Sentenza n. 198 del 2009

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SENTENZA N. 198

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco        AMIRANTE           Presidente

- Ugo                 DE SIERVO             Giudice

- Paolo               MADDALENA            "

- Alfio                FINOCCHIARO          "

- Alfonso            QUARANTA               "

- Franco             GALLO                      "

- Luigi                MAZZELLA                "

- Gaetano           SILVESTRI                "

- Sabino             CASSESE                   "

- Maria Rita        SAULLE                     "

- Giuseppe          TESAURO                  "

- Paolo Maria     NAPOLITANO           "

- Giuseppe          FRIGO                       "

- Alessandro       CRISCUOLO              "

- Paolo               GROSSI                     "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come modificato dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promossi dal Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, con ordinanze del 16 maggio e del 21 luglio 2008, iscritte ai nn. 258 e 421 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 54, prima serie speciale, dell'anno 2008.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 maggio 2009 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

 

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza depositata in data 16 maggio 2008 il Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 76, primo comma, della Costituzione, dell'art. 1, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come modificato a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80).

1.1. – Riferisce il Tribunale di Napoli di essere chiamato a giudicare in ordine alla istanza di fallimento presentata nei confronti di una società in liquidazione. Dopo aver precisato che la società istante ha dimostrato di essere creditrice nei confronti della fallenda – la quale, pur ritualmente intimata, non si è costituita né è comparsa in giudizio – in forza di un decreto ingiuntivo, divenuto definitivo, per un importo di circa 80.000,00 euro, e che la medesima, secondo quanto emerso in sede di istruttoria prefallimentare, è altresì debitrice, in forza di cartelle esattoriali emesse nei suoi confronti, per altri 95.000,00 euro circa, il rimettente rileva che non è dubbia – tenuto anche conto degli indici offerti dall'avvenuta, considerevole e repentina, contrazione del volume d'affari, dall'abbandono della sede sociale, dal gravoso carico debitorio e, infine, dal mancato deposito dei bilanci successivi all'anno 2003 – la sussistenza a carico della società fallenda del necessario requisito della insolvenza.

Riguardo alla assoggettabilità di questa al fallimento, rileva il Tribunale che essa deve essere accertata alla stregua dell'art. 1, commi primo e secondo, del regio decreto n. 267 del 1942, nel testo a tale data vigente.

Il rimettente ritiene, però, che il comma secondo del citato art. 1, nella parte in cui prevede che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori i quali dimostrino il possesso congiunto dei tre requisiti indicati dalla medesima disposizione – cioè: avere avuto, nei tre esercizi precedenti alla presentazione dell'istanza di fallimento un attivo patrimoniale annuo non superiore a 300.000,00 euro, avere avuto, nel medesimo lasso di tempo, un ricavo lordo annuo non superiore a 200.000,00 euro, ed, infine, di avere debiti, anche non scaduti, per un ammontare non superiore a 500.000,00 euro – sia in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, violando il principio di ragionevolezza.

Ciò, puntualizza il rimettente, nella parte in cui grava il debitore dell'onere «di provare la sua non assoggettabilità al fallimento o, se si preferisce, nella parte in cui prevede il fallimento dell'imprenditore insolvente che non abbia dimostrato di non essere ricompreso nell'area di non fallibilità».

Al proposito, osserva il rimettente che, anteriormente alla riforma del diritto fallimentare operata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), era quasi unanime l'opinione che, ai fini dell'accoglimento della istanza di fallimento, il ricorrente dovesse provare, oltre lo stato di insolvenza del debitore e la sua qualità di imprenditore commerciale, anche il fatto che questi non fosse un piccolo imprenditore.

Riguardo al criterio distintivo, nell'ampio ambito degli imprenditori, della specie del piccolo imprenditore, il Tribunale di Napoli ricorda come questa Corte, con la sentenza n. 570 del 1989, abbia chiarito che a fondare siffatta distinzione, in particolare ai fini della assoggettabilità o meno alla procedura fallimentare, debbono essere fissati criteri oggettivi, ancorati alla attività svolta, all'organizzazione dei mezzi impiegati, all'entità dell'impresa e alle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia nazionale. Ciò al fine di evitare che imprese di modeste dimensioni siano sottoposte alle procedure fallimentari, a rischio, in caso contrario, che queste si trasformino in uno strumento impeditivo della tutela dei creditori.

Secondo il rimettente, da tali considerazioni si ricaverebbe l'obbligo di legiferare in modo tale da ridurre al minimo i fallimenti nei quali l'attivo non è sufficiente a soddisfare, neppure in parte, i creditori, così liberando «risorse umane e materiali preziose per l'organizzazione giudiziaria» ed evitando, al contempo, di criminalizzare comportamenti privi di reale disvalore.

1.2. – In questo solco, prosegue il giudice a quo, si era posto il legislatore delegante che, all'art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80, (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), aveva previsto, fra i principi e criteri direttivi cui doveva attenersi il Governo nell'attuazione della delega conferitagli, quello di «semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto e l'accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia».

Scopo dichiarato dei riportati criteri sarebbe stato, ad avviso del rimettente, la eliminazione di quelle numerosissime procedure, chiuse con la realizzazione di un attivo neppure sufficiente a coprire le spese, il cui bilancio era destinato a gravare sullo Stato, senza apprezzabile beneficio per i creditori, per il fallito o per la collettività. 

Il legislatore delegato del 2006, conservando, ai fini della soggezione o meno al fallimento, il tradizionale richiamo alla categoria dei piccoli imprenditori, aveva dettato alcuni parametri finalizzati alla individuazione degli appartenenti a tale categoria, senza peraltro nulla disporre in merito alla ripartizione del relativo onere probatorio, ed aveva introdotto, all'ultimo comma dell'art. 15 della legge fallimentare, un limite quantitativo minimo dell'ammontare dei debiti scaduti e non pagati, al di sotto del quale non poteva essere dichiarato il fallimento.

1.3. – Entrata in vigore la riforma, prosegue il rimettente, si è verificata una «sensibilissima riduzione delle dichiarazioni di fallimento», dovuta al fatto che al «dubbio sul superamento da parte del debitore delle soglie quantitative dell'area della fallibilità», fissate dall'allora vigente secondo comma dell'art. 1 della legge fallimentare, seguiva il rigetto della istanza. Tale riduzione, sebbene ritenuta dal rimettente in linea con la delega conferita, sarebbe stata contrastata dal legislatore delegato che, in occasione dell'emanazione del decreto correttivo n. 169 del 2007, ha gravato il debitore dell'onere di dimostrare la sua qualità di imprenditore non soggetto a fallimento, in quanto rientrante nell'area di non assoggettabilità al fallimento delineata dal nuovo secondo comma dell'art. 1 della legge fallimentare.

Tale riparto dell'onere probatorio, anche se ritenuto dal rimettente, così come emergerebbe anche dalla Relazione illustrativa al d.lgs. n. 169 del 2007, conforme al principio generale in materia espresso dall'art. 2697 cod. civ. nonché a quello, al primo correlato, della prossimità della prova, violerebbe, stante la sua irragionevolezza, l'art. 3 della Costituzione.

Con esso, infatti, sarebbero state sostanzialmente disattese le indicazioni date dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 570 del 1989, la quale aveva evidenziato l'esigenza di un discrimine oggettivo tra imprenditore suscettibile di fallire ed imprenditore non soggetto a tale procedura.

Addossare, invece, sul debitore l'onere di provare la sua assoggettabilità o meno al fallimento, continua il Tribunale di Napoli, può far dipendere la apertura della procedura concorsuale da un comportamento del debitore stesso che normalmente non dipende «dalla natura e dall'importanza dell'attività economica e dei mezzi impiegati» nell'esercizio dell'impresa, né ha «alcun rapporto con le ripercussioni del dissesto dell'imprenditore sul sistema economico», favorendo, anzi, dichiarazioni di fallimento del tutto inutili (soggette, peraltro, al reclamo del debitore che in tale sede potrà dimostrare di essere in possesso dei requisiti ostativi al fallimento).

D'altra parte, aggiunge il giudice a quo, la regola probatoria di cui all'art. 2697 cod. civ. si giustifica ove siano in giuoco diritti di cui le parti possano disporre; viceversa l'interesse a evitare inutili dichiarazioni di fallimento è, per le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 570 del 1989, un interesse pubblico.

A conferma della irragionevolezza della disposizione che, in questa materia, disciplina l'onere probatorio, il rimettente ritiene difficilmente comprensibile la regola che imporrebbe al debitore, il quale chieda il proprio fallimento, di fornire poi la prova della sua «non fallibilità», posto che egli non ha alcun interesse a fornire siffatta prova.

1.4. – La descritta disciplina della distribuzione dell'onere probatorio sarebbe anche in contrasto con l'art. 76, primo comma, della Costituzione, in quanto «potenzialmente idonea a contraddire, di fatto, nella sua concreta applicazione, la direttiva della legge delega concernente l'estensione del novero dei soggetti esclusi dal fallimento».

Ci saranno, infatti, imprenditori che, pur non raggiungendo «le soglie di fallibilità», non potranno, o non vorranno, darne la prova, anche «al fine di accedere all'istituto dell'esdebitazione».

Rileva, ancora, il Tribunale che il chiaro tenore letterale della disposizione censurata, la quale stabilisce semplicemente che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori i quali «dimostrino il possesso congiunto» dei requisiti elencati dal secondo comma dell'art. 1 della legge fallimentare, lo induce a ritenere preclusa la possibilità d'interpretare la norma nel senso di ripartire l'onere probatorio relativamente al possesso dei ricordati requisiti in maniera diversa da come, invece, sinora prospettato.

Quanto alla rilevanza della questione, il Tribunale afferma che nella fattispecie – non essendosi la società fallenda costituita in giudizio, risultando in atti solamente che la medesima, nell'anno 2005, compreso nel triennio anteriore al deposito della istanza di fallimento, aveva realizzato un volume di affari di poco superiore a 88.000,00 euro e non essendo ipotizzabili ulteriori attività istruttorie, poichè la debitrice ha depositato, quale ultimo bilancio, quello relativo all'esercizio chiusosi alla fine del 2003, quindi anteriormente al triennio precedente il deposito della istanza di fallimento – questo sarebbe dichiarato solo in quanto la debitrice non ha dimostrato il possesso dei requisiti ostativi alla soggezione alla procedura indicati dal secondo comma dell'art. 1 della legge fallimentare.

2. – E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato.

La difesa erariale ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per la infondatezza della questione sollevata dal Tribunale di Napoli.

Ad avviso della Avvocatura, la questione sarebbe inammissibile in quanto il rimettente avrebbe omesso di tentare un'interpretazione della disposizione censurata tale da superare i dubbi di costituzionalità; non si sarebbe, ad esempio, interrogato sulla possibilità di procedere d'ufficio ad indagini patrimoniali relative all'imprenditore fallendo.

Comunque, aggiunge la difesa pubblica, anche l'interpretazione indicata dal ricorrente non contrasta coi parametri costituzionali evocati.

Si osserva, infatti, come il sistema preveda una regola, la soggezione dell'imprenditore commerciale al fallimento, ed una eccezione, l'esclusione da tale soggezione per l'imprenditore che svolga un'attività che, sulla base di determinati parametri normativi, sia economicamente poco rilevante. La prova dell'eccezione, come sempre avviene, è rimessa al soggetto interessato.

Tale sistema non può certamente essere sospettato di irragionevolezza né contrasta coi principi contenuti nella legge delega, la quale prevedeva la semplificazione della disciplina del fallimento attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto.

D'altra parte, osserva la Avvocatura, la Corte costituzionale, nella giurisprudenza formatasi successivamente alla sentenza n. 570 del 1989, ha precisato che le considerazioni concernenti i criteri di applicabilità della disciplina delle procedure concorsuali correlati alle dimensioni economiche dell'imprenditore fallendo «attengono alla sfera della discrezionalità del legislatore perché rientrano nell'ambito della generale politica economica e giudiziaria e a lui spetta la scelta delle varie soluzioni possibili».

3. – Con altra ordinanza, depositata in data 16 maggio 2008, dal contenuto largamente coincidente con la precedente, il medesimo Tribunale di Napoli, Sezione fallimentare, ha nuovamente sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 76, primo comma, della Costituzione, dell'art. 1, secondo comma, del regio decreto n. 267 del 1942, come modificato a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo n. 169 del 2007.

3.1. – Riferisce il Tribunale di Napoli di essere chiamato a giudicare in ordine a due istanze di fallimento presentate nei confronti di una società commerciale. Precisa, altresì, che le parti istanti hanno dimostrato di essere creditrici della fallenda – la quale, pur ritualmente intimata, non si è costituita né è comparsa in giudizio – in forza ciascuna di un decreto ingiuntivo esecutivo per un importo complessivo di circa 22.000,00 euro, e che la medesima fallenda, secondo quanto emerso in sede di istruttoria prefallimentare, è altresì debitrice verso terzi per oltre 151.000,00 euro.

Tanto premesso, il rimettente rileva che non v'è dubbio – tenuto anche conto degli indici offerti dai riscontrati plurimi inadempimenti relativi ad obbligazioni aventi un valore complessivo superiore, secondo quanto richiesto dall'art. 15 del r.d. n. 267 del 1942, a euro 30.000,00 – sulla sussistenza a carico della società fallenda del necessario requisito della insolvenza.

Riguardo alla assoggettabilità della ricordata società al fallimento, rileva il Tribunale che essa deve essere accertata alla stregua dell'art. 1, commi primo e secondo, del regio decreto n. 267 del 1942, nel testo a tale data vigente.

Osservato che nel caso in questione la società debitrice, non costituitasi sebbene ritualmente intimata, non ha svolto alcuna attività per dimostrare di non essere assoggettata alle procedure fallimentari e rilevato che gli accertamenti disposti d'ufficio dal Tribunale hanno consentito di acquisire elementi relativi ai dati IRPEG  ed IVA della debitrice, riferibili, però, a periodi precedenti a quelli rilevanti ai sensi del citato art. 1, comma secondo, del r.d. n. 267 del 1942, il rimettente ritiene che detta disposizione, nella parte in cui prevede che non siano soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori i quali dimostrino il possesso congiunto dei già ricordati tre requisiti da essa indicati, sia in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, violando il principio di ragionevolezza.

3.2. – Il Tribunale di Napoli ricorda che ai fini della soggezione dell'imprenditore al fallimento si è sempre richiesta, oltre al dato della insolvenza, la qualità di imprenditore non piccolo.

Riguardo al criterio distintivo, nell'ampio ambito degli imprenditori, della specie del piccolo imprenditore, il Tribunale di Napoli ricorda come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 570 del 1989, abbia chiarito che a fondare siffatta distinzione, specie ai fini della assoggettabilità o meno alla procedura fallimentare, debbono essere fissati criteri oggettivi, ancorati alla attività svolta, all'organizzazione dei mezzi impiegati, all'entità dell'impresa e alle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia nazionale. Ciò al fine di evitare che imprese di modeste dimensioni siano assoggettate alle procedure fallimentari, a rischio, in caso contrario, che queste si trasformino in uno strumento impeditivo della tutela dei creditori.

In questo solco, prosegue il giudice a quo, si è posto il legislatore delegante che, all'art. 1 della legge n. 80 del 2005 aveva previsto, fra i principi e criteri direttivi cui doveva attenersi il governo nell'attuazione della delega commessagli, quello di «semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto e l'accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia».

Scopo dichiarato dei riportati criteri sarebbe stato, ad avviso del rimettente, la eliminazione di quelle numerosissime procedure, chiuse con la realizzazione di un attivo neppure sufficiente a coprire le spese, il cui bilancio era destinato a gravare sullo Stato, senza apprezzabile beneficio per i creditori, per il fallito o per la collettività. 

Il legislatore delegato del 2006, conservando, ai fini della soggezione o meno al fallimento, il tradizionale richiamo alla categoria dei piccoli imprenditori, aveva fissato alcuni parametri finalizzati alla individuazione degli appartenenti a tale categoria, senza peraltro nulla disporre in merito alla ripartizione del relativo onere probatorio.

Ciò ha fatto sì che si accendesse, sia in giurisprudenza che in dottrina, il dibattito fra chi poneva a carico del debitore la prova della sussistenza degli elementi esonerativi dal fallimento, essendo questi considerati in guisa di fatti impeditivi, e chi, invece, ritenuto il superamento delle soglie di assoggettabilità al fallimento quale requisito soggettivo ai fini della qualificazione dell'imprenditore come “non piccolo”, ne poneva la dimostrazione a carico del creditore istante.

Al riguardo, ritiene il rimettente che la questione andrebbe risolta – stante la inesistenza di un «diritto soggettivo alla dichiarazione di fallimento», trattandosi di tema coinvolgente interessi pubblici – negando l'applicabilità dell'art. 2697 cod. civ. e pervenendo all'accertamento della suscettibilità di fallire dell'imprenditore attraverso «il contributo assertivo e probatorio delle parti e con l'utilizzo dei poteri officiosi del giudice».

3.3. – Senonché, adottando il d.lgs. n. 169 del 2007, il legislatore ha formulato ex novo il secondo comma dell'art. 1 del r.d. n. 267 del 2007, prevedendo che siano esclusi dal fallimento gli imprenditori «i quali dimostrino il possesso congiunto» dei requisiti indicati alle successive lettere a), b) e c) del medesimo comma.

Tale modifica, con la quale si sarebbe espressamente gravato il debitore di dimostrare di essere insuscettibile di fallimento, è dovuta, come il rimettente chiarisce riportandosi alla relazione illustrativa, all'eccessiva riduzione della «area della fallibilità» conseguente alla precedente modifica dell'art. 1 della legge fallimentare.    

Ma, aggiunge il Tribunale di Napoli, questo criterio di riparto dell'onere probatorio, violerebbe, per la sua irragionevolezza, l'art. 3 della Costituzione, disattendendo, infatti, sostanzialmente, le indicazioni date dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 570 del 1989, la quale aveva evidenziato l'esigenza di un discrimine oggettivo tra imprenditore suscettibile di fallire ed imprenditore non soggetto a tale procedura.

Addossare, invece, sul debitore l'onere di provare la sua assoggettabilità o meno al fallimento, continua il giudice a quo, può far dipendere la apertura della procedura da un comportamento del debitore stesso che normalmente non dipende «dalla natura e dall'importanza dell'attività economica e dei mezzi impiegati» nell'esercizio dell'impresa, né ha «alcun rapporto con le ripercussioni del dissesto dell'imprenditore sul sistema economico», favorendo così dichiarazioni di fallimento del tutto inutili (soggette, peraltro, al reclamo del debitore che, in tale sede, potrà dimostrare di essere in possesso dei requisiti per non essere suscettibile di fallimento).

A conferma della irragionevolezza della disposizione che disciplina l'onere probatorio, il rimettente pone il caso del fallimento richiesto dallo stesso debitore: dovendosi in questo caso escludere l'applicabilità della regola generale, essendo illogico imporre al debitore, il quale chieda il proprio fallimento, di fornire poi la prova della sua impossibilità di fallire, posto che egli non avrebbe alcun interesse a fornire siffatta prova. Poiché è, altresì, da escludere che la mancata dimostrazione da parte del debitore della sua non assoggettabilità al fallimento porti direttamente alla apertura della procedura, dovrebbe ritenersi che in questo caso, coerentemente con l'art. 14 legge fall., spetti al debitore dimostrare la sua sottoponibilità al fallimento.

Ma sarebbe difficilmente giustificabile, sul piano della ragionevolezza, il mutare di una disciplina in funzione del mutare del soggetto che ne chiede l'applicazione.

Né, ad escludere i dubbi di legittimità costituzionale, giova la valutazione comparativa operata dal legislatore fra l'interesse alla tutela del diritto di credito e quello di evitare l'apertura di procedure concorsuali improduttive. Infatti la soluzione adottata dal legislatore ha il solo effetto, peraltro dichiarato nella Relazione illustrativa, di evitare che i debitori che non si difendono in fase prefallimentare o che non collaborano nel corso di questa siano poi «premiati» con la dichiarazione della loro non assoggettabilità al fallimento: finalità, questa, che corrisponde ad una concezione del fallimento di “tipo sanzionatorio” abbandonata dallo stesso legislatore e in contrasto con i principi espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 570 del 1989.

La descritta disciplina della distribuzione dell'onere probatorio, prosegue il rimettente, sarebbe anche in contrasto con l'art. 76, primo comma, della Costituzione, in quanto «potenzialmente idonea a contraddire, di fatto, nella sua concreta applicazione, la direttiva della legge delega concernente l'estensione del novero dei soggetti esclusi dal fallimento».

Aver previsto dei requisiti dimensionali ai fini della assoggettabilità al fallimento, ma aver poi assegnato al debitore l'onere della relativa dimostrazione, facendo così in modo che da essi si possa prescindere, determina, in contrasto col principio direttivo della delega, volto alla riduzione dell'area della assoggettabilità al fallimento, un suo incontrollato ampliamento; si è così, in sostanza, prevista una sorta di presunzione di assoggettabilità al fallimento fino a prova contraria, divergente rispetto agli obiettivi del legislatore delegante.

4. – E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato.

La difesa erariale ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per la infondatezza della questione sollevata dal Tribunale di Napoli.

Ad avviso della difesa pubblica, infatti, il rimettente, contraddittoriamente, dapprima ha esercitato i suoi poteri officiosi ai fini di stabilire l'ammissibilità o meno della dichiarazione di fallimento, e, successivamente, invece di giudicare sulla base delle risultanze così acquisite, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale.

Ad avviso della Avvocatura la questione sarebbe altresì inammissibile in quanto il rimettente avrebbe omesso di motivare sulla impraticabilità di diverse interpretazioni della disposizione impugnata, tali da escludere che spetti solo al debitore di provare la sussistenza delle condizioni che lo esentano dal fallimento.

Comunque, aggiunge la difesa pubblica, anche l'interpretazione indicata dal ricorrente non contrasta coi parametri costituzionali evocati.

Si osserva, infatti, come il sistema preveda una regola – la soggezione dell'imprenditore commerciale al fallimento – ed una eccezione – l'esclusione da tale soggezione per l'imprenditore che svolga un'attività che, sulla base di determinati parametri normativi, sia economicamente poco rilevante –. La prova dell'eccezione, come sempre avviene, è rimessa al soggetto interessato.

Tale sistema non può certamente essere sospettato di irragionevolezza, né contrasta coi principi contenuti nella legge delega, la quale prevedeva la semplificazione della disciplina del fallimento attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto.

D'altra parte, osserva la Avvocatura, la Corte costituzionale nella giurisprudenza formatasi successivamente alla sentenza n. 570 del 1989, ha precisato che le considerazioni concernenti i criteri di applicabilità della disciplina delle procedure concorsuali correlati alle dimensioni economiche dell'imprenditore fallendo «attengono alla sfera della discrezionalità del legislatore perché rientrano nell'ambito della generale politica economica e giudiziaria e a lui spetta la scelta delle varie soluzioni possibili».

 

Considerato in diritto

1. – Con due ordinanze di rimessione, dal contenuto largamente coincidente, la Sezione fallimentare del Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, dell'art. 1, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come modificato a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80).

1.2. – In particolare, il rimettente ritiene la citata disposizione, la quale prevede che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori commerciali «i quali dimostrino il possesso congiunto» dei tre requisiti dimensionali elencati alle lettere a), b) e c) della medesima disposizione censurata, in contrasto con l'art. 3 Cost. e con l'art. 76 Cost. poiché, per un verso, facendo gravare sul debitore l'onere di provare la sussistenza dei requisiti ostativi alla dichiarazione di fallimento, farebbe dipendere la dichiarazione stessa da un comportamento del debitore non condizionato dalla natura e dalla importanza economica dell'attività da questo svolta o dai mezzi in essa impiegati né in rapporto con le ripercussioni del suo dissesto sul sistema economico, così favorendo dichiarazioni di fallimento inutili, e in quanto, per altro verso, violando il principio direttivo contenuto nell'art. 1, comma 6, lettera a), numero 1), della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), secondo il quale il legislatore delegato deve provvedere alla semplificazione della disciplina del fallimento «attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dalla applicabilità» dei relativi istituti, rende possibile la dichiarazione di fallimento di soggetti che, sebbene non raggiungano la soglia di assoggettabilità al fallimento, non sono in grado di dare la prova di ciò, oppure trascurano di farlo o, infine, non hanno interesse a farlo.

2. – Attesa l'evidente connessione, i due giudizi possono essere riuniti per essere congiuntamente decisi.

3. – La articolata questione di legittimità costituzionale è inammissibile nella parte in cui essa è formulata con riferimento all'art. 3 Cost. e non è fondata là dove formulata con riferimento all'art. 76 Cost.

4. – Osserva, infatti, questa Corte che la disciplina relativa alla individuazione dei requisiti richiesti ai fini dell'assoggettabilità dell'imprenditore alla disciplina fallimentare si è svolta, nel tempo, attraverso diverse vicende normative.

L'originario impianto normativo del 1942 prevedeva che, per quanto ora interessa, fossero esclusi dalla applicazione delle disposizioni in materia di procedure concorsuali i piccoli imprenditori. Di tale categoria, ai fini della normativa in questione, era data una precisa definizione: erano, infatti, considerati tali gli imprenditori commerciali per i quali era stato accertato un reddito, relativamente alla applicazione dell'imposta di ricchezza mobile, inferiore al minimo imponibile. Nel caso in cui non si fosse proceduto all'accertamento del reddito, era considerato piccolo imprenditore, e come tale non suscettibile di fallire, chi aveva investito nella propria impresa commerciale un capitale non superiore a lire 30.000, somma questa elevata sino a lire 900.000, onde renderla adeguata al mutamento del valore del danaro verificatosi al termine del secondo conflitto mondiale, con l'articolo unico della legge 20 ottobre 1952, n. 1375 (Adeguamento dei limiti di somma indicati dalle disposizioni degli articoli 1, comma secondo; 35, comma secondo; e 155 della «disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa», approvata con regio decreto 16 marzo 1942, n. 267).

Tale disciplina, come si vede basata su rigidi criteri oggettivi, è stata, tuttavia, abbandonata col tempo in quanto, da un lato, a seguito della entrata in vigore dell'art. 82 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell'imposte sul reddito delle persone fisiche), a decorrere dal 1° gennaio 1974 la imposta di ricchezza mobile è stata abolita, per essere sostituita da diverso tipo di imposizione, mentre, d'altro lato, questa Corte, con la sentenza, più volte richiamata dallo stesso Tribunale rimettente, n. 570 del 1989, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, del r.d. n. 267 del 1942 nella parte in cui ancorava il residuo criterio oggettivo di assoggettabilità al fallimento (l'importo del capitale investito nella impresa commerciale) ad un parametro finanziario che, a seguito della progressiva alterazione dei valori monetari, aveva perso l'idoneità a costituire un valido discrimine fra il piccolo imprenditore e gli altri imprenditori commerciali.

In tale situazione, e per un lungo periodo, l'unico indice distintivo del piccolo imprenditore, come tale non suscettibile di fallire, era offerto dalla definizione che, per altro a diverso titolo, è contenuta nell'art. 2083 del codice civile.

Onde colmare la lacuna che si era in tal modo creata, e anche al fine di dare quindi attuazione alle indicazioni contenute nella citata sentenza n. 570 del 1989 di questa Corte, è intervenuto, sulla scorta della delega conferita con la legge 14 maggio 2005, n. 80, (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonchè per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), il legislatore delegato che, riformando organicamente la disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, pur conservando la tradizionale distinzione fra piccolo imprenditore, non assoggettabile al fallimento, e gli altri imprenditori commerciali, suscettibili, invece, di fallimento, ha reintrodotto dei criteri oggettivi tramite i quali discernere l'una categoria dall'altra.

Infatti, l'art. 1 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della L. 14 maggio 2005, n. 80), che aveva sostituito, a decorrere dal 16 luglio 2006, l'art. 1, comma secondo, del regio decreto n. 267 del 1942, dopo aver ribadito che i piccoli imprenditori erano esclusi dalla applicazione della disciplina del fallimento e del concordato preventivo, aveva previsto che non erano piccoli imprenditori coloro che, operando sia in forma individuale che collettiva, avevano effettuato investimenti nella azienda per un valore superiore a euro 300.000,00 ovvero avevano realizzato, nei tre anni precedenti al rilevamento o dall'inizio della attività se risalente a più breve periodo, ricavi medi annui superiori a 200.000,00 euro.

Come correttamente osservato nelle due ordinanze di rimessione, la introduzione del descritto discrimine fra imprenditore commerciale soggetto al fallimento e imprenditore esentato da tale procedura ha immediatamente determinato, in sede di prima applicazione della nuova normativa, una sensibilissima contrazione del numero dei fallimenti dichiarati, imputabile, per lo più, alla incertezza normativa in ordine alla attribuzione dell'onere di provare giudizialmente la sussistenza degli elementi tramite i quali distinguere le due categorie, aggravata dalla ulteriore incertezza sulla residua sussistenza, nonché sulla loro eventuale ampiezza, di poteri officiosi di indagine in capo all'ufficio giudiziario investito del ricorso per dichiarazione di fallimento.

Al dichiarato fine di ovviare a siffatto fenomeno, come emerge dagli stessi relativi lavori preparatori, è nuovamente intervenuto il legislatore delegato che, in occasione della adozione del decreto legislativo, cosiddetto correttivo, 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), ha ulteriormente modificato l'art. 1 della legge fallimentare, abbandonando definitivamente, ai fini della determinazione dei requisiti individuali richiesti per l'apertura del fallimento, il richiamo alla categoria del piccolo imprenditore. Ha, altresì, modificato gli indici rilevanti ai fini dell'assoggettamento alla procedura fallimentare (portandoli da due a tre e qualificandoli non più, come invece nella precedente versione normativa, come requisiti, anche alternativamente, necessari per far ricadere fra i soggetti suscettibili di fallimento chi li possedesse, ma, costruendoli, invece, come elementi negativi della legittimazione al fallimento, prevedendo, cioè, che il loro congiunto possesso sia ostativo alla assoggettabilità alla procedura fallimentare) ed ha affermato, infine, che la dimostrazione del loro possesso è attribuita all'imprenditore nei cui confronti si indirizzi la richiesta di fallimento.  

4.1. – Così delineato in senso diacronico lo sviluppo della disposizione oggetto di censura da parte del Tribunale di Napoli, questa Corte osserva che deve escludersi che essa, nella versione attualmente vigente, sia stata adottata in contrasto con l'art. 76 Cost.

Poichè fra i principi e criteri direttivi cui il legislatore delegato doveva attenersi nel riformare la disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali vi era quello relativo a «semplificare la disciplina attraverso la estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto e l'accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia» (art. 1, comma 6, lettera a), numero 1, della legge n. 80 del 2005), deve osservarsi che non vi è dubbio che la fissazione di oggettivi e predeterminati criteri quantitativi, volti a delimitare precisamente il novero dei soggetti estranei alla disciplina del fallimento, è – a fronte di una pregressa disciplina che ancorava alla incerta, e priva di inequivoci termini di riferimento, qualificazione soggettiva di «piccolo imprenditore» il requisito per la assoggettabilità al fallimento o meno dell'operatore commerciale – conforme a detto principio.

È infatti evidente che la oggettivizzazione dei criteri di discernimento tra soggetti che possono essere dichiarati falliti e soggetti esonerati dal fallimento comporta, ex se, data la minore complessità della relativa attività di accertamento e valutazione, sia un'accelerazione della procedura che una semplificazione della disciplina fallimentare.

Nessun rilievo ha il fatto che, secondo quanto osservato dal Tribunale rimettente, attraverso la normativa introdotta col d.lgs. n. 169 del 2007 è stata ampliata la platea dei soggetti astrattamente suscettibili di fallire rispetto a quella, più ridotta, delineata a seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, dato che è corretto criterio di giudizio comparare la norma così come censurata con la versione di essa vigente al momento del conferimento della delega, senza tener conto della versione intermedia, scaturita in sede di prima attuazione, successivamente modificata tramite il decreto correttivo.

Operando in tal modo, l'intervento del legislatore delegato è rispettoso della delega conferitagli, dato che i vigenti criteri quantitativi di determinazione dei soggetti che possono fallire comportano, rispetto alla precedente esclusione dei soli “piccoli imprenditori”, una estensione dell'area di non assoggettabilità al fallimento.

La disciplina introdotta non risulta, altresì, in contrasto con le indicazioni fornite da questa Corte nella sentenza n. 570 del 1989, là dove si era segnalata la necessità che la distinzione fra imprenditore commerciale suscettibile di fallire e mero insolvente civile dovesse essere fondata su criteri sicuri che facessero riferimento all'entità dell'impresa, all'organizzazione dei mezzi in essa impiegati ed alle ripercussioni che il dissesto veniva ad avere sull'economia generale; tutti criteri questi che non appaiono disattesi se posti a raffronto con i tre requisiti indicati nel comma secondo dell'art. 1 della legge fallimentare, come modificato col decreto correttivo n. 169 del 2007.

4.2. – Riguardo alla violazione dell'art. 3 Cost. la questione di legittimità costituzionale è inammissibile per più motivi.

Il Tribunale rimettente con le due citate ordinanze censura l'art. 1, secondo comma, della legge fall. nella parte in cui, prevedendo che non sono soggetti alle disposizioni sul  fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori commerciali «i quali dimostrino» il possesso dei requisiti esonerativo elencati  nelle lettere a), b) e c) del medesimo secondo comma, graverebbe in modo esclusivo del relativo onere probatorio gli imprenditori medesimi, i quali, limitatamente a tale aspetto della controversia, sarebbero, pertanto, “arbitri” dell'esito della lite.

Con rischio, paventato in ambedue le ordinanze di rimessione, che la dichiarazione di fallimento sia, in qualche modo, nella disponibilità dello stesso soggetto fallendo, ovvero che la stessa, potendo intervenire, stante l'inerzia probatoria del debitore, anche in assenza degli elementi quantitativi previsti dal legislatore, potrebbe non rispondere a quei requisiti di utilità generale che ne debbono, invece, giustificare la adozione.

4.3. – Vanno esaminate, preliminarmente, due linee argomentative sviluppate dal rimettente per dimostrare l'irragionevolezza della disciplina recata dal citato decreto correttivo all'art. 1 della legge fallimentare.

Non ha pregio l'argomento svolto nelle due ordinanze a quibus, con riferimento alla ipotesi della istanza di fallimento proposta dallo stesso fallendo, volto a sostenere che, essendo lui stesso istante ed avendo, pertanto,  in ipotesi un interesse alla dichiarazione di fallimento, potrebbe, artatamente, sottrarsi all'onere di dimostrare la sua non assoggettabilità al fallimento, conseguendo, in tal modo, la dichiarazione di fallimento anche là dove ne sarebbero mancati i presupposti soggettivi. Per privare di significato il pur suggestivo rilievo, basti osservare che l'art. 14 della legge fallimentare prevede, a carico del debitore che chieda il proprio fallimento, degli adempimenti istruttori – significativamente qualificati in sede normativa alla stregua di obblighi e non di oneri – tali da rimuovere le preoccupazioni paventate dal Tribunale rimettente. Che gli adempimenti richiesti debbano avere tale qualificazione risulta non solo dal dato, notoriamente non decisivo ma neppure neutro, offerto dalla stessa rubrica dell'articolo di legge in discorso intitolata “obblighi dell'imprenditore che chiede il proprio fallimento”, ma anche dal reiterato uso del verbo “deve” da parte del legislatore con riferimento alla attività di deposito documentale da compiersi da parte del debitore istante.

Infine, con riferimento ai possibili benefici che il debitore potrebbe indebitamente lucrare dalla dichiarazione di fallimento, in realtà il rimettente indica solo quello della possibile esdebitazione; ma, a ben riflettere, stante il tenore dell'art. 142 della legge fall., il quale indica le condizioni per poter accedere a questo istituto, pare del tutto improbabile che di un debitore che abbia omesso di fornire un'attendibile documentazione in ordine alla sua contabilità (unico mezzo in base al quale sarebbe per costui possibile farsi dichiarare fallito pur non ricorrendone le condizioni soggettive) possa dirsi, come invece prescrive il citato art. 142 legge fall. per la concessione del beneficio della esdebitazione, che abbia cooperato con gli organi della procedura fornendo la documentazione e le informazioni ad essi necessarie.

4.4. – Superate le argomentazioni preliminari, occorre valutare il contenuto centrale del petitum del rimettente.

Nelle due ordinanze di rimessione il Tribunale di Napoli chiede nella sostanza a questa Corte un intervento che, anche se si limitasse alla semplice caducazione delle parole “i quali dimostrino il” e le sostituisse con la preposizione “in” (di modo che l'espressione complessivamente affermi che «non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento […] gli imprenditori in possesso congiunto dei seguenti requisiti: […]»), ovvero  ove consistesse nella sostituzione della voce verbale  “dimostrino” con l'altra “siano” (di modo che l'espressione complessivamente affermi che «non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento […] gli imprenditori i quali siano in possesso congiunto dei seguenti requisiti: […]»), avrebbe delle conseguenze i cui effetti non sarebbero giustificabili alla luce della dichiarata ratio legis che ha presieduto alla adozione della novella del 2007 e comporterebbero la necessità di ulteriori modifiche inibite al giudice costituzionale.

Infatti, fermi restando i requisiti dimensionali necessari ai fini dell'assoggettabilità al fallimento, la modifica del criterio di riparto dell'onere della prova equivarrebbe a rovesciare sul creditore istante questo onere.

Per valutare le conseguenze che deriverebbero da questa decisione occorre tenere conto della controversia giurisprudenziale – ampiamente descritta nelle ordinanze di rimessione – che ha indotto il legislatore delegato a modificare la precedente disposizione contenuta nell'art. 1 della legge fallimentare, il dubbio cioè se la prova della sussistenza degli elementi che determinavano la assoggettabilità al fallimento dell'imprenditore fosse a carico del creditore istante, venendo ad essere un fatto costitutivo della fattispecie che veniva sottoposta al giudizio del tribunale, o del debitore resistente, venendo ad essere un fatto impeditivo della fattispecie. Se insieme a ciò si considera lo sviluppo delle argomentazioni formulate dal rimettente, che, tra l'altro, manifesta il suo contrario avviso all'adozione del principio della attribuzione dell'onere probatorio alla parte più vicina alla prova stessa, ricavabile dall'art. 2697 cod. civ., l'accoglimento determinerebbe il risultato di riversare sul creditore istante o sul pubblico ministero richiedente tale onere. Ma si tratterebbe di un onere non di rado inesigibile.

Basti pensare alle stesse fattispecie da cui originano le ordinanze di rimessione ora in esame: il fatto che le due società commerciali fallende abbiano omesso di depositare gli ultimi bilanci di esercizio rende, in sostanza, se non impossibile certamente assai arduo al creditore istante l'accertamento sia dell'attivo patrimoniale conseguito dal debitore nei tre anni precedenti al deposito della istanza di fallimento sia l'accertamento dei ricavi lordi realizzati dal medesimo nello stesso periodo.

Ancor più difficoltoso sarebbe poi, per un soggetto che non sia lo stesso debitore, fornire una prova adeguata della complessiva esposizione debitoria di questo.

È, pertanto, chiaro che, ove non fossero modificati i requisiti richiesti al fine della assoggettabilità alla procedura fallimentare, l'eventuale ribaltamento dell'onere probatorio sul creditore istante o sul pubblico ministero renderebbe spesso impossibile per costoro ottenere l'accoglimento della istanza di fallimento da loro proposta.

Né è chiaramente possibile a questa Corte, al di là della circostanza che neppure il petitum contenuto nelle ordinanza di rimessione lo richiede, intervenire addirittura modificando i requisiti di assoggettabilità al fallimento, essendo ciò, senza alcun dubbio, rimesso alla libera determinazione del legislatore.

Ma vi è, anche, un secondo motivo che rende inammissibili le due ordinanze di rimessione. In ambedue i casi, infatti, il Tribunale rimettente, che, peraltro, pur dichiara espressamente di avervi fatto ricorso, omette di considerare che nella materia fallimentare vi è un ampio potere di indagine officioso in capo allo stesso organo giudicante. Di ciò è sicuro indice non solo la previsione contenuta nella fine del quarto comma dell'art. 15 della legge fallimentare, là dove si precisa che il tribunale, dopo aver ordinato al debitore fallendo il deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi nonché atti da cui risulti una situazione economica aggiornata, può comunque chiedere informazioni urgenti, potendosi a tal fine avvalere, evidentemente, di ogni organo pubblico a ciò competente, ma anche quanto previsto alla lettera b) del secondo comma dell'art. 1 della legge fall., ove è chiarito che i dati relativi all'ammontare dei ricavi lordi realizzati dal debitore nel triennio antecedente alla data di deposito della istanza di fallimento sono utilizzabili in «qualunque modo risulti» e quindi non soltanto sulla base delle allegazioni probatorie del debitore.

Il prudente e consapevole uso di siffatto potere è di per sé strumento idoneo ad evitare, nei limiti di quanto ragionevolmente dovuto, la possibilità che siano dichiarati fallimenti che, date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati.

Viene, altresì, trascurata la capacità espansiva di quanto dispone l'art. 22 della legge fall., il quale, sancendo la possibilità di proporre gravame avverso il provvedimento che respinge l'istanza di fallimento da parte dei creditori ricorrenti e da parte del pubblico ministero, prevede, al quarto comma, che l'accoglimento del reclamo determina la rimessione degli atti al tribunale «salvo che, anche su segnalazione di parte, accerti che sia venuto meno alcuno dei presupposti necessari». Si tratta di una facoltà probatoria riconosciuta a chiunque abbia interesse ad opporsi alla dichiarazione di fallimento che, per evidenti motivi di economia processuale e, prima ancora, per la palese anomalia di sistema che deriverebbe dal riconoscerla solo in sede di gravame, non può ritenersi negata in relazione all'originario giudizio di fronte al tribunale.

Anche per questo verso il rimettente omette, quindi, di considerare significative parti della complessiva normativa in materia che valgono a smentire l'assunto che sta alla base delle sue argomentazioni, vale a dire che la vigente disciplina attribuirebbe in via esclusiva al fallendo la prova della sua non assoggettabilità al fallimento, vietando al giudice la possibilità di acquisire aliunde, o tramite l'apporto probatorio delle altre parti del procedimento, gli elementi necessari per verificare la sussistenza dei requisiti richiesti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come modificato dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, con le ordinanze in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 1, comma secondo, del regio decreto n. 267 del 1942, come modificato dal decreto legislativo n. 169 del 2007, sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare,  con le medesime ordinanze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'1 luglio 2009.