SENTENZA N. 83
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori Giudici:
Dott. Aldo CORASANITI, Presidente
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell'art. 30, primo comma, lett.a), del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per
la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni
comunali),promosso con ordinanza emessa il 14 dicembre 1990 dal Consi sul ricorso proposto da Orlandi Severino ed altro
contro Legnini Giovanni ed altri, iscritta al n. 632
del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1991.
Visto l'atto di costituzione di Orlandi Severino ed
altro, nonchè l'atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 4 febbraio 1992
il Giudice relatore Mauro Ferri;
uditi l'avv. Lucio V. Moscarini
per Orlandi Severino ed altro e l'Avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza emessa il 14 dicembre 1990 (pervenuta a questa Corte il
27 settembre 1991), il Consiglio di Stato ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 51, e 97 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 30, primo comma, lett. a), del d.P.R.16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la
composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali) - in
relazione all'art. 12, primo comma, lett. a), della legge 21 marzo 1990, n.53
(Misure urgenti atte a garantire maggiore efficienza al procedimento
elettorale) - "nella parte in cui comporta l'eliminazione delle
candidature sottoscritte da un numero di elettori superiore a quello massimo
prescritto dalla legge".
Il giudice remittente premette, in punto di fatto, quanto segue.
Il giorno 11 aprile 1990, Belli Italo, in qualità di
delegato di lista, presentava al segretario comunale di Roccamontepiano
una lista di candidati per il rinnovo del Consiglio di quel Comune,
sottoscritta da 76 elettori (in regola con il minimo di 60 e il massimo di 90
prescritti per i Comuni da
Senonchè, scaduti i termini per la
presentazione delle liste, il segretario comunale informava il Belli che
nell'ultimo censimento gli abitanti di Roccamontepiano
erano risultati 1990 e che, di conseguenza, i
sottoscrittori avrebbero dovuto essere in numero compreso fra 20 e 30 (come
prescritto per i Comuni fino a 2.000 abitanti). Il Belli presentava, quindi, istanza alla Commissione elettorale circondariale di Chieti,
chiedendo il ritiro del certificato elettorale di 50 elettori in modo da
considerare valide unicamente le rimanenti 26 firme.
Il TAR dell'Abruzzo, sezione di Pescara, adito dal Belli e da Legnini Giovanni, accoglieva l'istanza
di sospensione delle impugnate delibere della Commissione anzidetta, con la
conseguenza che la lista in questione veniva ammessa alla competizione
elettorale del maggio 1990 e tutti i candidati della stessa erano proclamati
eletti. L'atto di proclamazione degli eletti, con tutti i provvedimenti pregressi, veniva a sua volta impugnato dal Belli e dal Legnini, nonchè, per motivi
diversi, da Orlandi Severino, candidato non eletto, e da Marinelli
Trentino.
L'adito TAR, con sentenza del 28 giugno 1990, n. 518, per quanto qui
interessa, annullava l'esclusione della lista de qua disposta dalla Commissione
elettorale (e considerava quindi legittimo e definitivo l'atto di proclamazione
degli eletti), ritenendo che
Tutto ciò premesso, il giudice a quo rileva che il punto da chiarire è se
A questo punto il remittente (premesso che non sono
applicabili alla fattispecie nè l'art. 33, ultimo
comma, del d.P.R. n. 570/60, nè
l'art.30, lett. e), del medesimo d.P.R.) osserva che,
secondo la propria costante giurisprudenza, fra i compiti della suddetta
Commissione non rientra (fatta eccezione per le determinazioni di ricusazione
dei contrassegni) quello di sopperire in via di collaborazione ad eventuali
errori o deficienze riscontrabili nelle liste presentate, e che anche secondo
le istruzioni diramate dal Ministero dell'Interno la lista va ricusata qualora
il numero dei presentatori risulti eccedente il limite massimo consentito dalla
legge.
Ciò posto, il remittente solleva, ritenendola rilevante e non
manifestamente infondata, la questione di costituzionalità sopra indicata,
osservando, innanzitutto, che mentre la ratio della
previsione di un numero minimo di sottoscrittori si comprende e si giustifica
con la duplice esigenza di garantire, da un lato, una certa consistenza
numerica di base ad una compagine che mira ad assumere
un ruolo di rappresentanza della comunità e di assicurare, dall'altro, alla
compagine stessa un minimo di credibilità ed affidabilità, la ragione della
fissazione anche di un numero massimo di sottoscrittori appare finalizzata alla
mera semplificazione di preliminari richiesti per la presentazione delle
candidature, vale a dire ad uno scopo più pratico che giuridico, dal quale non
dovrebbero scaturire conseguenze di principio. La norma impugnata appare
pertanto contraria ad un elementare principio di
ragionevolezza, oltre che agli artt. 3 e 51 della Costituzione, che
garantiscono la massima libertà di accesso all'elettorato passivo, nonchè al principio del buon andamento della pubblica
amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione.
L'irragionevolezza della norma in esame è poi rafforzata, prosegue il
remittente, dal rilievo che nell'ordinamento vigente in materia elettorale le
sottoscrizioni non sono sempre richieste (art. 1, primo comma, lett. b), del decreto-legge 3 maggio 1976, n. 161,
convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 1976, n. 240, nel testo
inserito dall'art.12, terzo comma, della legge n. 53 del 1990).
Infine, conclude il remittente, non appare
affatto e seriamente probante la tesi, affermata dalla Commissione elettorale
di Chieti, secondo cui la norma si giustificherebbe con lo scopo di evitare che
la presentazione della lista si risolva in una pre-competizione
elettorale dal risultato scontato, in quanto le procedure sono diverse e, nella
segretezza del voto, ogni sottoscrittore ben potrebbe esprimere una volontà
diversa da quella inizialmente manifestata in sede di firma a presentazione
delle candidature.
2. Si sono costituiti nel giudizio dinanzi a
questa Corte Orlandi Severino e Marinelli Trentino,
appellanti nel giudizio a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata non
fondata.
In ordine alle censure poste dal giudice remittente in riferimento all'art.51 della Costituzione, si osserva che questa disposizione costituzionale attiene esclusivamente alla capacità elettorale passiva dei candidati, intesa come possesso di attitudini e requisiti (che si sostanziano nell'assenza di impedimenti, riconducibili alla nota ripartizione tra cause di ineleggibilità e cause di incompatibilità), con la conseguenza che il richiamo a detto parametro è fuori luogo nel caso di specie, dato che le norme censurate, che stabiliscono soltanto regole di comportamento dell'amministrazione in sede di operazioni elettorali e non si riferiscono affatto alla situazione personale dei candidati, non incidono minimamente sulla capacità elettorale passiva dei candidati medesimi, non possono cioé ricomprendersi nel novero delle regole limitative del libero accesso alle cariche elettive.
Quanto alla presunta
irragionevolezza delle norme impugnate, la difesa delle parti costituite
osserva che nell'ordinanza di rimessione manca completamente il necessario tertium comparationis e tale
mancanza conduce (o comunque ne costituisce grave sintomo) alla
infondatezza della questione, secondo la giurisprudenza di questa Corte.
Nè tale tertium potrebbe
ravvisarsi nel richiamato art. 1, primo comma, lett.
b), del d.l. 3 maggio 1976, n. 161, convertito dalla legge n. 240 del 1976, nel
testo inserito dall'art. 12, terzo comma, della legge n. 53 del 1990: trattasi,
infatti, di una disposizione eccezionale e derogatoria, inidonea come tale a
fungere da tertium comparationis.
In ordine, poi, alla pretesa violazione dell'art. 97
della Costituzione, si rileva l'intima contraddittorietà dell'ordinanza di
rimessione, là dove il giudice a quo, mentre individua la ratio
della norma che fissa il numero massimo delle sottoscrizioni nella esigenza di
semplificazione delle attività preliminari alle operazioni elettorali,
individua poi un profilo di illegittimità costituzionale nella violazione
dell'anzidetta norma costituzionale, che pone innanzitutto i principi di
efficienza e speditezza dell'azione amministrativa. Stando alla tesi del
Consiglio di Stato si otterrebbe l'inevitabile risultato che
Osserva, infine, la difesa delle parti costituite che la norma preclusiva
censurata persegue una finalità ben più rilevante di quella di semplificare le
operazioni elettorali: la ratio preminente starebbe
in ciò, che qualora in una lista elettorale fosse consentito inserire un numero
pressochè illimitato di sottoscrizioni, con l'unica
conseguenza che tali sottoscrizioni possano poi essere depennate dalla
Commissione elettorale, ne conseguirebbe che in tal modo si sarebbe data ai
sostenitori di una certa lista la possibilità di rendere noto
a tutti che quella lista ha già in partenza un elevatissimo numero di suffragi
e ciò non potrebbe non determinare sull'animo del corpo elettorale, per un
intuibile fenomeno di imitazione, un profilo di non genuinità delle scelte, con
riflessi anche sul principio della segretezza del voto garantito dall'art.48
della Costituzione.
3. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.
Rileva l'Avvocatura dello Stato che il diritto di accesso alle cariche
elettive non è violato in quanto la norma impugnata si
limita a disciplinare modalità di partecipazione alle elezioni con una
previsione valida per la generalità dei cittadini e di agevole attuazione per
tutti gli interessati.
Nè appare irragionevole l'identità di effetto
(esclusione della lista) che la norma attribuisce sia all'incompletezza che all'eccesso delle sottoscrizioni. In quest'ultimo caso
la ratio è quella di
assicurare la massima semplicità e celerità delle operazioni elettorali (esigenza
che permea tutto il procedimento elettorale), nonchè
sostanziale identità di posizione di partenza a tutti i concorrenti. Consentire
la presentazione di liste con un numero illimitato di sottoscrittori
comporterebbe il rischio di ingolfare irrimediabilmente le commissioni
elettorali, specialmente nelle grandi città, per cui, in conclusione, la norma
impugnata, ancorchè forse discutibile, non può essere
certamente considerata priva di razionalità.
4. Hanno depositato memoria illustrativa le
parti costituite Orlandi Severino e Marinelli
Trentino, insistendo nelle conclusioni già formulate.
5. Con ordinanza emessa nell'udienza del 4 febbraio 1992, questa Corte ha
dichiarato inammissibile per tardività la costituzione in giudizio della parte
privata Legnini Giovanni.
Considerato in diritto
1. Il Consiglio di Stato dubita della legittimità costituzionale
dell'art.30, primo comma, lett. a), del d.P.R. 16 maggio 1960, n.570 (Testo unico delle leggi per
la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali),
"nella parte in cui comporta l'eliminazione delle candidature sottoscritte
da un numero di elettori superiore a quello massimo prescritto dalla
legge".
Ad avviso del giudice a quo la norma suddetta contrasterebbe con gli artt.3, 51 e 97 della Costituzione, in
quanto l'eliminazione dalla competizione elettorale delle liste sottoscritte da
un numero di elettori superiore a quello previsto come massimo, sarebbe
"contraria a un elementare principio di ragionevolezza, quale limite invalicabile
dal legislatore", al principio del libero accesso alle cariche elettive, nonchè al principio del buon andamento della pubblica
amministrazione.
2. La questione non è fondata.
La norma sospettata di incostituzionalità trae
origine dal decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1, dove è
stata per la prima volta formulata nell'art. 21, primo comma, lett. a).
Vale la pena di ricordare che detto decreto fu adottato dal Governo Parri, udito il parere della Consulta Nazionale, al fine di
svolgere una tornata di elezioni amministrative prima del referendum
istituzionale e delle elezioni dell'Assemblea Costituente. Si votò in effetti in un gran numero di comuni nel marzo e aprile
del 1946.
Il testo legislativo, anche se prendeva per base il testo unico approvato
con regio decreto 4 febbraio 1915, n. 148, conteneva tuttavia importanti
modifiche ed innovazioni coerenti con le profonde
trasformazioni intervenute nel paese: l'elettorato attivo e passivo era esteso
alle donne, e alla vecchia società dei notabili era succeduta una società
caratterizzata dalla democrazia di massa, nella quale si affermava già allora
un'elevata concezione dell'autonomia comunale espressa nelle pur diverse
posizioni dei partiti democratici e approfondita negli studi e dibattiti
preparatori della Costituente. Tale concezione si ricollegava del resto alle
esperienze attuate nel primo quarto del secolo dalle amministrazioni di ispirazione democratica, socialista o cattolico-
popolare; esse, pur in tempi di suffragio relativamente ristretto,
prefigurarono i consigli comunali intesi quali diretta rappresentanza del
popolo e non più comitati di gestione degli interessi dei proprietari e di
tutela dei contribuenti.
La relazione del governo che presenta lo schema di provvedimento alla
Consulta nazionale sottolinea e spiega la innovazione
costituita dalla disciplina della presentazione delle candidature: "Il
testo unico 1915 non prevedeva affatto la preventiva presentazione di
candidature, in quanto il sistema elettorale adottato lasciava all'elettore le
più ampie facoltà nella scelta delle persone da lui ritenute idonee alle
funzioni di amministratori degli Enti locali; ma ciò importava, da un lato, lo
sfrenarsi della lotta elettorale tra coloro che per sola ambizione, o per fini
ancor meno commendevoli, aspiravano alla conquista del pubblico potere, pur non
riscuotendo alcun credito fra la popolazione; dall'altro, una grande
dispersione di voti, che si polverizzavano fra un numero eccessivo di nomi, non
essendo l'elettore vincolato da alcuna lista di candidati".
"Ogni candidatura è subordinata alla presentazione da parte di un
determinato numero di elettori, fissato in proporzione della popolazione del
Comune, ed alla dichiarazione di accettazione da parte
dei candidati.
Il controllo sulla presentazione delle candidature è stato deferito alle
Commissioni elettorali che sono state istituite in ogni capoluogo di
mandamento." (Consulta Nazionale, schema di
provvedimento legislativo n.55, 23 novembre 1945).
Questa normativa, consistente nell'obbligo della sottoscrizione delle
liste dei candidati da un numero di elettori non inferiore al minimo e non
superiore al massimo previsti in rapporto alla popolazione dei comuni suddivisi
in classi (cfr. artt. 20 e 56 del citato decreto n. 1
del 1946), è stata confermata in termini sostanzialmente identici a quelli
iniziali nelle successive modifiche delle leggi elettorali amministrative
intervenute fino ad oggi. Analoga disciplina è stata prevista nella legge
regolatrice della elezione dell'Assemblea Costituente
(decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74), e successivamente
in quelle delle elezioni della Camera dei deputati, del Senato, dei Consigli
regionali, dei rappresentanti dell'Italia al Parlamento europeo.
Si può dunque ritenere che nel nostro ordinamento sia ormai un principio
generalizzato che in ogni tipo di elezione direttale candidature debbano essere
munite di una sorta di dimostrazione di seria consistenza e di un minimodi consenso attestata dalla sottoscrizione di un
determinato numero di elettori. La stessa innovazione introdotta a partire dal 1976 (legge 23 aprile 1976, n. 136 e
decreto-legge 3 maggio 1976, n.161, convertito in legge 14 maggio 1976, n.
240), in forza della quale la sottoscrizione degli elettori non è richiesta
"per la presentazione di liste o di candidature con contrassegni
tradizionalmente usati da partiti o gruppi politici che abbiano avuto eletto un
proprio rappresentante in Parlamento o siano costituiti in gruppo parlamentare
...", si inscrive, a ben riflettere, nel principio anzidetto e scaturisce
dalla medesima ratio.
Infatti, la garanzia rappresentata dalla sottoscrizione degli elettori è
in questo caso sostituita dalla sottoscrizione del presidente o del segretario
del partito ovvero dei loro mandatari, trattandosi di partiti o di gruppi la
cui consistenza è dimostrata dall'avvenuta elezione di loro rappresentanti in
Parlamento.
3. Si è quindi di fronte ad una scelta operata dal legislatore fino dal
1946, confermata anche nelle leggi più recenti (v. legge 21 marzo 1990, n.53 e
legge 11 agosto 1991, n. 271), nell'esercizio dei poteri previsti dall'art. 51 della Costituzione, al fine di soddisfare un'esigenza
certamente non irragionevole. Del resto, il giudice remittente riconosce
anch'egli la validità della ratio cui ha ubbidito il
legislatore;
ma distingue fra la fissazione del numero minimo
di sottoscrittori, giustificato dalla "duplice esigenza di garantire da un
lato una certa consistenza numerica di base ad una compagine che mira ad
assumere elettoralmente un ruolo di rappresentanza politico-amministrativa
della comunità e di assicurare, dall'altro, a tale compagine un minimo di
credibilità ed affidabilità", e la fissazione di un numero massimo di
sottoscrizioni che - sempre secondo il giudice a quo - "appare finalizzata
alla mera semplificazione dei preliminari richiesti per la presentazione delle
candidature, vale a dire a uno scopo più pratico che giuridico dal quale non
dovrebbero scaturire conseguenze di principio".
Va detto in proposito che la fissazione del numero massimo di
sottoscrizioni non è diretta soltanto alla semplificazione del procedimento:
essa si dà carico di esigenze di ben maggiore rilievo, in
quanto rivolte a garantire la libera e genuina espressione della volontà
del corpo elettorale. É infatti presente, ed è
certamente fondata, la preoccupazione per cui, in mancanza di una prescrizione
sul numero massimo di sottoscrizioni, potrebbero aprirsi, specie nei piccoli
comuni, delle vere e proprie precompetizioni
elettorali per assicurarsi il più alto numero di sottoscrittori possibile al
fine di dimostrare la forza e l'influenza dell'una o dell'altra lista di
candidati, ed esercitare così una indebita pressione psicologica
sull'elettorato e in definitiva una forma di condizionamento del voto.
4. Dalle considerazioni svolte discende la inconsistenza
della specifica censura prospettata in ordine all'art. 30, primo comma, lett.
a), del d.P.R. n. 570 del 1960. Il giudice remittente
lamenta in sostanza chesia prevista l'eliminazione
delle candidature anche nel cas siano
sottoscritte da un numero di elettori eccedente il massimo prescritto. Ma,
proprio in ragione delle anzidette finalità cui si ispira
la fissazione del limite massimo, appare di tutta evidenza che queste sarebbero
completamente vanificate, se dalla violazione per eccesso di tale limite non
derivasse la conseguenza sanzionatoria della eliminazione della lista dalla
competizione elettorale.
Chi volesse influenzare indebitamente il corpo elettorale con la
dimostrazione di forza consistente nella raccolta di un più alto numero di
sottoscrizioni non sarebbe distolto da tale intento, se al superamento del
limite massimo delle sottoscrizioni facesse seguito una semplice regolarizzazione della lista con la cancellazione ad opera
della Commissione elettorale circondariale delle sottoscrizioni in eccesso. Per
di più in siffatta ipotesi il procedimento elettorale preparatorio verrebbe notevolmente complicato.
Tanto basta ad esludere
l'irragionevolezza di una disposizione che rientra nella regola generale per
cui, salvo espresse eccezioni, la inosservanza delle norme relative alla
presentazione delle candidature comporta la non ammissione delle stesse alla
competizione elettorale.
5. Accertato che la norma in esame non contraddice al principio di
ragionevolezza, cade di conseguenza il riferimento agli artt. 51 e 97 della Costituzione. In ordine a
quest'ultimo si è già osservato che, contrariamente a ciò che assume il giudice
a quo, la norma stessa si ispira anche ai principi in esso affermati. Quanto
poi all'art. 51, è evidente che la determinazione da
parte del legislatore di regole non irragionevoli attinenti al procedimento
elettorale, alle quali i candidati alle cariche elettive devono uniformarsi,
non si pone in contrasto con i principi affermati nel primo comma
dell'anzidetto articolo della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art.30, primo comma, lett. a), del d.P.R.
16 maggio 1960, n.570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la
elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con
l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19/02/92.
Aldo CORASANITI, Presidente
Mauro FERRI, Redattore
Depositata in cancelleria il 4 marzo del 1992.