SENTENZA N. 174
ANNO 2019
Commento
alla decisione di
Andrea
Severini
per g.c. dell’Osservatorio costituzionale AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario
Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art.
7, commi 28, 29 e 30, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29
dicembre 2015, n. 33 (Legge collegata alla manovra di bilancio 2016-2018), promosso dalla Corte d’appello di Trieste, nel giudizio
instaurato da Giovanni Bellarosa ed altri contro la
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, con ordinanza
del 10 maggio 2018, iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2018 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale,
dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione di Giovanni Bellarosa e altri e della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia;
udito nella udienza pubblica del 22 maggio 2019
il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Alessandro Tudor per
Giovanni Bellarosa e altri e Carlo Cester per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 10 maggio 2018, iscritta
al n. 151 del registro ordinanze 2018, la Corte d’appello di Trieste ha
sollevato, in riferimento a molteplici parametri, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 7, commi 28, 29 e 30, della legge della Regione
Friuli-Venezia Giulia 29 dicembre 2015, n. 33 (Legge collegata alla manovra di
bilancio 2016-2018), dichiaratamente volti a offrire l’interpretazione autentica
degli artt. 142 e 143 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 31 agosto
1981, n. 53 (Stato giuridico e trattamento economico del personale della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia).
Le disposizioni censurate impedirebbero di
valutare, ai fini della liquidazione dell’indennità di buonuscita, il servizio
«prestato con rapporto a tempo determinato di diritto privato».
1.1.– Il rimettente espone di dovere decidere
sull’appello proposto da alcuni dirigenti dell’amministrazione regionale contro
la sentenza di primo grado, che ha respinto la domanda di liquidazione di una
indennità di buonuscita commisurata anche al servizio prestato con contratto a
tempo determinato di diritto privato e alla retribuzione da ultimo percepita in
forza di tale contratto.
In punto di rilevanza, la Corte d’appello di
Trieste argomenta che le disposizioni censurate, applicabili anche ai
«pregressi rapporti di lavoro» alla luce della finalità interpretativa che
dichiarano di perseguire, precludono l’accoglimento delle domande proposte.
1.2.– La Corte rimettente denuncia, in primo
luogo, la violazione dell’art. 3, primo e secondo
comma, della Costituzione. Il divieto di computare, nell’indennità di
buonuscita, il servizio dirigenziale prestato con rapporto di lavoro a tempo
determinato di diritto privato determinerebbe una «possibile irragionevole
diversità di trattamento di un periodo, fra l’altro pregresso da anni, di
lavoro del tutto uguale», prestato dapprima in forza di un «lavoro in ruolo» e
poi per effetto di un incarico dirigenziale di diritto privato.
Sarebbe violato anche l’art. 35, primo comma,
Cost., che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. I
dirigenti, che pure rientrano tra i lavoratori subordinati (art. 2095 del
codice civile) e hanno sempre svolto la medesima attività, sarebbero
pregiudicati per il solo fatto di averla svolta, a decorrere dal novembre 2002,
per effetto di un incarico a tempo determinato, nei termini disciplinati
dall’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
La Corte rimettente assume che le disposizioni
censurate siano inoltre lesive dell’art. 36, primo comma,
Cost., che «tutela ed afferma il diritto del lavoratore ad una retribuzione
proporzionata a qualità e quantità del lavoro». Nel caso di specie, «il T.F.R.
o T.F.S. degli attori», che pure rappresenta «un accantonamento retributivo a
favore dei prestatori», sarebbe «decurtato in ragione di un qualche nuovo e non
ben delineato motivo».
Il giudice a quo ravvisa anche un contrasto con
l’art. 38, secondo e
quarto comma, Cost. La tutela previdenziale e assistenziale per la
vecchiaia, un tempo garantita da soggetti pubblici come l’Istituto nazionale
assistenza dipendenti enti locali (INADEL) e l’Istituto nazionale di previdenza
e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP) e ancora
oggi caratterizzata da «metodo di contribuzione e funzione» tipici della
«previdenza pubblica», non potrebbe essere compromessa per il solo fatto del
«passaggio delle competenze ad altro soggetto».
Le disposizioni censurate si porrebbero in
conflitto anche con l’art.
117, primo comma, Cost., in relazione all’art.
6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
La normativa di interpretazione autentica
sarebbe intervenuta «a lite in parte già radicata da tempo» su disposizioni
«emanate da anni ed anni», in assenza di incertezze interpretative e in
difformità rispetto alle previsioni della legge statale (art. 19 del d.lgs. n.
165 del 2001) e regionale (art. 12 della legge della Regione Friuli-Venezia
Giulia 17 febbraio 2004, n. 4, recante «Riforma dell’ordinamento della dirigenza
e della struttura operativa della Regione Friuli Venezia Giulia. Modifiche alla
legge regionale 1° marzo 1988, n. 7 e alla legge regionale 27 marzo 1996, n.
18. Norme concernenti le gestioni liquidatorie degli enti del Servizio
sanitario regionale e il commissario straordinario dell’ERSA»), che impongono
di valutare ai fini del trattamento di quiescenza e di previdenza e
dell’anzianità di servizio anche il servizio prestato dai dirigenti per effetto
del contratto di diritto privato.
Le disposizioni in esame non sarebbero
giustificate da motivi imperativi di interesse generale, visto lo «scarso peso
economico» del contenzioso che si prefiggono di influenzare e visto «il numero
spicciolo degli interessati». Risulterebbero pertanto violati il principio di
«preminenza del diritto» e il «diritto ad un processo equo», tutelati dall’art.
6 CEDU,
e i princìpi enunciati dall’art. 111, primo e
secondo comma, Cost.
L’art. 117 Cost.
sarebbe violato anche per un’ulteriore ragione. Le disposizioni in esame
contrasterebbero con gli artt. 1, comma 3, e 19 del d.lgs.
n. 165 del 2001, che «integrano il contenuto» del parametro costituzionale
«e affermano il canone dell’ultimo stipendio del periodo di incarico
dirigenziale utile come parametro ai fini del conteggio del trattamento di fine
servizio», e con l’art. 26, comma 19, della legge
23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione
e lo sviluppo), che «con il suo canone di invarianza affermato in tema di
retribuzione evidentemente anche differita rafforza ed integra la tutela
concessa dall’art. 117 della Costituzione in tali casi».
2.– Con atto depositato il 15 novembre 2018, si
sono costituiti in giudizio Giovanni Bellarosa e
altri e hanno chiesto di accogliere le questioni di legittimità costituzionale
sollevate dalla Corte d’appello di Trieste.
Le parti hanno dedotto di avere svolto le
funzioni di direttore apicale nell’amministrazione della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, di essere stati collocati in quiescenza tra il 2005 e il
2010 e di avere ricevuto un’indennità di buonuscita commisurata al servizio
prestato fino al 15 novembre 2002 e alla retribuzione spettante alla medesima
data, che rappresenta il momento della stipulazione dei contratti individuali
di conferimento o di conferma dell’incarico dirigenziale.
Le parti assumono che le disposizioni
censurate, pur qualificandosi come interpretative, siano innovative, con
portata retroattiva.
L’art. 7, comma 28, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015, nel negare, ai fini della liquidazione
dell’indennità di buonuscita, la valutazione del servizio prestato con rapporto
di lavoro a tempo determinato di diritto privato, si discosterebbe dall’art.
142, primo comma, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 153 del 1981, che
pure si ripromette di interpretare, e dall’art. 12 della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 4 del 2004, che considera il servizio prestato con
contratto di lavoro a tempo determinato utile ai fini del trattamento di
quiescenza e di previdenza, oltre che dell’anzianità di servizio.
Quanto all’art. 7, comma 29, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015, che annovera tra gli assegni fissi
pensionabili solo quelli riconosciuti «ai sensi della legislazione dell’ex
INADEL», non si porrebbe in contraddizione con le previsioni delle quali
intende offrire l’interpretazione autentica. Invero, l’art. 143, primo comma,
della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 53 del 1981 stabilisce pur sempre la
misura dell’indennità per ogni anno di servizio utile in un dodicesimo degli
assegni fissi pensionabili goduti all’atto della cessazione dal servizio. Non
si potrebbe, pertanto, non tenere conto della retribuzione percepita in tale
momento, in armonia con quanto dispone anche l’art. 19 del d.lgs. n. 165 del
2001.
L’art. 7, comma 30, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015, nell’escludere la valutazione, ai fini
dell’indennità di buonuscita, dei periodi di servizio prestato con contratto di
lavoro a tempo determinato di diritto privato, presenterebbe un contenuto
precettivo antitetico rispetto alla disposizione dell’art. 143, secondo comma,
della legge reg. Friuli-Venezia n. 53 del 1981, che impone alla Regione di
assicurare l’indennità di buonuscita anche quando non spetterebbe secondo la
legislazione dell’INADEL.
Le disposizioni della legge regionale impugnata,
senza alcuna ragione giustificatrice, introdurrebbero un trattamento deteriore
per i soli dirigenti regionali, in deroga alla disciplina dell’indennità di
buonuscita applicabile a tutto il personale regionale di ruolo e non di ruolo.
In contrasto con «i principi del legittimo affidamento e della certezza del
diritto in relazione alla stabilità del trattamento previdenziale» e in vista
di un modesto contenimento della spesa, esse interverrebbero, «a distanza di
oltre trentacinque anni», a interpretare una normativa dal significato
inequivocabile.
Per il solo fatto di avere prestato la loro
opera in forza di un contratto di diritto privato, le parti sostengono di
essere discriminate rispetto ai «colleghi dirigenti senza incarico apicale» che
hanno beneficiato di una indennità di buonuscita calcolata sull’ultima
retribuzione. Sarebbe pertanto violato l’art. 35 Cost., che tutela il lavoro
prestato dai dipendenti di ruolo e non di ruolo.
L’interpretazione avallata dal legislatore
regionale disconoscerebbe ogni rilievo all’anzianità di servizio maturata dai
dirigenti dopo il 15 novembre 2002 e così ridurrebbe l’importo dell’indennità
di buonuscita, in contrasto con l’art. 36 Cost., che prescrive, anche per la
retribuzione differita, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del
lavoro svolto, e con l’art. 38 Cost., che vieta «un intervento che incida in
misura notevole e in maniera definitiva sulla garanzia di adeguatezza della
prestazione senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse
generale».
Le disposizioni in esame, contenute negli
emendamenti presentati dalla Giunta regionale, mirerebbero a determinare gli
esiti di uno specifico contenzioso in corso, che coinvolge «non più di una
decina di persone», e non rispetterebbero le funzioni costituzionalmente
riservate al potere giudiziario. La legge regionale censurata, pertanto, non
solo non accrediterebbe una delle possibili letture delle disposizioni
originarie, ma non sarebbe neppure sorretta da motivi imperativi di interesse
generale.
La transizione dal regime del trattamento di
fine servizio (TFS) a quello del trattamento di fine rapporto (TFR) sarebbe
ispirata al criterio direttivo della invarianza della retribuzione complessiva
netta e di quella utile ai fini previdenziali (art. 26, comma 19, della legge
n. 448 del 1998), che costituisce principio fondamentale atto a vincolare anche
la legislazione regionale e non potrebbe comunque giustificare le scelte
sfavorevoli adottate dalla Regione autonoma.
3.– Con atto depositato il 16 novembre 2018, si
è costituita in giudizio la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e ha chiesto
di dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate
dalla Corte d’appello di Trieste.
Sarebbe ragionevole l’autonoma disciplina riservata
all’integrazione dell’indennità di buonuscita per i periodi di servizio di
ruolo presso la Regione. Per i periodi di servizio prestato con «contratto a
tempo determinato di diritto privato», si applicherebbe la diversa disciplina
del trattamento di fine rapporto. Non sarebbero violati i molteplici parametri
costituzionali evocati dalla Corte rimettente.
4.– In vista dell’udienza, hanno depositato
memorie illustrative sia gli appellanti nel giudizio principale sia la Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia.
4.1.– Gli appellanti nel giudizio principale
hanno ribadito le conclusioni già formulate e hanno posto in risalto
l’irragionevolezza delle disposizioni censurate, che, in mancanza di
inderogabili esigenze o di «un particolare interesse pubblico sopravvenuto»,
sarebbero intervenute su una specifica controversia pendente per escludere dal
godimento dell’indennità regionale i soli direttori apicali, «unici dirigenti
con contratto a tempo determinato».
4.2.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
ha eccepito, in linea preliminare, l’inammissibilità delle questioni proposte.
L’esposizione dei profili di contrasto con i
parametri costituzionali evocati sarebbe «alquanto sommaria e priva di adeguata
motivazione con riguardo alla questione concreta».
Il rimettente avrebbe trascurato di
interpretare le disposizioni censurate in armonia «con gli indicati princìpi
costituzionali» e, nel prospettare il contrasto con la Costituzione e finanche
con disposizioni di legge regionale, avrebbe «drasticamente» disconosciuto la
qualificazione interpretativa della disciplina in esame.
Quand’anche le questioni di legittimità
costituzionale fossero accolte, la soluzione del problema interpretativo non
muterebbe. Anche da questo punto di vista si coglierebbe l’inammissibilità
delle questioni proposte.
Nel merito, la Regione ha replicato che i
dirigenti, per il periodo di servizio prestato con contratto di diritto privato
a tempo determinato, hanno percepito il trattamento di fine rapporto, in base
alle previsioni dell’art. 2120 cod. civ. Per il periodo di servizio di ruolo, i
dirigenti avrebbero conseguito un trattamento più favorevole rispetto a quello
previsto dalle «regole generali INADEL», in quanto, per ogni anno di servizio,
si computerebbe un dodicesimo dell’ultima retribuzione e non già un
quindicesimo dell’80 per cento della retribuzione degli ultimi dodici mesi.
Un trattamento di favore, istituito nell’àmbito
della previdenza pubblica, non potrebbe essere esteso, senza un’espressa
previsione normativa, al diverso àmbito della previdenza privata.
La disciplina censurata si limiterebbe a
confermare quanto già si potrebbe desumere dalle previsioni originarie. Solo in
tempi più recenti, si sarebbe «manifestata l’esigenza, o anche solo
l’opportunità, di chiarire che l’integrazione regionale, concepita per il
trattamento concernente il lavoro pubblico e nel suo ambito giustificata, non
poteva essere estesa oltre quei confini». Non si potrebbe dunque censurare un
«uso distorto del potere normativo», in violazione dell’art. 111 Cost. e
dell’art. 6 CEDU.
Non rappresenterebbe un idoneo termine di
raffronto la fattispecie del conferimento di incarichi dirigenziali disciplinata
dall’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, che «opera nell’ambito del rapporto
dirigenziale di lavoro pubblico a tempo indeterminato» e non contempla alcuna
«soluzione di continuità fra il rapporto fondamentale a tempo indeterminato e
un incarico che espressamente è qualificato di diritto privato – assai
presumibilmente di lavoro autonomo». Non sarebbe violato, pertanto, il
principio di eguaglianza.
Non si potrebbero invocare gli artt. 35, 36 e
38 Cost. allo scopo di ritenere costituzionalmente doverosa «una tutela di
grado particolarmente elevato, quale quella che i dirigenti della regione
friulana richiedono». Ai dirigenti sarebbe riconosciuta una tutela adeguata,
alla stregua delle «regole applicabili a tutti i rapporti di lavoro».
Il giudice a quo, nell’auspicare l’estensione
automatica anche al regime del TFR di un trattamento correlato al regime del
TFS, si prefiggerebbe di sovrapporre e di assimilare due istituti che ancora
presentano significative diversità di disciplina, confermate anche di recente
da questa Corte (si richiama la sentenza n. 213 del
2018).
5.– All’udienza pubblica del 22 maggio 2019, le
parti hanno ribadito le conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Trieste dubita, sotto
molteplici profili, della legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 28, 29
e 30, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 dicembre 2015, n. 33
(Legge collegata alla manovra di bilancio 2016-2018). La legge regionale
censurata, nell’offrire l’interpretazione autentica degli artt. 142 e 143 della
legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 31 agosto 1981, n. 53 (Stato
giuridico e trattamento economico del personale della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia), nega rilievo, ai fini della liquidazione dell’indennità
di buonuscita, al servizio prestato con rapporto a tempo determinato di diritto
privato.
La Corte rimettente assume che le disposizioni
censurate siano lesive dell’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione,
in quanto, in contrasto con il principio di parità di trattamento, che
costituisce principio fondamentale «in materia di impiego pubblico
privatizzato», e con «il canone di ragionevolezza», esse determinerebbero una
«possibile irragionevole diversità di trattamento di un periodo, fra l’altro
pregresso da anni, di lavoro del tutto uguale», prestato dapprima in virtù di
un rapporto di ruolo e poi, dal novembre 2002, in forza di un contratto a tempo
determinato di diritto privato.
In violazione dell’art. 35, primo comma, Cost.,
che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, sarebbero
discriminati i dirigenti che prestano, in base a un incarico privatistico, lo
stesso servizio dapprima legato a un «lavoro in ruolo».
Il giudice a quo prospetta, inoltre, la lesione
del diritto del lavoratore di percepire una retribuzione, anche differita,
proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.).
L’indennità di buonuscita dei dirigenti regionali, che rappresenta «un
accantonamento retributivo», sarebbe decurtata «in ragione di un qualche nuovo
e non ben delineato motivo».
La legge regionale friulana è censurata anche
in riferimento all’art. 38, secondo e quarto comma, Cost., per il pregiudizio
che «il passaggio delle competenze ad altro soggetto» arrecherebbe alla tutela
previdenziale e assistenziale per la vecchiaia, in passato garantita da
istituti pubblici come l’INADEL e l’INPDAP e pur sempre contraddistinta da
«metodo di contribuzione e funzione» tipici «della previdenza pubblica».
La Corte rimettente denuncia la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848. Il legislatore friulano sarebbe intervenuto «su norme
emanate da anni ed anni», caratterizzate da un significato inequivocabile, allo
scopo di influenzare un contenzioso già instaurato e di conseguire un risparmio
«di scarso peso economico», alla luce del «numero spicciolo degli interessati».
Non si potrebbero individuare, pertanto, motivi
imperativi di interesse generale e sarebbero così violati sia la preminenza del
diritto e il diritto a un processo equo, sanciti dall’art. 6 CEDU, sia i
princìpi tutelati dall’art. 111, primo e secondo comma, Cost.
Ad avviso del giudice a quo, l’art. 117 Cost.
sarebbe violato per un’ulteriore ragione. Le disposizioni censurate si
porrebbero in contrasto con l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche), che indica nell’ultimo stipendio il parametro utile
per la determinazione del trattamento di fine servizio dei dirigenti e integra
il contenuto del parametro costituzionale, e con l’art. 26, comma 19, della
legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la
stabilizzazione e lo sviluppo), che, «con il suo canone di invarianza affermato
in tema di retribuzione evidentemente anche differita rafforza ed integra la
tutela concessa dall’art. 117 della Costituzione in tali casi».
2.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
ha eccepito, per molteplici ragioni, l’inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale.
2.1.– La Regione, in linea preliminare, ha
prospettato l’irrilevanza delle questioni sollevate, sul presupposto che
l’accoglimento delle censure non muti la soluzione del problema interpretativo
dibattuto nel giudizio principale. Anche senza l’intervento della disciplina
interpretativa, per il periodo assoggettato alla disciplina del trattamento di
fine rapporto dovrebbe essere comunque negata la prestazione supplementare,
riconosciuta soltanto per l’indennità di buonuscita.
L’eccezione non è fondata.
La Corte rimettente, per decidere la causa,
dovrà applicare le disposizioni censurate e l’applicabilità della disposizione
è sufficiente a radicare la rilevanza delle questioni proposte (sentenza n. 174 del
2016, punto 2.1. del Considerato in diritto). Anche nella prospettiva di un
più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77 del
2018, punto 8. del Considerato in diritto) e di una più efficace garanzia
della conformità della legislazione alla Carta fondamentale, il presupposto
della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in
causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 20 del
2018, punto 2. del Considerato in diritto).
Nell’ipotesi di accoglimento delle questioni,
inoltre, il giudice a quo, dapprima chiamato a fare applicazione di una
normativa che predetermina l’esito della lite, dovrà decidere secondo una
diversa regola di giudizio, che attingerà da una ricostruzione sistematica
della complessa disciplina di riferimento. La dichiarazione di illegittimità
costituzionale, quand’anche non conduca a conclusioni diverse da quelle
recepite dalle disposizioni censurate, influirebbe comunque sul percorso
argomentativo che il rimettente dovrà intraprendere per dirimere la
controversia. Anche da questo punto di vista trova dunque conferma la rilevanza
del dubbio di costituzionalità prospettato.
2.2.– La Regione assume che siano lacunosi gli
argomenti addotti a sostegno delle censure.
Neppure tale eccezione è fondata.
Come mostra l’ampiezza dei rilievi che la
Regione ha svolto con riguardo a ciascuna delle censure, le deduzioni della
Corte rimettente consentono di cogliere in maniera adeguata il nucleo delle
questioni proposte. A ben considerare, l’eccezione di inammissibilità
rispecchia il dissenso su profili che attengono al merito delle singole
questioni.
2.3.– Neppure l’eccezione che fa leva sulla
mancata sperimentazione di un’interpretazione adeguatrice,
idonea a far luce sul carattere genuinamente interpretativo delle disposizioni
censurate, coglie nel segno.
A fronte di una formulazione letterale
inequivocabile, l’interpretazione adeguatrice,
genericamente accennata dalla Regione, non può che cedere il passo al sindacato
di legittimità costituzionale e alla disamina del merito delle questioni
proposte.
3.– Nel merito, le questioni sono fondate, nei
termini di séguito esposti.
4.– Le disposizioni che il rimettente sospetta
di illegittimità costituzionale sono accomunate dalla finalità di determinare
l’indennità di buonuscita del personale della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia, «in via di interpretazione autentica» – secondo quanto si afferma
nell’esordio di ciascuna delle previsioni – degli artt. 142 e 143 della legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n. 53 del 1981.
In particolare, l’art. 7, comma 28, della legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015 esclude, nella «determinazione del
servizio utile ai fini della liquidazione dell’indennità di buonuscita, in
quanto trattamento di fine servizio», il servizio «prestato con rapporto di
lavoro a tempo determinato di diritto privato».
La previsione citata enuncia l’intento di
offrire l’interpretazione autentica dell’art. 142, primo comma, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 53 del 1981, che, nella «determinazione del servizio
utile ai fini dell’indennità di buonuscita», considera «valutabile il servizio
reso alle dipendenze dell’Amministrazione regionale, degli enti regionali e
degli enti interessati da provvedimenti, statali o regionali, di soppressione,
scorporo o riforma, il cui personale sia stato assegnato o trasferito alla
Regione o agli enti regionali, compreso quello prestato anteriormente
all’entrata in vigore della legge 8 marzo 1968, n. 152, nonché quello
riscattato a tali fini».
L’art. 7, comma 29, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015 – in cui si prevede che gli assegni fissi
pensionabili sono soltanto «quelli riconosciuti ai sensi della legislazione
dell’ex INADEL» – è indicato quale norma di interpretazione autentica dell’art.
143, primo comma, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 53 del 1981.
Quest’ultima disposizione commisura l’indennità, «per ogni anno di servizio
utile», a «1/12 degli assegni fissi pensionabili, ai sensi del terzo comma
dell’art. 136 della presente legge goduti all’atto della cessazione dal
servizio, nonché di quelli eventualmente spettanti alla medesima data ai sensi
dell’art. 2 della legge 24 maggio 1970, n. 336, o di altre disposizioni di legge,
compresa l’indennità integrativa speciale limitatamente alla misura valutata
dall’I.N.A.D.E.L.».
Da ultimo, l’art. 7, comma 30, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015, stabilisce che, nell’indennità di
buonuscita, «non sono valutati i periodi di servizio prestato con contratto di
lavoro a tempo determinato di diritto privato». La previsione citata reca
l’espressa qualificazione di normativa di interpretazione autentica dell’art.
143, secondo comma, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 53 del 1981, che
impone alla Regione di assicurare comunque «al dipendente l’indennità di
buonuscita anche nei casi in cui questa non spetterebbe secondo la legislazione
dell’I.N.A.D.E.L.».
5.– La Corte rimettente riferisce che i
ricorrenti nel giudizio principale sono dirigenti dell’amministrazione
regionale, «cessati dal servizio fra il 2005 ed il 2010 e con diritto
all’indennità terminativa o di buonuscita», e hanno richiesto l’indennità di
buonuscita anche per il periodo di servizio prestato, a decorrere dal novembre
2002, in virtù di «contratto individuale con incarico dirigenziale».
Nella vicenda oggi sottoposta al vaglio di
questa Corte, le previsioni censurate si applicano a fattispecie che si sono
perfezionate in data antecedente al 13 gennaio 2016, data di entrata in vigore
della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 33 del 2015 (art. 8). Nel giudizio
principale viene dunque in rilievo l’incidenza retroattiva che contraddistingue
la disciplina in esame e su tale peculiare profilo si incentrano le questioni
di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente.
6.– Con riguardo a tale aspetto, si deve
ricordare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, il divieto di
retroattività della legge si erge a fondamentale valore di civiltà giuridica,
soprattutto nella materia penale (art. 25 Cost). In altri àmbiti
dell’ordinamento il legislatore è libero di emanare disposizioni retroattive,
anche di interpretazione autentica, ma la retroattività deve trovare «adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale
bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori,
costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a
ritroso della norma adottata» (sentenza n. 73 del
2017, punto 4.3.1. del Considerato in diritto).
I limiti posti alle leggi con efficacia
retroattiva si correlano alla salvaguardia dei princìpi costituzionali
dell’eguaglianza e della ragionevolezza, alla tutela del legittimo affidamento,
alla coerenza e alla certezza dell’ordinamento giuridico, al rispetto delle
funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 170 del
2013, punto 4.3. del Considerato in diritto).
La Corte rimettente, in particolare, evoca a
più riprese i princìpi della preminenza del diritto e dell’equo processo,
attraverso il richiamo congiunto all’art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU, per il
tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. Tali profili di censura si rivelano
inscindibilmente connessi nel sindacato sulle leggi retroattive, data la
«corrispondenza tra principi costituzionali interni in materia di parità delle
parti in giudizio e quelli convenzionali in punto di equo processo» (sentenza n. 191 del
2014, punto 4. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 12 del
2018, punto 3.2. del Considerato in diritto).
Nell’interpretare l’art. 6 CEDU, la Corte
europea dei diritti dell’uomo (fra le molte, Corte EDU, sentenza 11 dicembre 2012,
Anna De Rosa e altri contro Italia, paragrafo 47) afferma che, in linea di
principio, non è vietato al legislatore introdurre nella materia civile
disposizioni retroattive, che incidano su diritti attribuiti da leggi in
vigore. Tuttavia, se non vi sono motivi imperativi di interesse generale, i
princìpi di preminenza del diritto e la nozione di giusto processo precludono
l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, quando
il fine evidente è quello di influenzare la soluzione di una controversia.
La “parità delle armi” impone di assicurare a
ogni parte la possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi in una
situazione di svantaggio rispetto alla controparte (Corte EDU, sentenza 9 dicembre 1994, Raffineries grecques Stran e Stratis Andreadis contro Grecia, paragrafo 46).
Quanto ai motivi imperativi di interesse
generale, che conducono a individuare «un punto di equilibrio nella dialettica
tra i valori in gioco» (sentenza n. 127 del
2015, punto 6. del Considerato in diritto), spetta agli Stati contraenti il
compito di identificarli (sentenza n. 303 del
2011, punto 4.2. del Considerato in diritto), alla luce di «una valutazione
sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e
sociali» (sentenza
n. 311 del 2009, punto 9. del Considerato in diritto), rimessa al margine
di apprezzamento dei singoli Stati.
I motivi finanziari non bastano da soli a
giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in
corso (Corte EDU, sentenza
11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia,
paragrafo 37).
I diritti riconosciuti dalla Costituzione non
possono non interagire con quelli previsti dalle fonti sovranazionali e internazionali,
in un quadro di reciproca integrazione e quindi di bilanciamento. In tale ampia
prospettiva questa Corte elabora «una valutazione sistemica, e non isolata, dei
valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata» (sentenza n. 264 del
2012, punto 5.4. del Considerato in diritto), in modo da assicurare la
«integrazione delle garanzie dell’ordinamento» (sentenza n. 317 del
2009, punto 7. del Considerato in diritto).
7.– Tra gli elementi sintomatici di un uso
distorto della funzione legislativa, questa Corte, in armonia con le
enunciazioni di principio della Corte EDU, ha conferito rilievo al metodo e
alla tempistica dell’intervento legislativo, che vede lo Stato o
l’amministrazione pubblica parti di un processo già radicato e si colloca a
notevole distanza dall’entrata in vigore delle disposizioni oggetto di
interpretazione autentica (sentenza n. 12 del
2018, punto 3.2. del Considerato in diritto).
È alla luce di tali princìpi che occorre sindacare
la legittimità costituzionale della legge regionale censurata.
7.1.– In primo luogo, viene in evidenza il
lungo tempo che è intercorso tra le norme oggetto di interpretazione, adottate
nel 1981 e rimaste inalterate nei loro tratti salienti, e la norma di
interpretazione autentica, introdotta soltanto nel 2015.
A segnare la discontinuità tra le due
discipline concorre, oltre al dato temporale, la diversità del contesto
normativo in cui esse si collocano.
A tale riguardo, si deve rilevare che la legge
friulana del 1981 non contempla il conferimento di incarichi dirigenziali,
secondo le peculiarità definite soltanto dalla normativa posteriore e, in
particolare, dall’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dalla legislazione
regionale di riferimento (art. 12 della legge della Regione Friuli-Venezia
Giulia 17 febbraio 2004, n. 4, recante «Riforma dell’ordinamento della
dirigenza e della struttura operativa della Regione Friuli-Venezia Giulia.
Modifiche alla legge regionale 1° marzo 1988, n. 7 e alla legge regionale 27
marzo 1996, n. 18. Norme concernenti le gestioni liquidatorie degli enti del
Servizio sanitario regionale e il commissario straordinario dell’ERSA»).
La censurata legge reg. Friuli-Venezia Giulia
n. 33 del 2015, nell’apprestare un regime restrittivo della determinazione
dell’indennità di buonuscita, mira in realtà a conferire efficacia retroattiva
alle previsioni della disciplina riguardante i trattamenti di fine servizio.
7.2.– La Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia, parte della controversia instaurata da alcuni dirigenti
dell’amministrazione, ha approvato le previsioni censurate in pendenza di
giudizio. Solo in concomitanza con l’iniziativa giudiziaria avviata da alcuni
dirigenti, la Regione ha presentato gli emendamenti che racchiudono le
disposizioni censurate, nel corso della discussione di una legge dal contenuto
eterogeneo, collegata alla manovra finanziaria.
Dal dibattito consiliare emerge la
consapevolezza del contenzioso pendente, occasione immediata e, al tempo
stesso, esclusiva giustificazione dell’intervento retroattivo del legislatore
regionale.
Le previsioni sulla determinazione
dell’indennità di buonuscita, presentate come enunciazione di una regola
astratta, si rivolgono in realtà a una platea circoscritta di destinatari e
sono inequivocabilmente preordinate a definire l’esito di uno specifico
giudizio.
7.3.– L’intento di vincolare la decisione di
cause già pendenti, che coinvolgono un numero esiguo e agevolmente
individuabile di parti, contrasta con la nozione stessa di motivi imperativi di
interesse generale, orientati piuttosto a finalità di ampio respiro (sentenze n. 127 del
2015 e n. 1
del 2011). Quanto alla tutela dell’equilibrio del bilancio della Regione,
appaiono del tutto generici i riferimenti dei lavori preparatori ai risparmi di
spesa, che il legislatore friulano si ripromette di conseguire con
l’introduzione della disciplina sottoposta all’odierno scrutinio.
Neppure si ravvisa l’esigenza, in altre
occasioni valorizzata da questa Corte, di porre rimedio alle imperfezioni
tecniche del testo normativo originario (sentenza n. 24 del
2018), ai profili di illegittimità costituzionale insiti nella disciplina
anteriore (sentenza
n. 149 del 2017) o – in funzione “riparatrice” e nel rispetto del principio
di affidamento – alle manifeste sperequazioni determinate da istituti extra ordinem di eccezionale favore (sentenza n. 108 del
2019, punto 8. del Considerato in diritto).
8.– Le considerazioni svolte conducono a
ritenere le questioni fondate, in riferimento agli artt. 111 e 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità
costituzionale dell’art. 7, commi 28, 29 e 30, della legge reg. Friuli-Venezia
Giulia n. 33 del 2015, in quanto disposizione essenzialmente volta a regolare
fattispecie pregresse con efficacia retroattiva.
Restano assorbite le ulteriori censure
formulate dal rimettente.
9.– Il giudice a quo dovrà peraltro valutare
attentamente la fondatezza della pretesa di conseguire l’indennità di
buonuscita anche per il periodo di servizio prestato in virtù di contratti a
tempo determinato, alla luce della normativa statale di riferimento (d.P.C.m. 20 dicembre 1999) e dell’evoluzione della
disciplina regionale. Ristabilite le regole del giusto processo e della “parità
delle armi”, su tale aspetto controverso può riprendere corpo una dialettica
interpretativa che l’intervento del legislatore, parte del giudizio, non deve –
soprattutto in pendenza della lite – alterare a proprio vantaggio.
per questi
motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, commi 28, 29 e 30,
della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 dicembre 2015, n. 33 (Legge
collegata alla manovra di bilancio 2016-2018).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2019.