ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE
SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano
SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE
"
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del regio decreto 16
marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e
della liquidazione coatta amministrativa), come modificato dal decreto
legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio
2006, n.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 maggio 2009 il Giudice relatore Paolo
Maria Napolitano.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza depositata in data 16
maggio 2008 il Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale, con
riferimento agli artt. 3 e 76, primo comma, della Costituzione,
dell'art. 1, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta
amministrativa), come modificato a seguito della entrata in vigore del decreto
legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio
2006, n.
1.1. – Riferisce il Tribunale di Napoli
di essere chiamato a giudicare in ordine alla istanza
di fallimento presentata nei confronti di una società in liquidazione. Dopo
aver precisato che la società istante ha dimostrato di essere creditrice nei
confronti della fallenda – la quale, pur ritualmente
intimata, non si è costituita né è comparsa in giudizio – in forza di un
decreto ingiuntivo, divenuto definitivo, per un importo di circa 80.000,00
euro, e che la medesima, secondo quanto emerso in sede di istruttoria prefallimentare, è altresì debitrice, in forza di cartelle
esattoriali emesse nei suoi confronti, per altri 95.000,00 euro circa, il
rimettente rileva che non è dubbia – tenuto anche conto degli indici offerti
dall'avvenuta, considerevole e repentina, contrazione del volume d'affari,
dall'abbandono della sede sociale, dal gravoso carico debitorio e, infine, dal
mancato deposito dei bilanci successivi all'anno 2003 – la sussistenza a carico
della società fallenda del necessario requisito della insolvenza.
Riguardo alla assoggettabilità
di questa al fallimento, rileva il Tribunale che essa deve essere accertata
alla stregua dell'art. 1, commi primo e secondo, del regio decreto n. 267 del
1942, nel testo a tale data vigente.
Il rimettente ritiene, però, che il
comma secondo del citato art. 1, nella parte in cui prevede che non sono
soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli
imprenditori i quali dimostrino il possesso congiunto dei tre requisiti
indicati dalla medesima disposizione – cioè: avere avuto, nei tre esercizi
precedenti alla presentazione dell'istanza di fallimento un attivo patrimoniale
annuo non superiore a 300.000,00 euro, avere avuto, nel medesimo lasso di
tempo, un ricavo lordo annuo non superiore a 200.000,00 euro, ed, infine, di
avere debiti, anche non scaduti, per un ammontare non superiore a 500.000,00
euro – sia in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, violando il principio
di ragionevolezza.
Ciò, puntualizza il rimettente, nella
parte in cui grava il debitore dell'onere «di provare la sua non
assoggettabilità al fallimento o, se si preferisce, nella parte in cui prevede
il fallimento dell'imprenditore insolvente che non abbia dimostrato di non
essere ricompreso nell'area di non fallibilità».
Al proposito, osserva il rimettente che,
anteriormente alla riforma del diritto fallimentare operata con il decreto
legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005,
n. 80), era quasi unanime l'opinione che, ai fini dell'accoglimento della istanza di fallimento, il ricorrente dovesse provare,
oltre lo stato di insolvenza del debitore e la sua qualità di imprenditore
commerciale, anche il fatto che questi non fosse un piccolo imprenditore.
Riguardo al criterio distintivo,
nell'ampio ambito degli imprenditori, della specie del piccolo imprenditore, il
Tribunale di Napoli ricorda come questa Corte, con la sentenza n. 570 del
1989, abbia chiarito che a fondare siffatta distinzione, in particolare ai
fini della assoggettabilità o meno alla procedura
fallimentare, debbono essere fissati criteri oggettivi, ancorati alla attività
svolta, all'organizzazione dei mezzi impiegati, all'entità dell'impresa e alle
ripercussioni che il dissesto produce nell'economia nazionale. Ciò al fine di
evitare che imprese di modeste dimensioni siano sottoposte alle procedure
fallimentari, a rischio, in caso contrario, che queste si trasformino in uno
strumento impeditivo della tutela dei creditori.
Secondo il rimettente, da tali
considerazioni si ricaverebbe l'obbligo di legiferare in modo tale da ridurre
al minimo i fallimenti nei quali l'attivo non è sufficiente a soddisfare,
neppure in parte, i creditori, così liberando «risorse umane e materiali preziose per l'organizzazione giudiziaria» ed
evitando, al contempo, di criminalizzare comportamenti privi di reale
disvalore.
1.2. – In questo solco, prosegue il
giudice a quo, si era posto il
legislatore delegante che, all'art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80,
(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n.
35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano
di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo
per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di
cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali), aveva previsto, fra i principi e criteri direttivi cui
doveva attenersi il Governo nell'attuazione della delega conferitagli, quello
di «semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati
dall'applicabilità dell'istituto e l'accelerazione delle procedure applicabili
alle controversie in materia».
Scopo dichiarato dei riportati criteri
sarebbe stato, ad avviso del rimettente, la eliminazione
di quelle numerosissime procedure, chiuse con la realizzazione di un attivo
neppure sufficiente a coprire le spese, il cui bilancio era destinato a gravare
sullo Stato, senza apprezzabile beneficio per i creditori, per il fallito o per
la collettività.
Il legislatore delegato del 2006,
conservando, ai fini della soggezione o meno al fallimento, il tradizionale
richiamo alla categoria dei piccoli imprenditori, aveva dettato alcuni
parametri finalizzati alla individuazione degli
appartenenti a tale categoria, senza peraltro nulla disporre in merito alla
ripartizione del relativo onere probatorio, ed aveva introdotto, all'ultimo
comma dell'art. 15 della legge fallimentare, un limite quantitativo minimo
dell'ammontare dei debiti scaduti e non pagati, al di sotto del quale non
poteva essere dichiarato il fallimento.
1.3. – Entrata in vigore la riforma,
prosegue il rimettente, si è verificata una «sensibilissima riduzione delle
dichiarazioni di fallimento», dovuta al fatto che al «dubbio sul superamento da
parte del debitore delle soglie quantitative dell'area della fallibilità»,
fissate dall'allora vigente secondo comma dell'art. 1 della legge fallimentare,
seguiva il rigetto della istanza. Tale riduzione,
sebbene ritenuta dal rimettente in linea con la delega conferita, sarebbe stata
contrastata dal legislatore delegato che, in occasione dell'emanazione del
decreto correttivo n. 169 del
Tale riparto dell'onere probatorio,
anche se ritenuto dal rimettente, così come emergerebbe anche dalla Relazione
illustrativa al d.lgs. n. 169 del 2007, conforme al principio generale in
materia espresso dall'art. 2697 cod. civ. nonché a quello, al primo correlato,
della prossimità della prova, violerebbe, stante la sua irragionevolezza,
l'art. 3 della Costituzione.
Con esso, infatti, sarebbero state
sostanzialmente disattese le indicazioni date dalla Corte costituzionale con la
citata sentenza
n. 570 del 1989, la quale aveva evidenziato
l'esigenza di un discrimine oggettivo tra imprenditore suscettibile di fallire
ed imprenditore non soggetto a tale procedura.
Addossare, invece, sul debitore l'onere
di provare la sua assoggettabilità o meno al fallimento, continua il Tribunale
di Napoli, può far dipendere la apertura della
procedura concorsuale da un comportamento del debitore stesso che normalmente
non dipende «dalla natura e dall'importanza dell'attività economica e dei mezzi
impiegati» nell'esercizio dell'impresa, né ha «alcun rapporto con le
ripercussioni del dissesto dell'imprenditore sul sistema economico», favorendo,
anzi, dichiarazioni di fallimento del tutto inutili (soggette, peraltro, al
reclamo del debitore che in tale sede potrà dimostrare di essere in possesso
dei requisiti ostativi al fallimento).
D'altra parte, aggiunge il giudice a quo, la regola probatoria di cui
all'art. 2697 cod. civ. si giustifica ove siano in giuoco diritti di cui le
parti possano disporre; viceversa l'interesse a evitare inutili dichiarazioni
di fallimento è, per le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 570
del 1989, un interesse pubblico.
A conferma della irragionevolezza
della disposizione che, in questa materia, disciplina l'onere probatorio, il
rimettente ritiene difficilmente comprensibile la regola che imporrebbe al
debitore, il quale chieda il proprio fallimento, di fornire poi la prova della
sua «non fallibilità», posto che egli non ha alcun interesse a fornire siffatta
prova.
1.4. – La descritta disciplina della
distribuzione dell'onere probatorio sarebbe anche in contrasto con l'art. 76,
primo comma, della Costituzione, in quanto «potenzialmente idonea a
contraddire, di fatto, nella sua concreta applicazione, la direttiva della
legge delega concernente l'estensione del novero dei soggetti esclusi dal
fallimento».
Ci saranno, infatti, imprenditori che,
pur non raggiungendo «le soglie di fallibilità», non potranno, o non vorranno,
darne la prova, anche «al fine di accedere all'istituto dell'esdebitazione».
Rileva, ancora, il Tribunale che il
chiaro tenore letterale della disposizione censurata, la quale stabilisce
semplicemente che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli
imprenditori i quali «dimostrino il possesso congiunto» dei requisiti elencati
dal secondo comma dell'art. 1 della legge fallimentare, lo induce a ritenere
preclusa la possibilità d'interpretare la norma nel senso di ripartire l'onere
probatorio relativamente al possesso dei ricordati requisiti in maniera diversa
da come, invece, sinora prospettato.
Quanto alla rilevanza della questione,
il Tribunale afferma che nella fattispecie – non essendosi la società fallenda costituita in giudizio, risultando in atti
solamente che la medesima, nell'anno 2005, compreso nel triennio anteriore al
deposito della istanza di fallimento, aveva realizzato
un volume di affari di poco superiore a 88.000,00 euro e non essendo
ipotizzabili ulteriori attività istruttorie, poichè
la debitrice ha depositato, quale ultimo bilancio, quello relativo
all'esercizio chiusosi alla fine del 2003, quindi anteriormente al triennio
precedente il deposito della istanza di fallimento – questo sarebbe dichiarato
solo in quanto la debitrice non ha dimostrato il possesso dei requisiti
ostativi alla soggezione alla procedura indicati dal secondo comma dell'art. 1
della legge fallimentare.
2. – E' intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato.
La difesa erariale ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per la infondatezza della
questione sollevata dal Tribunale di Napoli.
Ad avviso della Avvocatura,
la questione sarebbe inammissibile in quanto il rimettente avrebbe omesso di
tentare un'interpretazione della disposizione censurata tale da superare i
dubbi di costituzionalità; non si sarebbe, ad esempio, interrogato sulla
possibilità di procedere d'ufficio ad indagini patrimoniali relative
all'imprenditore fallendo.
Comunque, aggiunge la difesa pubblica,
anche l'interpretazione indicata dal ricorrente non contrasta coi parametri
costituzionali evocati.
Si osserva, infatti, come il sistema
preveda una regola, la soggezione dell'imprenditore commerciale al fallimento,
ed una eccezione, l'esclusione da tale soggezione per
l'imprenditore che svolga un'attività che, sulla base di determinati parametri
normativi, sia economicamente poco rilevante. La prova dell'eccezione, come
sempre avviene, è rimessa al soggetto interessato.
Tale sistema non può certamente essere
sospettato di irragionevolezza né contrasta coi principi contenuti nella legge
delega, la quale prevedeva la semplificazione della disciplina del fallimento
attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità
dell'istituto.
D'altra parte, osserva
3. – Con altra ordinanza, depositata in
data 16 maggio 2008, dal contenuto largamente coincidente con la precedente, il
medesimo Tribunale di Napoli, Sezione fallimentare, ha nuovamente sollevato
questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli
artt. 3 e 76, primo comma, della Costituzione, dell'art. 1, secondo
comma, del regio decreto n. 267 del 1942, come modificato a seguito della entrata
in vigore del decreto legislativo n. 169 del 2007.
3.1. – Riferisce il Tribunale di Napoli
di essere chiamato a giudicare in ordine a due istanze di fallimento presentate
nei confronti di una società commerciale. Precisa, altresì, che le parti istanti
hanno dimostrato di essere creditrici della fallenda
– la quale, pur ritualmente intimata, non si è costituita né è comparsa in
giudizio – in forza ciascuna di un decreto ingiuntivo esecutivo per un importo
complessivo di circa 22.000,00 euro, e che la medesima fallenda,
secondo quanto emerso in sede di istruttoria prefallimentare,
è altresì debitrice verso terzi per oltre 151.000,00
euro.
Tanto premesso, il rimettente rileva che
non v'è dubbio – tenuto anche conto degli indici offerti dai riscontrati
plurimi inadempimenti relativi ad obbligazioni aventi un valore complessivo
superiore, secondo quanto richiesto dall'art. 15 del r.d. n. 267 del
Riguardo alla assoggettabilità
della ricordata società al fallimento, rileva il Tribunale che essa deve essere
accertata alla stregua dell'art. 1, commi primo e secondo, del regio decreto n.
267 del 1942, nel testo a tale data vigente.
Osservato che nel caso in questione la
società debitrice, non costituitasi sebbene ritualmente intimata, non ha svolto
alcuna attività per dimostrare di non essere assoggettata alle procedure
fallimentari e rilevato che gli accertamenti disposti d'ufficio dal Tribunale
hanno consentito di acquisire elementi relativi ai dati IRPEG ed IVA della debitrice, riferibili,
però, a periodi precedenti a quelli rilevanti ai sensi del citato art. 1, comma
secondo, del r.d. n. 267 del 1942, il rimettente ritiene che detta
disposizione, nella parte in cui prevede che non siano soggetti alle
disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori i
quali dimostrino il possesso congiunto dei già ricordati tre requisiti da essa
indicati, sia in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, violando il
principio di ragionevolezza.
3.2. – Il Tribunale di Napoli ricorda
che ai fini della soggezione dell'imprenditore al fallimento si è sempre
richiesta, oltre al dato della insolvenza, la qualità
di imprenditore non piccolo.
Riguardo al criterio distintivo,
nell'ampio ambito degli imprenditori, della specie del piccolo imprenditore, il
Tribunale di Napoli ricorda come
In questo solco, prosegue il giudice a quo, si è posto il legislatore
delegante che, all'art. 1 della legge n. 80 del 2005 aveva previsto, fra i
principi e criteri direttivi cui doveva attenersi il governo nell'attuazione
della delega commessagli, quello di «semplificare la disciplina attraverso
l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto e
l'accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia».
Scopo dichiarato dei riportati criteri
sarebbe stato, ad avviso del rimettente, la eliminazione
di quelle numerosissime procedure, chiuse con la realizzazione di un attivo
neppure sufficiente a coprire le spese, il cui bilancio era destinato a gravare
sullo Stato, senza apprezzabile beneficio per i creditori, per il fallito o per
la collettività.
Il legislatore delegato del 2006,
conservando, ai fini della soggezione o meno al fallimento, il tradizionale
richiamo alla categoria dei piccoli imprenditori, aveva fissato alcuni
parametri finalizzati alla individuazione degli
appartenenti a tale categoria, senza peraltro nulla disporre in merito alla
ripartizione del relativo onere probatorio.
Ciò ha fatto sì che si accendesse, sia
in giurisprudenza che in dottrina, il dibattito fra chi poneva a carico del debitore
la prova della sussistenza degli elementi esonerativi dal fallimento, essendo
questi considerati in guisa di fatti impeditivi, e chi, invece, ritenuto il
superamento delle soglie di assoggettabilità al fallimento quale requisito
soggettivo ai fini della qualificazione dell'imprenditore come “non piccolo”,
ne poneva la dimostrazione a carico del creditore istante.
Al riguardo, ritiene il rimettente che
la questione andrebbe risolta – stante la inesistenza
di un «diritto soggettivo alla dichiarazione di fallimento», trattandosi di
tema coinvolgente interessi pubblici – negando l'applicabilità dell'art. 2697
cod. civ. e pervenendo all'accertamento della suscettibilità di fallire
dell'imprenditore attraverso «il contributo assertivo e probatorio delle parti
e con l'utilizzo dei poteri officiosi del giudice».
3.3. – Senonché,
adottando il d.lgs. n. 169 del 2007, il legislatore ha formulato ex novo il secondo comma dell'art. 1 del
r.d. n. 267 del 2007, prevedendo che siano esclusi dal fallimento gli
imprenditori «i quali dimostrino il possesso congiunto» dei requisiti indicati
alle successive lettere a), b) e c)
del medesimo comma.
Tale modifica, con la quale si sarebbe
espressamente gravato il debitore di dimostrare di essere insuscettibile di fallimento,
è dovuta, come il rimettente chiarisce riportandosi alla relazione
illustrativa, all'eccessiva riduzione della «area della fallibilità»
conseguente alla precedente modifica dell'art. 1 della legge fallimentare.
Ma, aggiunge il Tribunale di Napoli,
questo criterio di riparto dell'onere probatorio, violerebbe, per la sua
irragionevolezza, l'art. 3 della Costituzione, disattendendo, infatti,
sostanzialmente, le indicazioni date dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 570 del
1989, la quale aveva evidenziato l'esigenza di un discrimine oggettivo tra
imprenditore suscettibile di fallire ed imprenditore non soggetto a tale
procedura.
Addossare, invece, sul debitore l'onere
di provare la sua assoggettabilità o meno al fallimento, continua il giudice a quo, può far dipendere la apertura della procedura da un comportamento del debitore
stesso che normalmente non dipende «dalla natura e dall'importanza
dell'attività economica e dei mezzi impiegati» nell'esercizio dell'impresa, né
ha «alcun rapporto con le ripercussioni del dissesto dell'imprenditore sul
sistema economico», favorendo così dichiarazioni di fallimento del tutto
inutili (soggette, peraltro, al reclamo del debitore che, in tale sede, potrà
dimostrare di essere in possesso dei requisiti per non essere suscettibile di
fallimento).
A conferma della irragionevolezza
della disposizione che disciplina l'onere probatorio, il rimettente pone il
caso del fallimento richiesto dallo stesso debitore: dovendosi in questo caso
escludere l'applicabilità della regola generale, essendo illogico imporre al
debitore, il quale chieda il proprio fallimento, di fornire poi la prova della
sua impossibilità di fallire, posto che egli non avrebbe alcun interesse a
fornire siffatta prova. Poiché è, altresì, da escludere che la mancata
dimostrazione da parte del debitore della sua non assoggettabilità al
fallimento porti direttamente alla apertura della
procedura, dovrebbe ritenersi che in questo caso, coerentemente con l'art. 14
legge fall., spetti al debitore dimostrare la sua sottoponibilità al fallimento.
Ma sarebbe difficilmente giustificabile,
sul piano della ragionevolezza, il mutare di una disciplina in funzione del
mutare del soggetto che ne chiede l'applicazione.
Né, ad escludere i dubbi di legittimità
costituzionale, giova la valutazione comparativa operata dal legislatore fra
l'interesse alla tutela del diritto di credito e quello di evitare l'apertura
di procedure concorsuali improduttive. Infatti la
soluzione adottata dal legislatore ha il solo effetto, peraltro dichiarato
nella Relazione illustrativa, di evitare che i debitori che non si difendono in
fase prefallimentare o che non collaborano nel corso
di questa siano poi «premiati» con la dichiarazione della loro non assoggettabilità
al fallimento: finalità, questa, che corrisponde ad una concezione del
fallimento di “tipo sanzionatorio” abbandonata dallo stesso legislatore e in
contrasto con i principi espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 570 del
1989.
La descritta disciplina della
distribuzione dell'onere probatorio, prosegue il rimettente, sarebbe anche in
contrasto con l'art. 76, primo comma, della Costituzione, in quanto
«potenzialmente idonea a contraddire, di fatto, nella sua concreta applicazione,
la direttiva della legge delega concernente l'estensione del novero dei
soggetti esclusi dal fallimento».
Aver previsto dei requisiti dimensionali
ai fini della assoggettabilità al fallimento, ma aver
poi assegnato al debitore l'onere della relativa dimostrazione, facendo così in
modo che da essi si possa prescindere, determina, in contrasto col principio
direttivo della delega, volto alla riduzione dell'area della assoggettabilità
al fallimento, un suo incontrollato ampliamento; si è così, in sostanza,
prevista una sorta di presunzione di assoggettabilità al fallimento fino a
prova contraria, divergente rispetto agli obiettivi del legislatore delegante.
4. – E' intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato.
La difesa erariale ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per la infondatezza della
questione sollevata dal Tribunale di Napoli.
Ad avviso della difesa pubblica,
infatti, il rimettente, contraddittoriamente, dapprima ha esercitato i suoi
poteri officiosi ai fini di stabilire l'ammissibilità o meno della
dichiarazione di fallimento, e, successivamente, invece di giudicare sulla base
delle risultanze così acquisite, ha sollevato la questione di legittimità
costituzionale.
Ad avviso della Avvocatura
la questione sarebbe altresì inammissibile in quanto il rimettente avrebbe
omesso di motivare sulla impraticabilità di diverse interpretazioni della
disposizione impugnata, tali da escludere che spetti solo al debitore di
provare la sussistenza delle condizioni che lo esentano dal fallimento.
Comunque, aggiunge la difesa pubblica,
anche l'interpretazione indicata dal ricorrente non contrasta coi parametri
costituzionali evocati.
Si osserva, infatti, come il sistema
preveda una regola – la soggezione dell'imprenditore commerciale al fallimento
– ed una eccezione – l'esclusione da tale soggezione
per l'imprenditore che svolga un'attività che, sulla base di determinati
parametri normativi, sia economicamente poco rilevante –. La prova
dell'eccezione, come sempre avviene, è rimessa al soggetto interessato.
Tale sistema non può certamente essere
sospettato di irragionevolezza, né contrasta coi principi contenuti nella legge
delega, la quale prevedeva la semplificazione della disciplina del fallimento
attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità
dell'istituto.
D'altra parte, osserva
Considerato in diritto
1. – Con due ordinanze di rimessione,
dal contenuto largamente coincidente,
1.2. – In particolare, il rimettente
ritiene la citata disposizione, la quale prevede che non sono soggetti alle
disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori
commerciali «i quali dimostrino il possesso congiunto» dei tre requisiti
dimensionali elencati alle lettere a),
b) e c) della medesima disposizione censurata, in contrasto con l'art. 3
Cost. e con l'art. 76 Cost. poiché, per un verso, facendo gravare sul debitore
l'onere di provare la sussistenza dei requisiti ostativi alla dichiarazione di
fallimento, farebbe dipendere la dichiarazione stessa da un comportamento del
debitore non condizionato dalla natura e dalla importanza
economica dell'attività da questo svolta o dai mezzi in essa impiegati né in
rapporto con le ripercussioni del suo dissesto sul sistema economico, così
favorendo dichiarazioni di fallimento inutili, e in quanto, per altro verso,
violando il principio direttivo contenuto nell'art. 1, comma 6, lettera a), numero 1), della legge 14 maggio
2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14
marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione
per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la
modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e
di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure
concorsuali), secondo il quale il legislatore delegato
deve provvedere alla semplificazione della disciplina del fallimento
«attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dalla applicabilità» dei
relativi istituti, rende possibile la dichiarazione di fallimento di soggetti
che, sebbene non raggiungano la soglia di assoggettabilità al fallimento, non
sono in grado di dare la prova di ciò, oppure trascurano di farlo o, infine,
non hanno interesse a farlo.
2. – Attesa l'evidente connessione, i
due giudizi possono essere riuniti per essere congiuntamente decisi.
3. – La articolata
questione di legittimità costituzionale è inammissibile nella parte in cui essa
è formulata con riferimento all'art. 3 Cost. e non è fondata là dove formulata
con riferimento all'art. 76 Cost.
4. – Osserva, infatti, questa Corte che
la disciplina relativa alla individuazione dei
requisiti richiesti ai fini dell'assoggettabilità dell'imprenditore alla
disciplina fallimentare si è svolta, nel tempo, attraverso diverse vicende
normative.
L'originario impianto normativo del 1942
prevedeva che, per quanto ora interessa, fossero esclusi dalla
applicazione delle disposizioni in materia di procedure concorsuali i
piccoli imprenditori. Di tale categoria, ai fini della normativa in questione,
era data una precisa definizione: erano, infatti, considerati tali gli
imprenditori commerciali per i quali era stato accertato un reddito, relativamente
alla applicazione dell'imposta di ricchezza mobile,
inferiore al minimo imponibile. Nel caso in cui non si fosse proceduto
all'accertamento del reddito, era considerato piccolo imprenditore, e come tale
non suscettibile di fallire, chi aveva investito nella propria impresa
commerciale un capitale non superiore a lire 30.000, somma questa elevata sino
a lire 900.000, onde renderla adeguata al mutamento del valore del danaro
verificatosi al termine del secondo conflitto mondiale, con l'articolo unico
della legge 20 ottobre 1952, n. 1375 (Adeguamento dei limiti di somma indicati
dalle disposizioni degli articoli 1, comma secondo; 35, comma secondo; e 155
della «disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa»,
approvata con regio decreto 16 marzo 1942, n. 267).
Tale disciplina, come si vede basata su
rigidi criteri oggettivi, è stata, tuttavia, abbandonata col tempo in quanto,
da un lato, a seguito della entrata in vigore dell'art.
82 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione
e disciplina dell'imposte sul reddito delle persone fisiche), a decorrere dal
1° gennaio 1974 la imposta di ricchezza mobile è stata abolita, per essere
sostituita da diverso tipo di imposizione, mentre, d'altro lato, questa Corte,
con la sentenza, più volte richiamata dallo stesso Tribunale rimettente, n. 570 del 1989,
ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, del
r.d. n. 267 del 1942 nella parte in cui ancorava il residuo criterio oggettivo
di assoggettabilità al fallimento (l'importo del capitale investito nella
impresa commerciale) ad un parametro finanziario che, a seguito della
progressiva alterazione dei valori monetari, aveva perso l'idoneità a
costituire un valido discrimine fra il piccolo imprenditore e gli altri
imprenditori commerciali.
In tale situazione, e per un lungo
periodo, l'unico indice distintivo del piccolo imprenditore, come tale non
suscettibile di fallire, era offerto dalla definizione che, per altro a diverso
titolo, è contenuta nell'art. 2083 del codice civile.
Onde colmare la lacuna che si era in tal
modo creata, e anche al fine di dare quindi attuazione alle indicazioni
contenute nella citata sentenza n. 570 del
1989 di questa Corte, è intervenuto, sulla scorta della delega conferita
con la legge 14 maggio 2005, n. 80, (Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni
urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico,
sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di
procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonchè per la riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali), il legislatore delegato che, riformando organicamente
la disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, pur
conservando la tradizionale distinzione fra piccolo imprenditore, non
assoggettabile al fallimento, e gli altri imprenditori commerciali,
suscettibili, invece, di fallimento, ha reintrodotto dei criteri oggettivi
tramite i quali discernere l'una categoria dall'altra.
Infatti, l'art. 1 del decreto
legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della L. 14 maggio
2005, n. 80), che aveva sostituito, a decorrere dal 16 luglio
Come correttamente osservato nelle due
ordinanze di rimessione, la introduzione del descritto
discrimine fra imprenditore commerciale soggetto al fallimento e imprenditore
esentato da tale procedura ha immediatamente determinato, in sede di prima
applicazione della nuova normativa, una sensibilissima contrazione del numero
dei fallimenti dichiarati, imputabile, per lo più, alla incertezza normativa in
ordine alla attribuzione dell'onere di provare giudizialmente la sussistenza
degli elementi tramite i quali distinguere le due categorie, aggravata dalla
ulteriore incertezza sulla residua sussistenza, nonché sulla loro eventuale
ampiezza, di poteri officiosi di indagine in capo all'ufficio giudiziario
investito del ricorso per dichiarazione di fallimento.
Al dichiarato fine di ovviare a siffatto
fenomeno, come emerge dagli stessi relativi lavori preparatori, è nuovamente
intervenuto il legislatore delegato che, in occasione della adozione
del decreto legislativo, cosiddetto correttivo, 12 settembre 2007, n. 169
(Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267,
nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n.
4.1. – Così delineato in senso
diacronico lo sviluppo della disposizione oggetto di censura da parte del
Tribunale di Napoli, questa Corte osserva che deve escludersi che essa, nella
versione attualmente vigente, sia stata adottata in contrasto con l'art. 76
Cost.
Poichè fra i principi e criteri direttivi cui il
legislatore delegato doveva attenersi nel riformare la disciplina del
fallimento e delle altre procedure concorsuali vi era quello relativo a
«semplificare la disciplina attraverso la estensione
dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto e l'accelerazione delle
procedure applicabili alle controversie in materia» (art. 1, comma 6, lettera a), numero 1, della legge n. 80 del
2005), deve osservarsi che non vi è dubbio che la fissazione di oggettivi e
predeterminati criteri quantitativi, volti a delimitare precisamente il novero
dei soggetti estranei alla disciplina del fallimento, è – a fronte di una
pregressa disciplina che ancorava alla incerta, e priva di inequivoci
termini di riferimento, qualificazione soggettiva di «piccolo imprenditore» il
requisito per la assoggettabilità al fallimento o meno dell'operatore
commerciale – conforme a detto principio.
È infatti
evidente che la oggettivizzazione dei criteri di
discernimento tra soggetti che possono essere dichiarati falliti e soggetti
esonerati dal fallimento comporta, ex se,
data la minore complessità della relativa attività di accertamento e
valutazione, sia un'accelerazione della procedura che una semplificazione della
disciplina fallimentare.
Nessun rilievo ha il fatto che, secondo
quanto osservato dal Tribunale rimettente, attraverso la normativa introdotta
col d.lgs. n. 169 del 2007 è stata ampliata la platea dei soggetti
astrattamente suscettibili di fallire rispetto a quella, più ridotta, delineata
a seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del
2006, dato che è corretto criterio di giudizio comparare la norma così come
censurata con la versione di essa vigente al momento del conferimento della
delega, senza tener conto della versione intermedia, scaturita in sede di prima
attuazione, successivamente modificata tramite il decreto correttivo.
Operando in tal modo, l'intervento del
legislatore delegato è rispettoso della delega conferitagli, dato che i vigenti
criteri quantitativi di determinazione dei soggetti che possono fallire
comportano, rispetto alla precedente esclusione dei soli “piccoli
imprenditori”, una estensione dell'area di non
assoggettabilità al fallimento.
La disciplina introdotta non risulta,
altresì, in contrasto con le indicazioni fornite da questa Corte nella sentenza n. 570 del
1989, là dove si era segnalata la necessità che la distinzione fra
imprenditore commerciale suscettibile di fallire e mero insolvente civile
dovesse essere fondata su criteri sicuri che facessero riferimento all'entità
dell'impresa, all'organizzazione dei mezzi in essa impiegati ed alle
ripercussioni che il dissesto veniva ad avere sull'economia generale; tutti
criteri questi che non appaiono disattesi se posti a raffronto con i tre
requisiti indicati nel comma secondo dell'art. 1 della legge fallimentare, come
modificato col decreto correttivo n. 169 del 2007.
4.2. – Riguardo alla violazione
dell'art. 3 Cost. la questione di legittimità costituzionale è inammissibile
per più motivi.
Il Tribunale rimettente con le due
citate ordinanze censura l'art. 1, secondo comma, della legge fall. nella parte in cui, prevedendo che non
sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo
gli imprenditori commerciali «i quali dimostrino» il possesso dei requisiti
esonerativo elencati nelle lettere a), b)
e c) del medesimo secondo comma,
graverebbe in modo esclusivo del relativo onere probatorio gli imprenditori
medesimi, i quali, limitatamente a tale aspetto della controversia, sarebbero,
pertanto, “arbitri” dell'esito della lite.
Con rischio, paventato in ambedue le
ordinanze di rimessione, che la dichiarazione di fallimento sia, in qualche
modo, nella disponibilità dello stesso soggetto fallendo, ovvero che la stessa,
potendo intervenire, stante l'inerzia probatoria del debitore, anche in assenza
degli elementi quantitativi previsti dal legislatore, potrebbe non rispondere a
quei requisiti di utilità generale che ne debbono, invece, giustificare la adozione.
4.3. – Vanno esaminate, preliminarmente,
due linee argomentative sviluppate dal rimettente per dimostrare
l'irragionevolezza della disciplina recata dal citato decreto correttivo
all'art. 1 della legge fallimentare.
Non ha pregio l'argomento svolto nelle
due ordinanze a quibus,
con riferimento alla ipotesi della istanza di fallimento
proposta dallo stesso fallendo, volto a sostenere che, essendo lui stesso
istante ed avendo, pertanto, in ipotesi
un interesse alla dichiarazione di fallimento, potrebbe, artatamente, sottrarsi
all'onere di dimostrare la sua non assoggettabilità al fallimento, conseguendo,
in tal modo, la dichiarazione di fallimento anche là dove ne sarebbero mancati
i presupposti soggettivi. Per privare di significato il pur suggestivo rilievo,
basti osservare che l'art. 14 della legge fallimentare prevede, a carico del
debitore che chieda il proprio fallimento, degli
adempimenti istruttori – significativamente qualificati in sede normativa alla
stregua di obblighi e non di oneri – tali da rimuovere le preoccupazioni
paventate dal Tribunale rimettente. Che gli adempimenti richiesti debbano avere
tale qualificazione risulta non solo dal dato, notoriamente non decisivo ma
neppure neutro, offerto dalla stessa rubrica dell'articolo di legge in discorso
intitolata “obblighi dell'imprenditore che chiede il proprio fallimento”, ma
anche dal reiterato uso del verbo “deve” da parte del legislatore con
riferimento alla attività di deposito documentale da
compiersi da parte del debitore istante.
Infine, con riferimento ai possibili
benefici che il debitore potrebbe indebitamente lucrare dalla dichiarazione di
fallimento, in realtà il rimettente indica solo quello della possibile esdebitazione; ma, a ben riflettere, stante il tenore
dell'art. 142 della legge fall., il quale indica le
condizioni per poter accedere a questo istituto, pare del tutto improbabile che
di un debitore che abbia omesso di fornire un'attendibile documentazione in
ordine alla sua contabilità (unico mezzo in base al quale sarebbe per costui
possibile farsi dichiarare fallito pur non ricorrendone le condizioni
soggettive) possa dirsi, come invece prescrive il citato art. 142 legge fall. per la concessione
del beneficio della esdebitazione, che abbia
cooperato con gli organi della procedura fornendo la documentazione e le
informazioni ad essi necessarie.
4.4. – Superate le argomentazioni
preliminari, occorre valutare il contenuto centrale del petitum del rimettente.
Nelle due ordinanze di rimessione il
Tribunale di Napoli chiede nella sostanza a questa Corte un intervento che,
anche se si limitasse alla semplice caducazione delle
parole “i quali dimostrino il” e le sostituisse con la
preposizione “in” (di modo che l'espressione complessivamente affermi che «non
sono soggetti alle disposizioni sul fallimento […] gli imprenditori in possesso
congiunto dei seguenti requisiti: […]»), ovvero
ove consistesse nella sostituzione della voce verbale “dimostrino” con l'altra “siano” (di modo che
l'espressione complessivamente affermi che «non sono soggetti alle disposizioni
sul fallimento […] gli imprenditori i quali siano in possesso congiunto dei
seguenti requisiti: […]»), avrebbe delle conseguenze i cui effetti non
sarebbero giustificabili alla luce della dichiarata ratio legis che ha presieduto alla adozione
della novella del 2007 e comporterebbero la necessità di ulteriori modifiche
inibite al giudice costituzionale.
Infatti, fermi restando i requisiti
dimensionali necessari ai fini dell'assoggettabilità al fallimento, la modifica
del criterio di riparto dell'onere della prova equivarrebbe a rovesciare sul creditore
istante questo onere.
Per valutare le conseguenze che
deriverebbero da questa decisione occorre tenere conto della controversia
giurisprudenziale – ampiamente descritta nelle ordinanze di rimessione – che ha
indotto il legislatore delegato a modificare la precedente disposizione
contenuta nell'art. 1 della legge fallimentare, il dubbio cioè se la prova
della sussistenza degli elementi che determinavano la assoggettabilità
al fallimento dell'imprenditore fosse a carico del creditore istante, venendo
ad essere un fatto costitutivo della fattispecie che veniva sottoposta al
giudizio del tribunale, o del debitore resistente, venendo ad essere un fatto impeditivo della fattispecie. Se insieme a ciò si considera
lo sviluppo delle argomentazioni formulate dal rimettente, che, tra l'altro,
manifesta il suo contrario avviso all'adozione del principio della
attribuzione dell'onere probatorio alla parte più vicina alla prova
stessa, ricavabile dall'art. 2697 cod. civ., l'accoglimento determinerebbe il
risultato di riversare sul creditore istante o sul pubblico ministero
richiedente tale onere. Ma si tratterebbe di un onere non di rado inesigibile.
Basti pensare alle stesse fattispecie da
cui originano le ordinanze di rimessione ora in esame: il fatto che le due
società commerciali fallende abbiano omesso di
depositare gli ultimi bilanci di esercizio rende, in sostanza, se non
impossibile certamente assai arduo al creditore istante l'accertamento sia
dell'attivo patrimoniale conseguito dal debitore nei tre anni precedenti al
deposito della istanza di fallimento sia
l'accertamento dei ricavi lordi realizzati dal medesimo nello stesso periodo.
Ancor più difficoltoso sarebbe poi, per
un soggetto che non sia lo stesso debitore, fornire una prova adeguata della
complessiva esposizione debitoria di questo.
È, pertanto, chiaro che, ove non fossero
modificati i requisiti richiesti al fine della assoggettabilità
alla procedura fallimentare, l'eventuale ribaltamento dell'onere probatorio sul
creditore istante o sul pubblico ministero renderebbe spesso impossibile per
costoro ottenere l'accoglimento della istanza di fallimento da loro proposta.
Né è chiaramente possibile a questa
Corte, al di là della circostanza che neppure il petitum contenuto nelle ordinanza di rimessione lo richiede, intervenire
addirittura modificando i requisiti di assoggettabilità al fallimento, essendo
ciò, senza alcun dubbio, rimesso alla libera determinazione del legislatore.
Ma vi è, anche, un secondo motivo che
rende inammissibili le due ordinanze di rimessione. In ambedue i casi, infatti,
il Tribunale rimettente, che, peraltro, pur dichiara espressamente di avervi
fatto ricorso, omette di considerare che nella materia fallimentare vi è un ampio potere di indagine officioso in capo allo
stesso organo giudicante. Di ciò è sicuro indice non solo la previsione
contenuta nella fine del quarto comma dell'art. 15 della legge fallimentare, là
dove si precisa che il tribunale, dopo aver ordinato al debitore fallendo il
deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi
nonché atti da cui risulti una situazione economica aggiornata, può comunque
chiedere informazioni urgenti, potendosi a tal fine avvalere, evidentemente, di
ogni organo pubblico a ciò competente, ma anche quanto previsto alla lettera b) del secondo comma dell'art. 1 della
legge fall., ove è chiarito che i dati relativi
all'ammontare dei ricavi lordi realizzati dal debitore nel triennio antecedente
alla data di deposito della istanza di fallimento sono utilizzabili in
«qualunque modo risulti» e quindi non soltanto sulla base delle allegazioni
probatorie del debitore.
Il prudente e consapevole uso di
siffatto potere è di per sé strumento idoneo ad evitare, nei limiti di quanto
ragionevolmente dovuto, la possibilità che siano dichiarati fallimenti che,
date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati.
Viene, altresì, trascurata la capacità
espansiva di quanto dispone l'art. 22 della legge fall.,
il quale, sancendo la possibilità di proporre gravame avverso il provvedimento
che respinge l'istanza di fallimento da parte dei creditori ricorrenti e da
parte del pubblico ministero, prevede, al quarto comma, che l'accoglimento del
reclamo determina la rimessione degli atti al tribunale «salvo che, anche su
segnalazione di parte, accerti che sia venuto meno alcuno dei presupposti
necessari». Si tratta di una facoltà probatoria
riconosciuta a chiunque abbia interesse ad opporsi alla dichiarazione di
fallimento che, per evidenti motivi di economia processuale e, prima ancora,
per la palese anomalia di sistema che deriverebbe dal riconoscerla solo in sede
di gravame, non può ritenersi negata in relazione all'originario giudizio di
fronte al tribunale.
Anche per questo verso il rimettente omette,
quindi, di considerare significative parti della complessiva normativa in
materia che valgono a smentire l'assunto che sta alla base delle sue
argomentazioni, vale a dire che la vigente disciplina attribuirebbe in via
esclusiva al fallendo la prova della sua non assoggettabilità al fallimento,
vietando al giudice la possibilità di acquisire aliunde, o tramite l'apporto
probatorio delle altre parti del procedimento, gli elementi necessari per
verificare la sussistenza dei requisiti richiesti.
riuniti i giudizi,
dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma
secondo, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come
modificato dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni
integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al
decreto legislativo 9 gennaio 2006, n.
dichiara non fondata
la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 1, comma secondo,
del regio decreto n. 267 del 1942, come modificato dal decreto legislativo n.
169 del 2007, sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dal
Tribunale ordinario di Napoli, sezione fallimentare, con le medesime ordinanze.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 24 giugno 2009.
F.to:
Francesco
AMIRANTE, Presidente
Paolo
Maria NAPOLITANO, Redattore
Maria
Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'1 luglio 2009.