Sentenza n. 311 del 2009

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SENTENZA N. 311

ANNO 2009

 

 

Commenti alla decisione di

 

I. Antonio Ruggeri, Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU, per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali

 

II. Renzo Dickmann, La legge d’interpretazione autentica viola il diritto al giusto processo di cui all’art. 6 della CEDU?, per gentile concessione della Rivista telematica Federalismi.it

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Francesco AMIRANTE                                                               Presidente:

Ugo DE SIERVO                                                                        Giudice

Paolo MADDALENA                                                                 "

Alfio FINOCCHIARO                                                               "

Alfonso QUARANTA                                                                "

Franco GALLO                                                                           "

Gaetano SILVESTRI                                                                  "

Sabino CASSESE                                                                        "

Maria Rita SAULLE                                                                   "

Giuseppe TESAURO                                                                  "

Paolo Maria NAPOLITANO                                                      "

Giuseppe FRIGO                                                                         "

Alessandro CRISCUOLO                                                           "

Paolo GROSSI                                                                            "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanza del 4 settembre 2008 e dalla Corte d’appello di Ancona con n. 5 ordinanze del 26 settembre 2008, rispettivamente iscritte ai numeri 400 del registro ordinanze 2008, 15, 16, 17, 18 e 19 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 52, prima serie speciale, dell’anno 2008 e 5, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione di N. P. nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2009 e nella camera di consiglio del 4 novembre 2009 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Isacco Sullam, Nicola Zampieri e Arturo Salerni per N. P. e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri. 

Ritenuto in fatto

1. – La Corte di cassazione, con ordinanza del 4 settembre 2008 (r.o. n. 400 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli articoli 117, primo comma, della Costituzione e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (infra, anche CEDU o Convenzione europea), resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005 n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006), il quale ha stabilito, tra l’altro, che il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (denominato ATA e d’ora in poi così indicato) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento.

2. – La Corte rimettente premette in fatto che la ricorrente, appartenente al personale ATA, già dipendente di ente locale e passata alle dipendenze dell’amministrazione scolastica statale ai sensi dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999, aveva chiesto, con ricorso al Tribunale di Venezia del 27 marzo 2003, proposto nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di accertare il proprio diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio maturata al tempo del trasferimento del rapporto di lavoro, con condanna dell’amministrazione statale al pagamento delle conseguenti differenze retributive dal 1° gennaio 2000, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Il Tribunale, con la sentenza di cui è chiesta la cassazione, aveva accertato «l’invalidità e la conseguente inefficacia» della disposizione contenuta nell’art. 3, comma 1, dell’accordo tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (d’ora in poi ARAN) ed i rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni sindacali in data 20 luglio 2000, recepito nel decreto ministeriale 5 aprile 2001, per contrasto con quanto stabilito dal combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999.

La Corte di cassazione espone che l’amministrazione, in prossimità dell’udienza, ha invocato la sopravvenuta interpretazione autentica dell’art. 8 citato, ad opera dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266.

2.1. – A giudizio della Corte rimettente tale norma possiede i requisiti essenziali delle norme interpretative, in quanto procede a riscrivere una regola destinata ad operare in termini generali per le controversie in corso e per quelle future. Il citato comma 218 avrebbe l’espresso intento di precisare e chiarire la portata della norma interpretata, limitandosi ad intervenire, con effetti retroattivi, soltanto su quei suoi profili applicativi che avevano originato un contenzioso. Il contenuto normativo della disposizione corrisponderebbe ad uno dei possibili significati ascrivibili alla disposizione interpretata, in quanto il legislatore avrebbe optato per una lettura restrittiva del sintagma «anzianità giuridica ed economica» di cui al comma 2 dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999.

Ciò posto, in punto di rilevanza il giudice rimettente sottolinea la necessità di dover dare applicazione, nel giudizio a quo, allo ius superveniens, mediante accoglimento del ricorso, con la conseguenza di dover, peraltro, operare un revirement rispetto alle conclusioni cui era pervenuta, in ordine al senso da attribuire alla disposizione del comma 2 dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999. La Corte di cassazione, infatti, sia pure con percorsi argomentativi diversi, aveva affermato «che la garanzia del riconoscimento ai fini giuridici, oltrechè economici, dell’anzianità maturata presso gli enti locali, in favore dei dipendenti coinvolti nel passaggio dai ruoli di tali enti in quelli del personale statale, in quanto apprestata dalla legge, non potesse essere ridotta, in forza di norme di rango inferiore, alla sola garanzia del riconoscimento economico dell’anzianità, e risolversi nell’attribuzione al dipendente del c.d. maturato economico, così come disposto nel d.m. 5 aprile 2001 conformemente ai contenuti dell’Accordo 20 luglio 2000 fra l’ARAN e le OO.SS.».

Ancora, a giudizio della Corte i dubbi di legittimità costituzionale della norma interpretativa, peraltro sollecitati dalla controricorrente, in relazione alla violazione dell’art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo, investono la norma di legge della quale dovrebbe farsi applicazione per la decisione del ricorso.

Non sarebbe, invece, configurabile una questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, per stabilire se la fattispecie a giudizio sia riconducibile o meno alla direttiva 77/187/CEE (modificata dalla direttiva 98/50/CE), in quanto la vicenda del trasferimento, previsto dalla legge n. 124 del 1999, sarebbe estranea al campo di applicazione delle direttive comunitarie in materia di trasferimento d’azienda.

2.2. – La ritenuta rilevanza della questione nel giudizio a quo conduce la rimettente a sottoporre il dubbio di legittimità costituzionale allo scrutinio di non manifesta infondatezza.

La Corte di cassazione ricorda, in proposito, che sebbene già in precedenza, con la sentenza 16 gennaio 2008 n. 677, essa avesse concluso nel senso della manifesta infondatezza della questione, nuove argomentazioni, anche addotte dalla parte, impongono di affrontare nuovamente la questione, in quanto la funzione nomofilattica del giudice di legittimità si atteggia in maniera diversa a seconda che la Corte sia chiamata a pronunciarsi sull’esatta osservanza della legge, ovvero a valutare la manifesta infondatezza di un dubbio di legittimità costituzionale della stessa legge. Ciò, in quanto in tal caso si tratterebbe soltanto di ritenere o meno manifestamente infondato "un dubbio”, formula questa, che impone al giudice il dovere di sollevare la questione di costituzionalità, tutte le volte in cui, esclusa un’interpretazione costituzionalmente orientata, residui un "non implausibile argomento”, che deponga in senso contrario.

Tanto premesso, la Corte procede quindi a valutare se l’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005 contrasti con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’obbligo internazionale assunto dall’Italia con la CEDU, che, all’art. 6, comma 1, prescrivendo il diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, imporrebbe al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie.

Ad avviso della rimettente, occorre verificare se la disposizione in esame violi l’obbligo dello Stato italiano di rispettare l’art. 6, comma 1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che fornisce concretezza e contenuto al parametro costituzionale invocato del rispetto degli obblighi internazionali.

Il giudice di legittimità sottolinea come in precedenza la sentenza n. 677 del 2008 aveva negato che l’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005 violasse l’obbligo imposto dall’art. 6, comma 1, della Convenzione, dal momento che non sarebbe sussistito alcun elemento che inducesse a ritenere la disposizione nazionale come esclusivamente diretta ad influire sulle controversie in corso. Piuttosto, risultava che il legislatore aveva provveduto ad un complessivo riassetto organizzativo, nell’ambito del quale dovevano ritenersi sussistenti «pressanti ragioni di interesse generale» che rendevano quindi legittimo l’intervento retroattivo.

Diversamente, la Corte di cassazione, nell’odierna ordinanza osserva che, sebbene sia vero che la sentenza sul caso Scordino c. Italia, n. 36813/1997, ed i precedenti in essa richiamati affermino che il divieto di leggi retroattive riguarda l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, finalizzata ad una determinata soluzione delle controversie in corso, altrettanto vero è che tale giurisprudenza non richiede anche che la disposizione retroattiva sia «esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso», né che tale scopo sia comunque enunciato. Ciò, in particolare si desumerebbe dal fatto che in tali precedenti «la conclusione che l’intervento legislativo volta a volta esaminato costituisse una non consentita ingerenza del potere legislativo sull’esercizio della giurisdizione viene raggiunta sulla scorta, da una parte, dell’esame del risultato che, nel procedimento in relazione al quale viene lamentata l’ingerenza, ha avuto l’applicazione della disposizione denunciata e, dall’altra, della considerazione che lo Stato legislatore era, al tempo stesso, parte di quel procedimento e la disposizione interpretativa assegnava alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per lo Stato – parte», come peraltro reso manifesto dalla più recente giurisprudenza della Corte europea (sentenza SCM Scanner de l’Ouest Lyonnais e altri c. Francia, del 21 giugno 2007, ricorso n. 12106/03).

A giudizio della Corte rimettente, proprio tali condizioni ricorrerebbero nel caso in esame, in quanto il notevole contenzioso in atto, inerente alla norma di interpretazione autentica, in relazione alla quale più volte la medesima Corte ha già avuto modo di pronunciarsi, unitamente al rilevante numero di ricorsi pendenti aventi ad oggetto proprio l’interpretazione di detta normativa, indurrebbero ragionevolmente a ritenere che la definizione di tale contenzioso «nel senso, favorevole allo Stato amministrazione, imposto dalla norma interpretativa, rientrasse certo tra le finalità perseguite dal legislatore con l’introduzione di quest’ultima norma».

Non solo, ma l’esigenza di «governare una operazione di riassetto organizzativo» non potrebbe comunque integrare le «imperiose ragioni d’interesse generale», richieste dalla giurisprudenza di Strasburgo come condizione per superare il divieto d’ingerenza. Del resto, nel procedimento legislativo non vi sarebbe traccia alcuna di siffatta esigenza o di altre ragioni "imperiose o meno”, come sarebbe dimostrato dal fatto che tale comma, non presente nell’originario disegno di legge governativo, risulta inserito dalla relatrice nella seduta della V Commissione e votato nei successivi passaggi, caratterizzati dal voto "di fiducia”.

Tale conclusione non potrebbe essere esclusa neppure dalla considerazione che il legislatore sarebbe comunque libero di emanare norme interpretative che incidano, in materia civile, su diritti attribuiti dalle leggi in vigore, poiché nel caso in esame non si tratterebbe di ciò, quanto piuttosto dell’intervento, a mezzo di leggi retroattive, sui giudizi pendenti dei quali è parte lo Stato-amministrazione. Infatti, il senso della giurisprudenza della Corte europea è che «la parità delle parti dinanzi al giudice implica la necessità che il potere legislativo non si intrometta nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla risoluzione della controversia o di una determinata categoria di controversie», scopo questo desunto «dall’incidenza oggettiva che la norma denunciata ha sull’esito di controversie pendenti e dalla qualità di parte dello Stato-amministrazione in tali controversie».

Del resto, a giudizio della rimettente, il fatto che la retroattività sia coessenziale alle norme d’interpretazione autentica non sarebbe di ostacolo al rispetto del vincolo in questione, in quanto tale vincolo esigerebbe soltanto che «il legislatore escluda dall’ambito di applicazione della norma interpretativa o, più in generale, della norma dichiarata retroattiva i processi in corso alla data di entrata in vigore della norma, secondo uno schema che il legislatore nazionale ben conosce ed ha più volte praticato».

A nulla varrebbe la possibile obiezione secondo cui una simile tecnica legislativa provocherebbe un proliferare d’iniziative giudiziarie volto a rendere immodificabile una situazione di vantaggio, in quanto ciò sembrerebbe postulare «uno Stato-legislatore che, in rapporti di cui sia parte come Stato-amministrazione, accordi una situazione di vantaggio per non adempiere l’obbligazione che su di esso Stato-amministrazione ne deriva, riservandosi poi d’intervenire con legge interpretativa».

Da ultimo, la Corte di cassazione evidenzia come la manifesta infondatezza della questione non avrebbe potuto comunque essere motivata sulla base della sentenza n. 234 del 2007 della Corte costituzionale, che aveva dichiarato non fondata la questione, in quanto relativa a parametri di costituzionalità diversi da quello oggi evocato.

3. – Con atto depositato il 30 dicembre 2008, si è costituita in giudizio la parte privata, N. P., chiedendo che la norma sia dichiarata incostituzionale. A suo giudizio, infatti, la disposizione in esame deve ritenersi costituzionalmente illegittima in quanto incompatibile con le disposizioni della CEDU, norme interposte atte ad integrare il parametro costituzionale, così come interpretate dalla Corte europea, e dunque in contrasto con gli artt. 10, 117 e 111 Cost.

La norma sarebbe illegittima per violazione dei principi della "parità delle armi”, di certezza del diritto e di indipendenza del giudice, desunti dall’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo al diritto all’equo processo, contenuto nell’art. 6 della CEDU.

La Corte di Strasburgo, infatti, avrebbe in più occasioni sottolineato come lo Stato non possa introdurre slealmente una interpretazione normativa a suo favore della norma sub iudice, nei giudizi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi o giurisprudenziali. L’applicazione dello ius superveniens potrebbe ritenersi lecita soltanto in presenza di «impérieux motifs d’intérét général», non ravvisabili in «mere esigenze di natura finanziaria connesse al rischio derivante dalla soccombenza nei giudizi avviati nei confronti dello Stato amministrazione».

La parte privata, inoltre, precisa come in contrario non possa richiamarsi la circostanza che il principio del maturato economico fosse già contenuto nell’accordo del 20 luglio 2001, poichè tale atto sarebbe «intervenuto nell’ambito del quadro normativo tracciato dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria per il 1990), commi da 1 a 4, che contempla esclusivamente obblighi di informazione e di consultazione», ed anche perchè esso risulterebbe inteso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca come contratto derogatorio rispetto all’art. 8 della legge n. 124 del 1999, ritenuto ammissibile in forza della pretesa riconducibilità della fattispecie in esame all’art. 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992 n. 421).

Qualunque legge interpretativa che interferisca sulle iniziative giudiziarie promosse nei confronti dello Stato sarebbe, dunque, lesiva dell’autonomia della funzione giurisdizionale e del ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, poiché, anche qualora sussistano situazioni di incertezza nell’applicazione del diritto o siano insorti contrasti giurisprudenziali, esclusivamente a tale Corte competerebbe risolvere tali contrasti.

Ancora, si aggiunge, il rapporto tra la normativa interna e quella della Convenzione europea, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte, è regolato dal principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, desumibile dagli articoli 1 e 13, nonché dagli artt. 19, 34 e 35 della medesima Convenzione, che affidano alla giurisdizione del giudice interno il compito di primo tutore dei diritti dell’uomo, con conseguente obbligo di disapplicare la disciplina interna non conforme.

Nel caso di specie la legge finanziaria per il 2006 avrebbe certamente violato l’art. 6 della Convenzione europea, atteso che non solo la norma sarebbe contenuta in una legge normalmente deputata «a far cassa», ma sarebbe stata anche inserita con un «super-emendamento» governativo ed approvata ricorrendo al voto di fiducia.

Tale soluzione interpretativa, inoltre, in quanto intervenuta dopo quasi sei anni dall’entrata in vigore della norma interpretata, avrebbe inciso sul "diritto vivente” formatosi in relazione al computo dell’anzianità maturata nel comparto enti locali.

A giudizio della parte, non varrebbe in contrario richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 234 del 2007 poiché in tale decisione si darebbe comunque atto che «la disposizione dell’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, rappresentava una deroga al principio generale vigente all’epoca della sua entrata in vigore, rispetto alla quale la norma ora censurata si presenta come ripristino della regola generale». La Corte costituzionale avrebbe, dunque, riconosciuto, con una sentenza «aspramente criticata», che l’interpretazione autentica fornita dalla legge finanziaria aveva carattere innovativo, salvo sostenere poi la legittimità dell’efficacia retroattiva dell’interpretazione in quanto in linea con il principio del maturato economico introdotto con valenza generale dalla legge 11 luglio 1980, n. 312. Norma questa, che non avrebbe nulla a che vedere con la fattispecie del trasferimento del personale ATA, in quanto disposizione disciplinante la sola mobilità compartimentale e neppure in vigore al momento dell’adozione della citata legge n. 124 del 1999.

La parte privata, inoltre, sottolinea come non ci si trovi affatto in presenza di un’esigenza di governare una operazione di riassetto organizzativo di ampia portata, non solo perché il passaggio del personale risale al 1° gennaio 2000, ma anche perché nel caso di specie non vi sarebbe stata alcuna "riorganizzazione”, poiché i bidelli passati nei ruoli ministeriali già lavoravano nelle scuole statali e hanno continuato a svolgere le medesime mansioni.

Si afferma, poi, che anche il presunto danno finanziario quantificato dall’Avvocatura dello Stato in alcuni milioni di euro, non potrebbe integrare gli «impérieux motifs d’intérét général», in quanto la Corte di Strasburgo avrebbe con chiarezza precisato che un motivo finanziario non consentirebbe, di per sé solo, di giustificare un intervento legislativo di questo tipo.

Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., si riconosce che la Corte costituzionale ha già avuto occasione di evidenziare che «le disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione che ad esse attribuisce la Corte europea dei diritti dell’uomo, integrando uno degli obblighi internazionali, cui si riferisce il precetto costituzionale, possono assumere il rango di fonte integrativa del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, primo comma, Cost., determinando l’incostituzionalità della legge ordinaria con essa contrastante». Tuttavia, come riconosciuto dal Governo nella relazione sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano per l’anno 2007, la giurisprudenza della Corte non avrebbe risolto in via definitiva la problematica dei rapporti fra le norme CEDU e la normativa costituzionale e ordinaria, in quanto la posizione espressa dalla Corte costituzionale non «appare in sintonia con quella nella quale si pone la stessa Corte europea, nelle sue sentenze e nelle dichiarazioni del suo Presidente».

Dal confronto tra i due regimi contrattuali risulterebbe, inoltre, evidente che il Ministero, per effetto dell’inserimento nei propri ruoli del personale ATA prima dipendente dagli enti locali, avrebbe beneficiato di ingenti risparmi nel monte stipendi complessivo, derivanti dalla mancata erogazione di tutti quei compensi individuali accessori previsti dai soli contratti collettivi del comparto enti locali e coperti solo in parte dal maggiore salario tabellare.

Da ultimo, la parte privata assume che la questione comporta profili di valutazione costituzionale e di conformità del nostro ordinamento con quello comunitario, in quanto i diritti garantiti dall’art. 6 della Convenzione europea sarebbero stati "comunitarizzati” dall’art. 6, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione Europea (al quale fa rinvio il successivo art. 46 del Trattato stesso), nonché dal Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con la legge 2 agosto 2008, n. 130, recante il recepimento della CEDU, quale norma fondamentale di diritto comunitario.

Del resto, la stessa Corte di giustizia avrebbe statuito che il diritto ad un equo processo, come si desume, in particolare, dall’art. 6 della CEDU, costituisce un diritto fondamentale che l’Unione europea rispetta in quanto principio generale in forza dell’art. 6, paragrafo 2, TUE. Sicché, la mancata declaratoria della incostituzionalità della norma in esame si concretizzerebbe in una violazione dell’art. 6 del Trattato e dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.

4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 5 gennaio 2009 ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

La difesa erariale, richiamando la sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Scordino c. Italia n. 36813/1997, ritiene che l’interpretazione di tale decisione sostenuta nell’ordinanza di rimessione sia forzata e ricorda che la Corte di cassazione, con la sentenza n. 677 del 2008, ha già dichiarato manifestamente infondata la medesima questione. In quest’ultima decisione, prosegue ancora il Presidente del Consiglio dei ministri, i giudici di legittimità hanno affermato che «emerge con chiarezza che il legislatore nazionale è restato entro i limiti consentitigli dalla Convenzione europea», non essendovi alcun elemento che induca a ritenere la disposizione nazionale come esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso, rivelandosi piuttosto l’esigenza di «armonizzare situazioni lavorative differenziate all’origine ma bisognose di regole unitarie, una volta determinatasi la confluenza dei lavoratori in un unico comparto, in conformità, del resto, al principio di parità di trattamento di situazioni analoghe nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblico, dove tale principio ha un notevole rilievo teorico e pratico». In altri termini, secondo la Corte di cassazione, con la norma in esame il legislatore avrebbe provveduto a «governare una operazione di riassetto organizzativo di ampia portata» così da far ritenere «palesemente ravvisabili, nel caso di specie, le pressanti ragioni di interesse generale che abilitano, secondo la Corte europea, anche interventi retroattivi, tanto più quando questi non comportino vanificazione pressoché totale di crediti già sorti ma implichino una rimodulazione del diritto in una delle direzioni in astratto plausibili anche secondo la legge precedente».

Sulla base di tali indicazioni la difesa erariale puntualizza che, nel caso in esame, non può ritenersi violato il divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la conclusione giudiziaria della controversia desumibile dalla sentenza cosiddetta Scordino, poiché «scopo dell’intervento legislativo non era affatto, in via primaria, […] quello di influenzare l’esito di una controversia, bensì quello […] di regolamentare una volta per tutte, esprimendo quale fosse l’originario ed autentico intento del legislatore, una complessa vicenda di passaggio di personale dagli enti locali allo Stato». Tale scopo è stato perseguito – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – mediante una legge interpretativa, con cui si è puntualizzato quale fosse il reale significato da attribuire all’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, in linea con l’orientamento espresso dalle parti sociali nell’accordo del 20 luglio 2000 oltre che da parte della giurisprudenza. La difesa erariale sottolinea, altresì, come nella specie siano ravvisabili le ragioni di interesse generale corrispondenti all’esigenza di assicurare che il trasferimento del personale ATA dipendente degli enti locali nei ruoli dello Stato, pur avvenendo senza maggiori oneri per le finanze dello Stato, consenta il mantenimento delle posizioni giuridiche spettanti al personale nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali, salvaguardando il livello retributivo del dipendente. Infatti, proprio in considerazione della diversa struttura della retribuzione, l’una, quella di provenienza, calcolata in base alle funzioni e ai compiti realmente svolti, l’altra, quella di destinazione, commisurata in base all’anzianità di servizio, occorreva prevedere una precisa regolamentazione idonea a garantire, senza maggiori oneri per lo Stato, uniformità di trattamento.

5. – In prossimità dell’udienza pubblica sia la parte privata che l’Avvocatura dello Stato hanno depositato memorie, rispettivamente in data 12 ottobre 2009 e 13 ottobre 2009, confermando le conclusioni già formulate, e ribadendo le argomentazioni svolte a sostegno delle proprie ragioni.

6. – Analoghe questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005 sono state sollevate, con cinque distinte ordinanze (reg. ord. nn. 15, 16, 17, 18 e 19 del 2009), di identico contenuto, adottate il 26 settembre 2008 dalla Corte d’appello di Ancona, per la trattazione delle quali la Corte è stata convocata in camera di consiglio.

Il giudice rimettente premette, in fatto, che il Tribunale di Ascoli Piceno aveva respinto la domanda di alcuni dipendenti di un ente locale, transitati nei ruoli dell’amministrazione dello Stato ex art. 8 della legge n. 124 del 1999, di riconoscimento del diritto alla attribuzione della anzianità prestata presso l’ente locale di provenienza, ai fini della progressione economica e stipendiale nel comparto scuola, e di corresponsione delle relative differenze economiche. Avverso tale sentenza i dipendenti proponevano appello dinanzi all’odierno rimettente, censurando l’interpretazione data dal giudice di primo grado alla norma predetta nonché agli accordi sindacali ed ai decreti ministeriali successivamente intervenuti in materia ed insistendo per l’accoglimento della domanda. L’amministrazione appellata invocava l’applicazione dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, di interpretazione autentica dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999, e richiamava la pronunzia della Corte costituzionale n. 234 del 2007 che aveva respinto l’eccezione di illegittimità costituzionale della citata norma, mentre le parti appellanti prospettavano questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, sotto il profilo del contrasto con l’art. 6 della CEDU.

Il rimettente, pronunciandosi sulla prospettata questione ed argomentatane la rilevanza, osserva che il dubbio di contrasto della norma denunciata con la Costituzione deriva dal rilievo che l’art. 117, primo comma, Cost. impone allo Stato legislatore il rispetto dell’obbligo internazionale assunto con la sottoscrizione e ratifica della CEDU, il cui art. 6, comma 1, prescrive il diritto di ogni persona ad un giusto processo dinanzi ad un giudice indipendente ed imparziale, con conseguente obbligo del potere legislativo di non ingerirsi nella amministrazione della giustizia per influire sull’esito di una controversia o di una categoria di esse.

Il rimettente ricorda che l’art. 6, comma 1, della CEDU, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Scordino c. Italia n. 36813/1997, nel prescrivere il diritto al giusto processo, se da un lato non assicura nel processo civile l’immutabilità della norma da applicare per tutti i procedimenti in corso, obbliga dall’altro lo Stato a non esercitare un’ingerenza normativa finalizzata ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l’intervento retroattivo sia giustificato da «motivi imperiosi di carattere generale».

7. – Anche in questi giudizi, con atto depositato il 23 febbraio 2009, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

La difesa erariale, ricordando che analoga questione è stata sollevata dalla Corte di cassazione, fa integrale richiamo alle argomentazioni svolte nell’atto di intervento già spiegato in quella sede, atte a confutare la fondatezza della questione di legittimità costituzionale anche nel caso in esame. Aggiunge, inoltre, che la medesima norma di legge è stata già oggetto di controllo di costituzionalità per diverse, ma connesse motivazioni (sentenza n. 234 del 2007 ed ordinanza n. 400 del 2007) e che la stessa Corte di cassazione, con la sentenza n. 677 del 2008, ha dichiarato manifestamente infondata la medesima questione. In quest’ultima sentenza, ribadisce ancora il Presidente del Consiglio dei ministri, la Corte ha affermato come non risulti alcun elemento che induca a ritenere la disposizione nazionale come esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso, rivelandosi piuttosto l’esigenza di armonizzare situazioni lavorative differenziate all’origine, ma bisognose di regole unitarie. 

Considerato in diritto

1. – Vengono all’esame della Corte più ordinanze di rimessione – la prima trattata all’udienza pubblica del 3 novembre 2009 e le altre nella camera di consiglio del successivo 4 novembre – con le quali la Corte di cassazione (r.o. n. 400 del 2008) e la Corte di appello di Ancona (r.o. nn. 15, 16, 17, 18 e 19 del 2009) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006).

1.1. – In virtù dell’identità delle questioni sollevate va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica pronuncia.

2. – La norma censurata interpreta l’art. 8, comma 2, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), che, nel disciplinare il trasferimento di dipendenti di enti locali nei ruoli statali del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) del settore scuola, ne prevedeva l’inquadramento nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali corrispondenti, consentendo l’opzione per l’ente di appartenenza, qualora le qualifiche e i profili non avessero trovato corrispondenza. La norma aveva stabilito – questo è il punto controverso – che a detto personale è riconosciuta «ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza». Successivamente, un accordo tra l’ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) e le organizzazioni sindacali, recepito da uno dei decreti ministeriali di attuazione della legge n. 124 del 1999 (decreto del Ministro della pubblica istruzione, di concerto con i Ministri dell’interno, del bilancio e della funzione pubblica del 5 aprile 2001), ai fini del primo inquadramento, aveva considerato il principio del maturato economico in luogo di quello della complessiva anzianità conseguita. Sul tema si era aperto un diffuso contenzioso e la stessa Corte di cassazione aveva in più occasioni negato che il diritto al riconoscimento dell’anzianità «ai fini giuridici ed economici» attribuito dalla legge n. 124 del 1999 potesse essere ridotto a quello del maturato economico da una disciplina di rango inferiore.

È su questo specifico quadro normativo e giurisprudenziale che ha inteso intervenire il legislatore con la norma interpretativa qui censurata. Tale disposizione, infatti, allo scopo di ribadire con legge ordinaria quanto già prefigurato dal decreto ministeriale sulla base della posizione espressa dalle organizzazioni sindacali, stabilisce: «il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».

3. – La Corte di cassazione, e così anche gli altri giudici rimettenti, dubitano della legittimità costituzionale della disposizione di legge interpretativa, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (infra, anche CEDU o Convenzione europea).

Tale norma internazionale, che sancisce il principio del diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, imporrebbe al legislatore di uno Stato contraente, nell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie, attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per lo Stato parte del procedimento, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse generale».

Ad avviso dei rimettenti, il legislatore nazionale avrebbe emanato una norma interpretativa in presenza di un notevole contenzioso e di un orientamento della Corte di cassazione sfavorevole allo Stato, in tal modo violando il principio di «parità delle armi», non essendo l’invocata esigenza di «governare una operazione di riassetto organizzativo» del settore interessato dell’amministrazione pubblica sufficiente ad integrare quelle «ragioni imperative d’interesse generale» che permetterebbero di escludere la violazione del divieto d’ingerenza.

4. – Le questioni vanno esaminate entro i limiti del thema decidendum individuato dalle ordinanze di rimessione, non potendo essere prese in considerazione, secondo la giurisprudenza di questa Corte, le censure svolte solo dalle parti del giudizio principale (per tutte, sentenze n. 310 e n. 234 del 2006, n. 349 del 2007).

Sono pertanto inammissibili le questioni sollevate dalla parte privata costituitasi nel giudizio di cui all’ordinanza n. 400 del 2008, con riferimento agli artt. 10 e 111 Cost., parametri non invocati dai giudici rimettenti.

5. – Nel merito la questione non è fondata.

6. – Il contenuto delle censure impone, in linea preliminare, di ricordare quale sia, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il rango e l’efficacia delle norme della CEDU ed il ruolo, rispettivamente, dei giudici nazionali e della Corte di Strasburgo, nell’interpretazione ed applicazione della Convenzione europea.

Siffatta questione è stata affrontata e decisa, di recente, dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le quali hanno rilevato che l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione "obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Questa Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti.

Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Beninteso, l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza, secondo un criterio già adottato dal giudice comune e dalla Corte europea (Cass. 20 maggio 2009, n. 10415; Corte eur. dir. uomo 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, ric. n. 22644/03).

Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall’art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell’interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto.

Sollevata la questione di legittimità costituzionale, spetta a questa Corte il compito anzitutto di verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo. La Corte dovrà anche, ovviamente, verificare che il contrasto sia determinato da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma CEDU, dal momento che la diversa ipotesi è considerata espressamente compatibile dalla stessa Convenzione europea all’art. 53.

In caso di contrasto, dovrà essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della CEDU.

Questa Corte ha anche affermato, e qui intende ribadirlo, che ad essa è precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte costituzionale compete, questo sì, di verificare se la norma della CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione. Il verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimità, comporta – allo stato – l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).

7. – Posta questa premessa, occorre individuare la natura, la portata e gli obiettivi perseguiti dalla norma censurata, tenendo conto che la disciplina del trasferimento del personale ATA di cui alla legge n. 124 del 1999 e la norma che ha interpretato la disposizione qui rilevante hanno già formato oggetto di scrutinio da parte di questa Corte, sia pure in relazione a parametri costituzionali diversi dall’art. 117, primo comma, Cost., qui invocato. La sentenza n. 234 del 2007 e le ordinanze n. 400 del 2007 e n. 212 del 2008 hanno, rispettivamente, dichiarato non fondate e manifestamente infondate le questioni di costituzionalità della predetta norma interpretativa sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 Cost.

Per quanto qui interessa, la disciplina dettata dall’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, è stata ricondotta all’esigenza di armonizzare, con una normativa transitoria di primo inquadramento, «il passaggio del personale in questione da un sistema retributivo disciplinato a regime ad un altro sistema retributivo ugualmente disciplinato a regime, salvaguardando, proprio per quanto attiene al profilo economico, i livelli retributivi maturati e attribuendo agli interessati, a partire dal nuovo inquadramento, i diritti riconosciuti al personale ATA statale. Tutto ciò allo scopo di rendere, almeno tendenzialmente, omogeneo il sistema retributivo di tutti i dipendenti ATA, al di là delle rispettive provenienze e, comunque, salvaguardando il diritto di opzione per l’ente di appartenenza nel caso di mancata corrispondenza di qualifiche e profili» (sentenza n. 234 del 2007).

In tale contesto, secondo questa Corte, l’inquadramento stipendiale nei ruoli statali del personale ATA, in ragione del solo cosiddetto maturato economico, costituiva una delle possibili e plausibili varianti di lettura della norma, avallata, tra l’altro, in sede di accordo siglato tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e i rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni dei dipendenti. Ciò, in particolare, considerando che tale principio era stato introdotto, con valenza generale, già dalla legge 11 luglio 1980, n. 312, recante «Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato».

Le pronunce sopra richiamate hanno escluso la sussistenza di un legittimo affidamento con riferimento al trattamento retributivo derivante dalla valutazione, ai fini giuridici ed economici, dell’intera anzianità maturata presso gli enti di provenienza, in considerazione sia del tipo di interpretazione adottata in sede di contrattazione collettiva, pressoché contestualmente all’entrata in vigore della citata legge, sia del richiamo, espresso, al principio dell’invarianza della spesa in sede di primo inquadramento del personale proveniente dagli enti locali.

Questa Corte ha dunque negato, come anche in precedenti più remoti (sentenze n. 618 del 1987 e n. 296 del 1984), che si potesse postulare l’illegittimità di qualsiasi regolamentazione transitoria che non si limitasse «alla conservazione del trattamento precedente "ad esaurimento” o alla pura e semplice applicazione illimitatamente retroattiva del trattamento nuovo: soluzioni, certo, possibili, ma non imposte dal precetto costituzionale in argomento».

Infine, la sentenza n. 234 del 2007 ha anche escluso che la disposizione interpretativa censurata desse luogo ad una disparità di trattamento fra coloro che, all’entrata in vigore della norma, avessero già ottenuto un giudicato favorevole rispetto alla disciplina applicabile e coloro che fossero soltanto in attesa della formazione del giudicato sulla loro pretesa.

8. – Occorre ora verificare in che modo la Corte europea abbia applicato l’art. 6 della CEDU, in relazione alle norme nazionali interpretative concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali è parte lo Stato.

I rimettenti ricordano, fra l’altro, la decisione relativa al caso Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri c. Francia, del 21 giugno del 2007. In tale occasione la Corte europea ha ribadito che, mentre, in linea di principio, al legislatore non è precluso intervenire in materia civile, con nuove disposizioni retroattive, su diritti sorti in base alle leggi vigenti, il principio dello Stato di diritto e la nozione di processo equo sancito dall’articolo 6 della CEDU vietano l’interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia destinata a influenzare l’esito della controversia, fatta eccezione che per motivi imperativi di interesse generale («impérieux motifs d’intérét général»). La stessa Corte europea ha ricordato, inoltre, che il requisito della parità delle armi comporta l’obbligo di dare alle parti una ragionevole possibilità di perseguire le proprie azioni giudiziarie, senza essere poste in condizione di sostanziale svantaggio rispetto agli avversari.

Tale orientamento, che trova i suoi precedenti nei casi Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis c. Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28 ottobre 1999, censura la prassi di interventi legislativi sopravvenuti, che modifichino retroattivamente in senso sfavorevole per gli interessati le disposizioni di legge attributive di diritti, la cui lesione abbia dato luogo ad azioni giudiziarie ancora pendenti all’epoca della modifica.

Questa prassi può essere suscettibile di comportare una violazione dell’art. 6 della CEDU, risolvendosi in un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’amministrazione della giustizia. Nel caso Zielinski e altri c. Francia, in particolare (come prima nel caso Papageorgiou c. Grecia, sentenza del 22 ottobre 1997), si è riaffermato il principio che nega ogni indebita interferenza del legislatore, fatta salva la sussistenza di «motivi imperativi di interesse generale». La Corte europea, tuttavia, ha precisato che siffatti motivi non ricorrevano nella specie, in quanto il mero rischio finanziario, denunciato dal Governo ed espressamente indicato dalla Corte costituzionale, non consentiva di per sé che il legislatore si sostituisse alle parti sociali del contratto collettivo, oggetto del contenzioso. La Corte, quindi, verificata la sussistenza di orientamenti giurisprudenziali favorevoli ai ricorrenti, ha censurato la norma interpretativa che era sopravvenuta retroattivamente, nonostante gli accordi collettivi intervenuti in senso contrario.

Ciò posto, occorre rilevare che la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non contrari all’art. 6 della Convenzione europea particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionali.

La legittimità di simili interventi è stata riconosciuta, in primo luogo, allorché ricorrevano ragioni storiche epocali, come nel caso della riunificazione tedesca (caso Forrer-Niederthal c. Germania, sentenza del 20 febbraio 2003).

In questo caso, la Corte europea, di fronte ad una norma che faceva salvi con effetto retroattivo i trasferimenti di proprietà, senza indennizzo, in «proprietà del popolo» della ex D.D.R., ha concluso per la compatibilità dell’intervento con la norma convenzionale; ciò non soltanto per il motivo "epocale” del nuovo riassetto dei conflitti patrimoniali conseguenti alla riunificazione, ma anche in considerazione della sussistenza effettiva di un sistema che aveva garantito alle parti, che contestavano le modalità del riassetto, l’accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e garantito. In particolare, a seguito della denuncia di incostituzionalità della norma, il Tribunale costituzionale tedesco si era pronunciato nel senso della compatibilità della disposizione in questione con la Legge Fondamentale. Tale specifica evenienza, che mostra un’innegabile analogia con la vicenda oggi qui in esame, è stata considerata come «punto chiave della controversia». La Corte europea ha riconosciuto che il ricorrente aveva avuto accesso a tribunali indipendenti avvicendatisi nei vari gradi, e soprattutto all’organo di giustizia costituzionale, sicchè ha osservato che «nel suo complesso», il procedimento in questione aveva rivestito i caratteri di equità, conformi al dettato dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.

In altri casi, nel definire e verificare la sussistenza o meno dei motivi imperativi d’interesse generale, la Corte di Strasburgo ha ritenuto legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata, aveva inteso con la legge retroattiva ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore.

Si tratta, in primo luogo, della sentenza 23 ottobre 1997, nel caso National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito (utilizzata mutatis mutandis anche nella citata pronuncia Forrer-Niederthal c. Germania), nella quale è stato ritenuto che l’adozione di una disposizione interpretativa può essere considerata giustificata allorché lo Stato, nella logica di interesse generale di garantire il pagamento delle imposte, abbia inteso porre rimedio al rischio che l’intenzione originaria del legislatore fosse, in quel caso, sovvertita da disposizioni fissate in circolari.

Nello stesso solco si pone la sentenza del 27 maggio 2004, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia, in cui le circostanze del caso di specie non erano identiche a quelle del caso Zielinski del 1999. La pronuncia ha affermato che l’intervento del legislatore non aveva inteso sostenere la posizione assunta dall’amministrazione dinanzi ai giudici, ma porre rimedio ad un errore tecnico di diritto, al fine di garantire la conformità all’intenzione originaria del legislatore, nel rispetto di un principio di perequazione.

Il caso viene, quindi, assimilato a quello National & Provincial Building Society del 1997, dove l’intervento del legislatore era giustificato dall’obiettivo finale di «riaffermare l’intento originale del Parlamento». La Corte ha ritenuto che la finalità dell’intervento legislativo fosse quindi quella di garantire la conformità all’intenzione originaria del legislatore a sostegno di un principio di perequazione, aggiungendo che gli attori non avrebbero potuto validamente invocare un "diritto” tecnicamente errato o carente, e dolersi quindi dell’intervento del legislatore teso a chiarire i requisiti ed i limiti che la legge interpretata contemplava.

9. – In considerazione dei principi enunciati dalla Corte europea, nonché della ricostruzione della portata e degli obiettivi della norma qui censurata, già operata da questa Corte con la citata sentenza n. 234 del 2007, il contrasto denunciato dalla Corte di cassazione e dagli altri giudici rimettenti non sussiste.

Deve infatti escludersi l’esistenza di un principio secondo cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto con la Convenzione europea, come peraltro riconosciuto da una parte della giurisprudenza di legittimità (Cass. 16 gennaio 2008 n. 677). Dal confronto fra i principi espressi dalla Corte europea e le condizioni e finalità dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, emerge come il legislatore nazionale non abbia travalicato i limiti fissati dalla Convenzione europea. La vicenda normativa in esame non solo non determina una reformatio in malam partem di una situazione patrimoniale in precedenza acquisita, dal momento che i livelli retributivi già raggiunti vengono oggettivamente salvaguardati, ma si dimostra coerente con l’esigenza di armonizzare situazioni lavorative tra loro differenziate all’origine, conformemente al principio di parità di trattamento di situazioni analoghe nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblico.

Va dunque ribadito che la legge n. 124 del 1999 ha inteso governare una particolare operazione di riassetto organizzativo riguardante un ampio numero di soggetti. La disposizione di legge censurata ha contribuito a soddisfare l’indiscutibile interesse generale a rendere tendenzialmente omogeneo il sistema retributivo di tutti i dipendenti del ruolo statale, al di là delle rispettive provenienze, impedendo che una diversa interpretazione potesse determinare, non solo una smentita dell’originario principio di "invarianza della spesa”, ma anche e soprattutto un assetto che rischiava, esso sì irragionevolmente, di creare un potenziale vulnus al principio di parità di trattamento, che le amministrazioni pubbliche devono garantire. In tal modo, nella specie ricorrono più di una tra quelle «ragioni imperative di interesse generale» che consentono, nel rispetto dell’art. 6 della Convenzione europea e nei limiti evidenziati dalla Corte di Strasburgo, interventi interpretativi e retroattivi.

In primo luogo, emerge nella norma censurata l’esigenza di "ristabilire” una delle possibili direzioni dell’originaria intenzione del legislatore. Tale direzione aveva determinato l’interpretazione ad essa conforme delle parti sociali, negli accordi stipulati per il primo inquadramento (al contrario di quanto accaduto nel caso Zielinski), poi recepita dalle norme di attuazione fin da tale fase, sia pure nella forma del decreto ministeriale poi ritenuta inadeguata da una parte della giurisprudenza.

In secondo luogo, può ricordarsi come l’intervento del legislatore non abbia vanificato del tutto i diritti sorti ed acquisiti sulla base della legge interpretata, restando intatti quelli al trattamento migliore conseguito dopo l’inquadramento nel nuovo ruolo, mediante la conservazione di un assegno personale.

Inoltre, risulta evidente soprattutto la conformità di tale interpretazione con la finalità di garantire una generale perequazione di tutti i lavoratori del comparto scuola, come peraltro già ritenuto da questa Corte nella più volte ricordata sentenza n. 234 del 2007, nel senso di garantire che a tutti i dipendenti di quel ruolo sia attribuita una medesima progressione retributiva, al di là delle rispettive provenienze.

Pertanto, assume rilievo la sussistenza di una "imperfezione” tecnica, nel contesto normativo originario, consistente nel ritenere comunque delegabile all’autonomia delle parti e ad una disciplina regolamentare la fissazione di un criterio rispettoso del principio dell’invarianza di spesa, in aderenza all’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), delega poi ritenuta insussistente dalla giurisprudenza di legittimità. 

Non solo, ma, a conforto della ritenuta sussistenza di un dibattito giurisprudenziale irrisolto, il "diritto vivente” nel 2005 non poteva ritenersi formato sul punto, giacché la questione vedeva fronteggiarsi alcune pronunce di legittimità, assunte a sezioni semplici, che avevano ricostruito il fenomeno nel senso della necessità di atti di inquadramento rispettosi dei principi dettati dall’art. 2112 del codice civile, con altre pronunce che risolvevano la questione sul piano dell’efficacia normativa o meno dell’accordo del 20 luglio 2000, recepito nel successivo, già citato, decreto ministeriale del 5 aprile 2001. 

Da ultimo, ed in piena coerenza con la giurisprudenza europea prima ricordata (Forrer-Niederthal c. Germania), risulta determinante il fatto che il procedimento relativo alla vicenda del trasferimento dei dipendenti ATA abbia avuto la garanzia di un processo equo, anche attraverso l’incidente di costituzionalità conclusosi con una dichiarazione di infondatezza della questione, rispetto a parametri costituzionali coerenti con la norma convenzionale, pienamente compatibile, così interpretata, con il quadro costituzionale italiano. 

In definitiva, in aderenza con la ricostruzione normativa già operata da questa Corte in altre occasioni, risulta con chiarezza la compatibilità della norma interpretativa censurata con la giurisprudenza qui rilevante della Corte di Strasburgo, in particolare relativa ai casi Forrer-Niederthal c. Germania, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia e National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito. 

Nell’intervento retroattivo in questione è dato, infatti, riscontrare gli elementi valorizzati dalla Corte europea per ritenere ammissibili le disposizioni interpretative, tenendo conto che i principi in materia richiamati dalla giurisprudenza di quest’ultima costituiscono espressione di quegli stessi principi di uguaglianza, in particolare sotto il profilo della parità delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela del legittimo affidamento e della certezza delle situazioni giuridiche, che questa Corte ha escluso siano stati vulnerati dalla norma qui censurata.

Peraltro, fare salvi i «motivi imperativi d’interesse generale» che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi nelle situazioni che qui rilevano non può non lasciare ai singoli Stati contraenti quanto meno una parte del compito e dell’onere di identificarli, in quanto nella posizione migliore per assolverlo, trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere legislativo. Le decisioni in questo campo implicano, infatti, una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che la Convenzione europea lascia alla competenza degli Stati contraenti, come è stato riconosciuto, ad esempio, con la formula del margine di apprezzamento, nel caso di elaborazione di politiche in materia fiscale, salva la ragionevolezza delle soluzioni normative adottate (come nella sentenza National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito, del 23 ottobre 1997). 

10.– In conclusione, il denunciato contrasto fra la norma impugnata e l’art. 6 della CEDU, quindi la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non sussiste. 

per questi motivi 

LA CORTE COSTITUZIONALE 

riuniti i giudizi, 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006), sollevate, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, ed all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione e dalla Corte di appello di Ancona con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 novembre 2009. 

F.to: 

Francesco AMIRANTE, Presidente 

Giuseppe TESAURO, Redattore 

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere 

Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2009.