degli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost.; e
dell’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost.
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato
a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis del
codice di procedura civile da alcuni cittadini italiani iscritti nelle liste
elettorali del Comune di Messina, i quali hanno convenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell’interno, affinché sia
riconosciuto e dichiarato «il loro diritto soggettivo di elettorato, per
partecipare personalmente, liberamente e direttamente, in un sistema
istituzionale di democrazia parlamentare, con metodo democratico ed in
condizioni di libertà ed eguaglianza, alla vita politica della Nazione, nel
legittimo esercizio della loro quota di sovranità popolare, così come previsto
e garantito dagli artt. 1, 2, 3, 24, 48, 49, 51, 56, 71, 92, 111, 113, 117, 138
Cost. e dagli artt. 13 CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo), 3 Protocollo CEDU, entrambi ratificati in Italia con legge
4 agosto 1955, n. 848»; affinché sia riconosciuto e dichiarato che
l’applicazione della legge n. 52 del 2015 «risulta gravemente lesiva dei loro
diritti come sopra indicati, ponendosi in contrasto con le superiori
disposizioni costituzionali»; e, di conseguenza, affinché il giudice adito
disponga «la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale».
1.2.– In via preliminare, il Tribunale ordinario di
Messina rigetta le eccezioni sollevate nel giudizio a quo dall’Avvocatura
distrettuale dello Stato, secondo la quale l’azione promossa dai cittadini
elettori avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per carenza di
interesse ad agire, in quanto non sarebbero state ancora indette le elezioni
politiche e non vi sarebbe un’imminente competizione elettorale nella quale
esercitare il diritto di voto che i ricorrenti assumono leso dalle disposizioni
censurate, le quali ultime, peraltro, «entreranno in vigore dal 1° luglio
2016».
Il giudice a quo, sul punto, dichiara di condividere
l’orientamento dalla Corte di cassazione, la quale avrebbe affermato che
l’espressione del diritto di voto «rappresenta l’oggetto di un diritto
inviolabile e “permanente”, il cui esercizio da parte dei cittadini può
avvenire in qualunque momento» (Corte di cassazione, sezione prima civile,
ordinanza 17 maggio 2013, n. 12060). Pur riconoscendo che, in quell’occasione,
la decisione della Corte di cassazione riguardava un ricorso proposto da un
cittadino elettore in relazione ad elezioni politiche già svolte, il giudice
rimettente afferma di aderire alle argomentazioni dei ricorrenti, i quali hanno
sostenuto che l’indagine sulla meritevolezza dell’interesse ad agire non
costituisce un parametro valutativo ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ.;
che, ai fini della proponibilità delle azioni di mero accertamento, o, come nel
caso in esame, costitutive o di accertamento-costitutive, sarebbe «sufficiente
l’esistenza di uno stato di dubbio o incertezza oggettiva sull’esatta portata
dei diritti e degli obblighi scaturenti da un rapporto giuridico di fonte
negoziale o anche legale, in quanto tale idonea a provocare un ingiusto pregiudizio
non evitabile se non per il tramite del richiesto accertamento giudiziale della
concreta volontà della legge, senza che sia necessaria l’attualità della
lesione di un diritto» (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione,
sezione seconda civile, 26 maggio 2008, n. 13556; sezione lavoro, 21 febbraio
2008, n. 4496; sezione seconda civile, 29 maggio 1976, n. 1952; sezione prima
civile, 12 agosto 1966, n. 2209); che l’espressione del voto costituisce
oggetto di un diritto inviolabile e «permanente» dei cittadini, i quali possono
essere chiamati ad esercitarlo in ogni momento e, pertanto, lo stato di
incertezza al riguardo costituisce un pregiudizio concreto, di per sé
sufficiente a giustificare la sussistenza dell’interesse ad agire; che, infine,
subordinare la proponibilità dell’azione «al verificarsi di condizioni non
previste dalla legge (come, ad esempio, la convocazione dei comizi elettorali)»
determinerebbe la lesione dei parametri costituzionali che garantiscono
l’effettività e la tempestività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113,
secondo comma, Cost.). Il giudice a quo ricorda, inoltre, la sentenza della
Corte costituzionale n. 1 del 2014, con la quale sono state dichiarate
ammissibili questioni di legittimità costituzionale relative a «normativa
elettorale non conforme ai principi costituzionali, indipendentemente da atti
applicativi della stessa, in quanto già l’incertezza sulla portata del diritto
costituisce una lesione giuridicamente rilevante», e osserva come, nella
medesima pronuncia, l’ammissibilità delle questioni di legittimità
costituzionale sarebbe stata dettata dall’esigenza che non siano sottratte al
sindacato di costituzionalità le leggi che definiscono le regole della
composizione della Camera e del Senato.
Secondo il rimettente non potrebbe, invece,
invocarsi – a sostegno della soluzione opposta – la sentenza della
Corte costituzionale n. 110 del 2015, con la quale sono state dichiarate
inammissibili questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto
disposizioni che regolano l’elezione dei membri italiani al Parlamento europeo
in relazione «a future consultazioni»: la Corte costituzionale, infatti, in
quella pronuncia, avrebbe sottolineato come solo la disciplina elettorale per
il rinnovo della Camera e del Senato ricadano, in ragione del controllo
riservato dall’art. 66 Cost. alle Camere stesse, in una zona franca sottratta al
sindacato di costituzionalità.
Per tali ragioni, il Tribunale ordinario di Messina
ritiene sussistente l’interesse ad agire dei ricorrenti.
1.3.– Sempre preliminarmente, il rimettente motiva
sulla sussistenza della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale
prospettate ai fini della definizione del giudizio principale, argomentando che
nel giudizio principale sarebbe individuabile un petitum
separato, distinto e più ampio rispetto alle questioni di legittimità
costituzionale sollevate: spetterebbe, infatti, al giudice a quo la verifica
delle altre condizioni da cui la legge fa dipendere il riconoscimento del
diritto di voto e, inoltre, non vi sarebbe neppure coincidenza tra il
dispositivo della sentenza costituzionale e quello della sentenza che definisce
il giudizio di merito, la quale ultima, accertata l’avvenuta lesione del
diritto azionato, lo ripristina nella pienezza della sua espansione, seppure
per il tramite della sentenza costituzionale.
1.4.– Nel merito, il Tribunale ordinario di Messina,
dopo aver ampiamente illustrato le ragioni per le quali ritiene di non
condividere parte delle doglianze prospettate dalle parti, solleva plurime
questioni di legittimità costituzionale.
Con la prima censura, il rimettente dubita della
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52
del 2015 e degli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come modificati
dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, in riferimento agli
artt. 1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 48, secondo comma,
49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., e all’art. 3 del Protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali.
Dopo aver ricordato quanto affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 1 del
2014, il rimettente premette di non dubitare della conformità a
Costituzione – e, in particolare, al principio di eguaglianza del voto
garantito dall’art. 48, secondo comma, Cost., il quale richiede che ciascun
voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli
organi elettivi – della previsione di un premio di maggioranza alla lista che
ottenga la percentuale prescritta del 40 per cento dei voti al primo turno,
trattandosi, a suo avviso, di una soglia che, nell’ambito della discrezionalità
politica del legislatore, non rende intollerabile la cosiddetta disproporzionalità tra voti espressi e seggi attribuiti.
Dubita, invece, il rimettente che le disposizioni
censurate contrastino con l’evocato parametro costituzionale, in quanto non
prevedono «un necessario rapporto tra voti ottenuti rispetto non già ai voti
validi, ma al complesso degli aventi diritto al voto (una sorta di quorum di
votanti), unitamente al fatto che il premio di maggioranza operi anche in caso
di ballottaggio (che andrebbe comunque considerato come una nuova votazione tra
due sole liste, diverse dalla precedente, nella quale è necessario che la lista
vincente prenda almeno il 50,01% dei voti rispetto alla lista concorrente) e
che vi sia la clausola di sbarramento al 3%». Il premio di maggioranza, così
attribuito, finirebbe – secondo il rimettente – per «liberare le decisioni
della più forte minoranza da ogni controllo dell’elettorato».
Il Tribunale ordinario di Messina specifica, infine,
di dubitare della legittimità costituzionale dell’introduzione di una clausola
di sbarramento per l’accesso al riparto dei seggi, pur in presenza di un premio
di maggioranza «a sua volta tendente a sovra-rappresentare il partito con più
voti», e ciò sebbene l’introduzione di soglie di sbarramento costituisca una
scelta riservata alla discrezionalità politica del legislatore e la percentuale
prevista dalla legge n. 52 del 2015 non sia, di per sé, né troppo bassa, né
eccessivamente elevata (è menzionata, sul punto, la sentenza della
Corte costituzionale n. 193 del 2015).
1.5.– Il medesimo Tribunale solleva questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettere a), d) e e), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1,
2, 3, 4 e 5, e 84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del
1957, questi ultimi come sostituiti dall’art. 2, commi 25 e 26, della legge n.
52 del 2015, per violazione dell’art. 56, primo e quarto comma, Cost.
Il rimettente premette che la legge n. 52 del 2015
suddivide il territorio nazionale in venti circoscrizioni territoriali, a loro
volta ripartite in cento collegi plurinominali (fatti salvi i collegi
uninominali nelle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino - Alto Adige), e che,
«nel contesto di un complesso meccanismo di calcolo da parte dell’Ufficio
centrale nazionale», nel caso in cui una lista abbia esaurito in una
circoscrizione il numero dei candidati potenzialmente eleggibili, i seggi
spettanti a quella circoscrizione «carente» vengono trasferiti ad altra
circoscrizione in cui vi siano candidati «eccedentari», eleggibili in virtù del
trasferimento di seggi.
A suo avviso, tale meccanismo violerebbe il
principio di rappresentatività territoriale che l’art. 56 Cost. «delinea con
riguardo al rapporto tra i seggi da distribuire e la popolazione di ogni
circoscrizione». Il rimettente assume, infatti, che le disposizioni censurate,
nel consentire la traslazione dei voti utili per l’elezione da una
circoscrizione, che risulti carente di candidati, ad un’altra, che risulti
eccedentaria, si porrebbero in contrasto «con il principio di rappresentatività
e responsabilità dell’eletto rispetto agli elettori che lo hanno espresso».
1.6.– La terza questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Messina ha ad oggetto l’art.
1, comma 1, lettera g), della legge n. 52 del 2015, e gli artt. 18-bis, comma
3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati e/o sostituiti,
rispettivamente, dall’art. 2, commi 10, lettera c), 11 e 26, della legge n. 52
del 2015, per violazione degli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 48, secondo
comma, 51, primo comma, e 56, primo e quarto comma, Cost.
Ricorda, anzitutto, il rimettente la sentenza n. 1 del
2014, con la quale la Corte costituzionale avrebbe dichiarato
l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che prevedevano le liste
bloccate, poiché esse non avrebbero consentito «all’elettore di esprimere
alcuna preferenza al fine di determinare l’elezione, ma solo di scegliere una
lista di partito, cui era rimessa la designazione e la collocazione in lista di
tutti i candidati», e, dunque, quel sistema avrebbe reso «il voto
sostanzialmente “indiretto”, e, quindi, né libero, né personale, in violazione
dell’art. 48, secondo comma, Cost.».
Osserva, quindi, che le disposizioni censurate
prevedono, da un lato, circoscrizioni «relativamente piccole» e, dall’altro, un
sistema misto, «in parte blindato ed in parte preferenziale», costituito da
«liste bloccate solo per una parte dei seggi», ossia solo per i capilista nei
cento collegi plurinominali, mentre gli altri candidati sono scelti con il voto
di preferenza.
Ciò premesso, il rimettente osserva che se, «[d]i
per sé», tali norme potrebbero ritenersi coerenti con le indicazioni della
Corte costituzionale, residua tuttavia il dubbio «che possa concretamente
realizzarsi per le forze di opposizione (rectius:
minoritarie) un effetto distorsivo dovuto alla rappresentanza parlamentare
largamente dominata da capilista bloccati, pur se con il correttivo della multicandidatura, ma con possibilità che il voto in tali
casi sia sostanzialmente “indiretto”, e, quindi, né libero, né personale, in
violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost.».
1.7.– Ulteriore questione di legittimità
costituzionale investe gli artt. 16, comma 1, lettera b), e 17 del d.lgs. n.
533 del 1993, come novellati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge n. 270 del
2005, per violazione degli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost.
Dopo aver ricordato che tali disposizioni, che
regolano il sistema elettorale del Senato, prevedono che possano accedere alla
ripartizione dei seggi le coalizioni di liste che ottengono almeno il 20 per
cento dei voti validi in ambito regionale, le singole liste facenti parte di
coalizioni che conseguono almeno il 3 per cento dei voti validi e le singole
liste, non coalizzate, che ottengono almeno l’8 per cento dei voti, il giudice
a quo ricorda la sentenza
della Corte costituzionale n. 1 del 2014, nella quale sarebbe stato
affermato che, nonostante rientri nella discrezionalità del legislatore
ordinario differenziare i sistemi elettorali dei due rami del Parlamento, alla
Corte sarebbe riservato il dovere di verificare se la disciplina legislativa
violi manifestamente i principi di proporzionalità e ragionevolezza e,
pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67
Cost. Osserva, quindi, il rimettente che, nel caso in esame, la «palese
diversità di sistema elettorale» favorisce la formazione di maggioranze
parlamentari non coincidenti, pur in presenza di una distribuzione del voto
sostanzialmente omogenea tra i due rami del Parlamento, e che ciò – sul punto
riportando un passo della sentenza della
Corte costituzionale n. 1 del 2014 – «rischia di compromettere sia il
funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione
repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere
(art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che
l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato»,
rischiando di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata
stabilità della maggioranza parlamentare e del Governo.
1.8.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva,
infine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 35, della
legge n. 52 del 2015, in base al quale le disposizioni contenute nel medesimo
art. 2 si applicano alle elezioni della Camera dei deputati a decorrere dal 1°
luglio 2016.
Il giudice a quo dubita che tale previsione sia
conforme agli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo
comma, Cost., in quanto, «in caso di nuove elezioni a legislazione elettorale
del Senato invariata (pur essendo in itinere la riforma costituzionale di
questo ramo del Parlamento), si produrrebbe una situazione di palese ingovernabilità,
per la coesistenza di due diverse maggioranze». Pur ammettendo che in un
sistema bicamerale perfetto i componenti dei due rami del Parlamento possano
essere eletti con sistemi elettorali differenti e che ciò rientri nella
discrezionalità del legislatore, il rimettente ritiene che i sistemi elettorali
attualmente vigenti per la Camera e il Senato produrrebbero maggioranze diverse
e, dunque, assume che la disposizione censurata sia incostituzionale, in quanto
l’applicabilità della legge n. 52 del 2015 non è stata differita «al momento in
cui verrà attuata la riforma costituzionale».
2.– Con atto depositato in data 26 aprile 2016 è
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano
dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce,
anzitutto, l’inammissibilità di tutte le questioni di legittimità
costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Messina, in quanto
quest’ultimo avrebbe ritenuto sussistente il requisito della rilevanza a
prescindere, non solo dall’applicazione delle disposizioni censurate, ma anche
dall’astratta possibilità che tale applicazione si verifichi. Nel caso di
specie, infatti, le norme censurate sarebbero vigenti, ma, sino al 1° luglio
2016, non applicabili.
Nonostante il giudice a quo abbia ampiamente
richiamato le argomentazioni contenute nell’ordinanza della Corte di
cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060, vi sarebbe
un’evidente differenza tra il caso ora all’esame della Corte costituzionale e
quello che condusse all’accoglimento delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione: in quell’occasione,
infatti, il giudice rimettente «si riferiva non ad un’ipotetica e futura
applicazione della disciplina elettorale, ma ad un diritto di voto che aveva
già avuto modo di esplicarsi a tre riprese (2006, 2008 e 2013) con le note
menomazioni riconducibili ad una legge dichiarata poi incostituzionale».
Mentre, cioè, l’azione che aveva dato origine al giudizio di costituzionalità
definito dalla sentenza
n. 1 del 2014 riguardava un accertamento riferito ad elezioni già svolte,
soggette ad una disciplina di legge già efficace ed effettivamente già
applicata, la legge n. 52 del 2015, censurata dal Tribunale ordinario di
Messina, produce i suoi effetti a decorrere dal 1° luglio 2016 e, dunque,
nessuna elezione si è svolta in base a questa legge e nessuna lesione del
proprio diritto può essere addotta dai ricorrenti.
A sostegno dell’inammissibilità, l’Avvocatura
generale dello Stato richiama la sentenza n. 110 del
2015, assumendo che le argomentazioni contenute in quella pronuncia
sarebbero conferenti al caso in esame.
Essa osserva, quindi, che l’ammissibilità di
questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto disposizioni che
ancora non spiegano i loro effetti «contrasterebbe a chiare lettere con il
dettato costituzionale che non prevede un ricorso preventivo di legittimità» e,
dunque, con la stessa funzione del giudizio in via incidentale. Del resto –
osserva l’Avvocatura generale dello Stato – sia per la Corte costituzionale,
sia per la dottrina, l’indice sintomatico minimo del requisito della rilevanza
sarebbe proprio l’applicabilità della norma impugnata al caso sottoposto al
giudizio del rimettente.
Rileva, inoltre, l’Avvocatura generale dello Stato
che le questioni di legittimità costituzionale sollevate sarebbero
inammissibili per evidente mancanza di attualità dell’interesse ad agire dei
ricorrenti rispetto a disposizioni non ancora applicabili. La mancanza di un
concreto ed attuale interesse delle parti renderebbe impossibile distinguere i petita dei due giudizi, quello instaurato di fronte al
giudice civile e quello di costituzionalità. Essa osserva, in definitiva, che,
ai fini della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, occorre
che «il giudizio a quo abbia un oggetto, un fatto storico, al quale riferirsi»,
mentre tale fatto sarebbe completamente mancante nel caso in esame, poiché le
disposizioni censurate non trovano applicazione «sino alla data di entrata in
vigore» e, a partire da quella data, esse troveranno applicazione «solo se, e
quando, saranno svolte le elezioni» in base alla disciplina censurata.
Osserva ancora l’Avvocatura generale che il giudice
a quo avrebbe sovrapposto il concetto di rilevanza con quello di interesse
sostanziale della parte: un interesse pur meritevole di tutela non potrebbe,
infatti, sostituirsi al concetto di rilevanza (è richiamata la sentenza della
Corte costituzionale n. 193 del 2015, con la quale è stata dichiarata
inammissibile una questione di legittimità costituzionale poiché, nella
fattispecie concreta, la disposizione censurata non aveva prodotto gli effetti
lamentati dal rimettente).
A sostegno dell’ammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate non potrebbe, peraltro, osservarsi che,
per fare chiarezza sull’effettiva portata del diritto di voto, non vi sarebbe
altra via rispetto al giudizio di accertamento e al successivo giudizio di
costituzionalità, in quanto il controllo dei risultati elettorali è affidato
alle Camere. Tale motivazione – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato
– rivelerebbe una confusione tra le competenze delle Camere, chiamate ad
accertare i titoli di ammissione di ciascun parlamentare, e quelle della Corte
costituzionale.
La necessità di evitare le cosiddette zone franche
non potrebbe, inoltre, condurre a «stravolgere completamente» il modello
vigente di giustizia costituzionale imperniato sulla concretezza e sulla
incidentalità delle questioni di legittimità costituzionale.
Consentire la sottoponibilità
allo scrutinio della Corte costituzionale di leggi elettorali «prima della loro
entrata in vigore» o «promulgate nella legislatura in corso» potrebbe apparire
«addirittura contra legem», dal momento che – come
dimostrerebbe il disegno di legge di riforma costituzionale in via di
approvazione – è chiara l’intenzione del legislatore di disciplinare
espressamente, con disposizioni del tutto innovative, «i mezzi di ricorso di
costituzionalità delle leggi elettorali».
2.2.– L’Avvocatura generale dello Stato adduce
plurimi argomenti a sostegno della non fondatezza della prima censura sollevata
dal Tribunale ordinario di Messina.
Contesta, anzitutto, che le disposizioni censurate
siano incostituzionali, in quanto prevedono l’assegnazione del premio di
maggioranza a chi ottiene una percentuale parametrata sui voti validi espressi,
anziché sui voti degli aventi diritto. Sul punto – oltre ad eccepire una
carenza di motivazione del rimettente, che dovrebbe indurre la Corte
costituzionale a dichiarare l’inammissibilità della censura – l’Avvocatura
generale dello Stato osserva che il diritto di voto è strumentale alla
formazione degli organi costituzionali, la quale non potrebbe essere messa in
pericolo dalla previsione di quorum di partecipazione al voto «di rischioso
raggiungimento». La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del
2014, non avrebbe mai fatto riferimento alla necessità di un rapporto tra
premio e percentuale degli aventi diritto, ma sempre e comunque tra premio e
«soglia minima dei voti».
Il legislatore avrebbe modificato il sistema
elettorale della Camera proprio per dare seguito all’affermazione della Corte
costituzionale. Il sistema resterebbe di tipo proporzionale con la previsione
di un premio di maggioranza, ma il premio è ora attribuito alla singola lista
che ottenga, al primo turno di votazione, almeno il 40 per cento dei voti validi,
ovvero, al secondo turno, il 50 per cento più uno dei voti. La congruità di
tali soglie sarebbe dimostrata dalla circostanza che il premio di maggioranza
garantisce al massimo un numero di seggi pari a quindici punti percentuali in
più rispetto alla percentuale di consenso ottenuta al primo turno e di cinque
punti in più al ballottaggio.
Il Parlamento – osserva l’Avvocatura generale dello
Stato – avrebbe approvato la nuova legge elettorale tenendo conto non solo
dell’esigenza di superare le eventuali censure di incostituzionalità, ma anche
al fine di favorire la governabilità, che la stessa Corte costituzionale, nella
sentenza n. 1
del 2014, ha definito «senz’altro un obiettivo costituzionalmente
legittimo».
Quanto alla scelta di attribuire il premio ad una
singola lista, anziché ad una coalizione di liste, essa rientrerebbe certamente
nella discrezionalità del legislatore.
Quanto, poi, alla soglia per l’ottenimento del
premio al secondo turno – che, osserva l’Avvocatura generale dello Stato, «non
appare chiaro in realtà se sia anch’essa censurata o meno» – viene fatto notare
come tale soglia, pur non essendo esplicitata, operi chiaramente in ragione
della stessa natura del ballottaggio: poiché il premio è attribuito alla lista
che otterrà più del 50 per cento dei voti validi, vi sarebbe ancora un
riferimento alla soglia minima di voti richiesta dalla più volte citata sentenza della
Corte costituzionale n. 1 del 2014.
D’altro canto, nessuna legge elettorale regionale
che assegna un premio di maggioranza prevede che esso sia subordinato al
raggiungimento di un quorum degli aventi diritto e ciò – secondo l’Avvocatura
generale dello Stato – appare «assolutamente razionale in quanto il meccanismo
della legge 52/2015 premia opportunamente la partecipazione al voto di quella
cittadinanza attiva che non deve essere pregiudicata dal comportamento omissivo
di chi liberamente sceglie di non adempiere a quello che secondo Costituzione è
il dovere civico del voto».
È, quindi, richiamata la sentenza n. 275 del
2014, assumendo che con tale decisione la Corte costituzionale avrebbe
implicitamente riconosciuto la valenza legittimante del turno di ballottaggio
per ciò che attiene all’assegnazione di un premio in seggi: non
sussisterebbero, quindi, i dubbi relativi ad una eccessiva
sovra-rappresentazione, poiché il premio sarebbe «diretta conseguenza del voto
e non un artifizio completamente scisso da esso». La Corte costituzionale,
nella sentenza
n. 1 del 2014, avrebbe, peraltro, affermato che ogni legge elettorale deve
contemperare il criterio della rappresentatività del corpo elettorale con
quello della governabilità, quest’ultima certamente perseguibile, pur «con il
“minore sacrificio possibile” per la rappresentanza democratica». Essa non
avrebbe, però, chiarito quando si debba considerare superato il limite della
manifesta sproporzione della soglia e del premio di maggioranza.
Osserva l’Avvocatura generale dello Stato che la
legge n. 52 del 2015 avrebbe comunque introdotto, rispetto alla previgente
disciplina, un elemento di novità sostanziale, in quanto la maggioranza
richiesta per accedere al premio non sarebbe relativa, bensì assoluta: ciò
dimostrerebbe l’erroneità di quanto sostenuto dai ricorrenti nel giudizio a
quo, in ordine all’assenza di un quorum minimo di consensi al secondo turno, ai
fini dell’assegnazione alla lista vincente del premio di maggioranza.
L’Avvocatura generale dello Stato contesta, quindi,
con ampiezza di argomenti, che l’incostituzionalità delle disposizioni
censurate possa desumersi dall’ipotesi che si presenti al voto un numero
irrisorio di elettori: non si rinverrebbe, infatti, in Costituzione la
necessità di dare un fondamentale potere di «blocco» a chi si disinteressa della
vita politica, scegliendo di non votare.
Concludendo su tale censura, l’Avvocatura generale
dello Stato illustra le ragioni per le quali il sistema elettorale introdotto
dalla legge n. 52 del 2015 si caratterizzerebbe per una maggiore
rappresentatività rispetto sia alla previgente disciplina – quella introdotta
dalla legge n. 270 del 2005 – sia ai sistemi maggioritari, tradizionalmente
adottati in altri Stati occidentali, come la Francia e l’Inghilterra.
2.3.– Considerandola una autonoma questione di legittimità
costituzionale, l’Avvocatura generale dello Stato si sofferma, quindi, sulla
lamentata previsione, da parte del rimettente, di una soglia di sbarramento al
3 per cento per l’accesso al riparto dei seggi, pur in presenza di un premio di
maggioranza.
Essa eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità di tale
censura per carenza di motivazione, e in quanto essa sarebbe stata prospettata
in modo contraddittorio, generico e perplesso.
Nel merito ritiene che la questione sarebbe,
comunque, infondata, in quanto sussiste ampia discrezionalità legislativa nella
scelta del sistema elettorale e, in particolare, nel coniugare in modo
equilibrato il rapporto tra attività dei partiti e scelte degli elettori nella
competizione elettorale, tutelando, nel contempo, il diritto degli elettori e
l’esigenza di funzionalità degli organi.
L’Avvocatura generale dello Stato sottolinea come la
soglia di accesso pari al 3 per cento dei voti sia una delle più basse nel
panorama europeo e nella storia delle leggi elettorali italiane.
Quanto all’asserita incostituzionalità della
compresenza di soglie di accesso e del premio, essa osserva che non solo essa
non fu censurata dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 1 del 2014, ma che tale coesistenza «ben può essere
compatibile con il principio di uguaglianza in uscita del voto degli elettori,
perché l’uguaglianza non attiene all’effetto del sistema elettorale, bensì esclusivamente
al valore di ciascun voto in entrata, che deve essere in grado di assicurare la
funzionalità degli organi ai quali l’elezione provvede».
L’Avvocatura generale dello Stato rileva, infine,
come la presenza della soglia di sbarramento non si ponga in contrasto con
l’art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU, richiamando la giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo ritenuta pertinente.
2.4.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce
l’inammissibilità anche della questione di legittimità costituzionale con cui
il Tribunale ordinario di Messina lamenta l’illegittimità costituzionale delle
disposizioni che, nella fase della assegnazione, consentirebbero una
traslazione dei seggi da una circoscrizione ad un’altra. L’Avvocatura generale
dello Stato ritiene, infatti, che la censura sarebbe apodittica e scarsamente
motivata, in quanto il giudice a quo, anziché spiegare il meccanismo di
attribuzione dei seggi, si limiterebbe a denunciarne la complessità e
rinvierebbe per relationem agli atti delle parti.
In secondo luogo, l’Avvocatura statale rileva una
inesatta indicazione delle disposizioni sottoposte al giudizio della Corte
costituzionale: la censura avverso l’art. 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957 sarebbe troppo ampia, in quanto la
disposizione che consente il trasferimento dei seggi da una circoscrizione ad
un’altra sarebbe solo l’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R.
n. 361 del 1957; la censura avverso l’art. 84, commi 2 e 4, del medesimo d.P.R. sarebbe, invece, errata, poiché la norma che prevede
il trasferimento dei seggi da un collegio ad un altro è contenuta nel comma 3
dello stesso art. 84.
Le questioni sarebbero in ogni caso infondate,
poiché il quarto comma dell’art. 56 Cost. – secondo l’Avvocatura generale dello
Stato – sarebbe disposizione precettiva nei confronti del legislatore
nazionale, affinché quest’ultimo tenga in dovuta considerazione, nel momento
della distribuzione dei 618 seggi, la composizione numerica della popolazione
in ogni circoscrizione, mentre non riguarderebbe il meccanismo di assegnazione
dei seggi alle singole liste, che viene effettuato nel momento successivo alle
elezioni.
Le disposizioni censurate, peraltro, regolerebbero
fattispecie del tutto ipotetiche, «al fine di evitare che, per un concorso di
fattori avversi, non si riesca ad assegnare tutti i seggi previsti dalla
Costituzione». Prescrizioni analoghe sarebbero state contenute nella previgente
disciplina, senza mai essere state oggetto di pronuncia da parte della Corte
costituzionale. Peraltro, le disposizioni introdotte dalla legge n. 52 del 2015
avrebbero «un grado maggiore di razionalità nell’allocazione dei seggi sia alle
liste deficitarie sia a quelle eccedentarie» rispetto a quelle previgenti:
mentre, infatti, precedentemente, i seggi erano assegnati alla lista
deficitaria dove l’eccedentaria avesse ottenuto il seggio con la minore parte
decimale, a prescindere dall’esito della lista deficitaria in quel collegio, le
disposizioni ora censurate prevedono che la lista deficitaria ottenga il seggio
nel collegio della circoscrizione in cui ottiene la maggiore parte decimale e
la lista eccedentaria lo perda nel collegio della medesima circoscrizione in
cui ha ottenuto la minore parte decimale. Questo sistema renderebbe meno irrazionale
lo slittamento di seggi – che comunque resterebbe minimo – e il fenomeno
sarebbe, comunque, «contenuto a livello regionale».
Da quanto esposto emergerebbe – secondo l’Avvocatura
generale dello Stato – che le disposizioni censurate non solo non contrastano
con il principio di rappresentatività territoriale insito nell’art. 56 Cost.,
ma «si pongono come “norma tecnica di chiusura” per evitare che venga leso il
principio costituzionale concernente la completa formazione della
rappresentanza popolare».
Osserva, quindi, l’Avvocatura generale dello Stato
che le disposizioni censurate riguardano il momento dell’assegnazione dei
seggi, mentre l’art. 56 Cost. si riferirebbe al momento antecedente della
distribuzione degli stessi tra le circoscrizioni, la quale spetta, ai sensi
dell’art. 3 del citato d.P.R., ad un decreto del
Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno, da emanare
contestualmente al decreto di convocazione dei comizi elettorali.
Rileva, infine, la difesa erariale che il rapporto
tra l’esigenza che gli effetti di un sistema elettorale assicurino, nello
stesso tempo e nella migliore misura possibile, la proporzionalità politica e
quella territoriale sarebbe problema di valenza generale, e non riguarderebbe
solo la legge sottoposta allo scrutinio della Corte costituzionale. È
ricordata, sul punto, la sentenza della
Corte costituzionale n. 271 del 2010, nella quale fu menzionato, quale
possibile meccanismo per la riduzione del trasferimento dei seggi nel sistema
per l’elezione dei membri italiani al Parlamento europeo, quello allora
disciplinato dall’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R.
n. 361 del 1957, che sarebbe stato ora migliorato proprio dalla legge n. 52 del
2015.
2.5.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce
che anche la terza questione di legittimità costituzionale sollevata dal
Tribunale ordinario di Messina sarebbe inammissibile, perché posta in modo
contraddittorio. Il rimettente, infatti, dapprima sosterrebbe che la presenza
di soli capilista bloccati e liste elettorali corte risponderebbe alle
richieste della sentenza
della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per poi affermare che le
disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 48 della
Costituzione per quanto riguarda l’elezione dei candidati dell’opposizione.
Ritiene, quindi, la difesa erariale che il
rimettente avrebbe assunto apoditticamente che saranno eletti tutti e soli i
capilista dei partiti di minoranza.
Tale ultima affermazione, peraltro, oltre che
apodittica, sarebbe erronea, in quanto il giudice a quo ometterebbe di
considerare la complessità del fenomeno elettorale, e postulerebbe che in
nessun collegio i partiti di minoranza riescano ad eleggere più di un deputato:
ciò potrebbe, però, riguardare solo i partiti che hanno un debole consenso in
tutto il territorio elettorale, non certo quelli fortemente radicati a livello
territoriale.
Ritiene, quindi, l’Avvocatura generale dello Stato
che, per ciò che concerne i seggi per le forze di opposizione, è altamente
probabile che le liste minori, avendo prevedibilmente meno candidati in grado
di catalizzare il consenso, presentino numerose pluricandidature
a capolista in più collegi plurinominali della medesima circoscrizione e che
tale circostanza, in virtù delle successive, doverose opzioni, non potrà che
favorire il subentro dei numerosi candidati che hanno ottenuto le preferenze
anche nell’ambito dei 278 seggi da distribuire tra le liste di minoranza.
Sarebbe, dunque, del tutto impossibile – ad avviso
dell’Avvocatura generale dello Stato – «prevedere la proporzione degli eletti
delle forze di minoranza tra “capolista” e “preferenziati”»
e non potrebbe, quindi, correttamente argomentarsi, come viceversa paventato
nell’ordinanza di rimessione, «che la minoranza verrebbe “largamente dominata
da capilista bloccati”».
Peraltro, l’Avvocatura sottolinea che, mentre con la
legge n. 270 del 2005, se un capolista risultava eletto in più collegi, si
liberavano seggi per altrettanti capilista bloccati, con il sistema ora
censurato il beneficio sarebbe chiaramente a vantaggio dei primi non eletti con
le preferenze.
Osserva, infine, l’Avvocatura generale dello Stato
che, con la previsione di riservare ai capilista la possibilità di potersi
candidare in più collegi, il legislatore avrebbe voluto attribuire alle
formazioni politiche il potere di designare i propri candidati anche al fine di
garantire la realizzazione di quelle linee programmatiche che esse sottopongono
alla scelta del corpo elettorale in maniera funzionale al principio di
governabilità, e ciò in linea con l’art. 49 Cost., che darebbe particolare
risalto alla insostituibile funzione dei partiti quali intermediari rispetto al
potere sovrano esercitato dal popolo. Anche la Corte europea dei diritti
dell’uomo, nella sentenza
13 marzo 2012, Saccomanno e altri c. Italia, non avrebbe rilevato contrasti
tra il sistema elettorale introdotto dalla legge n. 270 del 2005 e il diritto
convenzionale e, in particolare, avrebbe osservato che i sistemi elettorali
selettivi e le liste bloccate vanno valutati «nel complesso» e che la scelta
dell’elettore deve essere bilanciata con il ruolo che i partiti politici sono
chiamati a svolgere negli ordinamenti democratici.
2.6.– In ordine alla quarta questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Messina, l’Avvocatura
generale dello Stato eccepisce, anzitutto, che il rimettente non spiega per
quale ragione diverse soglie di sbarramento per il sistema elettorale della
Camera e del Senato condurrebbero alla formazione di maggioranze diverse, e
osserva che, «a tutto concedere, non tanto la diversità di soglie di
sbarramento quanto, eventualmente, una diversità di soglie percentuali per
l’attribuzione del premio di maggioranza potrebbe condurre a maggioranze
diverse nelle due Camere».
Osserva l’Avvocatura generale dello Stato che sarebbe,
peraltro, la stessa Costituzione a prevedere diversità sostanziali tra i due
sistemi elettorali, e che, nel caso in cui si formino due maggioranze
differenti, ciò «corrisponderebbe ad una logica contro-maggioritaria idonea
proprio a temperare gli effetti che la legge elettorale della Camera
spiegherebbe sull’intero sistema politico-costituzionale».
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, tali
osservazioni non sarebbero contraddette da quanto affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 1 del
2014, in quanto il passo citato dal giudice a quo non si riferirebbe alla
diversità dei sistemi elettorali di Camera e Senato, bensì all’irragionevolezza
delle disposizioni, allora censurate, relative ai premi di maggioranza
regionali. D’altro canto, sarebbe lo stesso rimettente, nel successivo
paragrafo dell’ordinanza di rimessione, ad affermare che non è di per sé
irragionevole che i due sistemi elettorali siano differenti e che la scelta
rientra nella discrezionalità del legislatore.
Rileva, infine, l’Avvocatura generale dello Stato
che il giudice a quo non indicherebbe chiaramente la norma parametro che assume
violata.
2.7.– Con riferimento all’ultima censura sollevata
dal Tribunale ordinario di Messina, l’Avvocatura generale dello Stato
eccepisce, anzitutto, che essa sarebbe ipotetica, e, dunque, inammissibile, in
quanto il giudice a quo avanzerebbe il dubbio relativo alla possibilità che,
tra il 1° luglio 2016 e l’entrata in vigore della riforma costituzionale in
itinere, in caso di elezioni che si celebrassero medio tempore, coesistano due
diversi sistemi elettorali per la Camera e il Senato.
Nel merito, la censura sarebbe comunque infondata.
Si osserva che ben può il legislatore, nell’ambito della propria
discrezionalità, decidere che le disposizioni approvate non siano
immediatamente applicabili, e che tale scelta – che certamente dimostra come il
legislatore auspichi l’approvazione definitiva della riforma costituzionale – è
proprio finalizzata ad evitare che, fino al 1° luglio 2016, si applichino due
diversi sistemi elettorali. Se, comunque, la riforma costituzionale non fosse
approvata, ciò non comporterebbe, come precedentemente osservato, una
violazione degli evocati parametri costituzionali. Secondo l’Avvocatura
generale dello Stato, d’altro canto, non sarebbe stato ragionevole e coerente,
da parte del legislatore, modificare il sistema elettorale del Senato prima
della definitiva approvazione della riforma costituzionale, né potrebbe
reputarsi incostituzionale, attraverso un generico rinvio al principio di
ragionevolezza, il fatto che l’applicazione della legge n. 52 del 2015 non sia
subordinata «ad libitum» all’entrata in vigore della legge di revisione
costituzionale, che potrebbe anche non superare positivamente il referendum
previsto dall’art. 138 Cost.
3.– Nel giudizio innanzi alla Corte si sono
costituiti, con atto depositato il 26 aprile 2016, alcuni dei ricorrenti nel
giudizio principale, i quali hanno chiesto l’accoglimento di tutte le questioni
di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Messina.
4.– Con atto depositato il 26 aprile 2016 hanno
spiegato intervento ad adiuvandum F.C.B., G.B.,
G.C.F. e D.A., assumendo di essere ricorrenti in giudizi analoghi a quello
pendente di fronte al Tribunale ordinario di Messina. Con atto depositato il 6
settembre 2016 G.B. ha rinunciato all’intervento. Con atto depositato il 12
settembre 2016 hanno rinunciato all’intervento anche F.C.B., G.C.F. e D.A.
5.– In data 13 settembre 2016 – in prossimità
dell’udienza pubblica del 4 ottobre 2016, poi rinviata – l’Avvocatura generale
dello Stato ha depositato ulteriore memoria in cui ribadisce le conclusioni già
rassegnate con l’atto di intervento.
6.– Le parti del giudizio a quo costituitesi nel
giudizio davanti alla Corte costituzionale, hanno depositato, in data 13
settembre 2016 e 2 gennaio 2017, ampie memorie, in cui adducono argomenti a
sostegno dell’ammissibilità e della fondatezza delle questioni sollevate dal
Tribunale ordinario di Messina.
Esse osservano, anzitutto, che il rimettente avrebbe
ampiamente motivato sulla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti e
che tale motivazione sarebbe corretta, in quanto le azioni di accertamento
sarebbero per loro natura orientate a scongiurare il pregiudizio che si
verificherebbe per i ricorrenti se la legge elettorale comprimesse i loro
diritti, e in quanto sarebbe lo stato di incertezza obiettiva a configurare un
pregiudizio concreto ed attuale; che, inoltre, l’interesse ad agire sussisteva
già al momento della proposizione della domanda, dal momento che il Governo
aveva già dato attuazione alla delega contenuta alla legge n. 52 del 2015,
approvando il decreto legislativo 7 agosto 2015, n. 122 (Determinazione dei
collegi della Camera dei deputati, in attuazione dell’articolo 4 della legge 6
maggio 2015, n. 52, recante disposizioni in materia di elezione della Camera
dei deputati).
Adducono, quindi, diffuse argomentazioni a sostegno
dell’accoglimento, nel merito, di tutte le censure sollevate dal Tribunale
ordinario di Messina.
Esse chiedono, infine, alla Corte costituzionale di
sollevare di fronte a se stessa questioni di legittimità costituzionale
dell’intera legge n. 52 del 2015, «con particolare riferimento ai suoi articoli
fondamentali (1, 2 e 4)», poiché sarebbe stata approvata, prima al Senato e poi
alla Camera, «in palese violazione dell’art. 72, commi 1 e 4, Cost. e dell’art.
3 del protocollo CEDU (per come richiamato dall’art. 117, comma 1, Cost.)». Le
parti ricordano che identica censura era stata proposta nel giudizio
principale, ma che il giudice a quo l’aveva ritenuta manifestamente infondata.
Ora – illustrando le ragioni per le quali, a loro avviso, il rimettente sarebbe
incorso in «una classica ipotesi di svista processuale» – sollecitano la Corte
costituzionale, con ampiezza di argomenti, a sollevare di fronte a se stessa le
medesime questioni attinenti a presunti vizi di formazione della legge.
7.– In data 3 gennaio 2017 hanno depositato atto di
intervento, fuori termine, il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la
difesa dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e dei consumatori), in
persona del suo legale rappresentante G.U., e quest’ultimo, «in proprio nella
qualità di elettore avente diritto ad esprimersi nelle consultazioni
elettorali». A sostegno della propria legittimazione, essi assumono di essere
titolari, in qualità di singoli ed associati, di un interesse qualificato
immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ossia
l’accertamento del diritto di votare in conformità alla Costituzione. In
particolare, sono ricordati i compiti e le finalità che lo statuto affida al
Codacons.
Gli intervenienti hanno depositato ulteriore
memoria, fuori termine, il 13 gennaio 2017.
8.– Con ordinanza del 5 luglio 2016 (reg. ord. n.
163 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino, prima sezione civile, ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera
f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R.
n. 361 del 1957, come novellato dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del
2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma,
3 e 48, secondo comma, Cost.;
e dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come
modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione
degli artt. 1,
secondo comma, 3
e 48 Cost.
8.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato
a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi degli artt. 702-bis e
seguenti cod. proc. civ. da alcuni cittadini italiani iscritti nelle liste
elettorali, i quali hanno convenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri e il Ministro dell’interno, chiedendo che sia accertato «il diritto di
“votare conformemente alla Costituzione” lamentando la lesione di tale diritto
ad opera di specifiche norme della legge elettorale n. 52 del 6 maggio 2015 (il
c.d. Italicum) che hanno sostituito o modificato il
DPR n. 361 del 30 marzo 1957 e le residue norme della legge elettorale n.
270/2005 che aveva modificato il Testo Unico per l’elezione del Senato della
Repubblica, approvato con Decreto Legislativo n. 533 del 20 dicembre 1993».
8.2.– In via preliminare, il rimettente motiva in
ordine alla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, nonostante
l’applicabilità della legge n. 52 del 2015, entrata in vigore il 23 maggio
2015, sia stata differita al 1° luglio 2016, ossia ad un momento successivo
alla proposizione del ricorso. Poiché gli attori lamentano l’incertezza della
portata del diritto di voto, come regolato da un complesso di norme già in
vigore e la cui applicabilità, benché differita, è certa, il rimettente ritiene
che sussista e sia attuale l’interesse dei ricorrenti ad ottenere una pronuncia
di accertamento «prima ancora che la legge sia applicata, ossia prima ancora
che vengano convocati i comizi elettorali», e ciò anche perché, una volta
emesso il decreto di convocazione dei comizi elettorali, non vi sarebbe più
spazio di tutela effettiva per l’elettore, non potendo costui ottenere pronunce
giurisdizionali che incidano sulle elezioni. Ritiene il rimettente che deponga
a favore di tale ricostruzione anche la sentenza della Corte di cassazione,
sezione prima civile, 16 aprile 2014, n. 8878 – emessa dopo la sentenza della
Corte costituzionale n. 1 del 2014 – dalla quale emergerebbe come il
ripristino della pienezza del diritto di voto non possa che valere pro futuro,
non potendo, invece, incidere sugli esiti delle elezioni già svolte.
8.3.– Il rimettente argomenta, quindi, in ordine
alla sussistenza del requisito della rilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate rispetto alla controversia instaurata dai ricorrenti,
ritenendo che il dispositivo della sentenza della Corte costituzionale e quello
della sentenza che deve definire il giudizio di merito siano tra loro autonomi,
poiché spetta a quest’ultima accertare l’avvenuta lesione del diritto azionato
e, in caso di accoglimento delle questioni sollevate, ripristinarlo nella sua
pienezza, seppure con il tramite della sentenza costituzionale (sono richiamate
l’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n.
12060 e la sentenza
della Corte costituzionale n. 59 del 1957).
8.4.– Nel merito, il Tribunale ordinario di Torino,
dopo aver ampiamente illustrato le ragioni per le quali ritiene di non
condividere larga parte delle doglianze prospettate dalle parti, solleva due
questioni di legittimità costituzionale.
La prima ha ad oggetto l’art. 1, comma 1, lettera
f), della legge n. 52 del 2015 e l’art. 83, comma 5, del d.P.R.
n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del
2015, ossia le disposizioni che prevedono che, in caso di mancato conseguimento
del premio di maggioranza al primo turno di votazione, tale premio sia
attribuito in seguito ad un turno di ballottaggio a cui accedono le due liste
più votate. Il rimettente dubita che tale previsione sia conforme agli artt. 1,
secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
Il giudice a quo ricorda, anzitutto, che il
legislatore, nel determinare i modi con i quali attribuire il premio di
maggioranza, deve operare in modo tale da contemperare ragionevolmente due
contrapposti interessi di pari rilievo costituzionale, il principio di
rappresentatività e il principio di governabilità, e richiama, sul punto,
quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del
2014. Ricorda, quindi, che il modo in cui la legge n. 52 del 2015 ha
delineato il turno di ballottaggio ha indotto la dottrina a chiedersi se esso
possa dirsi rispettoso del principio costituzionale «del necessario rispetto di
un limite ontologico di rappresentanza del voto in presenza del quale possa
essere attribuito, a una sola lista, il premio di maggioranza, senza incorrere
in censure di irragionevolezza e di eccessiva distorsione del voto». Dopo aver
ricordato gli argomenti di chi ritiene che il turno di ballottaggio non possa
essere sospettato di violare il ricordato principio costituzionale di rappresentanza
del voto e gli argomenti di chi, invece, dubita della legittimità
costituzionale di tale meccanismo, il rimettente afferma di condividere questa
seconda lettura, secondo la quale quella che scaturisce dal turno di
ballottaggio sarebbe «una maggioranza solo virtuale perché priva, se non
adeguatamente corretta, di una effettiva valenza rappresentativa del corpo
elettorale».
Il legislatore, infatti, limitandosi a prevedere che
accedano al turno di ballottaggio le due liste più votate, purché abbiano ottenuto
almeno il 3 per cento dei voti (ovvero il 20 per cento nel caso siano
espressione di minoranze linguistiche), avrebbe, da un lato, riconosciuto che
esiste un problema di rappresentatività delle liste ammesse al ballottaggio,
dall’altro, però, avrebbe utilizzato le soglie previste, in generale, dalla
legge elettorale per scoraggiare una eccessiva «polverizzazione» del voto.
Inoltre – osserva il rimettente – nel valutare
l’effettiva forza rappresentativa del 50 per cento più uno dei voti espressi al
ballottaggio, si dovrebbe anche considerare che è previsto che tale maggioranza
sia calcolata sui voti validi espressi, circostanza che non darebbe «alcun
rilievo al peso dell’astensione, che potrebbe essere anche molto rilevante
quale prevedibile conseguenza della radicale riduzione dell’offerta elettorale
nel ballottaggio».
Il rimettente, infine, ricordando che il legislatore
ha esplicitamente vietato – per il turno di ballottaggio – apparentamenti o
coalizioni tra liste, ritiene che tale scelta, «evidentemente espressione di un
favore per la governabilità», sarebbe irrazionale, in quanto il voto espresso
al turno di ballottaggio sacrificherebbe eccessivamente il valore della
rappresentatività.
In conclusione, il giudice a quo assume che, «[s]enza l’adozione di meccanismi che garantiscano una adeguata
espansione della componente rappresentativa del voto (ovvero senza
l’eliminazione del divieto di cui si è detto) l’attribuzione del premio di
maggioranza alla sola lista che, all’esito del ballottaggio, si aggiudichi il
premio di maggioranza finisce per essere svincolata dalla esistenza di
parametri oggettivi che consentano di affermare che la lista vincitrice ha
ottenuto quella “ragionevole soglia di voti minima” in presenza della quale è
possibile la legittima attribuzione del premio di maggioranza», e, per tali
ragioni, chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale delle
disposizioni censurate per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48,
secondo comma, Cost.
8.5.– La seconda questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Torino investe l’art. 85
del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art.
2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, il quale stabilisce che il candidato
eletto in più collegi plurinominali debba dichiarare alla Presidenza della
Camera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione,
quale collegio plurinominale prescelga, e che, in assenza di opzione, si
procede al sorteggio.
Secondo il rimettente, mentre non sarebbe
irragionevole che sia data la possibilità ai soli capilista di candidarsi in
più collegi, costituirebbe, invece, una violazione degli artt. 3 e 48 Cost. non
vincolare l’opzione del capolista che risulti eletto in più collegi a criteri
oggettivi e predeterminati, rispettosi, nel massimo grado possibile, della
volontà espressa dagli elettori.
Il giudice a quo osserva che rimettere l’opzione tra
un collegio ed un altro «ad una mera valutazione di opportunità da parte del
candidato» avrebbe l’effetto di annullare «sostanzialmente» il voto di
preferenza nel collegio optato dal capolista: in virtù dell’opzione potrebbe
accadere «che il candidato che abbia ricevuto molte preferenze (addirittura il
più votato in assoluto) sia surclassato da uno o più candidati di altri
collegi, con meno preferenze» e, inoltre, l’assenza di qualsivoglia criterio
oggettivo al quale il capolista debba ispirarsi nella scelta renderebbe
impossibile per l’elettore effettuare valutazioni prognostiche sull’utilità del
suo voto di preferenza ad un candidato che faccia parte di una lista con un
candidato capolista in altri collegi. Tale imprevedibilità sarebbe
ulteriormente confermata dal meccanismo alternativo alla scelta, costituito dal
sorteggio.
Tale disciplina – secondo il rimettente – si
concreterebbe «in una distorsione tra il voto di preferenza espresso dagli
elettori e il suo esito “in uscita” in quel collegio che appare irrazionale
rispetto al diritto di uguaglianza e libertà del voto, in quanto lede in modo
eccessivo tale diritto, senza che vi sia un altro correlativo valore di rilievo
costituzionale da salvaguardare». Il giudice a quo aggiunge che non potrebbe
invocarsi, in proposito, il valore della governabilità, poiché tale valore
viene tutt’al più in rilievo con l’introduzione dei capilista bloccati e con la
possibilità, data a costoro, di candidarsi in più collegi. Tale soluzione
esprime, infatti, l’interesse delle forze politiche di riservare, in caso di
vittoria elettorale, un seggio sicuro alla Camera a favore di personalità da
loro prescelte. Sarebbe, invece, eccessivamente sproporzionato perseguire il
valore della governabilità anche con la disposizione censurata, la quale
consentirebbe, senza alcuna ragione, di escludere dal Parlamento un candidato
«senza che tale scelta sia condizionata dal numero di voti di preferenza
ottenuti dal candidato destinato all’esclusione, ovvero da altro sistema che
consenta di salvaguardare nel massimo grado possibile il voto di preferenza
espresso dagli elettori in favore di chi non è capo lista».
9.– Con atto depositato il 4 agosto 2016
l’Avvocatura generale dello Stato è intervenuta in giudizio per il Presidente
del Consiglio dei ministri e per il Ministro dell’interno, quest’ultimo parte,
insieme al Presidente del Consiglio, del giudizio principale.
9.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce,
anzitutto, l’inammissibilità di entrambe le questioni sollevate dal Tribunale
ordinario di Torino, adducendo argomenti analoghi a quelli già svolti nella
memoria depositata per il giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di
Messina (reg. ord. n. 69 del 2016). Con specifico riferimento alle questioni
sollevate dal Tribunale ordinario di Torino, essa si limita a precisare che
anche in tal caso difetterebbe non solo l’avvenuta lesione del diritto (che
potrebbe perfezionarsi solo a seguito di una competizione elettorale già
avvenuta), ma anche l’ipotizzabilità della lesione, in quanto, al momento
dell’instaurazione del giudizio a quo, la disciplina censurata non risultava applicabile.
L’attualità dell’interesse ad agire dovrebbe, infatti, sussistere sin dal
momento in cui l’azione di accertamento è instaurata. Anche il Tribunale
ordinario di Torino avrebbe, dunque, sollevato questioni di legittimità
costituzionale premature e, come tali, inammissibili.
9.2.– In ordine alla prima questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Torino, l’Avvocatura
generale dello Stato ne eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità per erronea o
inesatta indicazione delle norme oggetto, in quanto il giudice a quo,
censurando complessivamente l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52
del 2015, non avrebbe correttamente individuato la porzione di norma che regola
il turno di ballottaggio.
La questione sarebbe, inoltre, inammissibile per
contraddittorietà, in quanto il giudice a quo ritiene necessario il superamento
di un certo quorum di aventi diritto al voto al turno di ballottaggio, in cui è
assegnato il premio di maggioranza pari al 5 per cento dei seggi, e non anche
nel primo turno, in cui, invece, il premio può raggiungere il 15 per cento dei
seggi.
Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato chiede
che la questione sia dichiarata non fondata, contestando la correttezza degli
argomenti addotti dal rimettente a sostegno del dubbio di legittimità
costituzionale sollevato.
Con riferimento alla possibile limitata
rappresentatività delle liste ammesse al turno di ballottaggio, la difesa
erariale ritiene che il giudice a quo avrebbe erroneamente sovrapposto la
soglia minima di voti che, alla luce della sentenza della
Corte costituzionale n. 1 del 2014, deve essere prevista per conseguire il
premio di maggioranza, con un’ulteriore soglia minima di voti da prevedere per
accedere al secondo turno. Non avrebbe, inoltre, considerato che l’accesso al
ballottaggio non sarebbe sganciato dal principio della rappresentanza popolare,
ma, al contrario, risulterebbe intrinsecamente connesso a tale principio, visto
che al ballottaggio accedono le due liste elettorali che abbiano conseguito il
maggior numero di voti al primo turno.
Né si potrebbe ipotizzare che sia il superamento
della soglia del 3 per cento dei voti validi nel primo turno a consentire ad
una lista di accedere al ballottaggio. Peraltro, sul punto, la difesa erariale
rileva che il rimettente sarebbe incorso in una aberratio
ictus, non avendo censurato la disposizione che prevede la soglia di
sbarramento al 3 per cento.
Con riferimento, invece, alla denunciata
incostituzionalità delle disposizioni che assegnano un premio di maggioranza
alla lista che, in sede di ballottaggio, abbia ottenuto il maggior numero di
voti validi, senza prevedere anche il raggiungimento di un «quorum strutturale»
tra gli aventi diritto al voto, e senza quindi dare peso al dato politico
dell’eventuale astensione tra gli elettori, l’Avvocatura generale dello Stato
premette che anche nel turno di ballottaggio esiste una soglia minima di voti
per il conseguimento del premio, dal momento che esso è attribuito a chi
ottiene il 50 per cento più uno dei voti validi, e che un premio di cinque
punti percentuali non potrebbe certo dirsi irragionevole o eccessivo.
Contesta, inoltre, l’affermazione del rimettente
secondo la quale vi sarebbe il «concreto rischio che il premio venga attribuito
a una formazione che è priva di adeguato radicamento nel corpo elettorale»,
osservando, non solo che non vi sarebbe alcuna violazione del principio di
rappresentatività, ma che la disciplina del ballottaggio sarebbe «foggiata in
termini del tutto conseguenti all’espressione della volontà elettorale nel
primo turno»: «[l]e scelte degli elettori sono saggiate nel primo turno e
ulteriormente messe alla prova nel ballottaggio, all’esito del quale sono le
soglie di consenso espresse nei due turni a svolgere complessivamente la
funzione di soglia».
Con specifico riferimento alla lamentata previsione
di un «quorum strutturale» tra gli aventi diritto al voto, quale ulteriore
condizione per l’assegnazione del premio di maggioranza, l’Avvocatura generale
dello Stato rileva come il legislatore avrebbe anche potuto subordinare
l’assegnazione del premio ad un (ulteriore) quorum di votanti o voti validi, ma
che questa non potrebbe certo dirsi una scelta costituzionalmente necessaria.
La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del
2014, avrebbe fatto riferimento alla necessità che il premio di maggioranza
sia subordinato al raggiungimento di una soglia minima di voti espressi. In
ogni caso – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – la verifica del
consenso per ottenere il premio non potrebbe che essere legittimamente
parametrata al numero totale dei voti validi e non all’entità di coloro che
teoricamente avrebbero potuto votare, ma si sono rifiutati di farlo, non
adempiendo al dovere civico di votare previsto dall’art. 48, secondo comma,
Cost. Rapportare la soglia minima agli aventi diritto, anziché ai votanti,
potrebbe, tra l’altro, in caso di estesa non partecipazione al voto, avere
conseguenze negative sulla governabilità e sulla stabilità del Paese, fino
all’impossibilità di realizzare la provvista dell’organo.
A sostegno della non fondatezza della questione,
l’Avvocatura generale dello Stato menziona, quindi, la sentenza n. 275 del
2014, in cui la Corte costituzionale avrebbe «riconosciuto implicitamente
la valenza legittimante di un turno di ballottaggio per ciò che attiene all’assegnazione
di un premio in seggi», e la più volte citata sentenza n. 1 del
2014, in cui la Corte avrebbe affermato che ogni legge elettorale deve
contemperare il criterio della rappresentatività del corpo elettorale con
quello della governabilità, quest’ultima certamente perseguibile, sia pure «con
il “minore sacrificio possibile” per la rappresentanza democratica». Anche se
la Corte non avrebbe chiarito quando si debba considerare superato il limite
della manifesta sproporzione della soglia e del premio di maggioranza, tale
limite non potrebbe dirsi violato dalla disciplina censurata, che, rispetto a
quella previgente, avrebbe introdotto, oltre alla soglia del 40 per cento per
ottenere il premio al primo turno, proprio il turno di ballottaggio, grazie al
quale la maggioranza assoluta dei voti determina la maggioranza assoluta dei
seggi.
L’Avvocatura generale dello Stato osserva, quindi,
che la scelta di attribuire il premio ad una lista, anziché ad una coalizione
di liste, rientrerebbe certamente nella scelta discrezionale del legislatore,
che ha così voluto favorire la coesione politica della maggioranza e una più
agevole governabilità.
La difesa statale conclude sottolineando che in materia
elettorale esiste ampia discrezionalità legislativa, che la disciplina
censurata non presenta alcun profilo di contrasto con il principio di
eguaglianza del voto e che la legge n. 52 del 2015, superando il «vulnus della
legge n. 270 del 2005», garantisce una maggiore rappresentatività; e spiegando
le ragioni per le quali il sistema elettorale censurato risulterebbe
preferibile anche rispetto ad un sistema uninominale maggioritario.
9.3.– In relazione alla seconda questione di
legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Torino,
relativa alla disciplina contenuta nell’art. 85 del d.P.R.
n. 361 del 1956, l’Avvocatura generale dello Stato ne eccepisce, anzitutto,
l’inammissibilità «per inesatta ed erronea identificazione della norma oggetto
di censura». Il rimettente si sarebbe, infatti, contraddetto nella formulazione
della motivazione e del petitum, poiché avrebbe
lamentato l’assenza di vincoli all’esercizio del diritto di opzione del
candidato capolista, evocando una pronuncia della Corte costituzionale di tipo
additivo-manipolativo, mentre, nel dispositivo, avrebbe chiesto una pronuncia
di tipo ablativo.
Osserva, inoltre, l’Avvocatura generale dello Stato
come una pronuncia di accoglimento della disposizione censurata «determinerebbe
un inammissibile vuoto normativo che potrebbe avere come conseguenza
l’impossibilità di applicare la legge nella sua interezza», ciò che, secondo
costante giurisprudenza costituzionale, non sarebbe possibile (sono richiamate
le sentenze della Corte costituzionale n. 13 del 2012
e n. 29 del 1987).
Se anche il giudice rimettente «avesse scrupolosamente osservato tali logici presupposti
processuali», la Corte costituzionale – secondo l’Avvocatura generale dello
Stato – non potrebbe comunque manipolare la norma fino a creare dei vincoli
all’esercizio del diritto di opzione del candidato eletto in più collegi, senza
sconfinare nella sfera della discrezionalità politica del legislatore.
Nel merito, la questione sarebbe infondata «perché
non si capisce quale diritto sarebbe menomato da questa libertà di opzione del pluricandidato»: non potrebbe immaginarsi – secondo
l’Avvocatura generale dello Stato – un contrasto con il diritto di elettorato
passivo dei candidati non capolista, poiché tale diritto non potrebbe spingersi
sino «a definire un interesse legittimo alle chances di un qualsivoglia
candidato di essere eletto a dispetto di altri»; né potrebbe dirsi leso il
diritto di elettorato attivo o, quantomeno, non sarebbe chiaro il convincimento
del giudice a quo su come il diritto di opzione potrebbe incidere sul diritto
dei cittadini.
D’altro canto – osserva l’Avvocatura generale dello
Stato – il voto per la lista sarebbe già ex se una preferenza espressa per il
capolista e sarebbe pertanto artificioso differenziare la posizione del
capolista da quella dei candidati in subordine.
Ricorda, quindi, la difesa erariale che la
possibilità per il candidato eletto in più collegi di optare liberamente è già
stata prevista nella previgente legislazione elettorale italiana.
La difesa statale prosegue, quindi, illustrando i
caratteri del sistema introdotto dalla legge n. 52 del 2015 e affermando come
esso sia pienamente conforme ai principi espressi dalla Corte costituzionale
nella sentenza
n. 1 del 2014, in quanto prevede candidature bloccate, ma consente anche di
esprimere preferenze; in quanto la possibilità di candidarsi in più collegi è
numericamente limitata, e, infine, perché la ridotta dimensione dei collegi
rende individuabili e conoscibili i candidati da parte degli elettori. In
particolare, la presenza di capilista bloccati e la possibilità di selezione di
candidati eventuali sarebbero il frutto del bilanciamento tra l’esigenza di
garantire il diritto di scelta degli elettori e quella che le elezioni
esprimano forze adeguatamente rappresentative e consentano la costituzione di
maggioranze sufficientemente stabili.
Né si potrebbe dubitare – secondo l’Avvocatura
generale dello Stato – che la facoltà attribuita alle forze politiche di
scegliere la posizione in lista di un determinato candidato possa pregiudicare
la libera scelta che si esplica nel momento del voto: è sul punto richiamata la
sentenza n. 203
del 1975, con cui la Corte costituzionale ritenne non fondata una questione
di costituzionalità avente ad oggetto la norma che consente ai partiti di
scegliere l’ordine dei candidati in lista. Tale ricostruzione non solo non
sarebbe stata smentita dalla più volte citata sentenza della Corte
costituzionale n. 1 del 2014, ma troverebbe conferma nella giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, nella sentenza Saccomanno e altri
c. Italia del 13 marzo 2012, avrebbe affermato che le liste bloccate, pur
determinando una costrizione degli elettori nella scelta dei candidati,
sarebbero giustificate in considerazione del ruolo dei partiti politici nella
vita dei Paesi democratici. Il giudice a quo non avrebbe invece considerato il
ruolo che, in ogni sistema democratico contemporaneo, spetta ai partiti
nell’indicazione del candidato, il quale, in ogni collegio, «rappresenta la
personificazione e il volto della piattaforma programmatica di una determinata
lista». Tale regola, «indefettibile in ogni sistema maggioritario di collegio
ma a maggior ragione anche nei sistemi elettorali basati sullo scrutinio di
lista», sarebbe la conseguenza del ruolo che l’art. 49 Cost. assegna ai partiti
politici.
L’Avvocatura generale dello Stato conclude, quindi,
menzionando la sentenza
n. 104 del 2006, nella quale la Corte costituzionale avrebbe affermato che
il diritto di optare per una delle circoscrizioni in cui il candidato è
risultato eletto sarebbe l’«esplicazione del diritto di elettorato passivo»; la
sentenza n. 1
del 2014, nella quale la Corte costituzionale avrebbe affermato che la
scelta del sistema elettorale è l’ambito nel quale si esprime con un massimo di
evidenza la politicità della scelta legislativa; e la sentenza n. 43 del
1961, nella quale sarebbe stato affermato che l’eguaglianza del voto non si
estende al risultato concreto della manifestazione della volontà dell’elettore.
10.– Alcune delle parti del giudizio principale si
sono costituite con atto depositato il 29 luglio 2016, chiedendo l’accoglimento
delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario
di Torino.
10.1.– Con riferimento alla prima questione, con cui
il rimettente censura le disposizioni che prevedono l’attribuzione di un premio
di maggioranza all’esito di turno di ballottaggio tra le due liste più votate
al primo turno, le parti private premettono che «in nessun ordinamento
democratico conosciuto, ad eccezione della Francia, esiste un turno di
ballottaggio per determinare la composizione di un organo legislativo»; che i
correttivi adottati in alcuni ordinamenti (quali le soglie di sbarramento e la
ridotta dimensione dei collegi) non sono in grado di garantire con certezza che
un partito ottenga la maggioranza assoluta dei seggi; che nel solo Stato – la
Grecia – che prevede un premio di maggioranza al primo partito, questo è
costituito da un numero fisso di seggi; che l’unico ordinamento in cui è stato
adottato un sistema misto a prevalenza maggioritaria con meccanismi che possono
attribuire una maggioranza abnorme al primo partito è l’Ungheria, «“forse” non
un modello da imitare»; che su tredici ordinamenti con sistema parlamentare
bicamerale, ben dieci hanno un sistema proporzionale e due (Regno Unito e
Francia) un sistema maggioritario a uno o a due turni in collegi uninominali:
che, dunque, con il sistema introdotto dalla legge n. 52 del 2015, l’Italia
sarebbe l’unico Stato ad avere un sistema elettorale con premio di maggioranza,
doppio turno di lista e attribuzione certa di una maggioranza più che assoluta
dei seggi ad un solo partito. Secondo le parti private, già questo profilo
costituirebbe un autonomo vizio di illegittimità costituzionale delle
disposizioni in esame.
Le parti rilevano, quindi, che le disposizioni
censurate sacrificherebbero eccessivamente, all’obbiettivo della governabilità,
il principio di rappresentanza democratica e, di conseguenza, il diritto al
voto eguale, personale e diretto, in quanto il ballottaggio consegnerebbe alla
lista vincente «un “premio” di entità abnorme ed inversamente proporzionale
all’entità del consenso ricevuto», a prescindere da un qualsiasi quorum minimo
di voti validi per essere ammessi al ballottaggio e senza alcun riferimento
alla percentuale dei votanti rispetto agli aventi diritto (confrontando, sul
punto, le disposizioni censurate con il sistema elettorale previsto
nell’ordinamento francese).
Osservano che le disposizioni censurate violerebbero
gli evocati principi costituzionali anche perché l’introduzione di un premio di
maggioranza attribuibile al secondo turno di ballottaggio, a prescindere dal
raggiungimento di un qualsiasi quorum di voti validi, determinerebbe «di per sé
la trasformazione dell’impianto della legge da proporzionale a maggioritario».
Ritengono, inoltre, che l’assegnazione del premio di
maggioranza all’esito del turno di ballottaggio determinerebbe una distorsione
della volontà della maggioranza degli elettori, i quali avrebbero deciso, al
primo turno, di non assegnare il premio di maggioranza a nessuna lista, nonché
una lesione dell’eguaglianza del voto, in quanto il voto dei cittadini che
abbiano scelto la minoranza più forte (alla quale sarebbe attribuito il premio
di maggioranza) varrebbe fino a due o tre volte in più del voto dei cittadini
che avessero votato altre liste.
Per le ragioni evidenziate, le parti private
ritengono che i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del
2014 risulterebbero applicabili anche alle norme censurate, osservando, peraltro,
che il ballottaggio di lista, contestuale al divieto di coalizioni o accordi di
desistenza ed alla presenza al primo turno delle soglie di accesso,
aggraverebbe ulteriormente l’effetto distorsivo del meccanismo di
trasformazione dei voti in seggi.
10.2.– In relazione alla seconda censura, avente ad
oggetto l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come
modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, nella parte in
cui consente ai candidati capilista che siano eletti in più collegi di optare
senza alcun vincolo per il collegio nel quale vogliono essere eletti, le parti
private osservano che riservare «ad una élite politica», ossia ai capilista, la
duplice facoltà di candidarsi fino ad un massimo di dieci collegi e quella di
poter optare, ad elezione avvenuta con successo, per un collegio piuttosto che
per un altro, determinerebbe «un pesantissimo condizionamento» per l’elezione
dei candidati che seguono nella lista, i quali sono destinatari dei voti di
preferenza. La disposizione censurata avrebbe introdotto una regola ormai
superata da tutti gli altri ordinamenti democratici e rispetto ai quali la
dottrina avrebbe ravvisato elementi di illegittimità costituzionale, proprio in
quanto non sarebbero gli elettori a scegliere i candidati, ma i candidati
capilista.
11.– Hanno spiegato intervento ad adiuvandum F.C.B., A.I. e G.S., con atto depositato il 1°
agosto 2016; C.T., A.B., E.Z., con atto depositato il 4 agosto 2016; S.M. con
atto depositato il 5 agosto 2016; F.D.M. e M.S., con atto depositato il 9
agosto 2016; V.P., con atto depositato il 9 agosto 2016; E.P. e N.R., con atto
depositato il 9 agosto 2016, assumendo tutti di essere ricorrenti in giudizi
analoghi a quello pendente di fronte al Tribunale ordinario di Messina (reg.
ord. n. 69 del 2016).
12.– In data 13 settembre 2016 – in vista
dell’udienza pubblica del 4 ottobre 2016, poi rinviata – l’Avvocatura generale
dello Stato ha depositato una memoria per il Presidente del Consiglio dei
ministri, in cui ribadisce le conclusioni rassegnate nell’atto di intervento.
13.– In data 12 settembre 2016, F.C.B. e A.I. hanno
depositato una memoria in cui, in ordine alla loro legittimazione ad
intervenire nel giudizio costituzionale, affermano di essere «soggetti titolari
di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale
dedotto in giudizio, cioè l’accertamento del loro diritto di votare in
conformità alla Costituzione […], al pari dei ricorrenti nel giudizio a quo».
Essi ritengono, infatti, di vantare una posizione giuridica qualificata in
rapporto alla questione oggetto del giudizio di costituzionalità in quanto
cittadini elettori. Sottolineano, inoltre, di essere ricorrenti in giudizio
analogo a quello dal quale hanno avuto origine le questioni di legittimità
costituzionale promosse dal Tribunale ordinario di Torino.
In data 13 settembre 2016, C.T., A.B. e E.Z. hanno
depositato una memoria in cui, tra l’altro, argomentano in ordine
all’ammissibilità del loro intervento. Essi osservano che la loro posizione
sarebbe identica a quella degli attori del giudizio a quo, in quanto «tutti
titolari dello stesso diritto fondamentale che li accompagna in qualunque
momento e li accomuna nella stessa identica posizione giuridica». Ripercorrendo
la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di ammissibilità degli
interventi di terzi nel giudizio costituzionale, essi ritengono che non
sarebbero conferenti le pronunce con le quali è stato negato l’intervento di
soggetti che erano parti in giudizi analoghi a quello in cui la questione era stata
sollevata: nel caso di specie, infatti, il giudizio pendente di fronte ad altro
tribunale non sarebbe analogo, bensì identico per petitum
e causa petendi.
Sempre in data 13 settembre 2016, anche V.P. ha
depositato memoria in cui, in ordine alla propria legittimazione ad intervenire
nel giudizio di costituzionalità, ritiene che sussistano le condizioni
richieste dalla giurisprudenza costituzionale e, in particolare, osserva che la
decisione della Corte costituzionale sarebbe idonea ad incidere direttamente
sulla possibilità di esercitare il proprio diritto di voto in modo conforme ai
principi costituzionali.
In data 23 dicembre 2016, S.M. ha depositato una
memoria in cui chiede alla Corte costituzionale che il proprio intervento sia
dichiarato ammissibile, in quanto titolare di un interesse qualificato,
immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, cioè
l’accertamento del diritto di votare in conformità alla Costituzione, al pari
dei ricorrenti nel giudizio a quo.
14.– In data 15 settembre 2016 hanno chiesto di
intervenire, fuori termine, L.A. e altri quarantadue, depositando atto privo di
procura. Tra costoro F.D.M. e M.S. (peraltro già tempestivamente intervenuti
nel medesimo giudizio) sono avvocati cassazionisti.
15.– In vista dell’udienza pubblica del 24 gennaio
2017, le parti del giudizio a quo hanno depositato, in data 28 dicembre 2016,
una memoria in cui ribadiscono, approfondendoli, gli argomenti già illustrati
nell’atto di costituzione a sostegno della fondatezza delle censure sollevate
dal Tribunale ordinario di Torino.
Esse, inoltre, argomentano in ordine
all’ammissibilità di tutte le questioni, in quanto sussisterebbe, a loro
avviso, sia l’interesse ad agire nel giudizio a quo, sia una diversità di petitum tra il giudizio principale e quello di
costituzionalità.
In ordine alla seconda delle censure sollevate dal
rimettente, esse suggeriscono alla Corte costituzionale di valutare, più
radicalmente, la compatibilità a Costituzione delle disposizioni che consentono
candidature bloccate in più collegi. In subordine, rispetto alla più
circoscritta censura sollevata dal Tribunale di Torino, esse contestano
l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato, ritenendo
che sia possibile individuare un’addizione a rime costituzionalmente obbligate:
a loro avviso, la Corte costituzionale non potrebbe far altro che dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R.
n. 361 del 1957 nella parte in cui non prevede che il capolista eletto in più
collegi debba «optare per la nomina nel collegio nel quale il secondo degli
eletti o il primo dei non eletti abbiano, in proporzione, conseguito il minor
numero di voti».
16.– Con atto di intervento depositato in data 3
gennaio 2017, il Codacons, in persona del suo legale rappresentante G.U., e
quest’ultimo, «in proprio nella qualità di elettore», hanno chiesto di
intervenire – oltre che nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 69 del 2016 –
anche nel giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di Torino. Tali soggetti
hanno poi depositato, in data 13 gennaio 2017, dunque fuori termine, ulteriore
memoria.
17.– Con ordinanza del 6 settembre 2016 (reg. ord.
n. 192 del 2016), il Tribunale ordinario di Perugia, seconda sezione civile, ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera
f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R.
n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del
2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma,
3 e 48, secondo comma, Cost.;
e dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come
modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione
degli artt. 1,
secondo comma, 3
e 48, secondo comma,
Cost.
17.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato
a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis cod.
proc. civ. da alcuni cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali della
Regione Umbria, i quali hanno convenuto in giudizio il Presidente del Consiglio
dei ministri e il Ministro dell’interno, chiedendo che sia accertata la lesione
del loro diritto di voto, per come costituzionalmente garantito, in conseguenza
dell’approvazione della legge n. 52 del 2015.
17.2.– In via preliminare, il rimettente motiva in
ordine alla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, in particolare
affermando che – poiché l’esercizio del diritto di voto secondo modalità
conformi alle previsioni costituzionali costituisce un diritto inviolabile e
permanente dei cittadini, i quali possono essere sempre chiamati ad esercitarlo
in qualunque momento e devono poterlo esercitare in modo conforme a
Costituzione – sarebbe «irrilevante il fatto che non si siano ancora svolte le
elezioni con la legge elettorale che determinerebbe la lesione del diritto di
voto», così come sarebbe irrilevante anche il fatto che non siano stati
convocati i comizi elettorali relativamente ad elezioni da svolgersi applicando
la nuova legge elettorale. D’altro canto – osserva il rimettente – ove le
questioni di legittimità costituzionale potessero essere sollevate solo
successivamente alla convocazione dei comizi elettorali, si rischierebbe di
pregiudicare ogni concreta e tempestiva possibilità di tutela.
Sarebbe inoltre irrilevante – secondo il giudice a
quo – anche la circostanza che la domanda di accertamento della lesione del
diritto di voto sia antecedente alla data a partire dalla quale le disposizioni
censurate potranno avere applicazione, dal momento che esse sono già in vigore.
Osserva, quindi, il rimettente come non possa
ritenersi che la domanda di accertamento sia stata proposta al solo fine di
sollecitare il giudizio della Corte costituzionale, dal momento che, ai fini
della proponibilità delle azioni di mero accertamento, è sufficiente
l’esistenza di uno stato di dubbio o incertezza oggettiva sull’esatta portata
dei diritti ed obblighi scaturenti da un rapporto giuridico di fonte negoziale
o legale, in quanto tale idoneo a provocare un ingiusto pregiudizio non
evitabile se non attraverso il richiesto accertamento (è sul punto richiamata
la sentenza
della Corte costituzionale n. 1 del 2014).
17.3.– Il rimettente argomenta, quindi, in ordine
alla sussistenza del requisito della rilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate rispetto alla controversia instaurata dai ricorrenti,
affermando che la definizione delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate risulta pregiudiziale all’accertamento del diritto dei ricorrenti.
Osserva, inoltre, come non vi sia coincidenza tra
l’oggetto del giudizio di merito e quello del giudizio di costituzionalità,
poiché spetta al giudice ordinario accertare l’avvenuta lesione del diritto
azionato e, in caso di accoglimento delle questioni sollevate, ripristinare
tale diritto, seppure per il tramite della sentenza costituzionale (sono
richiamate l’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 21
marzo - 17 maggio 2013, n. 12060, e la sentenza della
Corte costituzionale n. 59 del 1957).
17.4.– Nel merito, il giudice a quo, dopo aver ampiamente
illustrato le ragioni per le quali ritiene di non condividere larga parte delle
doglianze prospettate dalle parti, solleva due questioni di legittimità
costituzionale.
La prima questione di legittimità costituzionale
investe l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e l’art. 83,
comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito
dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt.
1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
Il rimettente, dopo aver affermato che il sistema
elettorale, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa,
è censurabile di fronte alla Corte costituzionale quando il bilanciamento degli
interessi costituzionalmente rilevanti sia stato realizzato con modalità tali
da determinare il sacrificio o la compressione di essi in maniera eccessiva,
assume che le disposizioni censurate, nel garantire il premio di maggioranza
alla lista che risulti vincitrice nel ballottaggio tra le due liste più votate,
«senza prevedere alcuna soglia di voti minima ed escludendo ogni forma di
collegamento o apparentamento tra list[e]», violerebbero i ricordati principi
costituzionali. Tale meccanismo, infatti, sacrificherebbe eccessivamente il
principio della rappresentatività e, quindi, dell’eguaglianza del voto rispetto
al principio della governabilità.
17.5.– Il rimettente solleva, inoltre, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n.
361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del
2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
Dopo aver spiegato le ragioni per le quali ritiene
di non condividere i dubbi di legittimità costituzionale – pure prospettati
dalle parti – aventi ad oggetto le disposizioni che prevedono che le liste
siano formate da capilista bloccati e che consentono a costoro di candidarsi in
più collegi, il giudice a quo censura, invece, l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dalla legge n. 52
del 2015, il quale consente al capolista che sia stato eletto in più collegi di
scegliere il collegio in cui essere proclamato eletto, senza alcun criterio
oggettivo rispettoso, nel massimo grado possibile, della volontà espressa dagli
elettori. La possibilità concessa al capolista di optare senza limiti, potendo
determinare l’esclusione o l’elezione di altri candidati maggiormente votati in
altre circoscrizioni, finirebbe per privare gli elettori della possibilità di
scegliere il proprio candidato con le preferenze.
Il rimettente dubita altresì della ragionevolezza
dell’intero sistema, in quanto il principio della governabilità, già garantito
dal sistema delle candidature multiple, finirebbe, in questa ipotesi, per
sacrificare eccessivamente il diritto di scelta del candidato da parte degli elettori
e, quindi, il suo diritto di voto.
18.– In data 31 ottobre 2016 è intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, la quale, producendo memoria analoga a
quella depositata per il giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di Torino
(reg. ord. n. 163 del 2016), chiede che entrambe le questioni siano
preliminarmente dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza, a causa
dell’assenza di interesse ad agire delle parti, determinata dal fatto che le
disposizioni censurate non hanno mai avuto applicazione. Ritiene, quindi, che
le questioni, anche isolatamente esaminate, siano inammissibili o, comunque,
non fondate.
19.– In data 28 ottobre 2016 si sono costituite in
giudizio alcune delle parti del giudizio principale, chiedendo che le questioni
sollevate dal Tribunale ordinario di Perugia siano dichiarate ammissibili e
fondate. Esse chiedono, inoltre, alla Corte costituzionale di sollevare di
fronte a se stessa questioni di legittimità costituzionale dell’intera legge n.
52 del 2015 e, in particolare, degli artt. 1, 2 e 4, poiché tale legge sarebbe
stata approvata, prima al Senato e poi alla Camera, in violazione dell’art. 72,
primo e quarto comma, Cost.
Le parti ricordano che identica censura era stata
proposta nel giudizio principale, ma che il giudice a quo l’aveva ritenuta
manifestamente infondata.
Gli argomenti addotti sono ribaditi e approfonditi
nella memoria del 3 gennaio 2017, depositata in vista dell’udienza pubblica del
24 gennaio 2017.
In particolare, in tale memoria si ribadisce la
richiesta alla Corte costituzionale di sollevare di fronte a se stessa
questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 4 della legge n. 52
del 2015 per violazione dell’art. 72, secondo e quarto comma, Cost. A tal fine
si ricorda che, alla Camera, tali articoli sono stati approvati con voto di
fiducia, mentre al Senato l’esame in commissione sarebbe stato compresso e, in
Assemblea, sarebbe stato approvato un emendamento con cui è stato inserito nel
testo della legge una sorta di preambolo riassuntivo dei caratteri essenziali
della legge elettorale, così da determinare l’inammissibilità degli ulteriori
emendamenti che erano stati presentati.
20.– Con ordinanza del 5 ottobre 2016 (reg. ord. n.
265 del 2016) il Tribunale ordinario di Trieste, ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52
del 2015 e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361
del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015,
per violazione degli artt.
1, secondo comma, 3
e 48, secondo comma,
Cost.; e dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957,
come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per
violazione degli artt.
1, secondo comma, 3
e 48, secondo comma,
Cost.
20.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato
a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis cod.
proc. civ. da alcuni cittadini italiani friulanofoni
iscritti nelle liste elettorali, i quali, convenendo in giudizio il Presidente
del Consiglio dei ministri e il Ministro dell’interno, chiedono che sia accertata
la lesione del loro diritto di voto, per come costituzionalmente garantito, in
conseguenza dell’approvazione della legge n. 52 del 2015, applicabile in
occasione delle prime elezioni successive alla data di entrata in vigore di
tale legge.
Preliminarmente, il rimettente ritiene che sussista
l’interesse ad agire dei ricorrenti, poiché la legge n. 52 del 2015 è
applicabile a partire dal 1° luglio 2016 e, una volta emesso il decreto di
convocazione dei comizi elettorali, non vi sarebbe più alcuna tutela effettiva
per l’elettore.
Ritiene, inoltre, che le questioni sollevate siano
rilevanti, in quanto è individuabile un giudizio separato e distinto dalle
questioni di legittimità costituzionale sul quale egli è chiamato a
pronunciarsi (sul punto richiama le sentenze della
Corte costituzionale n. 59 del 1957, n. 4 del 2000 e
n. 1 del 2014).
20.2.– Dopo aver illustrato le ragioni per le quali
ritiene di non condividere larga parte dei dubbi di legittimità costituzionale
prospettati dalle parti, il giudice a quo solleva due questioni di legittimità
costituzionale.
La prima questione ha ad oggetto l’art. 1, comma 1,
lettera f), della legge n. 52 del 2015 e l’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostitutito
dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, ossia le disposizioni che
prevedono che, nel turno di ballottaggio, il premio di maggioranza sia
attribuito sulla base dei voti validamente espressi.
Dopo aver affermato che la Corte costituzionale,
nella sentenza
n. 1 del 2014, avrebbe «ravvisato la necessità di individuare un limite per
la legittima attribuzione del premio di maggioranza, dal quale il legislatore
non può prescindere in sede di adozione di una legge elettorale», il rimettente
ritiene che le disposizioni censurate, escludendo meccanismi che garantiscano
una adeguata espansione della componente rappresentativa del voto – in
particolare, vietando il collegamento o l’apparentamento tra liste al turno di
ballottaggio; escludendo la possibilità di esprimere preferenze; conteggiando
solo i voti validi espressi in questo turno e ammettendo al ballottaggio le due
sole liste più votate, purché abbiano ottenuto il 3 per cento dei voti validi
al primo turno – si pongano in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3 e
48, secondo comma, della Costituzione, «là dove essi evidenziano […] che
l’attuale sistema, privo di correttivi, pone il concreto rischio che il premio
venga attribuito a una formazione che è priva di adeguata rappresentatività nel
corpo elettorale».
20.3.– Con una seconda questione di legittimità
costituzionale, il giudice a quo chiede alla Corte costituzionale di dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R.
n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del
2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, della
Costituzione.
Il rimettente ricorda che la disposizione censurata
consente al candidato capolista in più collegi, e che sia stato poi eletto in
più collegi, di optare, senza alcun tipo di vincolo, per un collegio piuttosto
che per un altro. Egli assume che tale libera scelta del candidato capolista
sia suscettibile di annullare il voto di preferenza degli elettori nel collegio
optato dal capolista, consentendo, ad esempio, che il candidato che abbia
ricevuto molte preferenze (addirittura il più votato in assoluto) sia superato
da uno o più candidati di altri collegi con meno preferenze. Tale scelta
legislativa – secondo il rimettente – non potrebbe neppure essere giustificata
dall’esigenza di governabilità, «perché l’esclusione di un candidato non
condizionata dal numero di voti di preferenza ottenuti è del tutto irrazionale
e contraria al principio della rappresentatività».
21.– Con atto depositato il 3 gennaio 2017, è
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
L’atto di intervento contiene argomenti analoghi a
quelli già rappresentati nei giudizi instaurati dall’ordinanza del Tribunale
ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del 2016) e dall’ordinanza del Tribunale
ordinario di Perugia (reg. ord. n. 192 del 2016).
L’Avvocatura generale dello Stato chiede, dunque, in
via preliminare, che entrambe le questioni sollevate siano dichiarate
inammissibili per difetto di rilevanza e, in subordine, eccepisce
l’inammissibilità o, comunque, la non fondatezza delle singole censure.
Con riferimento alla prima questione sollevata dal
Tribunale ordinario di Trieste, avente ad oggetto le disposizioni che regolano
il turno di ballottaggio, l’Avvocatura generale dello Stato aggiunge che
l’accoglimento «renderebbe la legge elettorale incapace di funzionare». Poiché
il sistema elettorale definito dalla legge n. 52 del 2015 è concepito «per
essere in ogni caso majority assuring»,
esso non prevederebbe un’alternativa al secondo turno, nel caso in cui una
lista, al primo turno, non raccolga almeno il 40 per cento dei voti ed abbia
conseguito (senza premio) almeno 340 seggi.
22.– Con atto depositato il 22 dicembre 2016, si
sono costituite le parti del giudizio a quo, chiedendo che siano dichiarate
ammissibili e, quindi, accolte entrambe le questioni sollevate dal Tribunale
ordinario di Trieste.
Esse premettono, inoltre, che la legge n. 52 del 2015
(e, in particolare, gli artt. 1, 2 e 4) sarebbe stata approvata in violazione
dell’art. 72, primo e
quarto comma, Cost., auspicando che la Corte costituzionale sollevi di
fronte a se stessa tali questioni.
In vista dell’udienza pubblica del 24 gennaio 2017,
le parti, il 12 gennaio 2017, hanno depositato una memoria in cui ribadiscono
gli argomenti già addotti nell’atto di costituzione, in ordine
all’ammissibilità e alla fondatezza di entrambe le censure sollevate dal
rimettente.
23.– Con atto depositato il 23 dicembre 2016, hanno
spiegato intervento ad adiuvandum C.T., A.B. e E.Z.,
assumendo di avere un interesse qualificato e diretto all’accoglimento delle
questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Trieste, in quanto parti di
analogo giudizio pendente dinnanzi alla Corte d’appello di Milano. I medesimi
soggetti, in data 30 dicembre 2016, hanno depositato una memoria in cui, tra
l’altro, argomentano in modo più ampio in ordine all’ammissibilità del loro
intervento nel giudizio di costituzionalità.
24.– In data 3 gennaio 2017 hanno depositato atto di
intervento il Codacons, in persona del suo legale rappresentante G.U., e
quest’ultimo «anche in proprio nella qualità di elettore avente diritto ad
esprimersi nelle consultazioni elettorali», adducendo, a sostegno della propria
legittimazione ad intervenire nel giudizio di fronte alla Corte costituzionale,
argomenti analoghi a quelli contenuti nell’atto di intervento nei giudizi
instaurati dai Tribunali ordinari di Messina e di Torino. Tali argomenti
relativi alla asserita legittimazione ad intervenire nel giudizio di
costituzionalità sono ribaditi nella memoria depositata il 13 gennaio 2017.
25.– Con ordinanza del 16 novembre 2016 (reg. ord.
n. 268 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52
del 2015 e degli artt. 1 e 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente novellati
dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma,
3 e 48, secondo comma, della
Costituzione; dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015
e degli artt. 1 e 83 del d.P.R. n. 361 del 1957, come
rispettivamente novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del
2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma,
3 e 48, secondo comma, Cost.;
dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, in relazione alle
parole «sono comunque attribuiti 340 seggi alla lista che ottiene, su base
nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi», e dell’art. 83, commi 1,
numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957,
come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per
violazione degli artt.
1, secondo comma, 3
e 48, secondo comma,
Cost.; dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli
artt. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2 e 5, e 83-bis, comma 1, numeri 1), 2), 3)
e 4), del d.P.R. n. 361 del 1957, come
rispettivamente sostituiti e aggiunti dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52
del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma,
3 e 48, secondo comma, Cost.;
dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come
modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione
degli artt. 1,
secondo comma, 3
e 48, secondo comma,
Cost.; dell’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361
del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015,
per violazione degli artt.
1, secondo comma, 3
e 48, secondo comma,
Cost.
25.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato
a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis cod.
proc. civ. da alcuni cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali di
comuni ricompresi nel distretto della Corte d’appello di Genova, i quali,
convenendo in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro
dell’interno, chiedono che sia accertato il loro diritto di voto libero,
personale e diretto in conformità alla Costituzione e all’art. 3 del Protocollo
addizionale alla CEDU, e, di conseguenza, di dichiarare che l’applicazione
della legge n. 52 del 2015 pregiudicherebbe tale diritto.
Preliminarmente, il rimettente conferma la
sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, già motivata in una propria
precedente sentenza non definitiva, nonostante la legge n. 52 del 2015 sia
applicabile a partire dal 1° luglio 2016.
Ritiene, inoltre, che le questioni sollevate siano
rilevanti, in quanto sarebbe individuabile un giudizio separato e distinto
dalle questioni di legittimità costituzionale sul quale egli è chiamato a
pronunciarsi.
25.2.– Il giudice a quo solleva, quindi, sei
distinte questioni di legittimità costituzionale.
La prima censura investe l’art. 1, comma 1, lettera
f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 1 e 83, commi 1, numero 5) e 6), 2,
3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come
rispettivamente novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del
2015. Tali disposizioni prevedono che, al primo turno di votazione, sia
attribuito un premio di maggioranza pari a 340 seggi alla lista che ottiene, su
base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi.
Secondo il rimettente, in tale ipotesi, la
percentuale di distorsione del voto espresso a favore della lista vincitrice
sarebbe pari a 1,375, mentre il «voto “perdente”» risulterebbe avere un coefficiente
di sotto rappresentazione pari a 0,75. Egli suppone, inoltre, che, a fronte di
30 milioni di voti validi espressi, poiché il 40 per cento corrisponde a 12
milioni di voti, la lista vincente avrebbe diritto a un deputato ogni 35.294
voti, mentre il complesso delle forze di minoranza, che avrebbe ottenuto 18
milioni di voti, avrebbe un deputato ogni 64.748 voti. A fronte di «detta
evidente distorsione», valutata in concreto, il rimettente ritiene che le
disposizioni censurate si pongano in contrasto con gli artt. 1, secondo comma,
3 e 48, secondo comma, Cost., poiché, «non risultando neppure previsto alcun
rapporto fra i voti ottenuti rispetto non già ai voti validi ma al complesso
degli aventi diritto al voto», unitamente alla circostanza che è prevista una
soglia di sbarramento al 3 per cento, esse sovra-rappresenterebbero, in modo
sproporzionato e irragionevole, il voto a favore della lista vincitrice.
25.3.– Con la seconda questione il Tribunale
ordinario di Genova lamenta che l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n.
52 del 2015 e gli artt. 1 e 83 del d.P.R. n. 361 del
1957 – come novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015 –
prevedendo che, in caso di mancato conseguimento del premio di maggioranza al
primo turno di votazione, tale premio sia attribuito in seguito ad un turno di
ballottaggio a cui accedono le due liste più votate, si pongano in contrasto
con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
Il giudice a quo ricorda, anzitutto, che il
legislatore, nel disciplinare l’attribuzione del premio di maggioranza, deve
contemperare ragionevolmente due contrapposti interessi di pari rilievo
costituzionale, ossia il principio di rappresentatività e il principio di
governabilità, e richiama, sul punto, quanto affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 1 del
2014.
Ritiene, quindi, che, con le disposizioni censurate,
il legislatore, limitandosi a prevedere che accedano al turno di ballottaggio
le due liste più votate, purché abbiano ottenuto almeno il 3 per cento dei voti
(ovvero il 20 per cento nel caso siano espressione di minoranze linguistiche),
abbia, da un lato, riconosciuto che esiste un problema di rappresentatività
delle liste ammesse al ballottaggio, dall’altro, però, abbia utilizzato le
soglie previste, in generale, dalla legge elettorale per scoraggiare una
eccessiva «polverizzazione» del voto.
Inoltre, nel valutare l’effettiva forza
rappresentativa del 50 per cento più uno dei voti espressi al ballottaggio, il
rimettente ritiene che si debba considerare che tale maggioranza è calcolata
sui voti validi espressi, circostanza che non darebbe «alcun rilievo al peso
dell’astensione».
Il giudice a quo, infine, ricordando che il legislatore
ha esplicitamente vietato – per il turno di ballottaggio – apparentamenti o
coalizioni tra liste, ritiene che tale scelta, «evidentemente espressione di un
favore per la governabilità», sarebbe irrazionale, in quanto il voto espresso
al turno di ballottaggio sacrificherebbe eccessivamente il valore della
rappresentatività.
In conclusione, il Tribunale ordinario di Genova
assume che, «[s]enza l’adozione di meccanismi che
garantiscano una adeguata espansione della componente rappresentativa del voto
(ovvero senza l’eliminazione del divieto di cui si è detto), l’attribuzione del
premio di maggioranza alla sola lista che, all’esito del ballottaggio, si
aggiudichi il premio di maggioranza finisce per essere svincolata dalla
esistenza di parametri oggettivi che consentano di affermare che la lista
vincitrice ha ottenuto quella “ragionevole soglia di voti minima” in presenza
della quale è possibile la legittima attribuzione del premio di maggioranza» e,
per tali ragioni, chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale delle
disposizioni censurate per violazione degli evocati parametri costituzionali.
25.4.– Il giudice a quo solleva, inoltre, questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n.
52 del 2015, in relazione alle parole «sono comunque attribuiti 340 seggi alla
lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi»,
e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R.
n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del
2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
A suo avviso, tali disposizioni devono essere
interpretate nel senso che il premio di maggioranza di 340 seggi è assegnato
alla lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti validi, anche nel caso
in cui siano due le liste che ottengono, al primo turno, il 40 per cento dei
voti. Egli ritiene, però, che – in assenza dei lamentati correttivi individuati
nella prima delle questioni sollevate (calcolo delle percentuali sui votanti,
anziché sugli aventi diritto, e presenza di una soglia di sbarramento al 3 per
cento) – tale soluzione comprimerebbe in modo sproporzionato e irragionevole il
voto degli elettori della lista che, pur avendo ottenuto al primo turno il 40
per cento dei voti, sia risultata seconda.
25.5.– Un’ulteriore questione ha ad oggetto l’art.
1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, e gli artt. 83, commi 1,
numeri 5) e 6), 2 e 5, e 83-bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente modificati e
aggiunti dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, ancora per asserita
violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
Il rimettente, assumendo che tali disposizioni
imporrebbero di procedere ad un turno di ballottaggio anche nel caso in cui una
lista abbia ottenuto, al primo turno, 340 seggi, ma non anche il 40 per cento
dei voti, ritiene che tale soluzione sarebbe contraddittoria «rispetto allo
scopo proclamato dallo stesso legislatore».
25.6.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva
questione di legittimità costituzionale anche dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma
27, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3
e 48, secondo comma, Cost.
Egli premette di ritenere manifestamente infondati i
dubbi di legittimità costituzionale prospettati dalle parti in ordine alle
disposizioni che consentono solo ad alcune categorie di candidati – i capilista
– di essere presentati in più collegi e che sottraggono solo costoro al voto di
preferenza.
Ritiene, invece, che si ponga in contrasto con i
ricordati parametri costituzionali l’art. 85 del d.P.R.
n. 361 del 1957, in quanto consente al capolista eletto in più collegi di operare
la scelta del collegio in cui essere proclamato tale senza alcun tipo di
vincolo.
A suo avviso, rientrerebbe nella libertà di voto
anche la tutela della legittima aspettativa dell’elettore di influire, con
l’espressione della propria preferenza, sulla effettiva elezione del candidato
prescelto. Tale libertà sarebbe pregiudicata dall’assenza di qualsiasi criterio
cui il capolista sia vincolato nella scelta del collegio, in quanto l’elettore
non potrebbe effettuare valutazioni prognostiche sulla «utilità» del suo voto
di preferenza, dato in favore di un candidato che faccia parte di una lista con
capolista candidato anche in altri collegi.
25.7.– Un’ultima questione di legittimità costituzionale
è sollevata dal Tribunale ordinario di Genova avverso l’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma
25, della legge n. 52 del 2015, in quanto tali disposizioni prevederebbero
che, nella sola Regione Trentino-Alto Adige, possano essere assegnati tre seggi
di recupero proporzionale ad una lista non apparentata con alcuna lista
nazionale o espressione della minoranza linguistica vincitrice in tale Regione.
Il giudice a quo lamenta una lesione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48,
secondo comma, Cost.
Ad avviso del rimettente le disposizioni impugnate
determinerebbero «una violazione nella rappresentatività della minoranza
nazionale, rispetto alla minoranza linguistica assegnataria dei tre seggi di
recupero proporzionale».
Tali conseguenze lesive, ad avviso del giudice a
quo, costituirebbero un ulteriore effetto indiretto del meccanismo del doppio
turno di votazione, «posto che il recupero proporzionale potenzialmente lesivo
delle liste di minoranza nazionali è necessario per via della istituzione degli
otto collegi uninominali che vengono assegnati fin dal primo turno, senza che
il ballottaggio possa incidervi».
Il rimettente ritiene, inoltre, che, in caso di
mancato apparentamento della lista di minoranza con liste nazionali o con la
lista vincitrice nella Regione Trentino-Alto Adige, si verificherebbe
«un’incidenza del voto in uscita di gran lunga superiore al corrispettivo voto
reso dagli elettori nei confronti di una lista nazionale di minoranza».
26.– In data 3 gennaio 2017 è intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato.
26.1.– Quest’ultima chiede, in primo luogo, che
tutte le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Genova siano dichiarate
inammissibili, con argomenti analoghi a quelli già rappresentati nei giudizi
instaurati dalle ordinanze del Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163
del 2016), del Tribunale ordinario di Perugia (reg. ord. n. 192 del 2016) e del
Tribunale ordinario di Trieste (reg. ord. n. 265 del 2016).
26.2.– Con riferimento alle prime due censure – con
le quali il rimettente chiede alla Corte costituzionale di valutare la
compatibilità, rispetto ai principi costituzionali evocati, delle disposizioni
che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza, al primo turno, alla
lista che ottiene almeno il 40 per cento dei voti, o, al secondo turno, a chi
vince il ballottaggio – l’Avvocatura generale dello Stato adduce, a sostegno
della non fondatezza, argomenti analoghi a quelli rappresentati nelle memorie
depositate nei giudizi instaurati dal Tribunale ordinario di Messina (reg. ord.
n. 69 del 2016), dal Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del 2016),
dal Tribunale ordinario di Perugia (reg. ord. n. 192 del 2016) e dal Tribunale
ordinario di Trieste (reg. ord. n. 265 del 2016).
26.3.– In relazione alla terza questione sollevata
dal Tribunale ordinario di Genova – nella quale si contesta la possibilità che
sia assegnato il premio di maggioranza anche nel caso in cui due liste
ottengano, al primo turno, il 40 per cento dei voti validi – l’Avvocatura
generale dello Stato eccepisce, preliminarmente, che la censura sarebbe
inammissibile perché priva di adeguata motivazione: in particolare, il giudice
non spiegherebbe le ragioni per le quali si possa determinare un’illegittima
compressione del diritto di voto degli elettori che optano per una lista
seconda classificata, ove vi sia una lista diversa che abbia ottenuto più voti
e maturato, quindi, il diritto a conseguire il premio di maggioranza.
Nel merito, la censura sarebbe – secondo
l’Avvocatura generale dello Stato – non fondata. Anzitutto, la tesi del
rimettente sarebbe idonea a «colpire indistintamente» qualsiasi tipo di sistema
elettorale majority assuring,
e a impedire l’adozione di qualsiasi correttivo ad un sistema proporzionale: in
nessun sistema che preveda il ballottaggio è stabilito che l’effetto
maggioritario si produca solo con la realizzazione di un determinato «scarto»
di voti tra la prima e la seconda lista. In secondo luogo, non si
comprenderebbe per quale ragione, nel caso di specie, vi sarebbe una
particolare compressione del diritto di voto diretto. Né, infine, potrebbe
accedersi alla soluzione prospettata dal rimettente, il quale propone
l’eliminazione del premio di maggioranza nell’ipotesi in cui due liste superino
la soglia del 40 per cento dei voti: così operando, verrebbe illegittimamente
frustrato il diritto di voto degli elettori che hanno optato per una lista
risultata vincitrice, la quale potrebbe vantare un diritto all’assegnazione del
premio anzidetto.
26.4.– In relazione alla quarta questione sollevata
dal Tribunale ordinario di Genova, avente ad oggetto l’ipotesi in cui una lista
ottenga, all’esito del primo turno, 340 seggi, ma non raggiunga anche il 40 per
cento dei voti validi, l’Avvocatura generale dello Stato ne eccepisce anzitutto
l’inammissibilità, poiché l’interpretazione fornita dal rimettente sarebbe
«artificiosa e disancorata dal dato normativo». Il tenore letterale delle
disposizioni censurate deporrebbe, invero, nel senso dell’esclusione del turno
di ballottaggio nel caso in cui una lista abbia ottenuto 340 seggi, ma non
anche il 40 per cento dei voti. L’Avvocatura generale dello Stato, dopo aver
ricordato il contenuto del novellato art. 83, comma 1, numeri 5), 6) e 7), del d.P.R. n. 361 del 1957, osserva come, presumibilmente, il
rimettente legga le disposizioni enumerate all’art. 83, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, «come un elenco assolutamente sequenziale
con progressivo restringimento della fattispecie considerata a partire dalla
disposizione contenuta nel numero 5)», mentre il turno di ballottaggio sarebbe
indetto nel caso in cui si sommino due verifiche negative, ossia che nessuna
lista abbia raggiunto il 40 per cento dei voti e non abbia conseguito almeno
340 seggi. Da ciò risulterebbe chiaro che, se una lista ottiene 340 seggi, ma
non anche il 40 per cento dei voti, non si procede al turno di ballottaggio.
Osserva, infine, l’Avvocatura generale dello Stato
che l’ipotesi presa in considerazione dal rimettente, «oltre a costituire un
caso limite (come lo definisce lo stesso giudicante) puramente ipotetico,
configurerebbe un caso di scuola erroneamente costruito»: anzitutto, il numero
dei seggi da attribuire sarebbe 606, e non 618, in quanto devono essere
sottratti i seggi spettanti alle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino - Alto
Adige; in secondo luogo, il caso ipotizzato potrebbe verificarsi solo a fronte
di «una frammentazione del voto assai cospicua» (secondo l’Avvocatura generale
dello Stato, solo nel caso in cui quasi dieci milioni di voti siano indirizzati
a liste che non superano la soglia del 3 per cento, pari a circa dieci partiti
che si fermano tutti al 2,9 per cento). Da qui, l’ulteriore eccezione di
inammissibilità di tale questione per la sua natura ipotetica e virtuale.
26.5.– Anche con riferimento alla quinta censura,
avente ad oggetto l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del
1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015,
l’Avvocatura generale dello Stato adduce, sia in punto di ammissibilità, sia
nel merito, argomenti analoghi a quelli contenuti negli atti di intervento nei
giudizi instaurati dal Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del
2016), dal Tribunale ordinario di Perugia (reg. ord. n. 192 del 2016) e dal
Tribunale ordinario di Trieste (reg. ord. n. 265 del 2016).
26.6.– Con riferimento, infine, all’ultima censura
sollevata dal Tribunale ordinario di Genova, il quale lamenta gli effetti
derivanti dal meccanismo di attribuzione dei seggi in Trentino-Alto Adige sulla
rappresentatività delle «minoranze nazionali», nel caso in cui quei seggi siano
assegnati ad una lista non apparentata con una lista nazionale o espressione
della minoranza linguistica, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce
plurime ragioni di inammissibilità.
Anzitutto, la censura sarebbe irrilevante, poiché
essa non potrebbe «che essere riferita ai soli altoatesini».
In secondo luogo, vi sarebbe una errata
individuazione dell’oggetto della censura, dal momento che le norme sospettate
di incostituzionalità non sarebbero contenute negli artt. 2, comma 25, della
legge n. 52 del 2015 e 83, comma 3, del d.P.R. n. 361
del 1957, bensì nell’art. 2, comma 32, della predetta legge n. 52 del 2015 e
nell’art. 93-bis del citato d.P.R. n. 361 del 1957.
Vi sarebbe, inoltre, un difetto di motivazione in
ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, poiché il
rimettente non avrebbe motivato in ordine alla nozione di «minoranza», e non
sarebbe, dunque, chiaro se l’effetto che egli lamenta derivi realmente dal
meccanismo che egli sinteticamente denuncia ovvero – come sarebbe se la
minoranza fosse una minoranza regionale – dalle disposizioni che prevedono il
cosiddetto “scorporo” per l’assegnazione, in ragione proporzionale, dei seggi
nella medesima Regione Trentino-Alto Adige.
27.– Con atto depositato il 29 dicembre 2016 si sono
costituite in giudizio alcune delle parti del giudizio a quo, chiedendo che la
Corte costituzionale dichiari ammissibili e, quindi, fondate tutte le questioni
sollevate dal Tribunale ordinario di Genova.
Il 13 gennaio 2017, in vista dell’udienza pubblica,
esse hanno depositato un’altra memoria, in cui adducono argomenti a favore
dell’ammissibilità di tutte le questioni sollevate, nonché della loro
fondatezza. In tale memoria esse, in particolare, insistono per l’accoglimento
delle questioni aventi ad oggetto le disposizioni che prevedono l’assegnazione
del premio di maggioranza, sia al primo turno, sia al turno di ballottaggio.
Inoltre, con riferimento alla censura avente ad oggetto il meccanismo di
assegnazione dei seggi nella Regione Trentino-Alto Adige, le parti osservano
che le disposizioni censurate determinerebbero una violazione, non del diritto
degli elettori di tale Regione, bensì di tutti gli altri elettori, i quali, a
causa del «privilegio» dei primi, rischierebbero di vedere ancora più ridotto
il numero degli eletti delle liste di minoranza, «con una ulteriore
enfatizzazione del meccanismo premiale».
Anche tali parti ripropongono dinnanzi alla Corte
costituzionale il primo motivo dell’atto introduttivo del giudizio a quo,
relativo alla procedura di approvazione della legge n. 52 del 2015, motivo
ritenuto dal Tribunale ordinario di Genova manifestamente infondato. Con
ampiezza di argomenti, sollecitano la Corte costituzionale a sollevare dinnanzi
a se stessa questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto l’intera
legge n. 52 del 2015, per asserita violazione dell’art. 72, quarto comma, Cost.
28.– Nel giudizio instaurato dal Tribunale ordinario
di Genova hanno spiegato intervento ad adiuvandum
C.T., A.B. e E.Z., con atto depositato il 23 dicembre 2016, e M.M. e altri
sette con atto depositato il 30 dicembre 2016.
Gli intervenienti C.T., A.B. e E.Z., in data 30
dicembre 2016, hanno anche depositato una memoria in vista dell’udienza
pubblica del 24 gennaio 2017.
In ordine alla loro legittimazione ad intervenire
nel giudizio, gli intervenienti hanno sottolineato di essere parti in giudizi
analoghi a quello da cui hanno avuto origine le questioni oggetto del giudizio
di costituzionalità, e di essere titolari dello stesso diritto fondamentale,
della cui portata è chiesto l’accertamento dinnanzi a diversi giudici.
Gli intervenienti M.M. e altri sette hanno argomentato,
in ordine alla propria legittimazione ad intervenire nel giudizio di fronte
alla Corte costituzionale, nella memoria depositata il 12 gennaio 2017, in
vista dell’udienza pubblica.
29.– Con atto di intervento depositato in data 3
gennaio 2017, il Codacons, in persona del suo legale rappresentante G.U., e
quest’ultimo, «in proprio nella qualità di elettore», hanno chiesto di
intervenire – oltre che nel giudizio reg. ord. n. 265 del 2016 – anche nel
giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di Genova. Sulla propria
legittimazione ad intervenire sono addotti argomenti nella memoria depositata
il 13 gennaio 2017.
Considerato
in diritto
1.– Le questioni di legittimità costituzionale
sollevate dai Tribunali ordinari di Messina (reg. org.
n. 69 del 2016), Torino (reg. org. n. 163 del 2016),
Perugia (reg. org. n. 192 del 2016), Trieste (reg. org. n. 265 del 2016) e Genova (reg. org.
n. 268 del 2016) hanno ad oggetto disposizioni che disciplinano l’elezione
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
In particolare, mentre le quattro ordinanze da
ultimo citate sottopongono a censura disposizioni del d.P.R.
30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme
per la elezione della Camera dei deputati), e della legge 6 maggio 2015, n. 52
(Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati), la sola
ordinanza del Tribunale ordinario di Messina coinvolge, oltre a queste ultime,
anche norme contenute nel decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo
unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica).
1.1.– Tra le plurime questioni di legittimità
costituzionale sollevate dai Tribunali ordinari menzionati, cinque hanno ad
oggetto le modalità di attribuzione del premio di maggioranza.
La prima di queste, sollevata dal solo Tribunale
ordinario di Messina, investe l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52
del 2015 e gli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come modificati
dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015.
Ad avviso del rimettente, le disposizioni censurate
violerebbero il principio di eguaglianza del voto garantito dall’art. 48,
secondo comma, Cost., secondo cui ciascun voto contribuisce «potenzialmente e
con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi». La lesione
deriverebbe dal fatto che esse delineano un sistema in cui: il premio di
maggioranza è attribuito, al primo turno, alla lista che ha ottenuto il 40 per
cento dei voti, calcolando tale percentuale sui votanti e non sugli aventi
diritto al voto; tale premio è attribuito anche all’esito di un ballottaggio
tra le due liste più votate; ed è contestualmente prevista una soglia di
sbarramento al 3 per cento, su base nazionale.
Nel dispositivo dell’ordinanza sono menzionati, come
parametri asseritamente violati, anche gli artt. 1,
primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 49, 51, primo comma, e 56,
primo comma, Cost., nonché l’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato
a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955,
n. 848.
Il Tribunale ordinario di Genova, per parte sua,
solleva tre questioni di legittimità costituzionale relative alle modalità di
attribuzione del premio di maggioranza al primo turno di votazione.
Una prima censura investe l’art. 1, comma 1, lettera
f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 1 e 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2,
3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come
rispettivamente novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del
2015. Ad avviso del rimettente, tali disposizioni, prevedendo che, al primo
turno di votazione, sia attribuito un premio di maggioranza pari a 340 seggi
alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti
validi, violerebbero gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
Secondo il rimettente, «non risultando neppure previsto alcun rapporto fra i
voti ottenuti rispetto non già ai voti validi ma al complesso degli aventi
diritto al voto», ed essendo contemporaneamente prevista una soglia di
sbarramento al 3 per cento, il voto espresso a favore della lista vincente
risulterebbe sovrarappresentato, in modo
sproporzionato e irragionevole.
Il Tribunale ordinario di Genova solleva, inoltre,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della
legge n. 52 del 2015, in relazione alle parole «sono attribuiti comunque 340
seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei
voti validi», e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma
25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3
e 48, secondo comma, Cost. Secondo il giudice a quo, la circostanza che, in
tale ipotesi, il premio sia comunque attribuito a quella delle due liste che
abbia ottenuto più voti, comprometterebbe il diritto di voto degli elettori
della lista arrivata seconda che, pur avendo ottenuto anch’essa al primo turno
il 40 per cento dei voti, vedrebbe ridotto il proprio numero di deputati per
effetto della distorsione derivante dall’attribuzione del premio di
maggioranza.
Il medesimo Tribunale solleva un’ulteriore questione
di legittimità costituzionale, censurando l’art. 1, comma 1, lettera f), della
legge n. 52 del 2015 e gli artt. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2 e 5, e 83-bis,
comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), del d.P.R. n. 361
del 1957, come rispettivamente sostituiti e aggiunti dall’art. 2, comma 25,
della legge n. 52 del 2015 – lamentando ancora la violazione degli artt. 1,
secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. In particolare, il rimettente si
duole dell’asserito obbligo di procedere al turno di ballottaggio anche nel
caso in cui una lista abbia ottenuto, al primo turno, 340 seggi, ma non anche
il 40 per cento dei voti, ritenendo ciò «contraddittorio rispetto allo scopo
proclamato dallo stesso legislatore».
Infine, i Tribunali ordinari di Torino, Perugia,
Trieste e Genova sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma
25, della legge n. 52 del 2015. Il solo Tribunale ordinario di Genova censura
anche l’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957, come
modificato dall’art. 2, comma 1, della legge n. 52 del 2015.
I giudici a quibus
dubitano che tali disposizioni – in virtù delle quali, se nessuna lista
ottiene, al primo turno, almeno il 40 per cento dei voti validamente espressi,
il premio di maggioranza è attribuito in seguito ad un turno di ballottaggio
cui accedono le due liste più votate – siano conformi agli artt. 1, secondo
comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. In particolare, i rimettenti osservano che
tali disposizioni, prevedendo che, ai fini dell’attribuzione del premio, si
svolga un turno di ballottaggio cui accedono le sole due liste più votate,
stabiliscono quale unica condizione che esse abbiano ottenuto al primo turno
almeno il 3 per cento dei voti validi espressi (ovvero almeno il 20 per cento,
se rappresentative di minoranze linguistiche), aggiungendo che in tale turno
non sono ammessi apparentamenti o coalizioni tra liste, e che il premio di
maggioranza sia attribuito a chi ha ottenuto il 50 per cento più uno dei voti
validi espressi, e non degli aventi diritto al voto. Ritengono che tale sistema
violi i parametri evocati, in quanto, privilegiando l’esigenza della
governabilità rispetto al principio di rappresentatività, non impedirebbero che
il premio sia attribuito ad una lista anche «priva di adeguato radicamento nel
corpo elettorale», la quale potrebbe conseguire il premio senza aver «ottenuto
quella ragionevole soglia minima di voti in presenza della quale è possibile la
legittima attribuzione del premio di maggioranza».
1.2.– Il solo Tribunale ordinario di Messina solleva
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettere a), d) ed
e), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e 84,
commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi
ultimi come sostituiti dall’art. 2, commi 25 e 26, della legge n. 52 del 2015,
per violazione dell’art. 56, primo e quarto comma, Cost. Il rimettente lamenta
che, in virtù delle disposizioni censurate, un seggio, che deve essere
assegnato in una determinata circoscrizione, possa poi risultare attribuito in
un’altra (ingenerando il fenomeno del cosiddetto “slittamento”), asserendo che
tale esito si porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali evocati. Si
duole, in particolare, della violazione del quarto comma dell’art. 56 Cost., il
quale, prevedendo che «[l]a ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni […] si
effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica quale risulta
dall’ultimo censimento generale della popolazione per seicentodiciotto
e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione
sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti», esprimerebbe un
«criterio di rappresentatività territoriale» e sarebbe anche ispirato al
principio della responsabilità dell’eletto nei confronti degli elettori che lo
hanno votato.
1.3.– Due ulteriori questioni di legittimità
costituzionale investono le disposizioni che regolano la presentazione delle
liste di candidati e la proclamazione degli eletti.
In particolare, il Tribunale ordinario di Messina
solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera
g), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 18-bis, comma 3, primo periodo,
19, comma 1, primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R.
n. 361 del 1957, come modificati o sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2,
commi 10, lettera c), 11 e 26, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli
artt. 1, primo e secondo comma, 2, 48, secondo comma, 51, primo comma, 56,
primo e quarto comma, Cost. Tali disposizioni, da cui risulta che le liste nei
singoli collegi sono composte da un capolista bloccato e da altri candidati che
possono essere scelti con voto di preferenza, violerebbero l’art. 48, secondo
comma, Cost., in quanto, per le liste che non ottengono il premio di
maggioranza, potrebbe realizzarsi «un effetto distorsivo dovuto alla
rappresentanza parlamentare largamente dominata dai capilista bloccati, pur se
con il correttivo della multicandidatura», e, dunque,
il voto si rivelerebbe sostanzialmente «“indiretto” e, quindi, né libero, né
personale».
Il Tribunale ordinario di Torino e, in termini
sostanzialmente analoghi, i Tribunali ordinari di Perugia, Trieste e Genova,
sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma
27, della legge n. 52 del 2015. Tale disposizione prevede che il candidato
eletto in più collegi plurinominali debba dichiarare alla Presidenza della
Camera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione,
quale collegio plurinominale prescelga, e che, in assenza di opzione, si
procede al sorteggio. Secondo i rimettenti, tale disposizione violerebbe gli
artt. 3 e 48 Cost. I Tribunali ordinari di Perugia, Trieste e Genova lamentano
anche la lesione dell’art. 1, secondo comma, Cost.
Con argomentazioni coincidenti, essi ritengono che
la disposizione censurata, che consente al candidato capolista, eletto in più
collegi plurinominali, di scegliere un collegio sulla base di una sua mera
valutazione di opportunità, anziché subordinare tale opzione ad un criterio
oggettivo e predeterminato, rispettoso nel massimo grado possibile della
volontà espressa dagli elettori, violerebbe i parametri evocati, in quanto
determinerebbe «una distorsione tra il voto di preferenza espresso dagli
elettori e il suo esito in “uscita” in quel collegio», esito che sarebbe lesivo
dell’uguaglianza e della libertà del voto, senza che vi sia un altro
correlativo valore da salvaguardare e senza che ciò possa essere giustificato
dalla tutela dell’interesse alla governabilità. Il Tribunale ordinario di
Genova osserva, inoltre, che l’assenza di qualsiasi criterio nella scelta del
capolista renderebbe impossibile, per l’elettore, effettuare valutazioni
prognostiche sulla «utilità» del suo voto di preferenza, laddove tale voto sia
espresso in favore di un candidato che faccia parte di una lista con capolista
candidato anche in altri collegi.
1.4.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma
25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3
e 48, secondo comma, Cost. Il giudice a quo parrebbe lamentare che il
meccanismo di attribuzione dei seggi nella Regione autonoma Trentino-Alto Adige
possa determinare una lesione della rappresentatività delle minoranze politiche
nazionali, nel caso in cui queste non si siano apparentate con una lista
vincitrice di seggi nella Regione a statuto speciale.
1.5.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva,
infine, due questioni di legittimità costituzionale in cui è censurata la
disomogeneità tra i sistemi elettorali previsti per la Camera dei deputati e
per il Senato della Repubblica.
La prima investe gli artt. 16, comma 1, lettera b),
e 17 del d.lgs. n. 533 del 1993, relativi all’elezione del Senato, come
novellati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge 21 dicembre 2005, n. 270
(Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato
della Repubblica), per violazione degli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51
Cost. Ad avviso del giudice a quo, tali disposizioni, che prevedono soglie di
sbarramento per l’accesso al riparto dei seggi diverse da quelle prevista nel
sistema elettorale per la Camera, favorirebbero la formazione di maggioranze
differenti nei due rami del Parlamento, rischiando così di compromettere il
corretto funzionamento della forma di governo parlamentare.
Con la seconda questione, il Tribunale ordinario di
Messina dubita, invece, della conformità a Costituzione dell’art. 2, comma 35,
della legge n. 52 del 2015, in base al quale le disposizioni contenute nel
medesimo art. 2 si applicano alle elezioni della Camera dei deputati a
decorrere dal 1° luglio 2016. Il giudice a quo ritiene che tale previsione non
sia conforme agli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo
comma, Cost., in quanto, «in caso di nuove elezioni a legislazione elettorale
del Senato invariata (pur essendo in itinere la riforma costituzionale di
questo ramo del Parlamento), si produrrebbe una situazione di palese
ingovernabilità, per la coesistenza di due diverse maggioranze».
2.– Per la sostanziale identità dell’oggetto, considerando
che i rimettenti sollevano perlopiù censure analoghe, con argomentazioni
coincidenti e con riferimento ai medesimi parametri costituzionali, i giudizi
vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia.
Deve essere, inoltre, confermata l’ordinanza
dibattimentale, allegata alla presente sentenza, che ha dichiarato
inammissibili tutti gli interventi spiegati da soggetti diversi dalle parti dei
giudizi principali.
3.– In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, eccependo, in via preliminare e con argomenti coincidenti,
l’inammissibilità per difetto di rilevanza di tutte le questioni di legittimità
costituzionale sollevate.
L’Avvocatura statale osserva che i giudici a quibus avrebbero ritenuto sussistente l’interesse ad agire
dei ricorrenti rispetto a disposizioni di legge non ancora applicabili. Con
riferimento al giudizio introdotto dal Tribunale di Messina, tale obiezione è
svolta in relazione al momento della sollevazione della questione di
legittimità costituzionale. Con riguardo a tutte le altre ordinanze di
rimessione, l’eccezione si riferisce alla data in cui sono esperite le azioni
di accertamento da parte dei ricorrenti.
Ritiene inoltre non conferente il richiamo, operato
dai giudici a quibus, al precedente costituito dalla sentenza n. 1 del
2014 di questa Corte, poiché, in quel caso, la legislazione elettorale
della cui conformità a Costituzione si dubitava era già stata applicata in tre
occasioni. Sottolinea invece come le disposizioni ora censurate non abbiano mai
trovato applicazione, e mancherebbe perciò, ai fini della rilevanza, il fatto
storico (ossia elezioni già avvenute) che dovrebbe costituire il riferimento
necessario dei giudizi principali.
Tale assenza renderebbe inoltre impossibile la
distinzione tra oggetto del giudizio a quo e oggetto del controllo di costituzionalità,
palesando l’assenza di concretezza, incidentalità e pregiudizialità delle
questioni sollevate.
Infine, osserva la difesa statale che l’esigenza di
evitare le cosiddette zone franche nel sistema di giustizia costituzionale non
giustificherebbe la creazione «in via pretoria» di un regime di sindacato praeter legem che, in relazione
alle leggi elettorali, anticipi lo scrutinio di legittimità costituzionale,
rispetto a quanto avviene per tutte le altre fonti primarie.
3.1.– Tale eccezione deve essere rigettata.
La sentenza n. 1 del
2014 costituisce il precedente cui questa Corte intende attenersi nel
valutare le eccezioni di inammissibilità per difetto di rilevanza, in relazione
a questioni di legittimità costituzionale sollevate nell’ambito di giudizi
introdotti da azioni di accertamento aventi ad oggetto la «pienezza» (sentenza n. 110 del
2015) – ossia la conformità ai principi costituzionali – delle condizioni
di esercizio del diritto fondamentale di voto nelle elezioni politiche.
In tale sentenza,
la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale rispetto alla
definizione del giudizio principale fu ritenuta sussistente sulla base di
quattro argomenti.
In primo luogo, la presenza nell’ordinanza di
rimessione di una motivazione sufficiente, e non implausibile, in ordine alla
sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti nel giudizio principale.
In secondo luogo, il positivo riscontro della
pregiudizialità, poiché il giudizio spettante al giudice a quo e il controllo
demandato a questa Corte non risultavano sovrapponibili, essendo possibile
individuare una differenza tra oggetto del primo (l’accertamento della
«pienezza» del diritto di voto) e oggetto del secondo (la legge elettorale
politica, la cui conformità a Costituzione è posta in dubbio), residuando un
margine di autonoma decisione in capo al giudice a quo, dopo l’eventuale
sentenza di accoglimento di questa Corte.
In terzo luogo, la peculiarità e il rilievo
costituzionale del diritto oggetto di accertamento nel giudizio a quo, cioè il
diritto fondamentale di voto, che svolge una funzione decisiva nell’ordinamento
costituzionale, con riferimento alle conseguenze che dal suo non corretto
esercizio potrebbero derivare nella costituzione degli organi supremi ai quali
è affidato uno dei poteri essenziali dello Stato, quello legislativo (sentenza n. 39 del
1973).
Infine, «l’esigenza che non siano sottratte al
sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni
della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di
organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema
democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel
sindacato» (così, appunto, la sentenza n. 1 del
2014). Ciò per evitare la creazione di una zona franca nel sistema di
giustizia costituzionale, in un ambito strettamente connesso con l’assetto
democratico dell’ordinamento.
È bensì vero che in alcune pronunce successive alla
ricordata sentenza
n. 1 del 2014 questa Corte ha svolto precisazioni in relazione a questioni
di legittimità costituzionale – sempre promosse nell’ambito di giudizi introdotti
da azioni di accertamento – aventi ad oggetto disposizioni di legge che
regolano il sistema di elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti
all’Italia. In tali casi, le questioni sono state dichiarate inammissibili, sia
perché i giudici a quibus non avevano
sufficientemente motivato sull’interesse ad agire delle parti (limitandosi a
richiamare i contenuti dell’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima
civile, 17 maggio 2013, n. 12060), sia, e soprattutto, perché quelle
disposizioni possono pervenire al vaglio di legittimità costituzionale in un
giudizio avente ad oggetto una controversia originatasi nel procedimento
elettorale (sentenza
n. 110 del 2015). In tale procedimento, il diritto costituzionale di voto
può infatti trovare tutela, non solo successivamente alle elezioni, attraverso
l’impugnazione dei risultati elettorali, ma talora anche prima di esse,
nell’ambito del procedimento elettorale preparatorio (ordinanza n. 165
del 2016).
Invece, in relazione alle elezioni politiche
nazionali, il diritto di voto non potrebbe altrimenti trovare tutela
giurisdizionale, in virtù di quanto disposto dall’art. 66 Cost. e dall’art. 87
del d.P.R. n. 361 del 1957, come interpretati dai
giudici comuni e dalle Camere in sede di verifica delle elezioni, anche alla
luce della mancata attuazione della delega contenuta nell’art. 44 della legge
18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), nella
parte in cui autorizzava il Governo ad introdurre la giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento
elettorale preparatorio, oltre che per le elezioni amministrative ed europee,
anche per quelle relative al rinnovo dei due rami del Parlamento nazionale
(così, esplicitamente, ordinanza n. 165
del 2016; già prima, sentenze n. 110 del 2015
e n. 259 del
2009; ordinanza
n. 512 del 2000).
Permanendo l’esigenza di evitare, con riferimento
alla legge elettorale politica, una zona franca rispetto al controllo di
costituzionalità attivabile in via incidentale, deve restar fermo quanto deciso
con la sentenza
n. 1 del 2014, negli stessi limiti ivi definiti.
3.2.– Tanto premesso, va anzitutto dato atto – in
relazione alle ordinanze ora in esame – che tutti i Tribunali rimettenti si
soffermano, con argomentazione ampia e sostanzialmente coincidente, sulla
sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti.
È bensì richiamata da tutti i rimettenti la citata
ordinanza della Corte di cassazione, che sollevò le questioni di legittimità
costituzionale decise con la sentenza n. 1 del
2014. Ma i giudici a quibus – consapevoli delle
differenze tra quel caso e questi (in quanto le disposizioni ora censurate sono
applicabili dal 1° luglio 2016 e non sono ancora state applicate) – illustrano
le ragioni per le quali ugualmente sussiste, in capo ai ricorrenti, l’interesse
ad agire.
Essi ritengono che, ai fini della proponibilità
delle azioni di accertamento, sia sufficiente l’esistenza di uno stato di
dubbio o incertezza oggettiva sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi
scaturenti da un rapporto giuridico anche di fonte legale; che tale incertezza
è idonea di per sé a provocare un ingiusto pregiudizio, non evitabile se non
per il tramite dell’accertamento giudiziale circa l’incidenza della legge sul
diritto di voto. Osservano che l’espressione del voto costituisce oggetto di un
diritto inviolabile e «permanente» dei cittadini, i quali possono essere
chiamati ad esercitarlo in ogni momento; pertanto, lo stato di incertezza al
riguardo integra un pregiudizio concreto, di per sé sufficiente a fondare la
sussistenza dell’interesse ad agire. Ricordano che le azioni di accertamento non
richiedono la previa lesione in concreto del diritto rivendicato, ma sono
esperibili anche al fine di scongiurare che tale lesione avvenga in futuro.
Osservano, del resto, che subordinare la proponibilità dell’azione alla previa
applicazione della legge, cioè allo svolgimento stesso delle elezioni,
determinerebbe la lesione dei parametri costituzionali che garantiscono
l’effettività e la tempestività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113,
secondo comma, Cost.).
I Tribunali rimettenti argomentano altresì sulla
sussistenza della pregiudizialità delle questioni di legittimità costituzionale
prospettate ai fini della definizione dei giudizi principali, sostenendo che in
questi ultimi sarebbe individuabile un petitum
separato, distinto e più ampio rispetto a quello oggetto del giudizio di
legittimità costituzionale: all’esito della sentenza di questa Corte, che ha ad
oggetto la legittimità costituzionale della legge elettorale, spetterebbe,
infatti, al giudice a quo la verifica di tutte le condizioni da cui tale legge
fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto. Inoltre, non vi sarebbe
neppure coincidenza tra il dispositivo della sentenza di questa Corte e quello
della sentenza che definisce il giudizio di merito, la quale ultima, accertata
l’avvenuta lesione del diritto azionato, lo può ripristinare nella pienezza
della sua espansione, seppure per il tramite della sentenza costituzionale.
Il Tribunale di Messina, in particolare, riconosce
che al momento della rimessione delle questioni di legittimità costituzionale
(17 febbraio 2016), le disposizioni censurate erano entrate in vigore, ma
risultavano ad efficacia differita, poiché il legislatore (all’art. 2, comma
35, della legge n. 52 del 2015, peraltro anch’esso posto in dubbio, per altri
profili, dal medesimo giudice) ha stabilito che il nuovo sistema elettorale si
applichi per l’elezione della Camera dei deputati a decorrere dal 1° luglio
2016.
Osserva il giudice a quo che l’interesse ad agire
dei ricorrenti sussisterebbe comunque, poiché le disposizioni censurate erano
già entrate in vigore al momento in cui le questioni sono state effettivamente
sollevate. Essendo inoltre stabilito che esse sarebbero state efficaci a
partire da una data certa, non vi sarebbe alcun dubbio, né sull’an,
né sul quando, in ordine alla loro idoneità ad incidere sul diritto di voto,
del quale i ricorrenti del giudizio principale chiedono sia accertata la
portata.
Il rimettente aggiunge, anche sotto tale profilo,
che l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica
necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, risultando sufficiente
che l’attore se ne qualifichi come titolare e lamenti uno stato di incertezza
oggettiva sulla sua portata. E osserva che la stessa entrata in vigore di una
legge elettorale, sia pur contenente norme ad efficacia differita (ma a data
certa), alimenta tale condizione oggettiva di incertezza circa la pienezza
(conforme a Costituzione) del diritto fondamentale di voto.
3.3.– La giurisprudenza di questa Corte ritiene che una
motivazione sufficiente e non implausibile sulla sussistenza dell’interesse ad
agire dei ricorrenti basti ad escludere un riesame dell’apprezzamento compiuto
dal giudice a quo ai fini dell’ammissibilità delle questioni di legittimità
costituzionale (con riferimento alle stesse azioni di accertamento in materia
elettorale, sentenze n. 110 del 2015
e n. 1 del 2014;
ordinanza n. 165
del 2016; più in generale, sentenze n. 154 del 2015,
n. 91 del 2013
e n. 50 del 2007).
Del resto, l’apprezzamento su una condizione dell’azione quale l’interesse ad
agire è tipicamente compito del giudice rimettente.
Nel caso sottoposto all’attuale scrutinio di
ammissibilità, caratterizzato da elementi di novità, le non implausibili
ragioni addotte dai giudici a quibus trovano peraltro
riscontro e conferma in argomentazioni ulteriori, congruenti con quelle addotte
da questi ultimi.
In esso, l’incertezza oggettiva sulla portata del
diritto di voto è direttamente ricollegabile alla modificazione
dell’ordinamento giuridico dovuta alla stessa entrata in vigore della legge
elettorale, alla luce dei contenuti di disciplina che essa introduce
nell’ordinamento. Non rileva la circostanza che, come avviene in questo caso,
le disposizioni della legge siano ad efficacia differita, poiché il legislatore
– stabilendo che le nuove regole elettorali siano efficaci a partire dal 1°
luglio 2016 – non ha previsto una condizione sospensiva dell’operatività di
tali regole, legata al verificarsi di un evento di incerto accadimento futuro,
ma ha indicato un termine certo nell’an e nel quando
per la loro applicazione. Il fatto costitutivo che giustifica l’interesse ad
agire è dunque ragionevolmente individuabile nella disciplina legislativa già
entrata in vigore, sebbene non ancora applicabile al momento della rimessione
della questione, oppure al momento dell’esperimento dell’azione di
accertamento: le norme elettorali regolano il diritto di voto e l’incertezza
riguarda la portata di quest’ultimo, con il corollario di potenzialità lesiva,
già attuale, sebbene destinata a manifestarsi in futuro, in coincidenza con la
sua sicura applicabilità (a decorrere dal 1° luglio 2016). La rimozione di tale
incertezza rappresenta, quindi, un risultato utile, giuridicamente rilevante e
non conseguibile se non attraverso l’intervento del giudice. Ne deriva la
sussistenza, nei giudizi a quibus, di un interesse ad
agire in mero accertamento.
Quanto osservato vale sia con riferimento
all’ordinanza del Tribunale di Messina, sia con riferimento ai giudizi
instaurati dagli altri quattro tribunali, in relazione ai quali l’Avvocatura
generale dello Stato eccepisce che le disposizioni censurate non erano ancora
applicabili al momento dell’esperimento delle azioni di accertamento da parte
dei ricorrenti. E conduce perciò al rigetto della relativa eccezione.
Da quanto rilevato, deriva inoltre, e a fortiori, il
rigetto dell’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale
dello Stato, in relazione alle questioni prospettate dai Tribunali di Torino,
Perugia, Trieste e Genova, di cui è contestata la rilevanza, alla luce della
circostanza che le disposizioni censurate non hanno mai trovato applicazione,
nessuna elezione essendosi mai svolta sulla base di esse.
È la giurisprudenza di legittimità a chiarire, in
generale, che è la natura dell’azione di accertamento a non richiedere
necessariamente la previa lesione in concreto del diritto, ai fini della
sussistenza dell’interesse ad agire, ben potendo tale azione essere esperita
anche al fine di scongiurare una futura lesione (ex plurimis,
Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 10 novembre 2016, n. 22946;
Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 23 giugno 2015, n. 12893;
Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 luglio 2015, n. 16262).
Nella sentenza n. 1 del
2014, questa stessa Corte, con specifico riferimento alle sole elezioni del
Parlamento nazionale, ha del resto affermato che l’ammissibilità delle
questioni di legittimità costituzionale allora sollevate in giudizio
«costituisce anche l’ineludibile corollario del principio che impone di
assicurare la tutela del diritto inviolabile di voto, pregiudicato – secondo
l’ordinanza del giudice rimettente – da una normativa elettorale non conforme
ai principi costituzionali, indipendentemente da atti applicativi della stessa,
in quanto già l’incertezza sulla portata del diritto costituisce una lesione
giuridicamente rilevante».
Infine, neppure ha fondamento l’obiezione secondo la
quale le questioni sollevate difetterebbero di pregiudizialità, essendo
impossibile distinguere tra oggetto dei giudizi a quibus
e oggetto del controllo di costituzionalità.
Come già osservato da questa Corte (sentenze n. 110 del 2015
e n. 1 del 2014),
nel giudizio principale il petitum consiste nella
richiesta di accertare la pienezza costituzionale del diritto di voto; nel
giudizio costituzionale, invece, si chiede di dichiarare che il diritto di voto
è pregiudicato dalla disciplina vigente. Tale pregiudizialità sussiste anche
nei casi all’attuale scrutinio, nei quali la legge elettorale non è ancora
stata applicata, poiché la domanda dei ricorrenti è pur sempre quella di
accertare la portata del diritto di voto, e tale accertamento prescinde dalla
sua già avvenuta lesione in una tornata elettorale.
4.– Le parti costituite nei giudizi instaurati dai
Tribunali ordinari di Messina, Perugia, Trieste e Genova, con motivazioni
sostanzialmente coincidenti, sollecitano questa Corte a sollevare di fronte a
se stessa questioni di legittimità costituzionale dell’intera legge n. 52 del
2015, «con particolare riferimento ai suoi articoli fondamentali (1, 2 e 4)»,
poiché essa sarebbe stata approvata, prima al Senato e poi alla Camera, «in palese
violazione dell’art. 72, commi 1 e 4, Cost. e dell’art. 3 del protocollo CEDU
(per come richiamato dall’art. 117, comma 1, Cost.)».
Lamentano, in particolare, che, alla Camera, gli
artt. 1, 2 e 4 della legge n. 52 del 2015 sono stati approvati ricorrendo al
voto di fiducia; che, al Senato, l’esame in commissione è stato compresso nei
tempi e nei modi; e che, sempre al Senato, nel corso dell’esame in assemblea, è
stato presentato e approvato un emendamento che ha inserito nel testo della
legge un preambolo riassuntivo dei caratteri essenziali del sistema elettorale,
così da determinare l’inammissibilità di tutti gli ulteriori emendamenti
presentati.
Le parti ricordano, peraltro, che nei quattro
giudizi principali menzionati, nei quali la corrispondente eccezione era stata
prospettata, essa è stata rigettata perché manifestamente infondata.
Tale istanza, concernendo asseriti vizi del
procedimento parlamentare di formazione della legge n. 52 del 2015, il cui
accertamento potrebbe comportare la caducazione dell’intera legge, va esaminata
in via preliminare.
Essa è, tuttavia, inammissibile.
Per costante giurisprudenza, il giudizio di
legittimità costituzionale non può estendersi oltre i limiti fissati
dall’ordinanza di rimessione, ricomprendendo profili ulteriori indicati dalle
parti. Questi ultimi non possono concorrere ad ampliare il thema
decidendum proposto dinnanzi a questa Corte, ma ne
debbono restare esclusi, sia che essi siano diretti ad estendere o modificare
il contenuto o i profili determinati dall’ordinanza di rimessione, sia che –
come è avvenuto in questi casi – essi abbiano formato oggetto dell’eccezione
proposta dalle parti stesse nel giudizio principale, senza essere stati poi
fatti propri dal giudice nell’ordinanza stessa (tra le tante, sentenze n. 83 del 2015,
n. 94 del 2013,
n. 42 del 2011,
n. 86 del 2008
e n. 49 del 1999).
Ben vero che, nel caso di specie, le parti – anziché
proporre direttamente l’estensione del thema decidendum – chiedono che la Corte costituzionale sollevi
di fronte a sé la questione: ma l’obbiettivo perseguito è il medesimo, ossia
l’estensione del giudizio di legittimità costituzionale a profili diversi da
quelli individuati dai giudici rimettenti.
Una pronuncia d’inammissibilità s’impone, inoltre,
in ragione della circostanza, già ricordata, che nei giudizi principali le
relative eccezioni hanno formato oggetto di pronunce di manifesta infondatezza.
E la sollecitazione affinché questa Corte decida di sollevare di fronte a sé
questioni già ritenute manifestamente infondate finisce per configurarsi, nella
sostanza, come improprio ricorso a un mezzo di impugnazione delle decisioni dei
giudici a quibus.
5.– Passando all’esame delle singole questioni di
legittimità costituzionale, la prima censura sollevata dal Tribunale ordinario
di Messina ha ad oggetto l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del
2015, e gli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente sostituiti
dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015. Tali disposizioni
delineano un sistema in cui: il premio di maggioranza è attribuito, al primo
turno, alla lista che ha ottenuto il 40 per cento dei voti, calcolando tale
percentuale sui votanti e non sugli aventi diritto al voto; il premio è
attribuito anche all’esito di un turno di ballottaggio; è prevista una soglia
di sbarramento al 3 per cento su base nazionale per accedere al riparto dei
seggi.
Il giudice rimettente ritiene che tale complessiva
disciplina contrasti con l’art. 48, secondo comma, Cost., per cui ciascun voto
contribuisce «potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi
elettivi».
Nel solo dispositivo dell’ordinanza, perciò senza
alcuna illustrazione delle ragioni di contrasto con le disposizioni censurate,
sono evocati gli artt. 1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 49,
51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., nonché l’art. 3 del Protocollo addizionale
alla CEDU. Come da costante giurisprudenza, le questioni sollevate in
riferimento a tali parametri costituzionali sono inammissibili, in quanto prive
di alcuna motivazione in punto di non manifesta infondatezza (sentenze n. 59 del 2016,
n. 248 e n. 100 del 2015;
ordinanze n. 122
e n. 33 del 2016).
In relazione alla residua questione di legittimità
costituzionale, motivata sulla base del contrasto delle disposizioni censurate
con il solo art. 48, secondo comma, Cost., l’Avvocatura generale dello Stato
identifica due distinte censure, l’una relativa alla previsione del premio di
maggioranza, l’altra all’introduzione di una soglia di sbarramento al 3 per
cento. Di entrambe eccepisce l’inammissibilità per carenza di motivazione sulla
non manifesta infondatezza.
Il tenore della prospettazione dell’ordinanza di
rimessione e la circostanza che il giudice a quo formuli, in proposito, un
unico dispositivo, inducono, tuttavia, a ritenere che sia stata sollevata una
sola censura, per quanto utilizzando tre distinti argomenti (uno dei quali è,
appunto, quello fondato sulla coesistenza del premio di maggioranza e della
soglia di sbarramento al 3 per cento).
Così formulata, la questione è inammissibile.
Il giudice rimettente intende censurare il
complessivo sistema attraverso il quale il legislatore ha scelto di attribuire
il premio di maggioranza, al primo e al secondo turno. Ciò avviene, tuttavia,
attraverso una motivazione particolarmente sintetica, in cui non sono distinti
i singoli profili di censura relativi ai diversi caratteri del sistema
elettorale. Non si comprende se l’asserita necessità di introdurre un quorum di
votanti per l’attribuzione del premio di maggioranza sia riferibile al primo o
al secondo turno, o a entrambi. Non sono illustrate le ragioni per le quali
l’attribuzione del premio determinerebbe un’irragionevole compressione della
rappresentatività della Camera dei deputati, e, nuovamente, non è spiegato se
tale compressione si verifichi al primo turno, al secondo, o in entrambi.
Infine, l’oscurità della motivazione è accentuata
dall’evocazione del solo art. 48, secondo comma, Cost., che dovrebbe da solo
reggere l’intera censura sollevata (comparendo, come detto, gli ulteriori
parametri costituzionali asseritamente lesi nel solo
dispositivo dell’ordinanza).
Così formulata, la questione finisce per sollecitare
una valutazione dai caratteri indistinti ed imprecisati, relativa nella sostanza
all’intero sistema elettorale introdotto dalla legge n. 52 del 2015. Tale
imprecisione nei profili di censura, unitamente alla carenza di motivazione
sulla non manifesta infondatezza, determinano l’impossibilità di comprendere
l’effettivo petitum avanzato dal giudice a quo
(sentenze n. 130
e n. 32 del 2016,
n. 247 e n. 126 del 2015).
6.– Il Tribunale ordinario di Genova ritiene che
l’attribuzione di 340 seggi alla lista che, al primo turno di votazione,
ottenga, a livello nazionale, il 40 per cento dei voti – calcolata tale
percentuale sui suffragi validamente espressi – comprima irragionevolmente
l’eguaglianza del voto e la rappresentatività della Camera, e censura perciò
l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 1 e 83,
commi 1, numeri 5) e 6), e 2, 3 e 4, del d.P.R. n.
361 del 1957, come rispettivamente modificati e sostituiti dall’art. 2, commi 1
e 25, della legge n. 52 del 2015, lamentando la violazione degli artt. 1,
secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
Il giudice a quo, pur osservando che – in astratto
considerata – la soglia minima di voti necessaria per ottenere il premio non si
presterebbe a censure, dubita della ragionevolezza in concreto di tale soglia
dopo aver operato alcuni calcoli matematici, che dimostrerebbero l’eccessiva
distorsione del voto in uscita a favore della lista vincente al primo turno.
Tale distorsione, in particolare, deriverebbe dalla
circostanza che il calcolo della percentuale è operato sul numero di voti
validi espressi e non in relazione al complesso degli aventi diritto al voto,
dovendosi inoltre considerare, nella valutazione dell’intero sistema, la
compresenza del premio e della soglia di sbarramento del 3 per cento su base
nazionale per l’accesso delle liste al riparto dei seggi.
Alla luce di tali argomenti, il giudice a quo
sollecita una dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni
che prevedono il premio di maggioranza al primo turno.
Così formulata, la questione non è fondata.
Preliminarmente, è da rilevare che questa Corte ha
sempre riconosciuto al legislatore un’ampia discrezionalità nella scelta del
sistema elettorale che ritenga più idoneo in relazione al contesto
storico-politico in cui tale sistema è destinato ad operare, riservandosi una
possibilità di intervento limitata ai casi nei quali la disciplina introdotta
risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 1 del 2014, n. 242 del 2012,
n. 271 del 2010,
n. 107 del 1996,
n. 438 del 1993,
ordinanza n. 260
del 2002). Con specifico riferimento a sistemi elettorali che innestano un
premio di maggioranza su di un riparto di seggi effettuato con formula
proporzionale, la giurisprudenza costituzionale ha già affermato che, in
assenza della previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi cui
condizionare l’attribuzione del premio, il meccanismo premiale è foriero di
un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa
(sentenze n. 1
del 2014, n.
13 del 2012, n.
16 e n. 15
del 2008).
Le disposizioni portate ora all’esame di legittimità
costituzionale prevedono, invero, una soglia minima di voti validi per
l’attribuzione del premio, pari al 40 per cento di questi. Si è pertanto in
presenza di un premio “di maggioranza”, che consente di attribuire la
maggioranza assoluta dei seggi in un’assemblea rappresentativa alla lista che
abbia conseguito una determinata maggioranza relativa. Alla luce della
ricordata discrezionalità legislativa in materia, tale soglia non appare in sé
manifestamente irragionevole, poiché volta a bilanciare i principi costituzionali
della necessaria rappresentatività della Camera dei deputati e dell’eguaglianza
del voto, da un lato, con gli obbiettivi, pure di rilievo costituzionale, della
stabilità del governo del Paese e della rapidità del processo decisionale, dall’altro.
A ritenere il contrario, si dovrebbe argomentare la
non compatibilità con i principi costituzionali di una determinata soglia
numerica per l’attribuzione del premio, fino a considerare – quale condizione
per il positivo scrutinio di ragionevolezza e proporzionalità della disciplina
premiale – la sola attribuzione, non già di un premio “di maggioranza”, ma di
un premio “di governabilità”, condizionato al raggiungimento di una soglia pari
almeno al 50 per cento dei voti e/o dei seggi, e destinato ad aumentare, al
fine di assicurare la formazione di un esecutivo stabile, il numero di seggi di
una lista o di una coalizione che quella soglia abbia già autonomamente
raggiunto.
Al cospetto della discrezionalità spettante in
materia al legislatore, sfugge dunque, in linea di principio, al sindacato di
legittimità costituzionale una valutazione sull’entità della soglia minima in
concreto prescelta dal legislatore (attualmente pari al 40 per cento dei voti
validi, e del resto progressivamente innalzata nel corso dei lavori
parlamentari che hanno condotto all’approvazione della legge n. 52 del 2015).
Ma resta salvo il controllo di proporzionalità riferito alle ipotesi in cui la
previsione di una soglia irragionevolmente bassa di voti per l’attribuzione di
un premio di maggioranza determini una tale distorsione della rappresentatività
da comportarne un sacrificio sproporzionato, rispetto al legittimo obbiettivo
di garantire la stabilità del governo del Paese e di favorire il processo
decisionale.
L’esito dello scrutinio fin qui condotto non è
inficiato dalla circostanza, messa criticamente in luce dal giudice a quo, per
cui la soglia del 40 per cento è calcolata sui voti validi espressi, anziché
sul complesso degli aventi diritto al voto. Pur non potendosi in astratto
escludere che, in periodi di forte astensione dal voto, l’attribuzione del
premio avvenga a favore di una lista che dispone di un’esigua rappresentatività
reale, condizionare il premio al raggiungimento di una soglia calcolata sui
voti validi espressi ovvero sugli aventi diritto costituisce oggetto di una
delicata scelta politica, demandata alla discrezionalità del legislatore e non
certo soluzione costituzionalmente obbligata (sentenza n. 173 del
2005).
Del resto, anche nella sentenza n. 1 del
2014 questa Corte accolse la questione di legittimità costituzionale in
relazione a disposizioni elettorali che non prevedevano l’attribuzione di un
premio condizionato al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di
seggi, senza alcun riferimento agli aventi diritto al voto.
Infine, nemmeno pone in discussione la conclusione
raggiunta l’ulteriore carattere criticamente evocato dal rimettente al fine di
sollecitare l’accoglimento delle questioni sollevate, cioè la presenza, accanto
al premio, di un correttivo alla rappresentatività (sentenza n. 1 del
2014), costituito dalla soglia di sbarramento del 3 per cento sui voti
validamente espressi su base nazionale, quale condizione per l’accesso delle
liste al riparto dei seggi.
In linea generale, infatti, anche «[l]a previsione
di soglie di sbarramento e quella delle modalità per la loro applicazione […]
sono tipiche manifestazioni della discrezionalità del legislatore che intenda
evitare la frammentazione della rappresentanza politica, e contribuire alla
governabilità» (sentenza
n. 193 del 2015).
Nel caso di specie, invero, il giudice a quo dubita
degli effetti derivanti dalla contestuale previsione di un premio di
maggioranza e di una soglia di sbarramento, traendo proprio da tale compresenza
la convinzione dell’illegittimità costituzionale del premio.
Tuttavia, in primo luogo, le previsioni della legge
n. 52 del 2015 introducono una soglia di sbarramento non irragionevolmente
elevata, che non determina, di per sé, una sproporzionata distorsione della
rappresentatività dell’organo elettivo.
Inoltre, non può essere la compresenza di premio e
soglia, nelle specifiche forme ed entità concretamente previste dalla legge
elettorale, a giustificare una pronuncia d’illegittimità costituzionale del
premio. Ben vero che qualsiasi soglia di sbarramento comporta un’artificiale
alterazione della rappresentatività di un organo elettivo, che in astratto
potrebbe aggravare la distorsione pure indotta dal premio. Ma non è
manifestamente irragionevole che il legislatore, in considerazione del sistema
politico-partitico che intende disciplinare attraverso le regole elettorali,
ricorra contemporaneamente, nella sua discrezionalità, a entrambi tali
meccanismi. Del resto, se il premio ha lo scopo di assicurare l’esistenza di
una maggioranza, una ragionevole soglia di sbarramento può a sua volta
contribuire allo scopo di non ostacolarne la formazione. Né è da trascurare che
la soglia può favorire la formazione di un’opposizione non eccessivamente
frammentata, così attenuando, anziché aggravando, i disequilibri indotti dalla
stessa previsione del premio di maggioranza.
7.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva
questioni di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 1, secondo
comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. – dell’art. 1, comma 1, lettera f), della
legge n. 52 del 2015, nella parte in cui prevede che «sono comunque attribuiti
340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei
voti validi», e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4 del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma
25, della legge n. 52 del 2015, poiché tali disposizioni consentono
l’assegnazione del premio di maggioranza alla lista che abbia ottenuto il
maggior numero di voti, anche nel caso in cui due liste superino, al primo
turno, il 40 per cento di essi.
Se è da respingere l’eccezione d’inammissibilità per
carenze motivazionali sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato,
risultando chiaro ed argomentato ciò che il giudice a quo lamenta, la questione
non è comunque fondata nel merito.
Il rimettente assume, correttamente, che le
disposizioni censurate debbano essere interpretate nel senso che – nell’ipotesi
in cui due liste superino, al primo turno, il 40 per cento dei voti – il premio
di maggioranza andrebbe comunque assegnato, e attribuito alla lista che ha
ottenuto più voti. Ritiene tuttavia che, in tale ipotesi, la lista risultata
seconda vedrebbe irragionevolmente ridotto il proprio numero di deputati, per
effetto della distorsione derivante dall’attribuzione del premio, con lesione
dei parametri costituzionali evocati.
Sull’esito del voto al primo turno possono essere
formulate varie ipotesi, il cui realizzarsi è più o meno probabile o possibile,
a seconda del concreto atteggiarsi del sistema politico. Ma è comunque nella
logica di un sistema elettorale con premio di maggioranza che alle liste di
minoranza, a prescindere dalla percentuale di voti raggiunta, sia attribuito un
numero di seggi inferiore rispetto a quello che sarebbe loro assegnato
nell’ambito di un sistema proporzionale senza correttivi. Tale logica,
ovviamente, vale anche per la lista che giunge seconda, né rileva la
circostanza che anch’essa abbia ottenuto il 40 per cento dei voti validi, ma un
numero totale di voti inferiore, in assoluto, rispetto alla lista vincente.
Il giudice rimettente domanda una pronuncia
additiva, che dichiari costituzionalmente illegittime le disposizioni
censurate, nella parte in cui non escludono l’assegnazione del premio
nell’ipotesi descritta.
Tale richiesta non ha alcun fondamento, innanzitutto
alla luce della appena affermata (punto 6) non manifesta irragionevolezza delle
previsioni della legge n. 52 del 2015 che disciplinano l’assegnazione del
premio al primo turno.
Inoltre, e infine – anche a prescindere
dall’intrinseca contraddittorietà di un sistema elettorale, quale quello
prefigurato dal rimettente, che stabilisca di non assegnare il premio se al
primo turno due liste superino il 40 per cento dei voti, ovvero se lo scarto di
voti tra la lista vincente e le altre non corrisponda ad una determinata
quantità o percentuale – un’addizione di questo genere non apparterrebbe in
radice ai poteri di questa Corte, spettando, semmai, alla discrezionalità del
legislatore.
8.– Lo stesso Tribunale ordinario di Genova solleva
questioni di legittimità costituzionale – sempre per violazione degli artt. 1,
secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. – dell’art. 1, comma 1, lettera f),
della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2 e 5, e
83-bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), del d.P.R.
n. 361 del 1957, come novellati dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del
2015 – ritenendo che tali disposizioni imporrebbero irragionevolmente di
procedere ad un turno di ballottaggio anche se una lista abbia ottenuto, al
primo turno, 340 seggi, ma non il 40 per cento dei voti. Osserva, in
particolare, il giudice a quo che l’obbligo di procedere anche in questo caso
al turno di ballottaggio sarebbe contraddittorio rispetto alla ratio stessa che
ispira la legge n. 52 del 2015, quella cioè di consentire la formazione di una
salda maggioranza politica, in seggi, alla Camera.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce
l’inammissibilità di tali questioni per due ragioni.
Ritiene, in primo luogo, che il rimettente non abbia
illustrato le ragioni che impediscono di interpretare le disposizioni censurate
nel senso che, se una lista raggiunge al primo turno 340 seggi, ma non anche il
40 per cento dei voti, il ballottaggio non ha luogo, deducendo da ciò
l’inammissibilità della questione. Tale prima eccezione va rigettata,
concernendo in realtà il merito della questione e non la sua ammissibilità.
In secondo luogo, assume l’Avvocatura generale dello
Stato che il caso ipotizzato dal rimettente sia solo virtuale e che, dunque, la
questione sarebbe inammissibile perché ipotetica. Anche tale eccezione non è
fondata, dal momento che non si può in assoluto escludere – ed è la stessa
Avvocatura ad ammetterlo – che tale eventualità possa realmente verificarsi,
sia pure in ipotesi del tutto residuali.
Nel merito, la questione non è tuttavia fondata.
Le disposizioni censurate stabiliscono che,
all’esito del primo turno di votazione, l’Ufficio centrale nazionale verifica
se la cifra elettorale nazionale della lista che ha ottenuto più suffragi
corrisponda ad almeno il 40 per cento del totale dei voti validi espressi (art.
83, comma 1, numero 5, del d.P.R. n. 361 del 1957) e,
quindi, se tale lista abbia conseguito almeno 340 seggi (art. 83, comma 1,
numero 6, del d.P.R. n. 361 del 1957).
Se la verifica di cui al comma 1, numero 5), del
citato art. 83 ha avuto esito negativo, si procede ad un turno di ballottaggio
fra le liste che abbiano ottenuto al primo turno le due maggiori cifre
elettorali nazionali.
Se, invece, è la verifica di cui al comma 1, numero
6), ad aver fornito esito negativo – poiché la lista ha ottenuto il 40 per
cento dei voti ma non ha conseguito 340 seggi – a tale lista sono attribuiti
seggi aggiuntivi, sino ad arrivare a 340.
Dalla formulazione letterale di queste disposizioni,
compendiate nel primo periodo dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n.
52 del 2015 («sono attribuiti comunque 340 seggi alla lista che ottiene, su
base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi»), il rimettente deduce
che debba essere indetto il turno di ballottaggio anche nel caso in cui una
lista abbia ottenuto 340 seggi, ma non il 40 per cento dei voti. Censura,
dunque, l’irragionevolezza di tale soluzione, asserendone la contraddittorietà
e lamentando che da essa deriverebbe un’eccessiva compressione dell’eguaglianza
del voto e della rappresentatività della Camera.
Il giudice a quo giunge tuttavia a tale soluzione
muovendo da un errato presupposto interpretativo (ex multis,
sentenze n. 204,
n. 203, n. 106 e n. 95 del 2016).
Ben vero che l’art. 83, comma 1, numero 7), del più
volte ricordato d.P.R. n. 361 del 1957 stabilisce che
resta ferma l’attribuzione dei seggi effettuata dall’Ufficio centrale se abbia
avuto esito positivo «la verifica di cui al numero 6)» del comma 1 del medesimo
articolo, ossia nel caso in cui la lista che ha ottenuto il 40 per cento dei
voti «abbia conseguito almeno 340 seggi». Ed è anche vero che il succedersi
delle operazioni di verifica stabilite ai numeri 5) e 6) del comma 1 dell’art.
83 può far ritenere che solo una lista che abbia ottenuto il 40 per cento dei
voti possa anche aver ottenuto 340 seggi. In altre parole, il modo in cui sono
letteralmente delineate le distinte operazioni di verifica (nonché lo stesso
tenore testuale dell’art. 1, comma 1, lettera f, della legge n. 52 del 2015)
sembra non ricomprendere proprio l’ipotesi che il giudice a quo individua, cioè
il caso in cui una lista abbia conseguito 340 seggi ma non il 40 per cento del
totale dei voti validamente espressi. Si verserebbe perciò in un’ipotesi in cui
non ha dato esito positivo la verifica di cui al comma 1, numero 6), dell’art.
83, derivandone la necessità del turno di ballottaggio.
L’interpretazione meramente letterale delle
disposizioni ricordate è tuttavia fuorviante, poiché consegna un risultato il
quale, prima ancora che irragionevole, è in contrasto con la ratio complessiva
cui è ispirata la legge n. 52 del 2015. Tale risultato può e deve essere
evitato attraverso una lettura sistematica delle disposizioni rilevanti al fine
di stabilire se il turno di ballottaggio debba o meno aver luogo,
ricomprendendo in essa l’art. 83, comma 1, numero 7), del d.P.R.
n. 361 del 1957, che, invece, il giudice a quo, né censura, né considera nel
proprio iter argomentativo.
Poiché, infatti, carattere distintivo della legge
elettorale in esame è quello di favorire la formazione di una maggioranza,
ossia fare in modo che una lista disponga, alla Camera, di 340 seggi, si deve
interpretare l’appena citato art. 83, comma 1, numero 7) – il cui significato,
come detto, il rimettente non tenta nemmeno di lumeggiare – nel senso che resta
ferma l’attribuzione dei seggi effettuata dall’Ufficio centrale nazionale
(quella di cui al comma 1, numero 4, del citato art. 83), quando la lista abbia
già ottenuto 340 seggi, cioè quando abbia avuto «esito positivo» la verifica di
cui al comma 1, numero 6), della medesima disposizione, anche a prescindere
dalla percentuale dei voti ottenuti da tale lista. In altri termini, l’esito
positivo cui si riferisce quella disposizione non può non ricomprendere anche
l’ipotesi che il giudice a quo considera. E poiché in tale ipotesi l’obbiettivo
perseguito dalla legge è già stato raggiunto, non è necessario procedere al turno
di ballottaggio. Ne consegue la non fondatezza della questione.
9.– Con argomentazioni in larga parte coincidenti, e
talora sovrapponibili, i Tribunali ordinari di Torino, Perugia, Trieste e
Genova dubitano della compatibilità con gli artt. 1, secondo comma, 3, e 48,
secondo comma, Cost. delle disposizioni della legge n. 52 del 2015, nelle parti
in cui prevedono – se nessuna lista ha raggiunto, al primo turno, almeno il 40
per cento del totale dei voti validi espressi – un turno di ballottaggio fra le
liste che abbiano superato la soglia di sbarramento nazionale del 3 per cento e
abbiano ottenuto, al primo turno, le due maggiori cifre elettorali nazionali.
Censurano, di conseguenza, l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del
2015 e l’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del
1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015. Il
Tribunale ordinario di Genova coinvolge nella censura anche l’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma
1, della legge n. 52 del 2015.
9.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce
l’inammissibilità delle questioni per tre distinte ragioni.
In relazione alle ordinanze dei Tribunali ordinari
di Torino, Perugia e Trieste, le questioni sarebbero, anzitutto, inammissibili
per erronea o inesatta indicazione della disposizione sospettata
d’illegittimità costituzionale. I giudici a quibus,
censurando l’intero art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015,
non avrebbero correttamente individuato la porzione di disposizione che regola
il turno di ballottaggio, coinvolgendo anche le parti di essa che prevedono le
modalità di attribuzione del premio al primo turno.
Questa prima eccezione non è fondata, in quanto
l’oggetto della questione è facilmente individuabile. Si tratta della seconda
parte dell’art. 1, comma 1, lettera f), dalle parole «o, in mancanza,» sino al
termine del periodo, dovendosi tenere altresì conto del fatto che i rimettenti
sospettano d’illegittimità costituzionale, nel contempo, anche l’art. 83, comma
5, del d.P.R. n. 361 del 1957 che, appunto, prevede
il turno di ballottaggio. È infatti ben possibile circoscrivere l’oggetto del
giudizio di legittimità costituzionale ad una parte della disposizione
censurata, se ciò è chiaramente suggerito, come in questo caso, dalla
complessiva motivazione dell’ordinanza (ex plurimis,
sentenze n. 203
del 2016 e n.
84 del 2016).
Secondo la difesa statale, le questioni sollevate
dagli stessi Tribunali ordinari di Torino, Perugia e Trieste sarebbero,
inoltre, inammissibili per contraddittorietà della prospettazione, in quanto i
rimettenti riterrebbero necessario il superamento di un quorum di aventi
diritto al voto al solo turno di ballottaggio, in cui è assegnato un premio di
maggioranza pari al 5 per cento dei seggi, ma non anche nel primo turno, in
cui, invece, il premio può raggiungere il 15 per cento di questi.
Anche tale eccezione non è fondata. L’obiezione
dell’Avvocatura generale dello Stato si spiega alla luce della ben diversa
prospettiva assunta da quest’ultima circa il turno di ballottaggio, e riguarda
quindi il merito della questione, non invece la sua ammissibilità. Inoltre, la
prospettazione dei rimettenti non è contraddittoria, perché essi illustrano con
ampiezza di argomenti le ragioni per le quali ritengono che i parametri
costituzionali evocati siano violati dalla sola previsione di un turno di
ballottaggio.
Infine – eccepisce la difesa statale con riferimento
alle questioni sollevate dai Tribunali ordinari di Torino, Trieste e Genova – i
giudici a quibus sarebbero incorsi in una aberratio ictus, non avendo ricompreso tra le disposizioni
oggetto di censura quella che prevede la soglia di sbarramento al 3 per cento.
Nemmeno questa eccezione ha fondamento, se si
considera che i rimettenti non contestano la soglia di sbarramento in sé, né
chiedono a questa Corte di pronunciarsi su di essa. Piuttosto, si dolgono del
fatto che al premio possano accedere liste che hanno ottenuto, al primo turno,
anche una percentuale assai bassa di voti, essendo in linea teorica sufficiente
il 3 per cento dei voti validi.
9.2.– Quanto al merito della censura, i giudici a quibus lamentano che la maggioranza risultante dal turno di
ballottaggio sarebbe «artificiosa», in quanto il legislatore si sarebbe
limitato a prevedere che a tale turno accedano le sole due liste più votate
(purché ottengano il 3 per cento dei voti validi espressi, o il 20 per cento se
rappresentative di minoranze linguistiche); in quanto il premio sarebbe
attribuito a chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti validi espressi,
senza alcuna considerazione per l’importanza, anche rilevante, che potrebbe
assumere l’astensione dal voto, come prevedibile conseguenza della radicale
riduzione dell’offerta elettorale nel turno di ballottaggio, e quindi senza
prevedere correttivi, quali, ad esempio, il raggiungimento di un quorum minimo
di votanti in tale turno, o di un quorum minimo al primo turno; e in quanto è
esclusa, in vista del turno di ballottaggio, qualsiasi forma di collegamento
fra liste.
Secondo i rimettenti, tali complessive modalità di
assegnazione del premio al turno di ballottaggio, senza correttivi,
comporterebbero il rischio che il premio sia attribuito a una formazione
politica priva di adeguato radicamento nel corpo elettorale.
I giudici a quibus, in
sostanza, dubitano della conformità ai parametri costituzionali evocati delle
previsioni normative relative al turno di ballottaggio per l’assegnazione del
premio, perché – a loro dire – il modo in cui tale turno è concretamente
disciplinato determinerebbe un’alterazione eccessiva e sproporzionata della
rappresentatività della Camera dei deputati, in nome dell’esigenza di favorire
in Parlamento la formazione di una maggioranza idonea ad assicurare uno stabile
e saldo sostegno al Governo.
In conseguenza di ciò, sollecitano una dichiarazione
d’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n.
52 del 2015 e degli art. 1 e 83, comma 5, del d.P.R.
n. 361 del 1957, come novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52
del 2015: una pronuncia, cioè, che condurrebbe non già alla modifica della
specifica disciplina relativa al turno di ballottaggio, ma alla sua
caducazione.
In definitiva, nella prospettazione dei Tribunali
rimettenti, i tre aspetti del turno di ballottaggio criticamente sottolineati
(una lista può accedere ad esso anche solo raggiungendo il 3 per cento dei voti
al primo turno; al ballottaggio, la soglia del 50 per cento più uno dei voti
necessari per ottenere il premio è calcolata sui voti validi espressi e non
sugli aventi diritto; non sono consentiti apparentamenti o collegamenti tra
liste) costituiscono argomenti a sostegno di una censura volta a ottenere
l’eliminazione dello stesso turno di ballottaggio, e non singoli profili
d’illegittimità costituzionale (come, invece, sembra ritenere l’Avvocatura
generale dello Stato, le cui memorie, infatti, oscillano tra la difesa del
turno di ballottaggio in sé, e la distinta difesa dell’assenza di ciascuno dei
tre caratteri individuati dai rimettenti).
La questione è fondata.
Come si è già ricordato, ben può il legislatore
innestare un premio di maggioranza in un sistema elettorale ispirato al criterio
del riparto proporzionale di seggi, purché tale meccanismo premiale non sia
foriero di un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza
relativa (sentenza
n. 1 del 2014).
Il legislatore ha ritenuto di tener fede alle
indicazioni della giurisprudenza costituzionale, sia prevedendo una soglia
minima di voti per l’attribuzione del premio di maggioranza, sia disponendo
che, qualora nessuna lista raggiunga 340 seggi, si proceda a un turno di
ballottaggio tra le due liste più votate. Se, come sopra affermato (punto 6),
la prima previsione non determina un’irragionevole compressione della
rappresentatività dell’organo elettivo, sono invece le concrete modalità
dell’attribuzione del premio attraverso il turno di ballottaggio a determinare
la lesione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.
Innanzitutto, nel sistema delineato dalla legge n.
52 del 2015, il turno di ballottaggio non è costruito come una nuova votazione
rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione. In
questa prospettiva, al turno di ballottaggio accedono le sole due liste più
votate al primo turno, senza che siano consentite, tra i due turni, forme di
collegamento o apparentamento fra liste. Inoltre, la ripartizione percentuale
dei seggi, anche dopo lo svolgimento del turno di ballottaggio, resta – per
tutte le liste diverse da quella vincente, ed anche per quella che partecipa,
perdendo, al ballottaggio – la stessa del primo turno. Il turno di ballottaggio
serve dunque ad individuare la lista vincente, ossia a consentire ad una lista
il raggiungimento di quella soglia minima di voti che nessuna aveva invece
ottenuto al primo turno.
È vero – come osserva l’Avvocatura generale dello
Stato – che la soglia minima si innalza, al secondo turno, al 50 per cento più
uno dei voti, ma non potrebbe che essere così, dal momento che le liste ammesse
al ballottaggio sono solo due. La legge n. 52 del 2015, prevedendo una
competizione risolutiva tra due sole liste, prefigura stringenti condizioni che
rendono inevitabile la conquista della maggioranza assoluta dei voti
validamente espressi da parte della lista vincente; e poiché, per le
caratteristiche già ricordate, il ballottaggio non è che una prosecuzione del
primo turno di votazione, il premio conseguentemente attribuito resta un premio
di maggioranza, e non diventa un premio di governabilità. Ne consegue che le
disposizioni che disciplinano l’attribuzione di tale premio al ballottaggio incontrano
a loro volta il limite costituito dall’esigenza costituzionale di non
comprimere eccessivamente il carattere rappresentativo dell’assemblea elettiva
e l’eguaglianza del voto.
Il rispetto di tali principi costituzionali non è
tuttavia garantito dalle disposizioni censurate: una lista può accedere al
turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno, un consenso
esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi
che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno. Le
disposizioni censurate riproducono così, seppure al turno di ballottaggio, un
effetto distorsivo analogo a quello che questa Corte aveva individuato, nella sentenza n. 1 del
2014, in relazione alla legislazione elettorale previgente.
Il legittimo perseguimento dell’obbiettivo della
stabilità di Governo, di sicuro interesse costituzionale, provoca in tal modo
un eccessivo sacrificio dei due principi costituzionali ricordati. Se è vero
che, nella legge n. 52 del 2015, il turno di ballottaggio fra le liste più
votate ha il compito di supplire al mancato raggiungimento, al primo turno,
della soglia minima per il conseguimento del premio, al fine di indicare quale
sia la parte politica destinata a sostenere, in prevalenza, il governo del
Paese, tale obbiettivo non può giustificare uno sproporzionato sacrificio dei
principi costituzionali di rappresentatività e di uguaglianza del voto,
trasformando artificialmente una lista che vanta un consenso limitato, ed in
ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta.
Anche in questo caso, pertanto, si conclude
negativamente lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza (art. 3 Cost.),
il quale impone di verificare – anche in ambiti, quale quello in esame,
connotati da ampia discrezionalità legislativa – che il bilanciamento dei
principi e degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato
realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di
uno di essi in misura eccessiva.
Le disposizioni censurate producono una
sproporzionata divaricazione tra la composizione di una delle due assemblee che
compongono la rappresentanza politica nazionale, centro del sistema di
democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati
dalla Costituzione, da un lato, e la volontà dei cittadini espressa attraverso
il voto, «che costituisce il principale strumento di manifestazione della
sovranità popolare secondo l’art. 1 della Costituzione» (sentenza n. 1 del
2014), dall’altro. È vero che, all’esito del ballottaggio, il premio non è
determinato artificialmente, conseguendo pur sempre ad un voto degli elettori,
ma se il primo turno dimostra che nessuna lista, da sola, è in grado di
conquistare il premio di maggioranza, soltanto le stringenti condizioni di
accesso al turno di ballottaggio conducono, attraverso una radicale riduzione
dell’offerta politica, alla sicura attribuzione di tale premio.
Inoltre, è vero che la previsione legislativa di un
turno di ballottaggio eventuale – basato su una competizione risolutiva fra due
sole liste, finalizzata ad attribuire alla lista vincente la maggioranza
assoluta dei seggi nell’assemblea rappresentativa – innesta tratti maggioritari
nel sistema elettorale delineato dalla legge n. 52 del 2015. Ma tale innesto
non cancella la logica prevalente della legge, fondata su una formula di
riparto proporzionale dei seggi, che resta tale persino per la lista perdente
al ballottaggio, la quale mantiene quelli guadagnati al primo turno. Sicché il
perseguimento della finalità di creare una maggioranza politica governante in
seno all’assemblea rappresentativa, destinata ad assicurare (e non solo a
favorire) la stabilità del governo, avviene a prezzo di una valutazione del
peso del voto in uscita fortemente diseguale, al fine dell’attribuzione finale
dei seggi alla Camera, in lesione dell’art. 48, secondo comma, Cost.
È necessario sottolineare che non è il turno di
ballottaggio fra liste in sé, in astratto considerato, a risultare
costituzionalmente illegittimo, perché in radice incompatibile con i principi
costituzionali evocati. In contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48,
secondo comma, Cost. sono invece le specifiche disposizioni della legge n. 52
del 2015, per il modo in cui hanno concretamente disciplinato tale turno, in
relazione all’elezione della Camera dei deputati.
Il turno di voto qui scrutinato – con premio
assegnato all’esito di un ballottaggio in un collegio unico nazionale con voto
di lista – non può essere accostato alle esperienze, proprie di altri
ordinamenti, ove al ballottaggio si ricorre, nell’ambito di sistemi elettorali
maggioritari, per l’elezione di singoli rappresentanti in collegi uninominali
di ridotte dimensioni. In casi del genere, trattandosi di eleggere un solo
rappresentante, il secondo turno è funzionale all’obbiettivo di ridurre la
pluralità di candidature, fino ad ottenere la maggioranza per una di esse, ed è
dunque finalizzato, oltre che alla elezione di un solo candidato, anche a
garantirne l’ampia rappresentatività nel singolo collegio.
Appartiene invece ad una logica diversa –
presentandosi quale istanza risolutiva all’interno di una competizione
elettorale selettiva fra le sole due liste risultate più forti, nell’ambito di
un collegio unico nazionale – l’assegnazione di un premio di maggioranza,
innestato su una formula elettorale in prevalenza proporzionale, finalizzato a
completare la composizione dell’assemblea rappresentativa, con l’obbiettivo di
assicurare (e non solo di favorire) la presenza, in quest’ultima, di una
maggioranza politica governante. Se utilizzato in un tale contesto, che
trasforma in radice la logica e lo scopo della competizione elettorale (gli elettori
non votano per eleggere un solo rappresentante di un collegio elettorale di
limitate dimensioni, ma per decidere a quale forza politica spetti, nell’ambito
di un ramo del Parlamento nazionale, sostenere il governo del Paese), un turno
di ballottaggio a scrutinio di lista non può non essere disciplinato alla luce
della complessiva funzione che spetta ad un’assemblea elettiva nel contesto di
un regime parlamentare.
Nella forma di governo parlamentare disegnata dalla
Costituzione, la Camera dei deputati è una delle due sedi della rappresentanza
politica nazionale (art. 67 Cost.), accanto al Senato della Repubblica. In
posizione paritaria con quest’ultimo, la Camera concede la fiducia al Governo
ed è titolare delle funzioni di indirizzo politico (art. 94 Cost.) e
legislativa (art. 70 Cost.). L’applicazione di un sistema con turno di
ballottaggio risolutivo, a scrutinio di lista, dovrebbe necessariamente tenere
conto della specifica funzione e posizione costituzionale di una tale
assemblea, organo fondamentale nell’assetto democratico dell’intero
ordinamento, considerando che, in una forma di governo parlamentare, ogni
sistema elettorale, se pure deve favorire la formazione di un governo stabile,
non può che esser primariamente destinato ad assicurare il valore
costituzionale della rappresentatività.
Le stringenti condizioni cui la legge n. 52 del 2015
sottopone l’accesso al ballottaggio non adempiono, si è detto, a tali compiti
essenziali. Ma non potrebbe essere questa Corte a modificare, tramite
interventi manipolativi o additivi, le concrete modalità attraverso le quali il
premio viene assegnato all’esito del ballottaggio, inserendo alcuni, o tutti, i
correttivi la cui assenza i giudici rimettenti lamentano. Ciò spetta all’ampia
discrezionalità del legislatore (ad esempio, in relazione alla scelta se
attribuire il premio ad una singola lista oppure ad una coalizione tra liste: sentenza n. 15 del
2008), al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri
limiti d’intervento, non può sostituirsi.
Inoltre, alcuni di questi interventi (che, in
astratto considerati, potrebbero rendere il turno di ballottaggio compatibile
con i tratti qualificanti dell’organo rappresentativo nazionale) non sarebbero
comunque nella disponibilità di questa Corte, a causa della difficoltà tecnica
di restituire, all’esito dello scrutinio di legittimità costituzionale, una
disciplina elettorale immediatamente applicabile, complessivamente idonea a
garantire l’immediato rinnovo dell’organo costituzionale elettivo (da ultimo, sentenza n. 1 del
2014).
Merita, infine, precisare che l’affermata
illegittimità costituzionale delle disposizioni scrutinate non ha alcuna
conseguenza né influenza sulla ben diversa disciplina del secondo turno
prevista nei Comuni di maggiori dimensioni, già positivamente esaminata da
questa Corte (sentenze n. 275 del 2014
e n. 107 del 1996).
Tale disciplina risponde, infatti, ad una logica distinta da quella che ispira
la legge n. 52 del 2015. È pur vero che nel sistema elettorale comunale
l’elezione di una carica monocratica, quale è il sindaco, alla quale il
ballottaggio è primariamente funzionale, influisce in parte anche sulla
composizione dell’organo rappresentativo. Ma ciò che più conta è che quel
sistema si colloca all’interno di un assetto istituzionale caratterizzato
dall’elezione diretta del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben
diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a
livello nazionale.
Dall’insieme delle considerazioni svolte deriva la
dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f),
della legge n. 52 del 2015 (dalle parole «o, in mancanza» alle parole «tra i
due turni di votazione»), dell’ultima parte dell’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 (ossia delle parole «, ovvero a
seguito di un turno di ballottaggio ai sensi dell’art. 83»), e dell’art. 83,
comma 5, dello stesso d.P.R. n. 361 del 1957.
La normativa che resta in vigore a seguito della
caducazione del citato comma 5 dell’art. 83 del d.P.R.
n. 361 del 1957 è idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo
costituzionale elettivo, così come richiesto dalla costante giurisprudenza
costituzionale (oltre alla già citata sentenza n. 1 del
2014, sentenze n. 13 del 2012,
n. 16 e 15 del 2008, n. 13 del 1999,
n. 26 del 1997,
n. 5 del 1995,
n. 32 del 1993,
n. 47 del 1991,
n. 29 del 1987).
Infatti, qualora, all’esito del primo turno, la lista con la maggiore cifra
elettorale nazionale non abbia ottenuto almeno il 40 per cento del totale dei
voti validi espressi, s’intende che resta fermo il riparto dei seggi – tra le
liste che hanno superato le soglie di sbarramento di cui all’art. 83, comma 1,
numero 3), del d.P.R. n. 361 del 1957 – ai sensi del
comma 1, numero 4), del medesimo art. 83.
10.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva
questioni di legittimità costituzionale su alcune parti della disciplina che la
legge n. 52 del 2015 prevede in tema di assegnazione dei seggi e di
proclamazione degli eletti. Per asserita violazione dell’art. 56 Cost., sono
censurati, in particolare, l’art. 1, comma 1, lettere a), d) ed e), della legge
ricordata, e gli artt. 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e 84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come sostituiti
dall’art. 2, commi 25 e 26, della medesima legge n. 52 del 2015.
Il rimettente lamenta che, in virtù delle
disposizioni ricordate, un seggio, da assegnarsi in una determinata
circoscrizione, potrebbe risultare assegnato in un’altra (ingenerando un
fenomeno di traslazione di seggi, noto anche con il termine “slittamento”).
Assume che tale esito si porrebbe in contrasto con l’art. 56 Cost. e si duole,
in particolare, della violazione del suo quarto comma, il quale prevede che
«[l]a ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni […] si effettua dividendo il
numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento
generale della popolazione, per seicentodiciotto e
distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione,
sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti».
Nella visione del rimettente, tale norma
esprimerebbe i principi della rappresentanza cosiddetta territoriale e della
responsabilità dell’eletto rispetto agli elettori che lo hanno votato, asseritamente lesi dalle disposizioni censurate, nelle
parti in cui prevedono che, se una lista ha esaurito, in una circoscrizione, il
numero dei candidati potenzialmente eleggibili, i seggi spettanti a quella
lista vengono trasferiti in un’altra circoscrizione in cui vi siano candidati
“eccedentari”.
10.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce
l’inammissibilità delle censure, innanzitutto in quanto il giudice a quo non
avrebbe illustrato la disciplina prevista dalla legge n. 52 del 2015 in tema di
assegnazione dei seggi, limitandosi a lamentare la «complessità tecnica del meccanismo
elettorale» e «la farraginosità della normativa censurata (ampiamente esposta
nel ricorso)». In particolare, la difesa statale assume che le questioni
sarebbero inammissibili in quanto il rimettente avrebbe rinviato per relationem al ricorso delle parti.
Tale eccezione non è fondata.
Il rimettente ha ricordato le doglianze delle parti
e successivamente – sia pure in modo sintetico – ha motivato per quali ragioni
le ha ritenute non manifestamente infondate in relazione all’art. 56 Cost. Ha,
cioè, chiarito il senso della censura proposta, sia pure esponendo che la
farraginosità della disciplina censurata era stata lamentata nel ricorso delle
parti. In definitiva, il giudice a quo rinvia all’atto di parte non per
l’individuazione dei termini delle questioni prospettate (come nel precedente
ricordato dall’Avvocatura generale dello Stato: ordinanza n. 239
del 2012), ma solo con riferimento all’illustrazione del meccanismo di
assegnazione dei seggi.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce,
inoltre, la manifesta inammissibilità delle questioni, in quanto il rimettente
avrebbe erroneamente individuato le disposizioni oggetto della questione di legittimità
costituzionale: da un lato, risulterebbe «troppo ampio» il riferimento all’art.
83, commi da 1 a 5, del d.P.R. n. 361 del 1957;
dall’altro, sarebbe errato il riferimento all’art. 84, commi 2 e 4, del
medesimo corpus normativo.
L’eccezione è solo in parte fondata.
Secondo costante giurisprudenza costituzionale, è
possibile circoscrivere l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale ad
una parte soltanto della o delle disposizioni censurate, se ciò è suggerito
dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis,
sentenze n. 203
del 2016 e n.
84 del 2016). Per questo, l’eccezione è da rigettare nella parte in cui
lamenta che il riferimento all’art. 83, dal comma 1 al comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957 risulta eccessivamente ampio: ben si
comprende, infatti, che la censura relativa alla traslazione dei seggi tra
circoscrizioni, nella fase della loro assegnazione, riguarda specificamente
l’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. n. 361 del
1957.
L’eccezione è invece, fondata per la parte in cui
sottolinea che il Tribunale ordinario di Messina, pur lamentando la possibilità
che si verifichino casi di traslazione di seggi da una circoscrizione ad
un’altra, ha erroneamente fatto oggetto di censura anche i commi 2 e 4
dell’art. 84 del d.P.R. n. 361 del 1957, come
sostituiti dall’art. 2, comma 26, della medesima legge n. 52 del 2015, i quali,
invece, consentono che si verifichino traslazioni di seggi, nella fase della
proclamazione degli eletti, da un collegio plurinominale ad un altro.
La traslazione di seggi da una circoscrizione ad
un’altra nella fase della proclamazione degli eletti è infatti consentita dall’art.
84, comma 3, del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957.
La censura del rimettente, in riferimento all’art.
84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957 è dunque
inammissibile per aberratio ictus (sentenze n. 140 del 2016,
n. 216 e n. 157 del 2015;
ordinanze n. 182,
n. 153, n. 47 e n. 24 del 2016,
n. 128 del 2015).
D’altra parte, anche a intenderla come rivolta
all’eventuale traslazione di un seggio, nella fase della proclamazione degli eletti,
da un collegio plurinominale ad un altro, la censura sarebbe inammissibile per
assoluta carenza di motivazione. Il rimettente, infatti, si limita a lamentare
lo slittamento tra circoscrizioni, e soprattutto non si interroga
sull’eventualità che l’art. 56, quarto comma, Cost. esprima un principio
vincolante anche per la distribuzione dei seggi nei collegi, cioé in relazione ad ambiti territoriali più ridotti
rispetto alle circoscrizioni.
10.2.– Resta dunque da scrutinare nel merito,
rispetto a quanto disposto dall’art. 56, quarto comma, Cost., la questione
avente ad oggetto l’art. 83, comma 1, numero 8), del più volte citato d.P.R. n. 361 del 1957, che regola l’assegnazione dei seggi
tra le diverse circoscrizioni (e non anche tra i collegi plurinominali),
insieme all’art. 1, comma 1, lettere a), d) ed e), della legge n. 52 del 2015,
il quale – nella prospettiva del rimettente – riassume i caratteri del sistema
elettorale che consentono l’effetto traslativo dei seggi qui lamentato.
É utile preliminarmente ricordare che la legge n. 52
del 2015 – come prevede l’art. 1, comma 1, lettera a) – suddivide il territorio
nazionale in venti circoscrizioni, a loro volta ripartite in cento collegi
plurinominali (fatti salvi i collegi uninominali nelle circoscrizioni Valle
d’Aosta e Trentino-Alto Adige), individuati con decreto legislativo.
L’indicazione del numero dei seggi da attribuire
alle singole circoscrizioni e ai singoli collegi plurinominali di ciascuna
circoscrizione spetta, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R.
n. 361 del 1957, ad un decreto del Presidente della Repubblica, da approvare
contestualmente a quello di convocazione dei comizi elettorali, «sulla base dei
risultati dell’ultimo censimento generale della popolazione, riportati dalla
più recente pubblicazione ufficiale dell’Istituto nazionale di statistica».
Tale operazione è effettuata prima dello svolgimento
delle elezioni.
Il giudice a quo censura, invero, il meccanismo
normativo di assegnazione dei seggi alle singole liste previsto all’esito delle
elezioni, sulla base dei voti ottenuti da ciascuna lista (meccanismo che,
secondo quanto prevede l’art. 1, comma 1, lettera d, della legge n. 52 del
2015, si fonda su una attribuzione dei seggi su base nazionale con il metodo
dei quozienti interi e dei più alti resti).
Secondo tale disciplina, dopo che l’Ufficio centrale
nazionale ha stabilito quanti seggi spettano a ciascuna lista a livello
nazionale (art. 83, comma 1, numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7, e commi 2, 3, 4, 5 e
6, del d.P.R. n. 361 del 1957), il medesimo ufficio,
ai sensi del censurato art. 83, comma 1, numero 8), del citato d.P.R., distribuisce i seggi nelle varie circoscrizioni, in
proporzione al numero di voti che ogni lista ha ottenuto in ciascuna di esse
(con l’eccezione delle circoscrizioni Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta).
L’ufficio deve quindi verificare – e proprio in
questa fase può verificarsi l’eventualità della traslazione – se la somma dei
seggi assegnati alle liste nelle circoscrizioni corrisponda al numero dei seggi
loro spettanti a livello nazionale, ovvero se vi siano liste che, in base al
riparto a livello circoscrizionale, ne hanno ottenuti di più (liste cosiddette
“eccedentarie”) ovvero di meno (liste cosiddette “deficitarie”) rispetto a
quelli loro spettanti a livello nazionale.
In tale secondo caso, l’Ufficio centrale nazionale è
chiamato ad operare delle correzioni.
L’art. 83, comma 1, numero 8), prevede che i seggi
siano sottratti, a partire dalla lista che ha il maggior numero di seggi
eccedenti (e, in caso di parità, a partire da quella che ha ottenuto la
maggiore cifra elettorale nazionale), proseguendo poi con le altre liste, in
ordine decrescente di seggi eccedenti.
L’ufficio sottrae tali seggi nelle circoscrizioni in
cui la lista li ha ottenuti con le minori parti decimali dei quozienti di
attribuzione (ossia, con un numero minore di voti).
Quei seggi, così sottratti, sono assegnati, nella
medesima circoscrizione, alle liste deficitarie per le quali le parti decimali
dei quozienti di attribuzione non hanno dato luogo all’assegnazione di alcun
seggio (ossia nei casi in cui la lista non ha ottenuto il seggio perché il
numero di voti conseguiti non è stato sufficiente a raggiungere un quoziente
intero).
Se non è possibile che tale compensazione si
realizzi secondo le modalità appena ricordate – in quanto non vi siano, in una
medesima circoscrizione, liste deficitarie con parti decimali dei quozienti
inutilizzate – l’Ufficio centrale nazionale deve proseguire, per la stessa
lista eccedentaria, nell’ordine dei decimali crescenti, fino ad individuare
un’altra circoscrizione all’interno della quale sia contestualmente possibile
sottrarre il seggio alla lista eccedentaria e assegnarlo a quella deficitaria.
Il complesso di tali previsioni – e in particolare
quella da ultimo ricordata (introdotta, al Senato, nel corso dei lavori
preparatori della legge n. 52 del 2015) – ha l’obbiettivo di consentire che le
compensazioni avvengano all’interno di una medesima circoscrizione, anche a
costo di danneggiare la lista eccedentaria, la quale potrebbe risultare privata
del seggio non nella circoscrizione dove ha ottenuto meno voti, ma in quella in
cui ne ha ottenuti di più. E tale operazione è condotta allo scopo di impedire
che le compensazioni avvengano, come più frequentemente accadeva nella vigenza
dei precedenti sistemi elettorali, tra circoscrizioni diverse. Dunque, proprio
per evitare che si verifichino traslazioni di seggi da una circoscrizione ad
un’altra.
Infatti, solo nell’ipotesi in cui – nonostante tutte
le operazioni descritte – permanga l’impossibilità di effettuare la
compensazione tra liste eccedentarie e deficitarie in una medesima
circoscrizione, si applica, quale norma di chiusura, la disposizione censurata,
contenuta nell’ultimo periodo dell’art. 83, comma 1, numero 8) («[n]el caso in cui non sia possibile fare riferimento alla
medesima circoscrizione ai fini del completamento delle operazioni precedenti,
fino a concorrenza dei seggi ancora da cedere, alla lista eccedentaria vengono
sottratti i seggi nelle circoscrizioni nelle quali essa li ha ottenuti con le
minori parti decimali del quoziente di attribuzione, e alla lista deficitaria
sono conseguentemente attribuiti seggi nelle altre circoscrizioni nelle quali
abbia le maggiori parti decimali del quoziente di attribuzione non utilizzate»).
Alla luce di tali premesse, la questione non è
fondata.
L’Avvocatura generale dello Stato, ai fini del
rigetto, obietta che l’art. 56, quarto comma, Cost. vincolerebbe il legislatore
a tenere in conto l’entità della popolazione di ogni circoscrizione, con
riferimento specifico alle elezioni della Camera dei deputati, nella sola fase,
preliminare alle elezioni, della ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni.
Tale norma costituzionale, invece, non riguarderebbe il meccanismo di
assegnazione dei seggi alle singole liste, effettuato dopo le elezioni.
L’obiezione non coglie nel segno.
Sostenere che i contenuti precettivi dell’art. 56,
quarto comma, Cost. si riferiscano soltanto al momento antecedente alle
elezioni, ossia alla sola ripartizione dei seggi fra le diverse circoscrizioni
e non anche alla fase della loro assegnazione alle liste dopo le elezioni,
autorizzerebbe il sostanziale aggiramento del significato della norma
costituzionale. Essa non si limita, invero, a prescrivere che i seggi da assegnare
a ciascuna circoscrizione siano ripartiti in proporzione alla popolazione,
prima delle elezioni. Essa intende anche impedire che tale ripartizione possa
successivamente esser derogata, al momento della assegnazione dei seggi alle
diverse liste nelle circoscrizioni, sulla base dei voti conseguiti da ciascuna
di esse.
La contraria lettura, sulla base di
un’interpretazione formalistica dell’art. 56, quarto comma, Cost., potrebbe legittimare,
all’esito del voto, anche consistenti traslazioni di seggi da una
circoscrizione all’altra, tali da pregiudicare la garanzia di una proporzionale
distribuzione dei seggi sul territorio nazionale.
La non fondatezza della questione, con riferimento
allo specifico sistema elettorale previsto, per la Camera dei deputati, dalla
legge n. 52 del 2015, deriva, piuttosto, dalla circostanza, prima dimostrata,
che il complesso sistema di assegnazione dei seggi previsto dalla disciplina
introdotta dalla legge n. 52 del 2015 dispiega ampie cautele proprio allo scopo
di evitare la traslazione che il giudice a quo lamenta. E dal fatto che
l’effetto traslativo, attraverso l’applicazione della disposizione indubbiata,
si presenta, di risulta, solo se il ricorso a quelle cautele si riveli inutile,
in casi limite che il legislatore intende come del tutto residuali.
La non fondatezza della censura si rivela, ancor più
nitidamente, alla luce della necessità di interpretare il disposto di cui
all’art. 56, quarto comma, Cost. in modo non isolato, ma in sistematica lettura
con i principi desumibili dagli artt. 67 e 48 Cost.
Da questo punto di vista, il sistema di assegnazione
dei seggi nelle circoscrizioni previsto dalla legge n. 52 del 2015 – che
ricomprende, quale ipotesi residuale, la disposizione censurata – costituisce
l’esito del bilanciamento fra principi ed esigenze diversi, non sempre tra loro
perfettamente armonizzabili (analogamente, sia pure con riferimento alla
diversa disciplina prevista per l’elezione dei membri italiani del Parlamento
europeo, sentenza
n. 271 del 2010).
Da un lato, il principio desumibile, appunto,
dall’art. 56, quarto comma, Cost., posto a garanzia di una rappresentanza commisurata
alla popolazione di ciascuna porzione del territorio nazionale; dall’altro, la
necessità di consentire l’attribuzione dei seggi sulla base della cifra
elettorale nazionale conseguita da ciascuna lista (soluzione, tra l’altro,
funzionale – nel sistema elettorale ora in esame – allo scopo di individuare le
liste che superano la soglia di sbarramento del 3 per cento, secondo quanto
previsto anche dall’art. 1, comma 1, lettera e, della legge n. 52 del 2015,
nonché la lista cui eventualmente attribuire il premio di maggioranza); infine
l’esigenza di tenere conto, nella prospettiva degli elettori, del consenso
ottenuto da ciascuna lista nelle singole circoscrizioni, alla luce dell’art. 48
Cost.
Il disposto di cui all’art. 56, quarto comma, Cost.
non può essere infatti inteso nel senso di richiedere, quale soluzione
costituzionalmente obbligata, un’assegnazione di seggi interamente conchiusa
all’interno delle singole circoscrizioni, senza tener conto dei voti che le
liste ottengono a livello nazionale (come, ad esempio, nel caso di un sistema
elettorale interamente fondato su collegi uninominali a turno unico; oppure di
un sistema proporzionale con riparto dei seggi solo a livello circoscrizionale,
senza alcun recupero dei resti a livello nazionale).
L’art. 56, quarto comma, Cost. non è preordinato a
garantire la rappresentanza dei territori in sé considerati (sentenza n. 271 del
2010), ma, come si è detto, tutela la distinta esigenza di una
distribuzione dei seggi in proporzione alla popolazione delle diverse parti del
territorio nazionale: la Camera resta, infatti, sede della rappresentanza
politica nazionale (art. 67 Cost.), e la ripartizione in circoscrizioni non fa
venir meno l’unità del corpo elettorale nazionale, essendo le singole
circoscrizioni altrettante articolazioni di questo nelle varie parti del
territorio.
Con riferimento al sistema elettorale introdotto
dalla legge n. 52 del 2015, se è costituzionalmente legittimo che il riparto di
seggi avvenga a livello nazionale (eventualità che del resto il giudice a quo
non contesta), l’art. 56, quarto comma, Cost. deve essere quindi osservato fin
tanto che ciò sia ragionevolmente possibile, senza escludere la legittimità di
residuali ed inevitabili ipotesi di traslazione di seggi da una circoscrizione
ad un’altra.
In definitiva, il meccanismo di riparto dei seggi
previsto dall’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R.
n. 361 del 1957, non viola l’art. 56, quarto comma, Cost., poiché la traslazione
di un seggio da una circoscrizione ad un’altra costituisce, nella procedura di
assegnazione dei seggi, un’ipotesi residuale, che può verificarsi, per ragioni
matematiche e casuali, solo quando non sia stato possibile, applicando le
disposizioni vigenti, individuare nessuna circoscrizione in cui siano
compresenti una lista eccedentaria ed una deficitaria con parti decimali dei
quozienti non utilizzati.
La questione non è, infine, fondata nemmeno con
riferimento al primo comma dell’art. 56 Cost., che contiene il principio del
voto diretto. Quest’ultimo, esigendo che l’elezione dei deputati avvenga
direttamente ad opera degli elettori, senza intermediazione alcuna, non viene
in considerazione in relazione alle disposizioni censurate.
11.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera g), della
legge n. 52 del 2015 e degli artt. 18-bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1,
primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del
1957, come modificati o sostituiti dall’art. 2, commi 10, lettera c), 11 e 26,
della legge n. 52 del 2015. I parametri costituzionali la cui lesione è
lamentata sono l’art. 48, secondo comma, Cost. e, nel solo dispositivo
dell’ordinanza di rimessione, gli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 51, primo
comma, 56, primo e quarto comma, Cost.
Le questioni così sollevate investono le previsioni
in base alle quali le liste, nei singoli collegi, sono composte da un candidato
capolista e da un elenco di candidati, tra i quali ultimi l’elettore può
esprimere fino a due preferenze per candidati di sesso diverso scelti tra
quelli non capilista.
Il giudice a quo, dopo aver illustrato il sistema
introdotto dalla legge n. 52 del 2015 e aver ricordato i contenuti della sentenza n. 1 del
2014 di questa Corte, osserva che, in linea di principio, un sistema misto
– «in parte blindato ed in parte preferenziale» – potrebbe ritenersi coerente
con le indicazioni di quella pronuncia. Dubita, tuttavia, che il sistema così
introdotto garantisca all’elettore la possibilità di esprimere un voto diretto,
libero e personale, in quanto, particolarmente per gli elettori che votano per
le liste di minoranza, potrebbe concretamente realizzarsi un effetto distorsivo
dovuto al formarsi di una rappresentanza parlamentare largamente dominata dai
capilista bloccati, «pur se con il correttivo della multicandidatura».
Il giudice a quo, in altri termini, osserva che, con
alta probabilità, solo la lista che consegue il premio otterrà eletti con le
preferenze, mentre gli eletti nelle liste di minoranza saranno unicamente o
perlopiù capilista bloccati. E ciò, egli sottolinea, pur con il correttivo
della «multicandidatura»: il rimettente, dunque, non
intende censurare la disposizione che consente ai capilista di candidarsi in
più collegi (al massimo dieci), ma si mostra, anzi, consapevole del fatto che
tale possibilità può produrre l’effetto di liberare seggi per candidati scelti
attraverso il voto di preferenza (ad esempio, se una lista presenta dieci
capilista diversi, ciascuno candidato in dieci collegi, potrebbe ottenere, al
massimo, dieci eletti senza preferenze; se, all’estremo opposto, quella lista
presenta un diverso capolista in ciascuno dei cento collegi, potrebbe avere
fino a cento eletti senza preferenze).
Ciononostante, il rimettente lamenta la violazione
della libertà del diritto di voto degli elettori delle liste di minoranza.
Mentre, infatti, la lista che consegue il premio di maggioranza, ottenendo 340
seggi, avrà con certezza almeno 240 deputati eletti con le preferenze (e anche
di più se – come detto – i capilista si candidano in più collegi), alle liste
perdenti non potranno che essere attribuiti i restanti 278 seggi e, se tali
liste sono in numero superiore a tre, in teoria potrebbero ottenere soltanto
deputati eletti senza preferenze.
11.1.– Preliminarmente all’esame del merito della
questione, va rilevato che sono inammissibili le censure proposte con
riferimento agli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 51, primo comma, 56, primo
e quarto comma, Cost., in quanto non motivate, non essendo tali parametri
costituzionali neppure evocati nella parte motiva, ma esclusivamente nel
dispositivo (sentenze n. 59 del 2016,
n. 248 del 2015,
n. 100 del 2015;
ordinanze n. 122
e n. 33 del 2016).
Deve invece essere rigettata l’eccezione
d’inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato, la quale assume che la
questione sarebbe posta in modo contraddittorio. Il rimettente, essa sostiene,
dapprima avrebbe affermato che la previsione di soli capilista bloccati e liste
corte sarebbe conforme a quanto affermato, in materia, dalla giurisprudenza di
questa Corte, per poi lamentare comunque che le disposizioni censurate si
porrebbero in contrasto con l’art. 48 Cost. in relazione all’elezione dei
candidati delle liste di minoranza.
Inoltre, per la difesa statale, il rimettente
avrebbe così affermato, solo apoditticamente e senza dimostrarlo, che
risulterebbero eletti «tutti e soli i capilista» di queste ultime.
In realtà, il giudice a quo, pur consapevole che le
«multicandidature» dei capilista possono attenuare
l’effetto lesivo che lamenta – l’elezione di soli candidati bloccati nelle
liste di minoranza – ha tuttavia ritenuto prevalenti le conseguenze asseritamente incostituzionali delle disposizioni
censurate, in quanto l’elezione di candidati con preferenze sarebbe comunque
rimessa, per quelle liste, alle scelte dei singoli partiti.
11.2.– Così formulata, la questione non è fondata.
Nella sentenza n. 1 del
2014, questa Corte rilevò che il sistema allora vigente determinava la
lesione della libertà del voto garantita dall’art. 48, secondo comma, Cost.,
poiché non consentiva all’elettore alcun margine di scelta dei propri
rappresentanti, prevedendo un voto per una lista composta interamente da
candidati bloccati, nell’ambito di circoscrizioni molto ampie e in presenza di
liste con un numero assai elevato di candidati, potenzialmente corrispondenti
all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, perciò difficilmente
conoscibili dall’elettore. In quel sistema, alla totalità dei parlamentari,
senza alcuna eccezione, mancava il sostegno della indicazione personale degli
elettori, in lesione della logica della rappresentanza prevista dalla
Costituzione. Simili condizioni di voto, che imponevano all’elettore di una
lista di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati
– che non aveva avuto modo né di conoscere né di valutare – perciò
automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare
deputati o senatori, rendevano quella disciplina «non comparabile né con altri
sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con
altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni
territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia
talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa
l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel
caso dei collegi uninominali)».
In sostanza, mentre lede la libertà del voto un
sistema elettorale con liste bloccate e lunghe di candidati, nel quale è in
radice esclusa, per la totalità degli eletti, qualunque indicazione di consenso
degli elettori, appartiene al legislatore discrezionalità nella scelta della
più opportuna disciplina per la composizione delle liste e per l’indicazione
delle modalità attraverso le quali prevedere che gli elettori esprimano il
proprio sostegno ai candidati.
Alla luce di tali premesse, le disposizioni
censurate non determinano una lesione della libertà del voto dell’elettore,
presidiata dall’art. 48, secondo comma, Cost.
Il sistema elettorale previsto dalla legge n. 52 del
2015 si discosta da quello previgente per tre aspetti essenziali: le liste sono
presentate in cento collegi plurinominali di dimensioni ridotte, e sono dunque
formate da un numero assai inferiore di candidati; l’unico candidato bloccato è
il capolista, il cui nome compare sulla scheda elettorale (ciò che valorizza la
sua preventiva conoscibilità da parte degli elettori); l’elettore può, infine,
esprimere sino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che
non sono capilista.
Né è irrilevante, nella complessiva valutazione di
una siffatta disciplina, la circostanza che la selezione e la presentazione
delle candidature (sentenze n. 429 del 1995
e n. 203 del
1975) nonché, come nel caso di specie, l’indicazione di candidati
capilista, è anche espressione della posizione assegnata ai partiti politici
dall’art. 49 Cost., considerando, peraltro, che tale indicazione, tanto più
delicata in quanto quei candidati sono bloccati, deve essere svolta alla luce
del ruolo che la Costituzione assegna ai partiti, quali associazioni che
consentono ai cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare,
anche attraverso la partecipazione alle elezioni, la politica nazionale.
Si deve, per di più, osservare che l’effetto del
quale il giudice a quo in prevalenza si duole – le liste di minoranza potrebbero
avere eletti solo tra i capilista bloccati – costituisce una conseguenza (certo
rilevante politicamente) che deriva, di fatto, anche dal modo in cui il sistema
dei partiti è concretamente articolato, e che non può, di per sé, tradursi in
un vizio d’illegittimità costituzionale (sull’irrilevanza dei cosiddetti
inconvenienti di fatto nel giudizio costituzionale, ex multis,
sentenze n. 219
e n. 192 del
2016; ordinanze n. 122 e n. 93 del 2016).
Inoltre e infine, come correttamente osserva
l’Avvocatura generale dello Stato, molte sono le variabili in grado di
determinare quanti candidati sono eletti con o senza preferenze: oltre al
numero dei capilista candidati in più collegi, che possono liberare seggi da
assegnare ad eletti con preferenze, rileva anche la diffusione, sul territorio
nazionale, del consenso che ciascuna lista ottiene. L’effetto temuto presuppone
che tale consenso sia omogeneamente diffuso per tutte le liste di minoranza.
Laddove esso sia invece concentrato soprattutto in determinati collegi, una
lista potrà conseguire, in questi, più di un seggio, eleggendo così, oltre al
capolista, uno o più candidati con preferenze.
12.– I Tribunali ordinari di Torino, Perugia,
Trieste e Genova, con argomenti largamente coincidenti, ritengono non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad
oggetto l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957 (come
modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015), il quale prevede
che il deputato eletto in più collegi plurinominali deve dichiarare alla
Presidenza della Camera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell’ultima
proclamazione, quale collegio plurinominale prescelga.
Secondo i rimettenti, tale disposizione consente al
candidato capolista, eletto in più collegi plurinominali, di optare in base ad
una sua mera valutazione di opportunità, e non subordina tale opzione ad alcun
criterio oggettivo e predeterminato, rispettoso, nel massimo grado possibile,
della volontà espressa dagli elettori. Per tutti i giudici a quibus, tale disciplina violerebbe perciò gli artt. 3 e 48
Cost., in quanto il voto di preferenza espresso nei confronti di candidati non
bloccati verrebbe vanificato nel collegio arbitrariamente prescelto dal
candidato capolista eletto in più collegi: la sua opzione potrebbe, infatti,
impedire l’attribuzione di un seggio ad un candidato che pure abbia ottenuto
molti voti di preferenza, se il capolista sceglie quel collegio; al contrario,
la sua scelta potrebbe determinare l’elezione di un candidato che abbia
ottenuto anche un esiguo consenso personale, nel caso in cui il capolista non
opti per tale collegio.
Osserva, in particolare, il Tribunale ordinario di
Torino (e gli altri rimettenti in termini analoghi) che l’arbitrarietà della
scelta del collegio da parte del capolista plurieletto determina un effetto di
distorsione tra il voto di preferenza espresso dagli elettori e il suo esito
“in uscita” in quel collegio. Tale effetto sarebbe lesivo dei principi di
uguaglianza e libertà del voto, senza che alcun valore costituzionale sia
invocabile a tutela della disciplina censurata.
12.1.– In tutti i giudizi, l’Avvocatura generale
dello Stato eccepisce l’inammissibilità questione. I rimettenti sarebbero,
infatti, incorsi in una contraddizione nella formulazione della motivazione e
del petitum, poiché avrebbero lamentato l’assenza di
vincoli all’esercizio del diritto di opzione del candidato capolista, evocando
perciò un intervento additivo o manipolativo di questa Corte, mentre nel
dispositivo avrebbero sollecitato una pronuncia di tipo seccamente ablativo
della disposizione.
Osserva, inoltre, la difesa statale come una
pronuncia di accoglimento della questione «determinerebbe un’inammissibile
vuoto normativo che potrebbe avere come conseguenza l’impossibilità di
applicare la legge nella sua interezza», ciò che, secondo costante
giurisprudenza costituzionale, non sarebbe possibile (sono ricordate le
sentenze della Corte costituzionale n. 13 del 2012
e n. 29 del 1987).
L’eccezione non è fondata.
Nella sostanza, l’obiezione dell’Avvocatura generale
dello Stato – ad avviso della quale la questione dovrebbe incorrere in una
pronuncia di inammissibilità perché sussiste in materia discrezionalità
legislativa, molteplici essendo le soluzioni idonee a colmare la lacuna
derivante dall’accoglimento e nessuna risultando a rime costituzionalmente
obbligate – finisce per confondersi con il merito stesso della censura, che
deve perciò essere affrontato.
12.2.– La questione è fondata.
L’assenza nella disposizione censurata di un
criterio oggettivo, rispettoso della volontà degli elettori e idoneo a
determinare la scelta del capolista eletto in più collegi, è in contraddizione
manifesta con la logica dell’indicazione personale dell’eletto da parte
dell’elettore, che pure la legge n. 52 del 2015 ha in parte accolto,
permettendo l’espressione del voto di preferenza. L’opzione arbitraria consente
al capolista bloccato eletto in più collegi di essere titolare non solo del
potere di prescegliere il collegio d’elezione, ma altresì, indirettamente,
anche di un improprio potere di designazione del rappresentante di un dato
collegio elettorale, secondo una logica idonea, in ultima analisi, a
condizionare l’effetto utile dei voti di preferenza espressi dagli elettori.
Obietta l’Avvocatura generale dello Stato che, nel
sistema elettorale proporzionale antecedente al 1993, ai candidati eletti in
più collegi era costantemente attribuita una libera facoltà di scelta del
collegio d’elezione. Ricorda, inoltre, la sentenza n. 104 del
2006 di questa Corte, in cui si è affermato che «[i]l diritto di optare per
una delle circoscrizioni nelle quali il candidato è risultato eletto
costituisce il modo per consentirgli di instaurare uno specifico legame, in
termini di rappresentanza politica, con il corpo degli elettori appartenenti ad
un determinato collegio ed è esplicazione del diritto di elettorato passivo,
garantito a tutti i cittadini dall’art. 51, primo comma, Cost.».
A tali osservazioni è agevole replicare che nel
sistema elettorale antecedente al 1993, come pure nel sistema per l’elezione dei
membri italiani al Parlamento europeo, cui specificamente si riferisce la
sentenza invocata, il voto di preferenza poteva essere accordato a qualunque
candidato, il quale, se eletto in più circoscrizioni, ragionevolmente poteva
scegliere a discrezione quella in cui essere proclamato. Inoltre, l’accesso
alle multicandidature non era riservato ai capilista,
ma anche agli altri candidati.
Ben diverso è il sistema introdotto dalla legge n.
52 del 2015: in questo, solo i capilista sono bloccati e possono candidarsi in
più collegi, e sono costoro a determinare poi, con la loro opzione, l’elezione
– o la mancata elezione – di candidati che hanno invece ottenuto voti di
preferenza.
Da questo punto di vista, non errano i giudici a quibus laddove lamentano che l’opzione arbitraria affida
irragionevolmente alla decisione del capolista il destino del voto di
preferenza espresso dall’elettore nel collegio prescelto, determinando una
distorsione del suo esito in uscita, in violazione non solo del principio
dell’uguaglianza ma anche della personalità del voto, tutelati dagli artt. 3 e
48, secondo comma, Cost. Né la garanzia di alcun altro interesse di rango
costituzionale potrebbe bilanciare tale lesione, poiché la libera scelta
dell’ambito territoriale in cui essere eletto – al fine di instaurare uno
specifico legame, in termini di responsabilità politica, con il corpo degli
elettori appartenenti ad un determinato collegio – potrebbe semmai essere
invocata da un capolista che in quel collegio abbia guadagnato l’elezione con
le preferenze, ma non certo, ed in ipotesi a danno di candidati che le
preferenze hanno ottenuto, da un capolista bloccato.
Accertata l’illegittimità costituzionale dell’art.
85 del d.P.R. n. 361 del 1957 (come modificato
dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015) nella parte in cui consente
l’opzione arbitraria, questa Corte deve riconoscere – nella rigorosa osservanza
dei limiti dei propri poteri, tanto più in materia elettorale, connotata da
ampia discrezionalità legislativa (sentenze n. 1 del 2014, n. 242 del 2012,
n. 271 del 2010,
n. 107 del 1996,
n. 438 del 1993;
ordinanza n. 260
del 2002) – che più d’uno sono, in realtà, i possibili criteri alternativi,
coerenti con la disciplina della legge n. 52 del 2015 in tema di candidature e
voto di preferenza.
Infatti, e solo in via meramente esemplificativa,
secondo una logica volta a premiare il voto di preferenza espresso dagli
elettori, potrebbe stabilirsi che il capolista candidato in più collegi debba
esser proclamato eletto nel collegio in cui il candidato della medesima lista –
il quale sarebbe eletto in luogo del capolista – abbia riportato, in
percentuale, meno voti di preferenza rispetto a quelli ottenuti dai candidati
in altri collegi con lo stesso capolista. Ancora, secondo una logica assai
diversa, tesa a valorizzare il rilievo e la visibilità della sua candidatura,
potrebbe invece prevedersi che il capolista candidato in più collegi debba
essere proclamato eletto in quello dove la rispettiva lista ha ottenuto, sempre
in percentuale, la maggiore cifra elettorale, in relazione agli altri collegi
in cui lo stesso si era presentato quale capolista.
La scelta tra questi ed altri possibili criteri, e
tra i vantaggi e i difetti che ciascuno di essi presenta, appartiene alla
ponderata valutazione del legislatore, e non può essere compiuta dal giudice
costituzionale.
Da tale considerazione, però, non consegue la
rinuncia al dovere, che questa Corte ha, di dichiarare costituzionalmente
illegittima una disposizione che tale risulti, nella parte che i giudici a quibus effettivamente censurano.
Infatti, all’esito della caducazione dell’art. 85
del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui
prevede che il deputato eletto in più collegi plurinominali debba dichiarare
alla Presidenza della Camera dei deputati quale collegio nominale prescelga,
permane, nella stessa disposizione, quale criterio residuale, quello del
sorteggio.
Tale criterio è già previsto dalla porzione di
disposizione non coinvolta dall’accoglimento della questione, e non è dunque
introdotto ex novo, in funzione sostitutiva dell’opzione arbitraria caducata: è
in realtà ciò che rimane, allo stato, dell’originaria volontà del legislatore
espressa nella medesima disposizione coinvolta dalla pronuncia di illegittimità
costituzionale.
Il permanere del criterio del sorteggio restituisce
pertanto, com’è indispensabile, una normativa elettorale di risulta anche per
questa parte immediatamente applicabile all’esito della pronuncia, idonea a
garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo (da
ultimo, sentenze n.
1 del 2014, n.
13 del 2012, n.
16 e n. 15
del 2008).
Ma appartiene con evidenza alla responsabilità del
legislatore sostituire tale criterio con altra più adeguata regola, rispettosa
della volontà degli elettori.
13.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva
questioni di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 1, secondo
comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dell’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma
25, della legge n. 52 del 2015.
Il giudice a quo parrebbe lamentare che il
meccanismo di attribuzione dei seggi, nella Regione autonoma Trentino-Alto
Adige, determini una violazione della rappresentatività delle minoranze
politiche nazionali, nel caso in cui queste non siano collegate con una lista
vincitrice di seggi in tale Regione a statuto speciale. Poiché i seggi
assegnati nella Regione Trentino-Alto Adige concorrono a determinare il numero
dei seggi attribuiti, a livello nazionale, sia alla lista che consegue il
premio di maggioranza sia alle liste di minoranza; e poiché, in particolare, il
numero effettivo dei seggi da distribuire tra le liste di minoranza è
variabile, dipendendo da quanti seggi siano già assegnati a tali liste, purché
collegate con candidati nei collegi uninominali in tale Regione, il rimettente
sembra assumere che le liste di minoranza non collegate risulterebbero
penalizzate, concorrendo all’assegnazione di un numero inferiore di seggi.
13.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce
l’inammissibilità della questione per plurime ragioni.
Sussisterebbe innanzitutto un difetto di motivazione
sulla non manifesta infondatezza, essendo l’ordinanza di rimessione assistita,
per questa parte, da argomentazioni sintetiche e il giudice a quo sarebbe
inoltre incorso in un’aberratio ictus, avendo sottoposto
a censura la sola disposizione che prevede l’assegnazione dei seggi, in ragione
proporzionale, alle liste che a livello nazionale non conseguono il premio –
ossia l’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957,
come modificato dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015 – e non,
invece, le disposizioni che determinano realmente l’effetto in tesi lamentato,
ossia gli artt. 92-bis, 92-ter e 92-quater (in particolare, il suo comma 7),
del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957, i quali regolano
l’assegnazione dei seggi in Trentino-Alto Adige, e che sono stati introdotti
dall’art. 2, commi 29, 30, 31 e 32, della legge n. 52 del 2015
Tali eccezioni sono fondate e la questione è
pertanto inammissibile.
In primo luogo, le disposizioni produttive
dell’effetto lamentato non sono quelle censurate dal giudice a quo, ma quelle
diverse che correttamente la difesa statale identifica. È del resto lo stesso
rimettente, riferendo la doglianza delle parti del giudizio principale, a
ricordare espressamente che queste avevano eccepito anche l’illegittimità
costituzionale dell’art. 2, commi 29, 30, 31 e 32, della legge n. 52 del 2015,
cioè proprio delle disposizioni che avrebbe dovuto sottoporre a scrutinio di
legittimità costituzionale. Ma di tali disposizioni non è riportato,
nell’ordinanza di rimessione, nemmeno il contenuto e, soprattutto, il
dispositivo della stessa censura, infine, il solo art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957.
In secondo luogo, la prospettazione del rimettente,
che non si dà peraltro carico di illustrare il meccanismo elettorale della cui
legittimità costituzionale dubita, appare talmente sintetica da rendere oscura
la complessiva censura sollevata (sentenze n. 102 del 2016,
n. 247 del 2015;
ordinanze n. 227,
n. 118, n. 47 e n. 32 del 2016).
Non è chiarito a quali «minoranze nazionali» il rimettente intenda riferirsi,
ed è solo presumibile che l’ordinanza alluda (non già a minoranze linguistiche
non protette ma) alle liste di minoranza a livello nazionale, cioè a minoranze
politiche. Ancora, non sono esaurientemente descritte le ragioni per cui tali
liste di minoranza risulterebbero discriminate nell’assegnazione dei seggi,
tutte avendo, in linea teorica, la possibilità di apparentarsi con i candidati
nei collegi uninominali della Regione Trentino-Alto Adige. Non è spiegato per
quali ragioni il meccanismo elettorale genericamente lamentato costituisca «uno
degli ulteriori effetti indiretti del doppio turno», dal momento che, secondo
la legge n. 52 del 2015, una ripartizione proporzionale dei seggi alle liste di
minoranza avviene ovviamente anche quando il premio è assegnato al primo turno.
Infine, non si comprende perché il rimettente lamenti le conseguenze negative
derivanti dall’attribuzione di soli tre seggi in ragione proporzionale, quando
l’effetto che presumibilmente sospetta d’illegittimità costituzionale
deriverebbe, piuttosto, dal sistema di distribuzione dei complessivi undici
seggi assegnati a tale Regione a statuto speciale (otto con sistema
maggioritario e tre con riparto proporzionale).
14.– Il Tribunale ordinario di Messina sospetta
l’illegittimità costituzionale di due disposizioni del d.lgs. n. 533 del 1993,
relativo all’elezione del Senato, e in particolare degli artt. 16, comma 1,
lettera b), e 17, i quali stabiliscono la percentuale di voti che le coalizioni
di liste e le liste non collegate devono conseguire, in ciascuna Regione, per
accedere al riparto dei seggi.
Nel proprio percorso argomentativo, particolarmente
sintetico, il giudice a quo, dapprima ricorda che le disposizioni relative alle
soglie di sbarramento previste dal vigente sistema elettorale del Senato hanno
contenuti diversi rispetto a quelli previsti dalla legge elettorale n. 52 del
2015 per l’elezione della Camera, e che tale differenza pregiudicherebbe
l’obbiettivo della governabilità, potendosi formare maggioranze non coincidenti
nei due rami del Parlamento. Quindi, assume la non manifesta infondatezza della
questione, per violazione degli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost.,
limitandosi a ricordare che la sentenza n. 1 del
2014 di questa Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della
disciplina relativa al premio di maggioranza per il Senato, aveva affermato che
quella disciplina comprometteva il funzionamento della forma di governo
parlamentare.
14.1.– Così formulata, la questione è inammissibile,
per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza e oggettiva
oscurità del petitum.
Il rimettente solleva questioni di legittimità
costituzionale sulle disposizioni che prevedono le soglie di sbarramento per
l’elezione del Senato senza confrontare tali soglie con quelle introdotte dalla
legge n. 52 del 2015 (che neppure cita), per poi dedurne che la diversità dei
due sistemi elettorali pregiudicherebbe la formazione di maggioranze omogenee
nei due rami del Parlamento, in asserita lesione dei parametri costituzionali
ricordati.
Non illustra, tuttavia, le ragioni per cui sarebbero
le diverse soglie di sbarramento, e non altre, e assai più rilevanti,
differenze riscontrabili tra i due sistemi elettorali (ad esempio, un premio di
maggioranza previsto solo dalla disciplina elettorale per la Camera), ad
impedire, in tesi, la formazione di maggioranze omogenee nei due rami del
Parlamento.
Lamenta, inoltre, la lesione di plurimi parametri
costituzionali (gli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost.), dai
contenuti e dai significati all’evidenza diversi, senza distintamente motivare
le ragioni per le quali ciascuno sarebbe violato. Per costante giurisprudenza
di questa Corte (ex multis, sentenze n. 120 del 2015,
n. 236 del 2011;
ordinanze n. 26
del 2012, n.
321 del 2010 e n. 181 del 2009),
tuttavia, non basta l’indicazione delle norme da raffrontare, per valutare la
compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è
necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso,
illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi
contenuti di normazione.
La singolarità della prospettazione risiede anche
nella circostanza che essa non chiarisce quale delle due diverse discipline,
quanto all’entità delle soglie di sbarramento, dovrebbe essere uniformata
all’altra; mentre sembra sfuggire al rimettente che l’ipotetico accoglimento
della questione sollevata condurrebbe semplicemente alla caducazione delle
censurate disposizioni della legge elettorale del Senato, derivandone il
permanere di una distinta diversità tra i due sistemi: nessuna soglia di
sbarramento a livello regionale nella disciplina del Senato, e il mantenimento
di una soglia del 3 per cento, calcolata a livello nazionale, per la Camera.
15.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva,
infine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 35, della legge
n. 52 del 2015, in virtù del quale le disposizioni contenute nel medesimo art.
2, cioè quelle che apportano modifiche al d.P.R. n.
361 del 1957, ridisegnando il sistema per l’elezione della Camera dei deputati,
si applicano a decorrere dal 1° luglio 2016.
Il giudice a quo ritiene che tale previsione violi
gli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost.,
in quanto, «in caso di nuove elezioni a legislazione elettorale del Senato
invariata (pur essendo in itinere la riforma costituzionale di questo ramo del
Parlamento), si produrrebbe una situazione di palese ingovernabilità, per la
coesistenza di due diverse maggioranze».
Il rimettente ha sollevato la questione in epoca
antecedente (17 febbraio 2016) all’approvazione in sede parlamentare (avvenuta
in data 12 aprile 2016) del disegno di legge di revisione costituzionale
finalizzato, tra l’altro, alla trasformazione del Senato della Repubblica e al
superamento dell’assetto bicamerale paritario. Alla data dell’ordinanza di rimessione,
la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati era già entrata in vigore.
Il legislatore, ipotizzando una rapida conclusione del procedimento di
revisione costituzionale, e al fine di evitare la compresenza di due sistemi
elettorali diversi, aveva disposto che tale legge fosse applicabile a decorrere
dal 1° luglio 2016.
Il giudice a quo, con prospettazione peraltro molto
sintetica, censura proprio la scelta legislativa di differire l’efficacia delle
nuove disposizioni al 1° luglio 2016, anziché all’effettiva conclusione del
procedimento di revisione costituzionale. Tale scelta è ritenuta lesiva dei
parametri costituzionali ricordati, poiché consentirebbe, da quella data, che i
due rami del Parlamento siano rinnovati con due sistemi elettorali differenti,
sul presupposto che questa difformità possa produrre maggioranze parlamentari
non coincidenti.
15.1.– La questione è inammissibile.
Il rimettente si limita a sottoporre a generica ed
assertiva critica la diversità tra i due sistemi elettorali, senza indicare
quali caratteri differenziati di tali due sistemi determinerebbero «una
situazione di palese ingovernabilità, per la coesistenza di due diverse
maggioranze».
La mera affermazione di disomogeneità è
insufficiente a consentire l’accesso della censura sollevata allo scrutinio di
merito e alla identificazione di un petitum accoglibile.
In secondo luogo, i parametri costituzionali la cui
lesione è lamentata (ossia gli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo
comma, e 56, primo comma, Cost.) sono evocati solo numericamente, senza una
distinta motivazione delle ragioni per le quali ciascuno sarebbe violato. Vale
anche in tal caso il richiamo alla giurisprudenza costituzionale (citata supra, punto 14) che sottolinea come non sia sufficiente
l’indicazione delle norme da raffrontare, per valutare la compatibilità
dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma sia necessario
motivare il giudizio negativo in tal senso e illustrare i passaggi
interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di
normazione.
Peraltro, non è nemmeno lamentata dal rimettente la
lesione delle due disposizioni costituzionali che dovrebbero necessariamente
venire in considerazione (cioè gli artt. 94, primo comma, e 70 Cost.) laddove
si intenda sostenere che due leggi elettorali «diverse» compromettano, sia il
funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione
repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere,
sia l’esercizio della funzione legislativa, attribuita collettivamente a tali
due Camere.
15.2.– Fermo restando quanto appena affermato,
questa Corte non può esimersi dal sottolineare che l’esito del referendum ex
art. 138 Cost. del 4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale
basato sulla parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive.
In tale contesto, la Costituzione, se non impone al
legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali
identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto
funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se
differenti, non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di
maggioranze parlamentari omogenee.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 6
maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei
deputati), limitatamente alle parole «o, in mancanza, a quella che prevale in
un turno di ballottaggio tra le due con il maggior numero di voti, esclusa ogni
forma di collegamento tra liste o di apparentamento tra i due turni di
votazione»; dell’art. 1, comma 2, del d.P.R. 30 marzo
1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la
elezione della Camera dei deputati), come sostituito dall’art. 2, comma 1,
della legge n. 52 del 2015, limitatamente alle parole «, ovvero a seguito di un
turno di ballottaggio ai sensi dell’art. 83»; e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma
25, della legge n. 52 del 2015;
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R.
n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del
2015, nella parte in cui consente al deputato eletto in più collegi
plurinominali di dichiarare alla Presidenza della Camera dei deputati, entro
otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione, quale collegio plurinominale
prescelga;
3) dichiara
l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, e degli artt. 1, comma 2, e
83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957,
come modificati e sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 1 e 25, della
legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, primo e secondo
comma, 3, primo e secondo comma, 48, secondo comma, 49, 51, primo comma, 56,
primo comma, della Costituzione e all’art. 3 del Protocollo addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo
con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Messina, con
l’ordinanza di indicata in epigrafe;
4) dichiara
l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 84,
commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come
modificato dall’art. 2, comma 26, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in
riferimento all’art. 56, primo e quarto comma, Cost., dal Tribunale ordinario
di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
5) dichiara
l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83,
comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito
dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento
agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dal Tribunale
ordinario di Genova, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
6) dichiara
l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 16,
comma 1, lettera b), e 17 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533
(Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della
Repubblica), come modificati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge 21 dicembre
2005, n. 270 (Modifiche alle norme per la elezione della Camera dei deputati e
del Senato della Repubblica), sollevate, in riferimento agli artt. 1, 3 e 48,
secondo comma, 49 e 51 Cost., dal Tribunale ordinario di Messina, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
7) dichiara
l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2,
comma 35, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, 3
e 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., dal Tribunale
ordinario di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
8) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1,
lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 1 e 83, commi 1, numeri 5)
e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come
modificati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in
riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dal
Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza di indicata in epigrafe;
9) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1,
lettera f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6),
2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito
dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento
agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dal Tribunale
ordinario di Genova, con l’ordinanza di indicata in epigrafe;
10) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1,
lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, numeri 5) e
6), 2 e 5, e 83-bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4) del d.P.R.
n. 361 del 1957, come sostituiti e aggiunti dall’art. 2, comma 25, della legge
n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48,
secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza di
indicata in epigrafe;
11) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1,
lettere a), d) ed e), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 1,
numero 8), del d.P.R. n. 361 del 1957, come
sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in
riferimento all’art. 56, primo e quarto comma, Cost., dal Tribunale ordinario
di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
12) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1,
lettera g), della legge n. 52 del 2015, e degli artt. 18-bis, comma 3, primo
periodo, 19, comma 1, primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R.
n. 361 del 1957, come modificati o sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2,
commi 10, lettera c), 11 e 26, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in
riferimento agli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 48, secondo comma, 51,
primo comma, 56, primo e quarto comma, Cost., dal Tribunale ordinario di
Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2017.
Allegato: