Sentenza n. 253 del 2019

CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 253

ANNO 2019

 

Commenti alla decisione di

 

I. Marco Ruotolo, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, per g.c. di Sistema Penale

 

II. Silvia Talini, Presunzioni assolute e assenza di condotta collaborativa: una nuova sentenza additiva ad effetto sostitutivo della Corte costituzionale, in questa Rivista, Studi 2019/III, 729.

 

III. Silvia Bernardi, Per la Consulta la presunzione di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia è legittima solo se relativa: cade la preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis comma 1 ord. pen., per g.c. di Sistema Penale

 

IV. Andrea Pugiotto, La sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, per g.c. di Forum di Quaderni Costituzionali

 

V. Marco Cerase, La Corte costituzionale sui reati ostativi: una sentenza, molte perplessità, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

VI. Mario Chiavario, La sentenza sui permessi-premio: una pronuncia che non merita inquadramenti unilaterali, per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

VII. Antonia Menghini, La Consulta apre una breccia nell’art. 4 bis o.p. Nota a Corte cost. n. 253/2019, per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

VIII. Silvia Bernardi, Sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia: in margine a Corte cost., sentenza del 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

IX. Marta Mengozzi, Il meccanismo dell’ostatività alla sbarra. Un primo passo da Roma verso Strasburgo, con qualche inciampo e altra strada da percorrere (nota a Corte Cost., sent. n. 253 del 2019), per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

X. II. Andrea Pugiotto, Due decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, per g.c. di Rivista AIC

 

XI. Giuseppe Della Monica, La irragionevolezza delle presunzioni che connotano il modello differenziato di esecuzione della pena per i condannati pericolosi. Riflessioni a margine della sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, per g.c. di Diritti fondamentali.it

 

XII. Jessica Mazzuca, Reati ostativi e benefici premiali: l’emergere di un nuovo paradigma ermeneutico (Commento a C. Cost. 23 Ottobre2019, n. 253), per g.c. di Federalismi.it

 

XIII. Giacinto Cirioli, Bertoldo e la presunzione assoluta di pericolosità sociale: entrambi impiccati a una pianta di fragole? Un breve commento alla sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale, per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia con ordinanze del 20 dicembre 2018 e del 28 maggio 2019, rispettivamente iscritte ai nn. 59 e 135 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 17 e 34, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti gli atti di costituzione di S. C. e P. P., gli atti di intervento ad adiuvandum di M. D., dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e dell’Unione camere penali italiane, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2019 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi gli avvocati Ladislao Massari per M. D., Andrea Saccucci per l’Associazione Nessuno Tocchi Caino, Emilia Rossi per il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Vittorio Manes per l’Unione camere penali italiane, Valerio Vianello Accorretti per S. C., Mirna Raschi e Michele Passione per P. P. e gli avvocati dello Stato Marco Corsini e Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019), la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».

1.1.– Il collegio rimettente premette di essere investito del ricorso avente ad oggetto il provvedimento con cui il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila ha rigettato il reclamo proposto da S. C. avverso il decreto con il quale il magistrato di sorveglianza dell’Aquila aveva dichiarato inammissibile la richiesta di permesso premio avanzata dal medesimo condannato.

Espone il rimettente che il condannato si trova in espiazione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno per la durata di un anno, irrogatagli «per i delitti di associazione mafiosa, omicidio, soppressione di cadavere, porto e detenzione illegale di armi», eseguiti tra il 1996 e il 1998 «per agevolare l’attività» di un’associazione mafiosa, come desumibile dalla sentenza di condanna per i reati di omicidio, per i quali è stata applicata l’aggravante dei motivi abietti, «individuati nel fine di affermare l’egemonia e il prestigio della consorteria alla quale l’imputato era affiliato».

Precisa il giudice a quo che il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila ha ritenuto non concedibile il beneficio richiesto in quanto precluso dai titoli di reato, trattandosi di delitti tutti ricompresi nell’elenco dei reati ostativi ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – pur in assenza di una contestazione formale dell’aggravante speciale di cui all’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 – e non sussistendo condotte di collaborazione con la giustizia rilevanti ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., richiamato dal medesimo art. 4-bis.

Ricorda la Corte rimettente che l’art. 4-bis ordin. penit. stabilisce il divieto di concessione di benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia, sia per le ipotesi di reato previste dagli artt. 416-bis (Associazioni di tipo mafioso anche straniere) e 416-ter (Scambio elettorale politico-mafioso) del codice penale, sia per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.

Espone, quindi, che il condannato S. C. ha sostenuto, per quanto qui interessa, che «la preclusione assoluta stabilita dalla norma censurata» si porrebbe «in contrasto con la funzione rieducativa della pena costituzionalmente garantita», sia perché impedirebbe «il raggiungimento delle finalità riabilitative proprie del trattamento penitenziario», sia perché sarebbe «disarmonica rispetto ai principi affermati dall’art. 3 CEDU», invitando quindi la Corte di cassazione a sollevare questione di legittimità costituzionale, «dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen., con riferimento agli articoli 17, 18 e 22 cod. pen., per violazione degli artt. 27, comma terzo, 117 Cost., in relazione all’art. 3 CEDU».

1.2.– Ciò premesso, il collegio rimettente ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata in relazione all’art. 4-bis ordin. penit.

1.2.1.– In punto di rilevanza, ricorda come l’art. 30-ter ordin. penit., nel disciplinare la concessione dei permessi premio, considera decisivo l’apprezzamento di pericolosità sociale, ai fini dell’accoglimento o del rigetto della domanda di permesso premio, ed evidenzia che tale profilo «non è stato oggetto di specifica valutazione ad opera del Tribunale di sorveglianza che ha ritenuto impeditivo di un concreto esame il disposto normativo dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen.».

A giudizio del collegio a quo, tuttavia, ciò non priva di rilevanza la questione, «perché la rimozione dell’ostacolo costituito dalla presunzione assoluta di pericolosità sarebbe l’unico modo per consentire la rimessione al giudice del merito, come giudice del rinvio, del compito di verificare in concreto la ricorrenza dei presupposti richiesti dall’art. 30-ter Ord. Pen. per la concessione del beneficio, in particolare l’assenza di pericolosità sociale».

1.2.2.– In ordine alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, la Corte rimettente osserva, in primo luogo, che il tema della pericolosità sociale di indagati o imputati per reati di criminalità organizzata è già stato vagliato dalla giurisprudenza costituzionale in relazione ai criteri che devono orientare il giudice nell’applicazione delle misure cautelari personali previste dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale.

A tale proposito, viene richiamata la sentenza n. 57 del 2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori) convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui prevedeva, per coloro per i quali sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine a delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose, l’applicazione della custodia cautelare in carcere come unica misura adeguata a soddisfare le esigenze cautelari, senza fare salva – rispetto al concorrente esterno – l’ipotesi in cui fossero stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risultasse che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte con altre misure. Il collegio rimettente ricorda che, secondo la Corte costituzionale, le presunzioni assolute, ove limitative di diritti fondamentali, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali ovvero «se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» e che, al contempo, la possibile estraneità dell’autore di tali delitti a un’associazione mafiosa fa escludere che si sia sempre in presenza di un reato che presupponga la necessità di un vincolo di appartenenza alla consorteria considerata.

Il collegio rimettente richiama, altresì, la sentenza della Corte costituzionale n. 48 del 2015, che ha analogamente eliminato la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per gli imputati o indagati di concorso esterno in associazione mafiosa. Anche in tal caso, rammenta la Corte rimettente, secondo la giurisprudenza costituzionale non sarebbe ravvisabile, nei confronti del concorrente esterno, quel vincolo di adesione permanente al sodalizio mafioso necessario a legittimare, sul piano giurisdizionale, il ricorso esclusivo alla custodia cautelare in carcere, quale unico strumento idoneo a recidere i rapporti dell’indiziato con l’ambiente associativo, neutralizzandone la pericolosità.

In questo contesto, secondo il giudice a quo, l’art. 4-bis ordin. penit. si inserirebbe «problematicamente», dal momento che, in relazione alla concessione del permesso premio, «ne preclude l’accesso, in senso assoluto, a tutte le persone condannate per delitti ostativi che non hanno fornito una collaborazione con la giustizia rilevante ai sensi dell’art. 58-ter Ord. Pen.». Tale preclusione assoluta, «non distinguendo tra gli affiliati di un’organizzazione mafiosa» e gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dalla stessa norma, appare al rimettente confliggente con «l’incompatibilità costituzionale» delle presunzioni assolute di pericolosità sociale, quando applicate alle condotte illecite che non presuppongono l’affiliazione a un’associazione mafiosa, secondo i principi che sarebbero stati affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze in precedenza richiamate.

Il giudice a quo, ancora, richiama ulteriori pronunce della Corte costituzionale in materia di compatibilità tra il divieto di concessione dei benefici penitenziari previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., e i principi che governano l’esecuzione della pena. In particolare, evidenzia che, con la sentenza n. 239 del 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nella parte «in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge» nonché nella parte in cui «non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti». Per la Corte costituzionale, la scelta legislativa di accomunare nel regime detentivo prefigurato dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. fattispecie e misure alternative tra loro eterogenee sarebbe lesiva dei parametri costituzionali evocati (si trattava degli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost.), in quanto illogica rispetto all’obiettivo di incentivare la collaborazione processuale quale strategia di contrasto alla criminalità organizzata: la subordinazione dell’accesso ai benefici penitenziari a un effettivo ravvedimento del condannato sarebbe giustificata solo quando si discuta di misure alternative che mirano alla rieducazione del condannato e non quando «al centro della tutela si collochi un interesse "esterno” ed eterogeneo».

La Corte rimettente attribuisce «[a]nalogo rilievo ermeneutico» alla sentenza n. 76 del 2017, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, ordin. penit., limitatamente all’inciso «salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis», evidenziando, con riferimento alla detenzione domiciliare speciale di cui alla disposizione allora censurata, l’inammissibilità di presunzioni assolute che neghino l’accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare in concreto la pericolosità sociale e facendo ricorso a indici presuntivi che comportano «il totale sacrificio dell’interesse del minore».

Infine, il giudice a quo richiama la sentenza n. 149 del 2018, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit., nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen. che abbiano cagionato la morte del sequestrato, ribadendo i principi della progressività trattamentale e della flessibilità della pena «radicati nell’art. 27, comma terzo, Cost., che garantisce il graduale inserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale».

Tutto ciò premesso, la Corte rimettente espone che, che nel caso sottoposto al suo scrutinio, il condannato risulta ininterrottamente detenuto dal 27 giugno 1998 e ha sempre mantenuto un comportamento carcerario rispettoso del programma rieducativo attivato nei suoi confronti.

Per il giudice a quo, subordinare l’accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia, indistintamente per tutte le categorie di condannati per uno dei reati contemplati nell’elenco dell’art. 4-bis, ordin. penit., avrebbe «l’effetto di valorizzare la scelta collaborativa, come momento di rottura e di definitivo distacco dalle organizzazioni criminali, anche nei confronti di detenuti non inseriti in contesti associativi». Al contempo, se l’obiettivo prioritario della norma censurata è individuato nell’incentivazione alla collaborazione, quale strategia di contrasto della criminalità organizzata attraverso la rescissione definitiva dei legami con le associazioni di appartenenza, a giudizio del rimettente appare priva di ragionevolezza una disposizione che assimili condotte delittuose tanto diverse tra loro, precludendo ad una categoria così ampia e diversificata di condannati il diritto di ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione, senza che sia data al giudice la possibilità di verificare in concreto la permanenza o meno di condizioni di pericolosità sociale tali da giustificare percorsi penitenziari non aperti alla realtà esterna.

Il giudice a quo considera «dato consolidato» – conformemente alla costante giurisprudenza di legittimità – che la scelta di fornire un contributo collaborativo, rilevante ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., rappresenta, per un detenuto appartenente a una consorteria mafiosa, una manifestazione inequivocabile «del suo definitivo distacco dal sodalizio in cui gravitava». Ritiene però che non possa assumere «valore incontrovertibile e assurgere a canone valutabile in termini di presunzione assoluta, a prescindere dalle emergenze concrete», l’affermazione che la cessazione dei legami di un detenuto con il gruppo criminale di riferimento possa essere dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena, soltanto attraverso le condotte collaborative di cui all’art. 58-ter ordin. penit., dato che tale assunto non troverebbe «copertura» nella giurisprudenza costituzionale in precedenza illustrata che, «come ha bandito dal sistema le presunzioni assolute di pericolosità, così non può avallare la conclusione che la scelta collaborativa costituisca prova legale esclusiva di ravvedimento».

A parere del collegio rimettente, peraltro, la scelta del condannato all’ergastolo di non collaborare con la giustizia non risulterebbe univocamente dimostrativa dell’attualità della pericolosità sociale e non necessariamente implicherebbe la volontà di restare legato al sodalizio mafioso di appartenenza, potendo essere determinata anche da altri fattori, estranei al percorso rieducativo, quali: il «rischio per l’incolumità propria e dei propri familiari»; il «rifiuto morale di rendere dichiarazioni di accusa nei confronti di un congiunto o di persone legate da vincoli affettivi»; il «ripudio di una collaborazione di natura meramente utilitaristica».

I dubbi di costituzionalità aumentano, a parere del rimettente, se si considerano le peculiarità del permesso premio previsto dall’art. 30-ter ordin. penit, che possiede «una connotazione di contingenza che non ne consente l’assimilazione integrale alle misure alternative alla detenzione», perché non modifica le condizioni restrittive del condannato: soltanto rispetto a queste ultime le ragioni di politica criminale sottese alla «preclusione assoluta di cui all’art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen.», potrebbero apparire rispondenti alle esigenze di contrasto alla criminalità organizzata.

A parere del giudice a quo, in particolare, i permessi premio costituirebbero parte essenziale del trattamento rieducativo, sicché, ove non concessi a causa di una «presunzione di pericolosità non altrimenti vincibile», sarebbero compromesse le stesse finalità costituzionali della pena detentiva.

Tale tipologia di beneficio penitenziario, infatti, troverebbe fondamento anzitutto nella realizzazione di una finalità immediata, costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, caratterizzandosi «come strumento di soddisfazione di esigenze anche molto limitate seppure non rientranti nella portata meno ampia del permesso di necessità».

In ragione di questa peculiare funzione, il collegio rimettente ritiene che sussista la possibilità, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, di verificare in concreto «la mancanza di elementi significativi di collegamenti con la criminalità organizzata» o di accertare «addirittura» elementi denotanti «un significativo distacco dal sistema subculturale criminale».

Per la Corte di cassazione, del resto, «anche una concessione premiale per una finalità limitata e contingente potrebbe sortire l’effetto di incentivare il detenuto a collaborare con l’istituzione carceraria».

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Ad avviso della difesa statale, la questione sollevata sarebbe manifestamente infondata sotto più punti di vista.

Premette l’Avvocatura che, al fine di contrastare «l’odioso fenomeno della criminalità organizzata», il legislatore avrebbe stabilito di subordinare la concessione dei benefici per gli autori di tali delitti «ad una e una sola condizione»: che il condannato decida, quando sia materialmente possibile, di collaborare con la giustizia. Con tale disciplina speciale si sarebbe scelto di «divaricare nettamente la posizione dei "collaboratori” da quella degli "irriducibili”», privilegiando, per una serie di reati «tassativamente elencati», le finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività.

La soluzione prefigurata dall’art. 4-bis, ordin. penit., in ogni caso, non rappresenterebbe «un automatismo che opera incondizionatamente, in quanto la collaborazione del condannato restituisce al giudice i poteri di valutare discrezionalmente la sussistenza dei presupposti "normali” per accordare il permesso premio». In sostanza, il detenuto che ha collaborato verrebbe posto sullo stesso piano del condannato nei cui riguardi opera l’art. 30-ter, ordin. penit.

Si tratterebbe di una scelta discrezionale del legislatore connessa a valutazioni di politica criminale, secondo le quali l’unico mezzo con il quale il detenuto può dimostrare l’assenza di pericolosità – che nel caso di detenuti per delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., consiste nella persistenza di legami con la criminalità organizzata – è quello di scegliere la via della collaborazione.

In tal modo, a parere dell’Avvocatura, sarebbe stata incentivata la stessa collaborazione, che «nell’esperienza giudiziaria della storia nazionale» si sarebbe rivelata come «mezzo insostituibile» della ricerca della prova e del perseguimento dei responsabili.

A parere dell’interveniente, il rigore che connota il sistema delineato dall’art. 4-bis, ordin. penit., si applica anche ai permessi premio, «apparendo del tutto irrilevante la sua natura contingente piuttosto che di alternativa vera e propria alla pena detentiva», poiché la ratio della norma è quella «di evitare l’uscita dal carcere – anche solo per poche ore – di condannati verosimilmente ancora pericolosi, in particolare in ragione dei loro persistenti legami con la criminalità organizzata» (si cita la sentenza n. 149 del 2018). Lo stesso legislatore, «nel circoscrivere l’ambito oggettivo della preclusione», pur consapevole delle diversità strutturali, affianca espressamente i permessi premio alle misure alternative alla detenzione, per l’esigenza di evitare che i condannati per tali reati siano rimessi, anche solo temporaneamente, in libertà.

Secondo l’Avvocatura, la stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe ritenuto che «la collaborazione con la giustizia assuma "non irragionevolmente, la diversa valenza di criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che a sua volta è condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale ed i risultati del percorso di rieducazione e di recupero del condannato”» (sentenza n. 273 del 2001). La scelta collaborativa sarebbe stata assunta dal legislatore a criterio legale di valutazione del comportamento del detenuto, rappresentando una condotta necessaria ai fini dell’accertamento del «sicuro ravvedimento» del condannato.

Dunque, l’opzione legislativa sarebbe frutto di un potere discrezionale in materia di politica penitenziaria, come tale sindacabile nei soli limiti in cui risulti esercitato in modo arbitrario. A tale proposito, l’Avvocatura generale richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 306 del 1993, secondo cui «certamente risponde all’esigenza di contrastare una criminalità organizzata aggressiva e diffusa la scelta del legislatore di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia».

3. – In data 13 maggio 2019 si è costituito in giudizio S. C., parte ricorrente nel giudizio a quo, per chiedere l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale, sviluppando gli argomenti già esibiti nell’ordinanza della Corte di cassazione.

Secondo S. C., inoltre, la disposizione censurata violerebbe non soltanto gli artt. 3 e 27 Cost., ma anche l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (viene citata la sentenza della Grande Camera 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito).

3.1.– In data 1° ottobre 2019 S. C. ha depositato una memoria in cui ribadisce quanto sostenuto nell’atto di costituzione, in particolare in merito alle caratteristiche peculiari del permesso premio in relazione agli altri benefici penitenziari, ai quali ultimi non potrebbe essere omologato, pena la violazione dei principi costituzionali evocati.

La parte richiama, inoltre, la sentenza pronunciata dalla Corte EDU il 13 giugno 2019, nel caso Viola contro Italia, di cui vengono riprodotti ampi stralci di motivazione.

Aggiunge la parte che appare «inammissibile» che il «diritto di non collaborare», garantito processualmente come espressione del principio nemo tenetur se detegere, possa trasformarsi in fase esecutiva in un vero e proprio dovere, necessario per poter usufruire di «strumenti che dovrebbero essere invece gli ordinari risultati della partecipazione proficua al trattamento penitenziario».

Infine, la parte reputa «certamente discutibile» che una condotta di tipo meramente utilitaristico sia proposta dallo stesso legislatore come requisito per evitare il «danno aggiuntivo» della preclusione ai benefici, trasformandosi così in «una vera e propria costrizione», ricordando che la Corte costituzionale ha di recente affermato (è richiamata l’ordinanza n. 117 del 2019) che il diritto a mantenere il silenzio da parte degli imputati o condannati costituisce un «corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost.».

4.– In data 30 aprile 2019 il detenuto M. D. ha depositato atto di intervento ad adiuvandum, sostenendo di avere uno specifico interesse ad intervenire nel giudizio attesa la posizione processuale di «perfetta sovrapponibilità» rispetto a quella di S. C., trovandosi in esecuzione – da oltre ventisette anni – della pena dell’ergastolo cosiddetto ostativo, con diniego di accesso alle misure alternative alla detenzione, in assenza di collaborazione con la giustizia. M. D., in data 19 settembre 2019, ha depositato una memoria per riaffermare il suo interesse qualificato connesso alla circostanza che la Corte di cassazione, nel giudizio che lo riguarda (celebrato innanzi alla medesima sezione che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale da cui origina il giudizio r.o. n. 59 del 2019), ha disposto il rinvio della trattazione in attesa della «decisione della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’art. 4 bis ord. pen. – per quanto riguarda la concedibilità dei permessi premio per il detenuto non collaborante».

Ha concluso, dunque, per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione, sezione prima penale.

5.– In data 13 maggio 2019 ha depositato atto di intervento ad adiuvandum l’associazione Nessuno Tocchi Caino, argomentando di essere «portatrice di un interesse "qualificato” nella questione relativa alla legittimità costituzionale» prospettata, in quanto associazione senza fini di lucro fondata con lo scopo di condurre una campagna volta a far abrogare in tutto il mondo le norme che prevedono la pena di morte ovvero che costituiscono «una sorta di pena di morte "mascherata”», come l’ergastolo cosiddetto ostativo previsto dall’art. 4-bis, ordin. penit. In vista dell’udienza pubblica del 22 ottobre 2019, l’associazione ha depositato, in data 1° ottobre 2019, una memoria in cui richiama e sviluppa gli argomenti già esibiti nell’atto di costituzione, con la quale si chiede l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione, sezione prima penale.

6.– Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».

6.1.– Il collegio rimettente premette di essere investito del ricorso avverso il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha dichiarato inammissibile l’istanza diretta ad ottenere un permesso premio ai sensi dell’art. 30-ter, ordin. penit. avanzata da P. P., in espiazione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno in relazione ad un provvedimento di cumulo comprendente condanne tutte per delitti rientranti nel disposto dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., perciò ostative alla concessione del permesso richiesto.

Aggiunge che la difesa del condannato ha, quindi, proposto reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza rimettente, chiedendo la sospensione della decisione in attesa della pronuncia sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, con l’ordinanza 20 dicembre 2018.

6.2.– Ciò posto, il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha ritenuto di sospendere il procedimento per sollevare, a sua volta, le questioni di legittimità costituzionale innanzi descritte.

6.2.1.– Il giudice a quo ripercorre, richiamandoli integralmente, anche con riferimento alla citazione della giurisprudenza costituzionale ritenuta pertinente, i passaggi essenziali dell’ordinanza con cui la prima sezione penale della Corte di cassazione (r.o. n. 59 del 2019) ha sollevato le innanzi illustrate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., sia perché dichiara di condividerli, sia «per evidenziarne tratti di non completa sovrapponibilità» con la fattispecie sottoposta al suo scrutinio, ma che pure ritiene di sottoporre all’esame della Corte costituzionale.

Ancora con riferimento al profilo della rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente evidenzia che, in entrambi i procedimenti da cui sono scaturite le questioni oggi all’esame della Corte costituzionale, viene in rilievo la richiesta di un condannato alla pena dell’ergastolo di fruire di un permesso premiale, rigettata dal magistrato di sorveglianza competente – e, nel caso vagliato dalla Corte di cassazione, con decisione confermata in sede di reclamo dal Tribunale di sorveglianza – poiché soltanto la scelta di collaborare con la giustizia, «invece non avvenuta, potrebbe comportare la fuoriuscita dal regime di assoluta ostatività».

Ne consegue che nessuna valutazione può essere condotta in concreto sulla pericolosità sociale del condannato, perché «la magistratura di sorveglianza deve, di fronte a tale assoluta ostatività, dichiarare soltanto l’inammissibilità dell’istanza, con la conseguenza della rilevanza per il giudizio sottopostole della questione di legittimità costituzionale prospettata che, in caso di accoglimento, consentirebbe la rimessione al giudice del merito, come giudice di rinvio, con il compito di verificare l’eventuale meritevolezza del beneficio premiale».

Per il rimettente, in sostanza, soltanto l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della «preclusione assoluta» alla concessione del permesso premio consentirebbe al tribunale di sorveglianza «di non provvedere con rigetto del reclamo per inammissibilità dell’istanza di permesso premio e di vagliarne invece la meritevolezza nel caso concreto», e cioè di verificare se sussistano i requisiti di merito indicati nell’art. 30-ter ordin. penit. in ordine al mantenimento di una regolare condotta da parte del condannato nel corso della sua detenzione nonché, trattandosi di condannato per delitti compresi nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., di accertare «il requisito dell’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata».

Il giudice a quo, in ogni caso, riferisce che il reclamante è ininterrottamente detenuto dal marzo 1995, sicché ha «vissuto oltre ventiquattro anni di pena effettiva», fruendo di 2160 giorni di liberazione anticipata per aver partecipato all’opera rieducativa condotta nei suoi confronti, e soddisfa dunque l’altro requisito di ammissibilità (raggiunto nell’anno 2005) per la concessione di un permesso premio al condannato alla pena dell’ergastolo, consistente nell’aver espiato la quota di pena di almeno dieci anni indicata dall’art. 30-ter, comma 4, lettera d), ordin. penit.

6.2.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che, sebbene si tratti in entrambi i casi di condannati all’ergastolo per reati ricompresi nell’elenco dell’art. 4-bis, ordin. penit., che hanno chiesto di ottenere un permesso premio, la posizione all’esame del Tribunale di sorveglianza di Perugia differisce da quella esaminata dalla Corte di cassazione, poiché il ricorrente è stato condannato per delitti commessi al fine di agevolare il gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis cod. pen. del quale è stato riconosciuto partecipe, con ruolo sviluppatosi nel corso del tempo nelle diverse vicende criminose che lo hanno visto protagonista.

Tuttavia, ritiene il rimettente che anche la situazione del condannato ricorrente nel giudizio a quo «meriti un vaglio circa la pericolosità sociale realizzato in concreto dal competente magistrato di sorveglianza e non precluso assolutamente», come invece accade in ragione della disposizione di ordinamento penitenziario della cui legittimità costituzionale si dubita.

Grande rilievo viene attribuito alla giurisprudenza della Corte costituzionale relativa al superamento degli automatismi e delle preclusioni assolute per la concessione dei benefici penitenziari alle detenute madri di prole in tenera età (sentenza n. 239 del 2014) e ai condannati alla pena dell’ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione che abbiano cagionato la morte del sequestrato (sentenza n. 149 del 2018). Pronunce di cui vengono riprodotti ampi passaggi, seguendo la traccia della motivazione disegnata dalla Corte di cassazione nel sollevare le analoghe questioni in precedenza illustrate.

Il rimettente sottolinea in modo particolare che, in materia di permessi premio, «i dubbi si accrescono», alla luce della peculiarità del beneficio, per ottenere il quale sono sufficienti requisiti diversi e meno pregnanti del ravvedimento, richiesto per ottenere la liberazione condizionale (fattispecie scrutinata in passato dalla Corte costituzionale «rispetto alle ostatività dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.»: è richiamata la sentenza n. 135 del 2003), e della sua «necessità» per favorire ulteriori progressioni trattamentali e soddisfare esigenze di cura di interessi affettivi, culturali o lavorativi.

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ritiene, dunque, di condividere i dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. già espressi dalla Corte di cassazione con l’ordinanza in precedenza ampiamente illustrata e di cui riporta ampi stralci, estendendo però la questione di legittimità costituzionale «alla preclusione alla possibilità di essere ammesso alla fruizione di un permesso premio per il condannato alla pena dell’ergastolo che abbia commesso delitti con la finalità di agevolazione di un gruppo criminale ex art. 416-bis cod. pen. del quale sia stato riconosciuto partecipe».

Anche in relazione a tale posizione, infatti, il giudice a quo dubita che sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost. «l’elevazione della collaborazione con la giustizia a prova legale del venir meno della pericolosità sociale del condannato», impedendo che la magistratura di sorveglianza vagli nel caso concreto la sussistenza di tale «comportamento (di sicura centrale importanza), ma al fianco di altri che possono avere particolare importanza». Ricorda il rimettente, del resto, che anche oggi, pur in presenza di una condotta di collaborazione rilevante ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., il tribunale di sorveglianza è chiamato a verificare in concreto l’evoluzione personologica del condannato e anche le ragioni che lo hanno condotto alla collaborazione, sicché, con la proposizione delle questioni di legittimità costituzionale in esame, si chiede «che ciò possa farsi anche per l’opzione opposta», al fine di valutare nel caso concreto le ragioni che hanno indotto l’interessato a mantenere il silenzio.

A quest’ultimo proposito, ricorda ancora il Tribunale di sorveglianza di Perugia che il diritto a mantenere il silenzio è stato di recente scrutinato, pur su altra materia, dalla Corte costituzionale (è citata l’ordinanza n. 117 del 2019), che lo avrebbe considerato principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale e descritto come «corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost.», in quanto tale «appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana», quando le proprie dichiarazioni possano rivelarsi autoaccusatorie, sicché esso entrerebbe «in significativa frizione con un meccanismo che impedisce l’accesso a ogni misura extramuraria se non vi si rinuncia». Per questo motivo, sarebbe necessario poter valutare le ragioni che, «anche al di là delle propalazioni autoaccusatorie», incidono sulla scelta di non collaborare attivamente, quali: i timori per la propria e l’altrui incolumità, in particolare di congiunti e familiari che, ad esempio, non possano sradicarsi dai luoghi di origine in cui furono commessi i reati; il rifiuto di causare la carcerazione di altri, con i quali, ancora in via esemplificativa, si abbia o si sia avuto un legame familiare o affettivo; il rifiuto di accedere alla collaborazione perché non si vuole essere tacciati di averlo fatto soltanto per calcolo utilitaristico, per una riduzione di pena o per ottenere un beneficio penitenziario.

Inoltre, il giudice a quo ritiene che il comma 1 dell’art. 4-bis, ordin. penit., non distinguendo tra i differenti benefici penitenziari, non consenta di valutare le peculiarità di ciascun istituto, richiedendo, piuttosto, la collaborazione tanto come prova necessaria per dimostrare il ravvedimento del condannato (requisito proprio della sola liberazione condizionale), quanto per un permesso premio che presuppone, invece, «la più modesta regolare condotta».

Nella prospettiva del rimettente, il permesso premio costituisce uno «strumento fondamentale» per consentire al condannato di progredire «nel senso di responsabilità e nella capacità di gestirsi nella legalità», e allo stesso magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacità di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale.

Anzi, proprio la possibilità di fruirne nel tempo e con regolarità, «in assenza di eventuali involuzioni comportamentali», potrebbe far emergere «un sempre più convinto allontanamento dal sistema di vita criminale in precedenza abbracciato», producendo uno «sradicamento da eventuali contesti sociali controindicati», stimolando condotte collaborative e fungendo da «sprone verso il reinserimento», necessariamente prodromico alla concessione di misure alternative.

Sotto una diversa angolazione, il rimettente evidenzia che il permesso premio persegue anche l’obbiettivo peculiare di «garantire all’interessato l’esercizio pieno di diritti, altrimenti legittimamente compressi dalla condizione detentiva», e in particolare il mantenimento o il ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni, anche intime, con la famiglia. Per il rimettente, considerazioni legate alla pericolosità sociale individuale del condannato «ben possono, e debbono, condurre al rigetto di un beneficio premiale», che le esigenze da ultimo illustrate potrebbe soddisfare, ma la sussistenza di una preclusione assoluta, sganciata da una valutazione del caso concreto «e nel tempo comunque rivedibile», appare «maggiormente stridente a fronte dei diritti fondamentali compressi», anche tenuto conto degli interessi «esterni ed eterogenei», costituiti dalle aspirazioni al mantenimento dell’unità familiare da parte del coniuge o convivente e dei figli, ma anche dei genitori di età avanzata.

Ancora, l’ordinanza di rimessione concede ampio spazio alle affermazioni di principio – in tema di progressività trattamentale e flessibilità della pena – contenute nella sentenza n. 149 del 2018 della Corte costituzionale, di cui vengono riportati numerosi passaggi motivazionali, per evidenziare come l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. svuoterebbe di significato anche la disciplina della liberazione anticipata, che nel caso di condannato all’ergastolo ha come effetto principale quello di anticipare i termini per la concessone dei singoli benefici, rappresentando uno stimolo per il detenuto a partecipare al programma rieducativo: nel caso di ergastolo ostativo si avrebbe, infatti, un reale disincentivo a partecipare al trattamento, non potendo il condannato in alcun modo avvantaggiarsene, neppure per anticipare il momento di fruizione di benefici extramurari.

Il rimettente è ben consapevole che la posizione soggettiva del reclamante nel giudizio principale è quella di un «intraneo ad un gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis cod. pen.», autore di omicidi volti a consentirne la sopravvivenza e agevolarne gli scopi illeciti, e che, dunque, si tratta di un soggetto per il quale «è particolarmente rilevante l’eventuale collaborazione con la giustizia che, secondo regole di esperienza trasfuse in una costante giurisprudenza», di legittimità e costituzionale, costituisce «la più forte prova della rescissione del vincolo associativo e dunque del venir meno della pericolosità sociale dell’interessato». Ritiene, tuttavia, che, anche in tal caso, nella peculiare fase dell’esecuzione penale, la preclusione assoluta alla concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa, si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., poiché impedisce «il vaglio di altri elementi che nel caso concreto potrebbero condurre ugualmente ad un giudizio di cessata pericolosità sociale e di meritevolezza dell’invocato beneficio», secondo un giudizio individualizzato e costantemente attualizzato, nel rispetto dei principi di umanizzazione e funzione rieducativa delle pene.

Secondo il collegio rimettente, dalla stessa giurisprudenza costituzionale immediatamente successiva all’introduzione dell’assoluta ostatività di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. (sono richiamate le sentenze n. 137 del 1999, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995), emergerebbe la «consapevolezza» che l’opzione utilizzata dal legislatore, «espressione di una scelta di politica criminale», abbia comportato una «rilevante compressione della finalità rieducativa della pena», con una tendenza alla configurazione di «tipi d’autore per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (è richiamata la sentenza n. 306 del 1993). Da allora, però, la Corte costituzionale avrebbe continuato nell’opera di disvelamento del «volto costituzionale della pena», passando, con riferimento alla finalità rieducativa della stessa, da una lettura che collocava tale finalità paritariamente tra le altre, di prevenzione generale e difesa sociale, alla considerazione che la particolare gravità del reato commesso, con la connessa esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati, non possano, nella fase di esecuzione della pena, «operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima» (è richiamata, ancora, la sentenza n. 149 del 2018, di cui viene sottolineato, in particolare, il passaggio argomentativo relativo al «principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»).

Per il giudice a quo, risulterebbero «[c]ompatibili con il quadro costituzionale» soltanto valutazioni individualizzate, «che accolgano l’elemento della collaborazione con la giustizia quale segnale eminente della rescissione del vincolo con il contesto criminale organizzato di appartenenza, ma non esclusivo», in modo da garantire alla magistratura di sorveglianza lo spazio per un vaglio «approfondito e globale» del percorso rieducativo eventualmente condotto dal richiedente i benefici penitenziari, alla luce della peculiarità della fase dell’esecuzione penale, che si sviluppa in un tempo che progressivamente si allontana dal reato e, mediante gli effetti del trattamento penitenziario, consente di «verificare l’evoluzione personologica del condannato a partire dai pur gravissimi fatti commessi», peraltro a notevole distanza temporale da questi ultimi, tenuto conto dei lunghi tempi previsti dal legislatore per un simile riesame.

7.– Anche nel giudizio r.o. n. 135 del 2019 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.

L’Avvocatura, oltre a richiamare quanto sostenuto nel proprio atto di intervento nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, osserva, per sostenere il difetto di rilevanza della questione, che il condannato non ha mai addotto a sostegno della sua mancata collaborazione con la giustizia nessuna delle ragioni astrattamente ipotizzate nella ordinanza di rimessione come possibili motivazioni del suo silenzio. Anzi, emergerebbe dagli atti richiamati anche dal giudice rimettente che il condannato avrebbe chiesto che la possibile collaborazione venisse dichiarata impossibile o inesigibile, ma che tale richiesta sarebbe stata rigettata con motivata ordinanza del tribunale di sorveglianza nell’anno 2012.

Secondo l’Avvocatura generale, dunque, se pure è vero che la rimozione della preclusione, attualmente disposta dall’art. 4-bis, ordin. penit., potrebbe consentire al condannato di fruire di un permesso premio, previa valutazione da parte del tribunale di sorveglianza dell’evoluzione della sua personalità, è vero anche che l’ordinanza non spiega quali siano i motivi «in ordine all’effettiva concreta sussistenza, nella vicenda de qua, di quelle ragioni alternative, rispetto alla collaborazione richiesta dall’art. 4 bis primo comma Ord. Pen., che, ad avviso del Giudice rimettente, non consentirebbero di ritenere la mancata collaborazione idonea a rivelare – di per sé solo – la perdurante pericolosità sociale del soggetto».

Ritiene ancora l’Avvocatura generale che la disciplina censurata riguarderebbe «scelte di opportunità in materia di politica penitenziaria», su cui la Corte costituzionale non potrebbe incidere, rientrando esse nella discrezionalità riservata al legislatore, ove non esercitata in modo arbitrario. A questo proposito viene richiamata la sentenza n. 306 del 1993, che avrebbe esplicitato le ragioni di politica criminale che stanno alla base della scelta legislativa, allora ritenuta dalla Corte non in conflitto con l’art. 27 Cost. (vengono citate altresì le sentenze n. 135 del 2001, n. 68 del 1995 e n. 357 del 1994).

L’Avvocatura conclude affermando che la scelta del legislatore di subordinare per i condannati per delitti particolarmente gravi l’accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia, quale unica forma di superamento della presunzione di pericolosità sociale, non appare viziata da irragionevolezza o contrastante con il principio rieducativo della pena, per cui un eventuale intervento della Corte, incidendo su valutazioni affidate alla discrezionalità del legislatore, «risulterebbe eccedente rispetto ai poteri alla stessa attribuiti».

8.– In data 9 settembre 2019 si è costituito in giudizio il detenuto P. P., ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni prospettate.

La parte ripercorre, condividendolo, il percorso motivazionale dell’ordinanza di rimessione ed evidenzia che, successivamente al deposito della stessa, è stata pronunciata dalla Corte EDU la sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia, di cui richiama i contenuti e che viene definita «quasi-pilota, considerati i numeri e il dato strutturale dell’ergastolo ostativo».

P. P. chiede, inoltre, alla Corte «di valutare l’opportunità di estendere la sua pronuncia, ex art. 27, L. n. 87 del 1953, all’art. 4 bis, comma 1, o. p., nella parte in cui subordina alla collaborazione utile ed esigibile con la giustizia l’accesso alle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI dell’o.p. (e tra esse, la liberazione condizionale, secondo il consolidato diritto vivente)».

8.1.– In data 1° ottobre 2019, la parte ha depositato una memoria in cui evidenzia, in risposta al rilievo dell’Avvocatura generale dello Stato per cui il detenuto non avrebbe esplicitato le ragioni della mancata collaborazione, che il Tribunale di sorveglianza di Perugia, nel sollevare le questioni di legittimità costituzionale, ha richiamato l’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019 sulla inviolabilità del diritto di difesa e del diritto al silenzio, sottolineando che non poteva pretendersi dal condannato la violazione del principio nemo tenetur se detegere.

Richiama poi il percorso del programma trattamentale tracciato per il detenuto, insieme ai risultati conseguiti, dai quali ultimi il giudice potrebbe valutare, una volta superata la preclusione di legge, l’effettiva persistenza, o non, della pericolosità del condannato.

Contesta, poi, la deduzione dell’Avvocatura generale, secondo cui l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra detenuti condannati all’ergastolo e detenuti condannati, per i medesimi titoli di reato, a pene temporanee, sostenendo che spetterebbe al legislatore individuare gli opportuni rimedi (come già riconosciuto dalla sentenza n. 149 del 2018).

La parte conclude ritenendo che alcun sostegno potrebbe apportare alla tesi dell’Avvocatura generale dello Stato la (pur da quest’ultima richiamata) sentenza n. 188 del 2019, che, nell’evidenziare la disomogeneità delle scelte di politica criminale che, nel corso del tempo, hanno ampliato il catalogo delle fattispecie ostative per finalità di prevenzione generale, si sarebbe limitata a scattare «una fotografia dell’attuale situazione normativa». In ogni caso, evidenzia la parte, vi sarebbe differenza tra «il rimuovere una fattispecie dai delitti di prima fascia (l’art. 630 c.p., ove sia stata ritenuta l’ipotesi gradata […]) e, invece, rimuovere una preclusione assoluta per l’accesso ai benefici».

9.– Nel giudizio è intervenuto, con atto del 4 settembre 2019, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, assumendo, in primo luogo, di essere titolare di un interesse qualificato, tale da integrare il requisito richiesto dalla giurisprudenza costituzionale per ammettere l’intervento in giudizio.

In ordine alla titolarità di un interesse qualificato, il Garante nazionale rappresenta di essere stato istituito per «la necessità di rafforzare la tutela dei diritti delle persone detenute» ed è caratterizzato da «specifici requisiti di autonomia e indipendenza nonché di competenza riservata nelle discipline concernenti i diritti umani e la loro tutela». Sempre allo stesso scopo, vengono richiamati i compiti espressamente attribuiti dalla legge istitutiva.

L’interveniente conclude per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, associandosi alla richiesta, avanzata dalla parte P. P., di estendere la pronuncia di accoglimento all’art. 4-bis, ordin. penit., nella parte in cui subordina alla collaborazione utile ed esigibile con la giustizia l’accesso alle misure alternative alla detenzione.

10.– Nel giudizio è intervenuta, infine, l’Unione camere penali italiane (UCPI), con atto depositato in data 10 settembre 2019, assumendo di essere titolare di un interesse specifico e qualificato ad intervenire quale soggetto terzo nel giudizio, in quanto associazione rappresentativa dell’avvocatura penale che ha come scopo statutario quello di «promuovere la conoscenza, la diffusione, la concreta realizzazione e la tutela dei valori fondamentali del diritto penale e del giusto processo», nonché di «vigilare sulla corretta applicazione della legge».

L’UCPI ha concluso chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia.

In data 1° ottobre 2019, l’UCPI ha depositato una memoria in cui ha sviluppato gli argomenti in base ai quali ha rivendicato la sussistenza di un interesse specifico e qualificato ad intervenire quale soggetto terzo nel giudizio a quo.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019), la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».

Il giudice rimettente ritiene, in primo luogo, che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. violi l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza. Esso conterrebbe, infatti, una «preclusione assoluta» di accesso ai benefici penitenziari, e in particolare al permesso premio, per il condannato – non collaborante con la giustizia – per reati cosiddetti di "contesto mafioso”, che non presuppongono l’affiliazione ad una associazione mafiosa. Tale preclusione impedirebbe al magistrato di sorveglianza qualunque valutazione in concreto sulla pericolosità del condannato, determinando in limine l’inammissibilità di ogni richiesta di quest’ultimo di accedere ai benefici penitenziari.

La Corte di cassazione opera un richiamo alla giurisprudenza di questa Corte sugli "automatismi” nell’applicazione delle misure cautelari personali, secondo la quale la presunzione di pericolosità, che impone l’applicazione della misura custodiale in carcere, trova giustificazione – sulla base di dati d’esperienza generalizzati, riassumibili nella formula dell’id quod plerumque accidit – solo per l’affiliato all’associazione mafiosa, ma la stessa giustificazione non trova in relazione ai condannati per reati che tale affiliazione non presuppongono.

Trasponendo questa giurisprudenza alla fase dell’esecuzione della pena, ritiene, appunto, irragionevole la «preclusione assoluta» contenuta nella disposizione censurata, poiché essa non consentirebbe di distinguere tra gli affiliati a un’organizzazione mafiosa, da una parte, e, dall’altra, gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dalla stessa norma.

L’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non si baserebbe, per questo aspetto, su dati d’esperienza generalizzati, riassumibili nella formula dell’id quod plerumque accidit, e perciò impedirebbe incongruamente al magistrato di sorveglianza di svolgere una valutazione in concreto sulla pericolosità del condannato che richiede il permesso premio.

In secondo luogo, il rimettente ritiene violato l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata frustrerebbe, impedendo in radice al condannato l’accesso ai benefici penitenziari, gli obiettivi di risocializzazione evocati dal parametro costituzionale in questione, anche in virtù dei principi della progressività trattamentale e della flessibilità della pena (sono evocate, in particolare, le sentenze n. 149 del 2018, n. 76 del 2017 e n. 239 del 2014 di questa Corte).

Infine – premesse considerazioni critiche sul rilievo attribuito dalla disposizione censurata alla scelta di collaborare con la giustizia quale «prova legale esclusiva di ravvedimento», e soprattutto dell’assenza di pericolosità sociale del condannato – il giudice a quo ritiene che i dubbi di legittimità costituzionale sollevati aumentino «sol che si considerino le peculiarità del permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen.», finalizzato alla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, la concessione del quale è legata a valutazioni del tutto specifiche.

2.– Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha a sua volta sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».

Chiamato a decidere il reclamo di un detenuto condannato alla pena dell’ergastolo per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per vari delitti di "contesto mafioso”, al quale il magistrato di sorveglianza aveva negato la concessione di un permesso premio in assenza di collaborazione con la giustizia, il rimettente dubita che l’obbligo di collaborare con la giustizia per poter accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario (e, in particolare, ai permessi premio) sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost., a prescindere dal tipo di reato commesso dal detenuto.

Trovandosi al cospetto di un condannato, oltre che per reati di "contesto mafioso”, anche per il delitto di associazione mafiosa, il giudice a quo segue un percorso argomentativo diverso da quello dell’ordinanza illustrata in precedenza.

Ritiene infatti il Tribunale di sorveglianza di Perugia che, anche nel caso dell’associato ex art. 416-bis cod. pen., nella peculiare fase dell’esecuzione penale, la preclusione assoluta alla concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa, collida con i principi costituzionali deducibili dagli artt. 3 e 27 Cost., poiché impedirebbe il vaglio di elementi che, in concreto, potrebbero condurre ugualmente a un giudizio, individualizzato e attualizzato, di cessata pericolosità sociale.

Osserva che non si comprende per quale motivo sia precluso al giudice di sorveglianza, chiamato a verificare l’evoluzione del detenuto, di verificare, in concreto, «le ragioni che hanno indotto l’interessato a non collaborare, cioè a mantenere il silenzio», evocato non quale mero atteggiamento, ma nel suo significato di diritto inviolabile a non accusare sé stessi (è richiamata l’ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte).

Analogamente all’ordinanza della Corte di cassazione, il rimettente evidenzia inoltre come la finalità rieducativa della pena sarebbe vanificata dall’impossibilità di ottenere permessi premio, i quali costituiscono «uno strumento fondamentale per consentire al condannato di progredire nel senso di responsabilità e di capacità di gestirsi nella legalità, e al magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacità di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale» (sono richiamate le sentenze n. 149 del 2018 e n. 403 del 1997 di questa Corte). I permessi premio, ricorda il rimettente, consentono anche «l’esercizio pieno di diritti», tra i quali «il mantenimento o il ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni con la famiglia».

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia sottolinea, quindi, con ulteriore richiamo alla sentenza n. 149 del 2018, che la disposizione colliderebbe con l’art. 27 Cost. anche perché l’impossibilità di ottenere un qualsiasi beneficio premiale in assenza di collaborazione costituirebbe un disincentivo alla stessa partecipazione del condannato al percorso rieducativo connesso al trattamento penitenziario, con evidente mortificazione degli obiettivi che la norma costituzionale si pone.

Infine – anche su questo aspetto distinguendosi dall’ordinanza della Corte di cassazione – il rimettente sottolinea la peculiarità dell’esecuzione penale rispetto alla fase cautelare: mentre quest’ultima potrebbe infatti tollerare qualche presunzione, la prima, sviluppandosi lungo un arco temporale più esteso, richiederebbe una valutazione costante dell’evoluzione personologica del condannato, che tenga conto del trascorrere del tempo e della distanza dal reato commesso.

3.– Sebbene presentino profili di parziale differenziazione nei percorsi argomentativi, le due ordinanze di rimessione censurano la stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali. I relativi giudizi vanno perciò riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia.

4.– In via preliminare, va confermata l’ordinanza dibattimentale allegata alla presente sentenza, che ha dichiarato inammissibili tutti gli interventi spiegati da soggetti diversi dalle parti dei giudizi principali.

5.– Sempre in via preliminare, devono essere correttamente definiti il thema decidendum e i termini delle questioni di legittimità costituzionale portate all’attenzione di questa Corte dalle ordinanze di rimessione illustrate.

5.1.– In primo luogo, nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, la parte S. C. ha prospettato, nell’atto di costituzione, anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Trattasi, però, di censura che il collegio rimettente non ha inteso proporre nell’atto di promovimento. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non possono essere presi in considerazione ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti dalle parti oltre i limiti dell’ordinanza di rimessione; e ciò, sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il thema decidendum, una volta che le parti si siano costituite nel giudizio incidentale di costituzionalità (ex multis, da ultimo, sentenze n. 226, n. 206, n. 141, n. 96 e n. 78 del 2019).

Di tale censura questa Corte non deve perciò occuparsi.

5.2.– In secondo luogo, le questioni di legittimità costituzionale sollevate non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la CEDU si è, di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia.

Questo sarebbe stato l’oggetto delle presenti questioni se le ordinanze di rimessione avessero censurato – oltre che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – anche la previsione contenuta nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, che, richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni effettivi di carcere, così trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto.

Le questioni di legittimità costituzionale ora in esame attengono, invece, non alla condizione di chi ha subito una condanna a una determinata pena, bensì a quella di colui che ha subito condanna (all’ergastolo, in entrambi i giudizi a quibus) per reati cosiddetti ostativi, in specie i delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416-bis cod. pen., e quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste.

Infatti, è portato all’attenzione di questa Corte l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., ai sensi del quale la condanna per i delitti che esso elenca – si tratti di condanna a pena perpetua oppure a pena temporanea – impedisce l’accesso ai benefici penitenziari, e in special modo al permesso premio, in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. (secondo cui l’utile collaborazione, anche dopo la condanna, consiste nell’essersi adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero nell’aiutare concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati).

I giudici a quibus, per parte loro, hanno "costruito” le questioni di legittimità costituzionale modellandole sulle fattispecie portate alla loro attenzione, nelle quali la richiesta di accesso al permesso premio riguardava due condannati alla pena dell’ergastolo, per i delitti prima specificati. Ma questa Corte non deve risolvere tali specifici giudizi, bensì pronunciarsi sulla disposizione di legge censurata, decidendo questioni di legittimità costituzionale rilevanti in quei giudizi.

Tali questioni riguardano perciò l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto recante una disciplina da applicarsi a tutti i condannati, a pena perpetua o temporanea, per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa e di "contesto mafioso”. Per tutti costoro, infatti, la disposizione censurata dai rimettenti richiede la collaborazione con la giustizia quale condizione per l’accesso alla valutazione, in concreto, circa la concedibilità dei benefici penitenziari.

5.3.– Infine, nei processi a quibus si fa questione della sola possibilità di concessione, ai detenuti, di un permesso premio, non di altri benefici.

Coerentemente con tale circostanza, i dispositivi di entrambe le ordinanze di rimessione precisano che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. è censurato nella sola parte in cui esclude che i condannati per i reati descritti, che non collaborano con la giustizia, possano essere ammessi alla fruizione dello specifico beneficio di cui all’art. 30-ter ordin. penit.

Del resto, non solo i rimettenti, come si diceva, limitano le proprie censure alla impossibilità – determinata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – di accedere al permesso premio, ad esclusione, perciò, di qualunque riferimento agli altri benefici penitenziari; ma è lo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ad elencare distintamente i benefici che non possono essere concessi ai detenuti per determinati reati (nonché agli internati, la cui posizione non è in discussione nel presente giudizio) che non collaborano con la giustizia: sicché unicamente del permesso premio si fa qui questione.

5.4.– Entrambe le ordinanze, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., censurano l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto introduce una presunzione assoluta di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato – per i reati precisati – che non collabori con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit.

Proprio in virtù di tale presunzione, assoluta in quanto non superabile se non dalla collaborazione stessa, la disposizione attualmente vigente fa sì che le richieste di un tale detenuto di accedere allo specifico beneficio del permesso premio debbano dichiararsi in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un vaglio in concreto da parte del magistrato di sorveglianza (in disparte i casi di collaborazione impossibile o irrilevante).

Se tutto ciò sia conforme ai parametri costituzionali evocati è, in definitiva, il thema decidendum posto dalle presenti questioni di legittimità costituzionale.

6.– Ancora in via preliminare, deve essere vagliata l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato con specifico riferimento al giudizio instaurato dall’ordinanza (r.o. n. 135 del 2019) del Tribunale di sorveglianza di Perugia.

Lamenta, in particolare, l’Avvocatura dello Stato che il rimettente non avrebbe indicato le specifiche ragioni che motivano la scelta del detenuto di non collaborare con la giustizia.

Il giudice a quo, in effetti, pur dando atto che la condotta collaborativa costituisce manifestazione del distacco del detenuto dal gruppo criminale di riferimento, ritiene che non possa per ciò solo dirsi che tale condotta «sia davvero l’unica "prova legale esclusiva di ravvedimento”, perché sono plurime le ragioni che possono indurre un condannato a non collaborare». Tra queste ragioni enumera, trattandone in astratto e in via di mera ipotesi: «il rischio per la propria incolumità e per quella dei propri congiunti, il rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o il ripudio di una collaborazione che rischi di apparire strumentale alla concessione di un beneficio».

L’Avvocatura lamenta proprio il carattere ipotetico e astratto di tali ragioni, sottolineando come il reclamante nel giudizio a quo non abbia mai addotto alcuna di queste motivazioni per giustificare la propria mancata collaborazione. Dal che deriverebbe, appunto, il difetto di rilevanza delle questioni sollevate, poiché, anche nel caso di una pronuncia di accoglimento, una tale decisione non spiegherebbe effetti nel processo a quo.

L’eccezione non è fondata.

Sostiene, invero, il rimettente che solo se questa Corte accogliesse le questioni – "smontando” il carattere assoluto della presunzione di pericolosità del detenuto che non collabora, e permettendo così che la prova dell’avvenuto distacco dal sodalizio criminale sia fornita altrimenti – il magistrato di sorveglianza, investito della richiesta di accesso al beneficio, potrebbe allora, in concreto, verificare le vere ragioni che hanno condotto il detenuto alla scelta di non collaborare.

Questa affermazione si pone, in effetti, nel solco della giurisprudenza costituzionale in tema di rilevanza, ove (ex plurimis, sentenze n. 20 del 2016, n. 46 e n. 5 del 2014, n. 294 del 2011) è ricorrente l’affermazione secondo cui, per l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa (da ultimo, sentenza n. 170 del 2019).

Del resto, anche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (messa in risalto, tra le pronunce più recenti, dalla sentenza n. 77 del 2018) e di una più efficace garanzia della conformità a Costituzione della legislazione (profilo valorizzato, da ultimo, nella sentenza n. 174 del 2019), il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione (sentenza n. 20 del 2018).

Soprattutto, con specifico riferimento alle presenti questioni, va considerato che, secondo la disposizione censurata, il giudice è chiamato a fare applicazione di una disciplina che predetermina l’esito del processo, nel senso dell’inammissibilità della richiesta di accesso al beneficio del permesso premio da parte del condannato non collaborante. Invece, nell’ipotesi di accoglimento delle sollevate questioni, il giudice a quo dovrebbe decidere secondo una diversa regola di giudizio, attingendola dalla disciplina di riferimento, privata della norma in ipotesi dichiarata incostituzionale. E quand’anche l’esito del giudizio a quo sia il medesimo – la non concessione del permesso premio – la pronuncia di questa Corte influirebbe di certo sul percorso argomentativo che il rimettente dovrebbe a questo punto seguire per decidere sulla richiesta del detenuto (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010, nonché, con riferimento alle questioni relative alle cosiddette norme penali di favore, sentenze n. 394 del 2006, n. 161 del 2004 e n. 148 del 1983).

7.– Venendo al merito, questa Corte ritiene opportuno scrutinare in primo luogo le questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, in quanto, riferendosi alla posizione del condannato sia per partecipazione all’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., sia per reati di "contesto mafioso”, la decisione su di esse potrebbe assorbire quelle sollevate dalla Corte di cassazione esclusivamente in riferimento al condannato per questi ultimi delitti.

Le questioni sono fondate, nei termini di seguito precisati.

7.1.– «Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale che indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare, secondo una linea di progressivo inasprimento, l’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del 1995), riversando così tali ragioni all’interno dell’ordinamento penitenziario e dell’esecuzione della pena.

Nella prima versione – introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito – l’art. 4-bis ordin. penit. prevedeva due distinte "fasce” di condannati, a seconda della riconducibilità, più o meno diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalità organizzata o eversiva.

Per i reati "di prima fascia” – comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i relativi "delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico – l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario era possibile, alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».

Per i reati "di seconda fascia” (omicidio, rapina ed estorsione aggravate, nonché produzione e traffico di ingenti quantità di stupefacenti: «delitti, questi, per i quali le connessioni con la criminalità organizzata erano, nella valutazione del legislatore, meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del 2018) si richiedeva – in termini inversi, dal punto di vista probatorio – l’insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti.

Accanto a questa distinzione di fondo, singole previsioni stabilivano, quale ulteriore requisito per l’ammissione a specifici benefici (tra i quali il permesso premio), che i condannati avessero espiato un periodo minimo di pena più elevato dell’ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia, secondo la nuova previsione dell’art. 58-ter ordin. penit., che lo stesso d.l. n. 152 del 1991, come convertito, aveva introdotto nella legge penitenziaria del 1975.

In questa prima fase, dunque, il trattamento di maggior rigore per i condannati per reati di criminalità organizzata veniva realizzato su due piani, fra loro complementari. Come spiega la sentenza n. 68 del 1995: da un lato «si stabiliva, quale presupposto generale per l’applicabilità di alcuni istituti di favore, la necessità di accertare (alla stregua di una graduazione probatoria differenziata a seconda delle "fasce” di condannati) l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; dall’altro, si postulava, attraverso l’introduzione o l’innalzamento dei livelli minimi di pena già espiata, un requisito specifico per l’ammissione ai singoli benefici, fondato sulla necessità di verificare per un tempo più adeguato l’effettivo percorso di risocializzazione di quanti si fossero macchiati di delitti iscrivibili nell’area della criminalità organizzata o eversiva. Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova dell’intervenuto distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta collaborativa».

Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva» (sentenza n. 306 del 1993).

L’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, apporta decisive modifiche all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Per quel che più direttamente ora interessa, nei confronti dei condannati per i reati appartenenti alla prima "fascia”, si stabilisce che l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta risulti oggettivamente impossibile o irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata).

Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre l’accertamento circa la permanenza, nel condannato che aspira ai benefici penitenziari, di legami con la criminalità organizzata; e acquisisce invece risalto esclusivo una condotta, quella della collaborazione con la giustizia, assunta come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l’intervenuta rescissione di quei collegamenti. Ancora la sentenza n. 68 del 1995: si passa «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)».

Come mette in luce la sentenza n. 239 del 2014, la nuova disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata, o il suo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza "rescissoria” del legame con il sodalizio criminale. Si coniuga a ciò – assumendo, in fatto, un rilievo preminente – l’obiettivo di incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale generale, la collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o "contigui” ad associazioni criminose, che appare come strumento essenziale per la lotta alla criminalità organizzata.

Per converso, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la presunzione assoluta che i collegamenti con l’organizzazione criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosità del condannato, con conseguente inaccessibilità ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti.

Infine, recependo le indicazioni di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), il comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit. estende la possibilità di accesso ai benefici ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero impossibile, per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché ai casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. In tutte le ipotesi dianzi indicate occorre, peraltro, che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».

7.2.– La presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, così introdotta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. è assoluta, nel senso che non può essere superata da altro se non dalla collaborazione stessa. Quest’ultima, per i condannati per i delitti ricordati, è l’unico elemento che può consentire l’accesso ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. È così introdotto un trattamento distinto rispetto a quello che vale per tutti gli altri detenuti.

In questi specifici termini deve essere precisata la precedente giurisprudenza di questa Corte, che ha sostenuto non potersi qualificare questa disciplina come «"costrizione” alla delazione», poiché spetta al detenuto adottare o meno quel comportamento (sentenza n. 39 del 1994).

A ben guardare, l’inaccessibilità ai benefici penitenziari, per il detenuto che non collabora, non è un vero automatismo, poiché è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità della disposizione censurata. L’inaccessibilità ai benefici penitenziari è insomma una preclusione che non discende automaticamente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni di farlo» (sentenza n. 135 del 2003).

Purtuttavia, la presunzione della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata, che incombe sul detenuto non collaborante, è assoluta, perché non può essere superata da altro, se non dalla collaborazione stessa. E, come si chiarirà, è proprio questo carattere assoluto a risultare in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

7.3.– Nella sentenza n. 306 del 1993, che questa Corte pronunciò a breve distanza dall’entrata in vigore della disciplina introdotta dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, si riconosce che il requisito della collaborazione, quale condizione per l’accesso ai benefici penitenziari, «è essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale», adottata per finalità di prevenzione generale e di sicurezza collettiva.

Sottolineando che la scelta legislativa costituiva risposta alla necessità di contrastare una criminalità organizzata «aggressiva e diffusa», la sentenza non condivide la tesi, sostenuta nella relazione alla legge di conversione del d.l. n. 306 del 1992, secondo cui la decisione di collaborare è la sola ad esprimere con certezza la «volontà di emenda» del condannato, sicché essa assumerebbe una valenza anche "penitenziaria”, non estranea al principio della funzione rieducativa della pena («è solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza quella volontà di emenda che l’intero ordinamento penale deve tendere a realizzare»: così la relazione presentata in Senato in sede di conversione del d.l. n. 306 del 1992 – atto n. 328).

Su questo profilo, la sentenza sottolineò che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non può essere presentato sotto le vesti di una disposizione di natura "penitenziaria”, giacché la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario (la mancata collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento o "emenda”, secondo una lettura "correzionalistica” della rieducazione: «non può non convenirsi con i giudici a quibus quando sostengono che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione».

Sono argomenti, questi ultimi, considerati, sia pur con riferimento a un diverso beneficio, dalla Corte EDU nella già ricordata sentenza Viola, nelle parti espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, ove viene sottoposta a critica una disposizione che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli.

Quel che più conta, la sentenza n. 306 del 1993 – pur dichiarando, tra l’altro, non fondate le questioni allora sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit, in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost. – osservò che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una «rilevante compressione» della finalità rieducativa della pena: «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» in caso di mancata collaborazione.

8.– Queste ultime valutazioni vanno sviluppate, e conducono oggi all’accoglimento delle questioni sollevate, nei termini che ora si chiariranno.

Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria.

Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.

Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari.

In un primo senso, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante.

In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.

In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.

8.1.– Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel percorso carcerario del condannato – attraverso il decisivo rilievo attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna – elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena.

La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.

Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata, infatti, è costruita una disciplina speciale (sentenza n. 239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalità degli altri detenuti.

Essi possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l’ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall’art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino secondo le modalità contemplate dal citato art. 58-ter, a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa già individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174 del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434).

La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria.

Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa.

Il valore "premiale” della collaborazione – che rende immediatamente accessibili tutti i benefici, senza necessità di raggiungere le soglie di pena previste ordinariamente – si giustifica sia considerando che essa è ragionevole indice del presumibile abbandono dell’originario sodalizio criminale, sia in virtù della determinante utilità che ha mostrato sul piano del contrasto alle organizzazioni mafiose.

Del resto, nel più ampio contesto del comportamento intramurale, la collaborazione assume rilievo, oltre che come dimostrazione della rottura con il circuito criminale, anche ai fini della complessiva valutazione dell’iter rieducativo.

Invece, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., l’assenza di collaborazione con la giustizia dopo la condanna non può tradursi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena, in conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facoltà di non prestare partecipazione attiva a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato.

Come configurata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la mancata collaborazione infligge ulteriori conseguenze negative, che non hanno diretta connessione con il reato commesso, ma derivano unicamente, appunto, dal rifiuto del detenuto di prestare la collaborazione in parola, nella sostanza aggravando le condizioni di esecuzione della pena già inflittagli al termine del processo.

In disparte ogni considerazione – su cui insiste il rimettente – circa il rilievo del diritto al silenzio nella fase di esecuzione della pena (la giurisprudenza costituzionale ha affermato che esso è corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. e «si esplica in ogni procedimento secondo le regole proprie di questo»: sentenza n. 165 del 2008; ordinanze n. 282 del 2008 e n. 33 del 2002), questa Corte non può esimersi dal rilevare che l’attuale formulazione dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., anche in nome di prevalenti esigenze di carattere investigativo e di politica criminale, opera una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., che certo l’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto.

Garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione del principio nemo tenetur se detegere, la libertà di non collaborare, in fase d’esecuzione, si trasforma infatti – quale condizione per consentire al detenuto il possibile accesso all’ordinario regime dei benefici penitenziari – in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi (carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.

Ciò non risulta conforme agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

8.2.– In secondo luogo, contrasta con l’art. 27, terzo comma, Cost. la circostanza che la richiesta di ottenere il permesso premio debba essere in limine dichiarata inammissibile, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto.

Il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento. Esso consente «al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di libertà» (sentenza n. 188 del 1990), mostrando perciò una «funzione "pedagogico-propulsiva”» (sentenza n. 504 del 1995, poi sentenze n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006), e permette l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà (sentenza n. 227 del 1995).

La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006).

La presunzione assoluta in esame impedisce proprio tale verifica secondo criteri individualizzanti, non consentendo nemmeno – come sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Perugia – di valutare le ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio.

In definitiva, l’inammissibilità in limine della richiesta del permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada.

Ciò non è consentito dall’art. 27, terzo comma, Cost.

8.3.– In terzo luogo, la giurisprudenza di questa Corte sottolinea che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982).

In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.

Nel presente caso, la generalizzazione che fonda la presunzione assoluta consiste in ciò: se il condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di "contesto mafioso” non collabora con la giustizia, la mancata collaborazione è indice (non superabile se non dalla collaborazione stessa) della circostanza per cui egli non ha spezzato i legami che lo tengono avvinto all’organizzazione criminale di riferimento.

Sono ben note le ragioni di una tale generalizzazione. L’appartenenza ad una associazione di stampo mafioso implica un’adesione stabile ad un sodalizio criminoso, di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo (in materia cautelare, sentenze n. 48 del 2015, n. 213 del 2013, n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del 2011; ordinanza n. 136 del 2017).

Tali ragioni sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo.

Nonostante ciò, nella fase cautelare, in presenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., la presunzione di sussistenza di esigenze cautelari è relativa, perché può essere vinta dall’acquisizione di elementi dai quali risulti che tali esigenze non sussistono (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.).

Se tali esigenze tuttavia sussistono, esse si presumono – con presunzione questa volta iuris et de iure – non fronteggiabili con misure diverse dalla custodia in carcere (sentenza n. 265 del 2010, ordinanza n. 136 del 2017), non solo per le peculiari connotazioni del sodalizio criminale, ma anche perché la valutazione è svolta quasi nell’immediatezza del fatto o, comunque, in un momento non lontano dalla sua supposta commissione.

Nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio.

È certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche a distanza di tempo, per le ricordate caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, quale quella che – in particolare, ma non esclusivamente, secondo la ratio stessa di questa pronuncia – è espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro, per i casi di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41-bis, che non è ovviamente qui in discussione e la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone proprio l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017).

Ma, in disparte simili vicende, il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in sede cautelare: ordinanza n. 532 del 2002).

Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione.

Con assorbimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione (miranti a distinguere tra la posizione dell’affiliato e quella del condannato per reati di "contesto mafioso”), ne deriva perciò, in lesione dell’art. 3 Cost., l’irragionevolezza – nonché, anche sotto questo profilo, il contrasto con la funzione rieducativa della pena – di una presunzione assoluta di pericolosità sociale che, a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto, presupponga l’immutabilità, sia della personalità del condannato, sia del contesto esterno di riferimento.

9.– Nel caso di specie, però, trattandosi del reato di affiliazione a una associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati), caratterizzato dalle specifiche connotazioni criminologiche prima descritte, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.

Ciò giustifica che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi.

Quali siano questi elementi, è la stessa evoluzione del medesimo art. 4-bis ordin. penit. a mostrare con evidenza.

Come si è già detto (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), prima dell’introduzione del decisivo requisito della collaborazione con la giustizia, l’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito, già stabiliva, per i reati della "prima fascia” (comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i relativi "delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico), che l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario fosse possibile alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, cioè solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».

Era quindi disegnato, per questi reati, un sistema fondato su di «un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa» (sentenza n. 68 del 1995).

Di un tale regime, anche la versione attualmente vigente dell’art. 4-bis, ordin. penit. mantiene traccia testuale, al comma 1-bis. Infatti, come pure si è detto (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), tale comma estende la possibilità di accesso ai benefici penitenziari ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, impossibile od «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. Ma, ancora, per tutte le ipotesi appena indicate occorre che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».

L’acquisizione di simili elementi appartiene, come si vede, alla stessa logica cui è improntato l’art. 4-bis ordin. penit. e consente alla magistratura di sorveglianza, attraverso un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia, di svolgere d’ufficio una seria verifica non solo sulla condotta carceraria del condannato nel corso dell’espiazione della pena, ma altresì sul contesto sociale esterno in cui il detenuto sarebbe autorizzato a rientrare, sia pure temporaneamente ed episodicamente (ordinanza n. 271 del 1992).

In particolare, l’art. 4-bis, comma 2, ordin. penit., prevede che, ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1 (perciò, anche del permesso premio), la magistratura di sorveglianza decide non solo sulla base delle relazioni della pertinente autorità penitenziaria ma, altresì, delle dettagliate informazioni acquisite per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente.

È fondamentale aggiungere che, ai sensi del comma 3-bis del medesimo art. 4-bis, tutti i benefici in questione, compreso il permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza: ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 dicembre 2016, n. 51878) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del competente comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

In tale contesto, l’acquisizione di stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale) non solo è criterio già rinvenibile nell’ordinamento (sentenze n. 40 del 2019 e n. 222 del 2018) – nel caso di specie, nella stessa disposizione di cui è questione di legittimità costituzionale (sentenza n. 236 del 2016) – ma è soprattutto criterio costituzionalmente necessario (sentenza n. 242 del 2019) per sostituire in parte qua la presunzione assoluta caducata, alla stregua dell’esigenza di prevenzione della «commissione di nuovi reati» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009) sottesa ad ogni previsione di limiti all’ottenimento di benefici penitenziari (sentenza n. 174 del 2018).

L’acquisizione in parola è, d’altra parte, fattore imprescindibile, ma non sufficiente.

Il regime probatorio rafforzato, qui richiesto, deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali. Si tratta, del resto, di aspetto logicamente collegato al precedente, del quale condivide il carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare che il già richiamato interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ordin. penit., finisca per essere vanificato.

Di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro rispristino – grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione (come stabilisce la costante giurisprudenza di legittimità maturata sul comma 1-bis dell’art. 4-bis, ordin. penit., in tema di collaborazione impossibile o inesigibile: ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 13 agosto 2019, n. 36057, 8 luglio 2019, n. 29869 e 12 ottobre 2017, n. 47044).

La magistratura di sorveglianza deciderà, sia sulla base di tali elementi, sia delle specifiche informazioni necessariamente ricevute in materia dalle autorità competenti, prima ricordate; con la precisazione che – fermo restando l’essenziale rilievo della dettagliata e motivata segnalazione del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore distrettuale (art. 4-bis, comma 3-bis, ordin penit.) – se le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongono in senso negativo, incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno (in tal senso, già Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 maggio 1992, n. 1639).

10.– Va pertanto dichiarata, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. nella parte in cui non prevede che – ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste – possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

11.– Con la presente sentenza, in relazione ai reati indicati, è perciò sottratta all’applicazione del meccanismo "ostativo” previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio, di cui all’art. 30-ter del medesimo ordin. penit.

Ciò è conforme al perimetro delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici a quibus, nonché alla connotazione peculiare del permesso premio, che lo distingue dagli altri benefici pure elencati nella disposizione censurata.

12.– Come si è chiarito, le due ordinanze di rimessione hanno portato all’attenzione di questa Corte i reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, cioè quelli che hanno costituito parte del nucleo originario della previsione censurata.

Ma, come pure si è accennato (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), l’assetto delineato dai provvedimenti dei primi anni Novanta del secolo scorso è stato progressivamente modificato, nel tempo, da una serie di riforme, che, da un lato, hanno mutato l’architettura complessiva dell’art. 4-bis ordin. penit. e, dall’altro, ne hanno ampliato progressivamente l’ambito di operatività, con l’innesto di numerose altre fattispecie criminose nella lista dei reati "ostativi”.

In virtù di varie scelte di politica criminale, non sempre tra loro coordinate, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti, l’art. 4-bis ordin. penit. ha così progressivamente allargato i propri confini, finendo per contenere, attualmente, una disciplina speciale relativa, ormai, a un «complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 188 del 2019, n. 32 del 2016, n. 239 del 2014). E il comma 1 della disposizione, in particolare, presume l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata dei condannati per questo ampio elenco di reati, disegnando per tutti costoro un particolare regime carcerario, che non consente in radice l’accesso ai benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia.

Peraltro, nella disposizione in esame, accanto ai reati tipicamente espressivi di forme di criminalità organizzata, compaiono ora, tra gli altri, anche reati che non hanno necessariamente a che fare con tale criminalità, ovvero che hanno natura mono-soggettiva: infatti, nel comma 1 dell’art. 4-bis, figurano i reati di prostituzione minorile e pornografia minorile, di violenza sessuale di gruppo (art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori», convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38), di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione», convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici»).

In questo contesto, l’intervento parzialmente ablatorio realizzato sui reati di criminalità organizzata di matrice mafiosa deve riflettersi sulle condizioni predisposte dal primo comma della norma censurata, in vista dell’accesso al permesso premio dei condannati per tutti gli altri reati di cui all’elenco.

Se così non fosse, deriverebbe dalla presente sentenza la creazione di una paradossale disparità, a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza.

Ed anzi, la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo comma dell’art. 4-bis, ordin. penit. dell’intervento compiuto dalla presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di "contesto mafioso” finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta.

In definitiva, i profili di illegittimità costituzionale relativi al carattere assoluto della presunzione attingono tanto la disciplina, in questa sede censurata, applicabile ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, quanto l’identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. per i detenuti per gli altri delitti in esso contemplati.

Visto l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va perciò dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti;

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2019.

Allegato:

Ordinanza letta all'udienza del 22 ottobre 2019