Sentenza n. 81 del 2010

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SENTENZA N. 81

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

 

- Ugo                            DE SIERVO Presidente

- Paolo                      MADDALENA   Giudice

- Alfio                      FINOCCHIARO           "

- Alfonso                  QUARANTA                "

- Franco                    GALLO                        "

- Luigi                      MAZZELLA                 "

- Gaetano                  SILVESTRI                  "

- Sabino                    CASSESE                    "

- Maria Rita                  SAULLE                  "

- Giuseppe                TESAURO                   "

- Paolo Maria            NAPOLITANO             "

- Giuseppe                FRIGO                         "

- Alessandro              CRISCUOLO               "

- Paolo                      GROSSI                       "

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, promosso dal Tribunale ordinario di Roma, sezione terza lavoro, nel procedimento vertente tra C. C. e il Ministero dello sviluppo economico, con ordinanza del 24 febbraio 2009, iscritta al n. 247 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.

 

Ritenuto in fatto

1.— Con ordinanza del 24 febbraio 2009 il Tribunale ordinario di Roma, sezione terza lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito nella legge 24 novembre 2006, n. 286, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione.

Il giudice a quo sottolinea che il ricorrente ha stipulato con il Ministero delle Attività produttive (divenuto poi Ministero dello sviluppo economico), in data 3 agosto 2005, un contratto individuale di lavoro, ai sensi dell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), avente ad oggetto un incarico dirigenziale di seconda fascia, con decorrenza dal 1° settembre 2005 e con scadenza 31 agosto 2008, per lo svolgimento di funzioni di ricerca e studio, relative all’analisi quantitativa per la verifica dell’efficienza e dell’efficacia degli investimenti nei singoli settori agevolati dalle leggi in vigore. Con nota del 1° dicembre 2006 l’amministrazione gli ha comunicato la non conferma del predetto incarico, in applicazione dell’art. 41, comma 1, del decreto-legge n. 262 del 2006.

Il Tribunale rileva come la predetta disposizione abbia esteso agli incarichi dirigenziali conferiti ai sensi del comma 5-bis (che disciplina gli incarichi ai dirigenti dipendenti da altre amministrazioni) e del comma 6 (che disciplina gli incarichi a dirigenti non dipendenti da amministrazioni), il regime giuridico di cui dal comma 8, dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede la cessazione delle funzioni dirigenziali attribuite decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo.

Il comma 3 dello stesso art. 41 ha, altresì, dettato la disciplina transitoria stabilendo che «in sede di prima applicazione dell’art. 19, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001 (…) gli incarichi ivi previsti, conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto-legge».

Il giudice remittente sottolinea come l’amministrazione avrebbe fatto applicazione, il 1° dicembre 2006, con decorrenza dal successivo giorno 2, della disposizione di cui al citato comma 3 dell’art. 41, considerato che «il ricorrente aveva un incarico ex comma 6 in corso alla data del 17 maggio 2006».

Si aggiunge come non dovrebbe, invece, farsi applicazione del primo comma dell’art. 41 perché «alla data di entrata in vigore del decreto il termine di novanta giorni dalla fiducia al Governo oggi in carica era già decorso e la stessa introduzione di una disciplina di prima applicazione volta a regolare i rapporti in corso alla data della fiducia rende evidente la non retroattività del comma 159, d’altronde imposta, in assenza di segni esegetici contrari, dai principi generali».

Le riportate disposizioni di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 41 sono state poi trasfuse sostanzialmente nei commi 159 e 161 dell’art. 2 della legge n. 286 del 2006. Tale articolo, si aggiunge, ha espressamente abrogato l’art. 41 del decreto-legge n. 262 del 2006 «e nondimeno, facendone salvo l’art. 48, appare averne fatta salva l’efficacia temporale, per quanto attiene alle disposizioni qui in esame, rimaste, per quanto rileva in causa, intatte nella loro portata normativa, dal 3 ottobre 2006».

Esposto ciò, il Tribunale richiama il contenuto della sentenza n. 103 del 2007 di questa Corte, di cui viene riportata una parte della motivazione, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), nella parte in cui prevedeva la cessazione automatica degli incarichi dei dirigenti generali in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa per violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione.

Questi principi, continua il giudice a quo, avrebbero trovato conferma nella successiva sentenza n. 161 del 2008, che ha dichiarato per gli stessi motivi la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, «nella parte in cui dispone che gli incarichi conferiti al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 (…) conferiti prima del 17 maggio 2006 cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso».

Il Tribunale remittente sottolinea come malgrado la parte dispositiva della citata sentenza n. 161 del 2008 «si presti, nel suo tenore testuale, ad essere direttamente applicata alla fattispecie, perché il ricorrente appartiene al “personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001”, l’esame complessivo della pronuncia rivela chiaramente come la Corte abbia inteso avere esclusivo riguardo al personale comunque dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 e munito di “status” dirigenziale (sebbene non appartenete ai ruoli di cui all’art. 23), cui si riferisce il comma 5-bis, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001».

Il giudice a quo sottolinea come l’unica residua differenza tra il caso deciso con la citata sentenza n. 161 del 2008 e quello oggetto della controversia al suo esame sarebbe rappresentata dal fatto che viene in rilievo un incarico dirigenziale conferito ex art. 19, comma 6, a persona «non attualmente munita dello status di dirigente, in ragione dei requisiti professionali di cui alla medesima disposizione». Si osserva come dopo la predetta decisione «il fatto che gli incarichi di cui al comma 6 possono cessare automaticamente, quando quelli di cui al comma 5 non lo possono, determina oramai una disparità di trattamento che appare priva di ogni ragionevole giustificazione e come tale illegittima ai sensi dell’art. 3 della Costituzione».

Dopo avere richiamato le sentenze di questa Corte il giudice a quo ritorna sulla questione della rilevanza osservando come, avendo l’attore chiesto il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale a causa dell’illegittima revoca dell’incarico, avrebbe chiesto «seppure indirettamente, in via principale dichiararsi l’illegittimità della revoca» in ragione del fatto che la stessa sarebbe stata disposta sulla base di una legge incostituzionale. Si aggiunge che, anche qualora si ritenesse che l’accertamento della predetta illegittimità non abbia formato oggetto di domanda, nondimeno tale accertamento andrebbe effettuato “in via incidentale” per verificare se sussiste o meno l’illecito; puntualizzandosi come «la rilevanza della questione non sembra richiedere una preventiva delibazione sulla sussistenza degli altri elementi costitutivi della pretesa risarcitoria (la colpa dell’amministrazione ed il danno)». In ogni caso, si rileva come «non possa apparire improbabile che l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale abbia ricadute risarcitorie». Ciò in quanto l’attore chiede il risarcimento del danno consistente nel mancato pagamento delle retribuzioni che sarebbero maturate, secondo contratto, fino alla naturale scadenza del contratto. Si aggiunge come all’attore non si applicherebbe il comma 2, dell’art. 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, che prevede il pagamento delle retribuzioni per i soli dirigenti dipendenti da altre amministrazioni cessati dall’incarico. Inoltre, «l’attore deduce danni alla professionalità ed alla immagine la cui sussistenza non può essere, allo stato, esclusa».

Nell’ultima parte dell’ordinanza di rimessione il Tribunale si sofferma sulla sussistenza della colpa per ritenere che la stessa, venendo in rilievo una ipotesi di responsabilità contrattuale, si presumerebbe ex art. 1218 del codice civile.

Si osserva, inoltre, come «la natura della condotta e della disposizione applicata ed il contesto della sua applicazione» nella specie, «non consentono prima facie di affermare che il Ministero versi in un’ipotesi di causa non imputabile». Ciò, in quanto la disposizione censurata «non richiedeva la non conferma dell’incarico, rimettendola invece ad una piena ed incondizionata discrezionalità dell’amministrazione, passibile di essere esercitata anche solo tacitamente, e che questa ha ritenuto di esercitare attivamente ante tempus senza, peraltro, alcuna motivazione». Inoltre, l’amministrazione avrebbe dovuto conformare la propria azione ai principi di cui agli artt. 97 e 98 Cost., in quanto la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti non implica che l’amministrazione possa recedere liberamente dagli incarichi conferiti.

Infine, si osserva, sempre sul piano dell’analisi relativa all’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa, come tali questioni «appaiono del tutto premature», atteso che, una corretta applicazione delle regole relative all’ordine logico-giuridico da seguire nella decisione della causa, imporrebbe di accertare prima la sussistenza dell’elemento materiale dell’illecito (e dunque la illegittimità costituzionale della norma attributiva del potere) «in solo rapporto al quale (…) la colpa e il danno sono concretamente delibabili». In conclusione, il remittente esclude che possa ritenersi «coerente con le funzioni istituzionali della Corte una interpretazione del requisito della rilevanza che si sospinga a valutazioni prognostiche sulla concreta idoneità dell’esito ad incidere sulle possibilità di accoglimento, parziale o totale, della domanda».

2.— È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, osservando, in via preliminare, come l’attore del giudizio a quo non abbia chiesto la declaratoria di illegittimità del provvedimento di decadenza ma il risarcimento dei danni per cessazione dell’incarico, con la conseguenza che la cognizione della domanda risarcitoria spetterebbe al giudice amministrativo e non a quello ordinario.

Nel merito si deduce la infondatezza delle censure in quanto nella specie verrebbero in rilievo incarichi conferiti a persona che non riveste già il ruolo di dirigente della p.a. «ma a persona estranea alla p.a. prescelta sulla base di criteri di particolare stima e fiducia da parte dell’organo politico preposto all’amministrazione che, pur condizionato dalla ricorrenza degli oggettivi elementi indicati dal comma 6, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001, effettua però la propria definitiva scelta fondandola sul proprio personale fiduciario rapporto con il soggetto che intende investire della funzione dirigenziale». In questa prospettiva, sarebbe del tutto coerente che, al mutamento del Governo, il soggetto nominato venga sottoposto ad un «vaglio confermativo e, in caso di non conferma, che l’incarico decada». Diversamente argomentando, si sottolinea, «la possibilità, percentualmente limitata di conferimento di detti incarichi (…) resterebbe preclusa ai titolari del potere politico, frustrando completamente (…) un suo pur modesto avvalimento di personale» di totale fiducia nell’esercizio di funzioni dirigenziali.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale ordinario di Roma, sezione terza lavoro, con ordinanza del 24 febbraio 2009 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286.

Tale disposizione – richiamando l’art. 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazione pubbliche), come modificato, dai commi 159 e 161 dello stesso decreto-legge n. 262 del 2006 – prevede che gli incarichi di funzioni dirigenziali conferiti, tra l’altro, a persone di particolare e comprovata qualificazione in possesso dei requisiti specificamente previsti dal comma 6 dello stesso art. 19, estranei alle amministrazioni statali, «cessano ove non confermati entro sessanta giorni» dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto.

Il giudice a quo censura il predetto comma 161, assumendo che esso si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione, in quanto prevede una interruzione automatica del rapporto di lavoro prima della scadenza del termine stabilito per la sua durata.

2.— In via preliminare, è necessario richiamare gli aspetti essenziali della vicenda oggetto del giudizio a quo, quali risultano dall’ordinanza di remissione.

Il ricorrente era titolare di «un rapporto di lavoro con la Presidenza del Consiglio dei ministri». In data 3 agosto 2005 il Ministero delle attività produttive (divenuto poi Ministero dello sviluppo economico) gli aveva conferito, con decorrenza 1° settembre 2005 e scadenza 31 agosto 2008, «un incarico dirigenziale di seconda fascia», ai sensi del comma 6, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001, «quale soggetto non altrimenti legato da un rapporto di impiego dirigenziale con una pubblica amministrazione». Lo stesso Ministero, con provvedimento del 1° dicembre 2006, con decorrenza dal giorno successivo, non aveva confermato l’incarico attribuito. Per queste ragioni il ricorrente ha chiesto al Tribunale remittente che venisse dichiarato illegittimo tale provvedimento e condannata l’amministrazione al risarcimento del danno.

3.— Sempre in via preliminare, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato per mancanza di rilevanza della questione, sul presupposto che la giurisdizione sulla controversia in esame non spetterebbe al giudice ordinario, ma a quello amministrativo.

L’eccezione non è fondata.

In particolare, la difesa dello Stato rileva come – avendo il ricorrente chiesto nel giudizio a quo la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, che presuppone una valutazione della legittimità del provvedimento stesso – la relativa domanda avrebbe dovuto essere proposta davanti al giudice amministrativo.

Come è noto, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che «la inammissibilità delle questioni incidentali di legittimità costituzionale, sotto il profilo della carenza di giurisdizione del giudice a quo, può verificarsi solo quando il difetto di giurisdizione emerga in modo macroscopico e manifesto, cioè ictu oculi» (ex multis, sentenze n. 156 del 2007 e n. 144 del 2005).

Nel caso in esame – avuto riguardo a quanto previsto dall’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, che assegna alla cognizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto il conferimento e la revoca dell’incarico dirigenziale – non può ritenersi implausibile la motivazione con cui il giudice ordinario ha ritenuto la sua giurisdizione anche in relazione alle controversie risarcitorie connesse all’accertamento della illegittimità della “revoca” dell’incarico stesso.

4.— Nel merito, la questione è fondata.

5.— Al fine di chiarire la portata della disposizione impugnata, occorre, innanzitutto, sottolineare che l’art. 19 del citato d.lgs. n. 165 del 2001, contempla tre tipologie di funzioni dirigenziali, collocate in ordine decrescente di rilevanza e di maggiore coesione con l’organo politico.

Innanzitutto, sono previsti «gli incarichi di segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente»: si tratta delle attribuzioni dirigenziali “apicali”, conferite con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente (art. 19, comma 3).

Sono poi disciplinati «gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale», attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente (comma 4).

Infine, sono previsti gli incarichi di direzione degli altri uffici di livello dirigenziale, conferiti «dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale generale».

5.1.— I predetti incarichi possono poi essere conferiti a soggetti che si trovino in una particolare posizione rispetto all’amministrazione che attribuisce la relativa funzione.

In primo luogo, l’incarico può essere attribuito a personale inserito nel «ruolo dei dirigenti», istituito presso ciascuna amministrazione statale e articolato in due fasce (art. 23, del d.lgs. n. 165 del 2001).

In secondo luogo, le funzioni dirigenziali possono essere conferite, entro limiti percentuali predeterminati, «anche ai dirigenti non appartenenti ai ruoli di cui al medesimo articolo 23», purché dipendenti da altre amministrazioni pubbliche, vale a dire da amministrazioni dello Stato diverse da quelle nel cui ambito è collocato il posto da conferire (art. 19, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001).

Infine, è prevista la possibilità, sempre nel rispetto di soglie prefissate, che ciascuna amministrazione attribuisca la titolarità di uffici dirigenziali, a tempo determinato, fornendone esplicita motivazione, a «persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato» (art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato, da ultimo, dall’art. 40 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, recante «Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni»).

5.2.— Nel caso in esame, viene in rilievo un incarico di direzione di uffici di livello dirigenziale non generale, attribuito, ai sensi del predetto comma 6, dell’art. 19, a soggetto esterno all’amministrazione conferente, non dipendente, come dirigente, da altra amministrazione.

In relazione a tale tipologia di incarico, la norma impugnata contempla una ipotesi di spoils system transitorio, con interruzione ex lege del rapporto dirigenziale in corso ove l’interessato non sia confermato entro sessanta giorni dall’entrata in vigore dello stesso decreto-legge n. 262 del 2006.

È bene aggiungere che, con riferimento alle attribuzioni dirigenziali “esterne”, il comma 8, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal comma 159, del decreto-legge n. 262 del 2006, prevede anche una ipotesi di spoils system a regime, stabilendo che tali attribuzioni «cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo».

A tale ultimo proposito, va osservato che il citato art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009 ha abrogato la parte contenuta nel predetto comma 8 dell’art. 19, che ha esteso il sistema di spoils system a regime anche «al personale di cui al comma 5-bis, limitatamente al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23, e al comma 6». Tuttavia la predetta abrogazione, essendo successiva all’emanazione degli atti oggetto di censura nel processo a quo, non è idonea ad incidere sul quadro normativo rilevante nel presente giudizio.

5.3.— In definitiva, alla luce di quanto sin qui esposto, la questione sottoposta all’esame di questa Corte attiene alla conformità agli artt. 97 e 98 della Costituzione della norma che prevede un sistema di spoglie transitorio applicato a persone esterne all’amministrazione conferente, non dipendente, come dirigente, da altra amministrazione, al quale sia stata attribuita una funzione dirigenziale di livello non generale.

6.— Questa Corte ha già avuto modo di affermare, con la sentenza n. 103 del 2007, che la previsione di una cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali “interni” di livello generale víola, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i princípi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa».

6.1.— Con la sentenza n. 161 del 2008, inoltre, si è precisato che questi principi valgono anche in presenza di incarichi dirigenziali conferiti «al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».

In particolare, si è osservato come, in tali casi, la mancanza di un previo rapporto di servizio con l’amministrazione conferente non sia idonea ad incidere sulle regole di distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori dei dirigenti e conseguentemente sull’applicabilità dei principi costituzionali sopra richiamati. In altri termini, questa Corte ha rilevato la ininfluenza, sul piano funzionale, del fatto che l’atto di attribuzione di una determinata funzione dirigenziale ad un dirigente esterno, dipendente di altra amministrazione, e il correlato contratto individuale non si innestino su un rapporto di lavoro dirigenziale già esistente con la stessa amministrazione.

É bene inoltre aggiungere, richiamando quanto già sottolineato con la citata sentenza n. 161 del 2008, come la previsione di un potere di conferma entro sessanta giorni non sia anch’essa in grado, di per sé, di diversificare la fattispecie in esame rispetto a quella oggetto di scrutinio con la sentenza n. 103 del 2007 e conseguentemente il relativo regime giuridico. Il potere ministeriale di conferma non attribuisce, infatti, al rapporto dirigenziale in corso alcuna garanzia di autonomia funzionale, atteso che dalla mancata conferma la legge fa derivare la decadenza automatica senza alcuna possibilità di controllo giurisdizionale.

6.2.— Quanto sopra vale, per le medesime ragioni, anche quando l’incarico dirigenziale esterno, nella specie non generale, sia stato conferito non a dirigenti dipendenti da altre amministrazioni, ma a soggetti privi di status dirigenziale, che abbiano «particolare e comprovata qualificazione professionale», che non sia rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione, e che rientrino, quindi, nella categoria indicata specificamente nel comma 6, dell’art. 19 citato.

Anche, dunque, per la tipologia di incarichi che vengono in rilievo in questa sede – come questa Corte ha già avuto modo di affermare con le citate sentenze n. 161 del 2008 e n. 103 del 2007 – il rapporto di lavoro instaurato con l’amministrazione che attribuisce la relativa funzione deve essere «connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione».

Deve, pertanto, ritenersi, in continuità logica con quanto affermato dalle due suindicate pronunce, che anche la norma denunciata, prevedendo la immediata cessazione del rapporto dirigenziale alla scadenza del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto-legge n. 262 del 2006, in mancanza di riconferma, víoli, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i princípi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa».

Ciò in quanto la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso – in assenza di una accertata responsabilità dirigenziale – impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità ad un nuovo modello di azione della pubblica amministrazione, disegnato dalle recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, che misura l’osservanza del canone dell’efficacia e dell’efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita.

È necessario, pertanto, garantire, come questa Corte ha già chiarito, «la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato».

L’esistenza di una preventiva fase valutativa – ha puntualizzato la Corte con le suindicate sentenze – risulta essenziale anche per assicurare, specie dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), «il rispetto dei principi del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò anche al fine di garantire – attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall’organo politico – scelte trasparenti e verificabili, in grado di consentire la prosecuzione dell’attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell’azione amministrativa».

In definitiva, in presenza di tali incarichi – che devono essere sempre conferiti nel rigoroso rispetto delle condizioni prescritte dal comma 6, dell’art. 19, le quali impongono, tra l’altro, che «la professionalità vantata dal soggetto esterno non sia rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione» (sentenza n. 9 del 2010) – l’amministrazione stessa è tenuta a garantire la distinzione funzionale tra attività di indirizzo politico amministrativo e attività gestionale, in attuazione dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’azione dei pubblici poteri.

7.— Deve, pertanto, essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, per violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in cui dispone che gli incarichi conferiti al personale di cui al comma 6, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001 «conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, nella parte in cui dispone che gli incarichi conferiti al personale di cui al comma 6, dell’art. 19, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), conferiti prima del 17 maggio 2006, «cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alfonso QUARANTA , Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010.