Sentenza n. 139 del 1982

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SENTENZA N. 139

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 204, cpv, 205 cpv, n. 2, 215, 222, comma primo, e 231 cod. pen. (Misure di sicurezza) promossi con le ordinanze emesse il 21 aprile 1976 dal giudice istruttore del Tribunale di Firenze, il 30 giugno 1976 dal giudice istruttore del Tribunale di Siena, il 30 agosto 1976 dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Frosinone, il 30 ottobre 1976 dal giudice istruttore del Tribunale di Firenze, il 29 novembre 1976 dal Pretore di Monza, il 27 ottobre 1977 dal giudice istruttore del Tribunale di Bologna, il 18 febbraio 1978 dal giudice istruttore del Tribunale di Pisa, il 20 maggio 1978 dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Roma, il 7 dicembre 1978 dalla Sezione di sorveglianza di Bologna, il 29 ottobre 1979 dal giudice istruttore del Tribunale di Milano, il 16 novembre 1979 dal Tribunale di Como, il 4 febbraio 1980 dal giudice istruttore del Tribunale di Milano, il 23 febbraio 1980 dal giudice istruttore del Tribunale di Pisa, il 25 febbraio 1980 dal Tribunale di Roma, il 27 maggio 1980 dal giudice istruttore del Tribunale di Milano, il 25 giugno 1980 dal Pretore di San Donà di Piave, il 29 settembre 1980 dal giudice istruttore del Tribunale di Milano, il 4 settembre 1980 dal giudice istruttore del Tribunale di Pisa, il 20 dicembre 1980 dal Pretore di Pieve di Cadore, il 21 marzo 1981 dal Pretore di Pisa, il 20 maggio 1981 dal giudice istruttore del Tribunale di Grosseto e il 29 maggio 1981 dal Tribunale di Venezia, rispettivamente iscritte ai nn. 480, 582, 638 e 723 del registro ordinanze 1976, ai nn. 68 e 584 del registro ordinanze 1977, ai nn. 370 e 480 del registro ordinanze 1978, ai nn. 372 e 966 del registro ordinanze 1979, ai nn. 68,192,360,367,519,658 e 896 del registro ordinanze 1980 ed ai nn. 11, 90, 360,480 e 573 del registro ordinanze 1981 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 239, 267 e 321 del 1976, nn. 10 e 100 del 1977, nn. 60 e 293 del 1978, nn. 10 e 189 del 1979, nn. 57, 92, 138, 173 187, 263 e 311 del 1980 e nn. 70, 77,117, 276, 297 e 338 del 1981.

Visti gli atti di costituzione di Capobianco Luigi e di Prada Pierantonio e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 febbraio 1982 il Giudice relatore Alberto Malagugini;

uditi l'avv. Vincenzo Ferrari per Prada Pierantonio e l'avv. dello Stato Franco Chiarotti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

  1. - Con ordinanza emessa il 21 aprile 1976 nel procedimento penale a carico di Giacinti Armando, imputato di furto aggravato, il giudice istruttore presso il Tribunale di Firenze sollevava d'ufficio questione di legittimità costituzionale degli artt. 204, secondo comma e 222, primo comma, c.p., assumendone il contrasto con gli artt. 3, primo comma, 111, primo e secondo comma e 27, primo comma della Costituzione (r.o. 480/76).

Premesso che da una perizia psichiatrica all'uopo disposta era risultato che l'imputato (reo confesso) era al momento del fatto totalmente incapace di intendere e di volere, e che peraltro il perito aveva escluso che attualmente egli fosse persona socialmente pericolosa, il G. I. rilevava che se ne sarebbe dovuto ordinare il ricovero in manicomio giudiziario in base ad una pericolosità sociale presunta per legge (artt. 204 cpv. e 222, primo comma c.p.). Peraltro, osservava il G.I., con la sentenza 110 del 1974 la Corte ha riconosciuto al giudice il potere di revoca delle misure di sicurezza - ove sia accertata la cessazione dello stato di pericolosità - anche prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge. Dopo tale sentenza, il potere di revoca non é quindi più, come per il passato, di natura eccezionale, né può più prescindere dalla cessazione dello stato di pericolosità. E d'altro lato, ad essa "consegue che la predeterminazione del periodo minimo di ricovero in un manicomio giudiziario (art. 222, comma primo, c.p.) non può basarsi sulla opportunità che il giudizio sulla pericolosità sia sottoposto a ripetute verifiche in istituti specializzati e non dipenda dal parere di un singolo perito (come aveva ritenuto la Corte con le sentenze n. 68 del 1967 e n. 106 del 1972). A prescindere dal rilievo che, secondo l'art. 202 c.p., lo stato di pericolosità é il presupposto della misura di sicurezza e quindi l'irrogazione di questa non può avere il fine di verificare l'esistenza di quello, risulta infatti chiaro, dopo la citata sentenza n. 110 del 1974, che si può fare a meno delle verifiche suddette o di alcune di esse e disporre la revoca anticipata della misura di sicurezza proprio sulla base di una singola perizia o comunque di accertamenti protratti per un periodo di tempo inferiore a quello corrispondente alla durata minima prevista dall'art. 222 c.p.. Se così é, non si vede perché debba comminarsi la misura di sicurezza, qualora sia accertato in concreto che il malato di mente non é pericoloso per poi revocarla anticipatamente, magari poco tempo dopo l'irrogazione".

Di qui, ad avviso del giudice a quo, il contrasto con l'art. 3 primo comma Cost. delle norme suddette, in quanto irragionevolmente assoggettano ad un identico trattamento il soggetto pericoloso e quello di cui sia accertata la non pericolosità prima della comminatoria della misura di sicurezza.

D'altra parte, "stante la natura di sanzioni penali" delle misure di sicurezza, ad esse dovrebbe ritenersi applicabile, secondo il giudice a quo, il principio della personalità della responsabilità penale di cui all'art. 27, primo comma, Cost.: e con questo contrasterebbe il ricollegare tali misure ad uno status presunto, e non concretamente accertato, di pericolosità criminale.

Le norme in questione contrastano anche, ad avviso del G.I. con gli artt. 13 e 111 Cost., che impongono l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, ed in particolare di quelli relativi alla libertà personale. Tale obbligo infatti, per la funzione di garanzia (sentenza n. 1/1971) che é propria della motivazione, anche al fine di rendere più penetrante ed efficace il sindacato sul provvedimento, non può che significare obbligo di motivazione razionale, cioè articolata attraverso una serie di argomenti logicamente coerenti. Ed esso non potrebbe essere soddisfatto nel caso di specie, perché nella sentenza di proscioglimento per difetto di imputabilità si dovrebbe - per la presunzione assoluta posta dalle norme impugnate - irrogare la misura di sicurezza, pur essendo questa, secondo l'art. 202 c.p., applicabile soltanto alle persone socialmente pericolose e pur dovendosi far menzione, nella motivazione, della perizia medico - legale che ha accertato la non pericolosità dell'imputato.

  1. - Un'analoga questione di legittimità costituzionale degli artt 204 e 222 c.p. veniva sollevata d'ufficio, con ordinanza del 30 giugno 1976, dal G. I. del Tribunale di Siena nel corso di un procedimento penale per i reati di cui agli artt. 521 e 527 c.p. a carico di Sasselli Lino (r.o. 582/76).

Premesso che l'obiettività dei fatti appariva sufficientemente provata e rilevato che una perizia psichiatrica aveva accertato che l'imputato era al momento del fatto totalmente incapace d'intendere e di volere e che non era, peraltro, socialmente pericoloso, il G. I. osservava innanzitutto che all'ammissibilità della questione non può ostare l'asserita illegittimità della perizia che abbia valutato la pericolosità sociale dell'incapace per infermità psichica, trovando tale asserzione "la sua radice nella stessa norma di cui si eccepisce l'incostituzionalità".

Richiamate poi le sentenze di questa Corte (19/1966 e 68/1967) con cui sono state ritenute compatibili con l'art. 13,secondo comma, Cost. le ipotesi di pericolosità presunta previste dal codice - peraltro con il limite della "ragionevolezza" della scelta del legislatore, in base al quale é stata esclusa la legittimità dell'art. 224 c.p.: sent. 1/1971 - il giudice a quo riteneva che il suddetto indirizzo dovesse essere sottoposto a nuovo esame, alla luce di un'evoluzione normativa che tende sempre più ad adeguare gli strumenti punitivi alla personalità del reo (affiancando ovvero sostituendo la cura medica o la rieducazione sociale alle sanzioni tradizionali) e che quindi postula "una concettuale impossibilità di applicazione delle misure di sicurezza detentive indipendentemente da un concreto accertamento sulla personalità del reo".

Ma, ad avviso del giudice a quo, le norme di cui agli artt. 204 e 222 c.p. contrastano anche con l'art. 3 Cost.: sia perché prevedono un uguale trattamento per situazioni diverse, quali le diverse infermità o le differenze soggettive nell'ambito di una stessa infermità; sia perché sarebbe irragionevole stabilire una presunzione di pericolosità in base a criteri probabilistici, o statistici, o di comune esperienza, laddove é possibile caso per caso un riscontro scientifico della pericolosità.

  1. - Con ordinanza in data 30 agosto 1976 il giudice di sorveglianza del Tribunale di Frosinone, decidendo sulla richiesta di applicazione della misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario di Capobianco Luigi - prosciolto in quanto non imputabile per totale infermità di mente dal reato di cui all'art. 582 c.p. - sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 204, secondo comma e 205, secondo comma e 222, primo comma c.p. in relazione agli artt. 3, primo comma e 24, secondo comma Cost. e, per l'art. 222,primo comma, anche in relazione all'art. 32 Cost. (r.o. 638/76).

Premesso che l'imputato non appariva persona socialmente pericolosa e che "sembra clinicamente guarito", il giudice a quo ravvisava un contrasto delle norme predette con l'art. 3 Cost. nel fatto di assoggettare alla medesima misura di sicurezza sia soggetti riconosciuti socialmente non pericolosi sia persone di rilevante pericolosità sociale. La perentorietà della norma e la conseguente applicazione automatica delle misure contrasterebbero, d'altra parte, anche con la garanzia del diritto di difesa, che viene così garantito in modo esclusivamente formale e potrebbe validamente esplicarsi solo in sede di accertamento in concreto della pericolosità sociale, se cioè venisse dichiarata l'illegittimità della pericolosità sociale presunta. Inoltre, adempiendo il ricovero in manicomio giudiziario ad una precipua funzione curativa (cioè di recupero mentale e sociale del soggetto), applicandolo - in base all'art. 222 c.p. - anche a chi rispetto all'epoca del commesso reato sia psichicamente migliorato sino alla completa guarigione si verrebbe ad obbligare al trattamento sanitario un soggetto che più non ne abbisogna.

In tal modo, da un lato la misura di sicurezza si trasformerebbe in una vera e propria sanzione, sostituendosi alla pena non potuta applicare per difetto di imputabilità e dall'altro si verrebbe ad attentare irreparabilmente alla salute mentale del soggetto, con evidente violazione dell'art. 32 Cost.

L'art. 222, primo comma, d'altra parte, sarebbe in contrasto con l'art. 3 Cost. anche per il fatto di regolare in modo uguale la situazione degli insani di mente e di coloro che più sani non sono.

  1. - Alla tesi dell'ordinanza aderiva con una breve memoria di intervento la difesa del Capobianco.
  2. - Con ordinanza del 30 ottobre 1976 emessa nel procedimento penale a carico di Leorati Marcello, il giudice istruttore del Tribunale di Firenze - premesso che nei confronti dell'imputato vi erano sufficienti prove di colpevolezza per il reato addebitatogli (furto aggravato) e che lo stesso, sottoposto a perizia psichiatrica, era stato riconosciuto totalmente incapace d'intendere e di volere - sollevava in riferimento agli artt. 3 e 27, primo comma Cost. questione di legittimità degli artt. 204, secondo comma e 222, primo comma, c.p., in quanto implicanti l'obbligatorio ricovero del prevenuto in manicomio giudiziario per almeno due anni nonostante che la perizia lo avesse ritenuto socialmente non pericoloso (r.o. 723/76).

Il giudice a quo dichiarava di non condividere le affermazioni in tema di pericolosità presunta contenute nelle sentenze di questa Corte nn. 68/1967 e 106/1972, osservando che in relazione al principio di uguaglianza é doveroso compiere una comparazione tra tale sistema di accertamento della pericolosità e quello dell'accertamento caso per caso. Quest'ultimo é a suo avviso senz'altro preferibile, "non corrispondendo all'id quod plerumque accidit (e ne fanno fede i casi prospettati nelle ordinanze di rimessione alla Corte) che la pericolosità sociale sia collegabile alla mera entità della pena legislativamente stabilita per il reato". Viene quindi meno la ragionevolezza della presunzione di pericolosità, che non sarebbe salvaguardata - come ha ritenuto la Corte - dalla possibilità di revoca anticipata della misura. Al contrario, questa può valere solo come tardivo rimedio all'abnorme situazione insita nell'applicazione di essa a soggetto non pericoloso, e per ciò stesso porta al riconoscimento dell'irrazionalità del vigente sistema di pericolosità presunta.

Il giudice a quo rilevava poi che "se responsabilità penale é quella per un fatto penalmente rilevante in relazione al quale é prevista la irrogazione di una sanzione criminale", avendo tale natura - secondo quanto riconosciuto da autorevole dottrina - anche la misura di sicurezza, risulta a questa applicabile il principio della personalità nella responsabilità penale di cui all'art. 27, primo comma Cost..

Ora, essendo la misura di sicurezza, ben altrimenti della pena, collegata alle caratteristiche soggettive dell'agente - in quanto destinata a durare fintanto che perduri la condizione di pericolosità - sarebbe in contrasto con tale principio la sua applicazione a chi non é in concreto pericoloso.

  1. - Alla motivazione della suddetta ordinanza si richiamava espressamente il giudice istruttore del Tribunale di Bologna nel sollevare, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 222, primo comma c.p. (ordinanza del 27 ottobre 1977 emessa nel procedimento per incendio doloso a carico di Naldi Remo) (r.o. 584/77).Nel caso di specie, dalla perizia psichiatrica all'uopo disposta era risultato che costui, affetto da frenastenia, era al momento del fatto incapace di intendere e di volere per il concorso di altre circostanze, quale l'abuso di alcool; che peraltro egli non era pericoloso per sé o per altri, ed aveva "raggiunto quella condizione di stabilizzazione che gli ha permesso di reimmettersi nella vita sociale e lavorativa con regolarità cambiando ambiente di lavoro ed amici, pur venendo sottoposto con una certa regolarità da parte del C.I.M. a cicli curativi che sembrano avere più uno scopo preventivo".

Ciò premesso, ad integrazione delle argomentazioni del G. I. di Firenze, il giudice di Bologna osservava che, stabilendo una presunzione di pericolosità che non consente accertamenti in concreto ed é applicabile anche ove la pericolosità non esista, la norma impugnata tradisce la finalità di rieducazione che, insieme a quella preventiva, é assegnata alla misura di sicurezza dall'art. 27, terzo comma Cost., e che costituisce uno sviluppo del principio del rispetto della persona umana, consacrato negli artt. 2 e 3 Cost.. Anzi, l'equilibrio biopsichico cui la rieducazione mira "verrebbe ad essere violentato" a fini di difesa sociale nelle ipotesi in cui esso "si fosse già stabilizzato". Risultato, questo, che secondo il G.I. contrasta anche con l'art. 32 Cost., il quale, statuendo che "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana", vieta il perseguimento di finalità accessorie quando vengano a mancare ragioni curative e di recupero della salute.

  1. - Un'analoga questione di legittimità costituzionale degli artt. 204 e 222 c.p., veniva sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 27 e 32 Cost., dal Pretore di Monza nel corso di un procedimento penale per il reato di cui all'art. 582 c.p. a carico di Rovelli Claudio, il quale, in base alla perizia all'uopo disposta, era risultato incapace d'intendere e di volere all'epoca del fatto e persona che può talvolta diventare socialmente pericolosa (r.o. 68/77). Dopo aver riferito che da successive indagini era emerso che il prevenuto in virtù delle intense cure ricevute, non era attualmente pericoloso, il Pretore motivava sulla non manifesta infondatezza della questione richiamandosi in sostanza alle precedenti ordinanze.
  2. - Il 18 febbraio 1978 il giudice istruttore del Tribunale di Pisa, dopo aver prosciolto Fiordelmondo Riccardo dal reato di tentato omicidio in danno della madre in quanto persona non imputabile per vizio totale di mente, esponeva con riferimento all'obbligatorio ricovero del prevenuto in manicomio giudiziario per anni cinque - che dalla perizia psichiatrica era risultato che egli - affetto al momento del fatto da "bouffée dissociativa acuta" a carattere transitorio - attualmente "si trova in condizioni di buon equilibrio psichico, ha conseguito la guarigione clinica, non é più infermo di mente e non può essere considerato persona socialmente pericolosa".

Ciò premesso, con ordinanza in pari data il G. I. sollevava - su eccezione della difesa - questione di legittimità costituzionale del predetto art. 222 (primo e secondo comma) c.p. in riferimento agli artt. 3, primo comma e 32, secondo comma, Cost. (r.o. 370/78).

Rilevato che le precedenti sentenze di rigetto di questa Corte (nn. 68/1967 e 106/1972) si sono "limitate ad escludere la censurabilità, rispettivamente del meccanismo presuntivo di accertamento della pericolosità e del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario di un infermo di mente riconosciuto tale "durante il processo", il G.I. osservava, in riferimento all'art. 3 Cost., che gli elementi reali posti dalla legge a fondamento delle varie presunzioni di pericolosità (lo stato di mente; alcune particolari qualifiche normative, ecc.) erano stati ritenuti sufficienti e ragionevoli per inferirne la pericolosità del soggetto (salvo che per i minori infraquattordicenni: art. 224 cpv. c.p.) in quanto il loro valore sintomatico é fondato sull'utilizzazione di "comuni esperienze". Ora l'ovvio ed implicito presupposto di questo schema argomentativo su cui in effetti la Corte si é basata nel ritenere ragionevole che ai suddetti elementi fosse ricollegata una valutazione rigida, indipendente dall'accertamento in concreto della pericolosità - é dato, a parere del giudice a quo, "dalla circostanza che gli elementi reali, su cui si fonda il giudizio presuntivo, sussistano effettivamente nel momento in cui esso deve essere formulato e nei confronti del soggetto cui la presunzione stessa deve essere applicata. Se così non fosse, non ci si troverebbe più in presenza di una presunzione, ma di una vera e propria fictio". Ai sensi dell'art. 222 c.p., viceversa, "l'accertamento dell'infermità psichica su cui si basa il proscioglimento, si riferisce al momento in cui il fatto fu commesso, mentre l'applicazione giudiziale si verifica in un momento necessariamente successivo; per cui nulla garantisce che in tale secondo momento sussista ancora l'infermità psichica che dovrebbe costituire l'elemento reale della presunzione. In tal modo, ricollegando l'applicazione della misura alla mera circostanza del "proscioglimento per infermità psichica", l'art. 222 c.p. finisce con lo stabilire non una, ma due presunzioni: la prima consistente nel presumere che l'infermità psichica, accertata rispetto al momento della commissione del fatto, persista al momento dell'applicazione giudiziale; la seconda consistente nel ricollegare a tale presuntiva infermità un giudizio legale di pericolosità. In sostanza, una presunzione fondata su un'altra presunzione".

E se la seconda può dirsi ragionevole, non altrettanto può dirsi della prima, perché dal proscioglimento per un'infermità psichica illo tempore sussistente non può inferirsi che l'infermità sia ancora presente, dovendo tale persistenza desumersi da un accertamento psichiatrico da effettuare in concreto, "al posto del quale non possono di certo intervenire criteri di frequenza statistica, dato che esso non presenta alcuno degli elementi di opinabilità e di incertezza propri del giudizio di pericolosità".

La censura di irragionevolezza ed arbitrarietà della disciplina non intacca quindi - sottolineava il giudice a quella presunzione per cui l'infermo di mente é pericoloso indipendentemente dall'accertamento in concreto della pericolosità, bensì la presunzione "surrettizia" "che un soggetto continui ad essere infermo di mente al momento dell'applicazione giudiziale della misura di sicurezza, solo perché é stato riconosciuto tale in relazione al momento del fatto": presunzione questa che conduce all'aberrante conseguenza di dover avviare all'ospedale psichiatrico giudiziario soggetti non più infermi di mente, e ad equiparare ingiustificatamente le ipotesi in cui l'infermità effettivamente persista a quelle in cui sia invece del tutto scomparsa.

Ciò, d'altra parte, comporta, secondo il G. I. di Pisa, "un'ulteriore censura di incostituzionalità, rispetto all'art. 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui la norma costituzionale stabilisce che, nel disporre un determinato trattamento sanitario, la legge non possa "in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana".

In effetti l'esecuzione della misura dell'ospedale psichiatrico giudiziario comporta necessariamente la cura dell'internato, perché la rieducazione ed il reinserimento sociale dell'infermo di mente implicano la guarigione (od il miglioramento) della malattia che é all'origine della pericolosità del soggetto; e non v'è dubbio, ovviamente, che si tratti di un trattamento obbligatorio. Se così é, esso deve sottostare ai limiti sanciti dall'art. 32, secondo comma, Cost., per qualsiasi trattamento sanitario coattivo.

In particolare, il "rispetto della persona umana", ed i limiti che esso impone, possono ricondursi all'esigenza fondamentale e primaria consistente nella necessità che il soggetto sia in ogni caso riguardato e trattato come un valore in sé, e non degradato a mezzo per perseguire finalità estranee, secondo il principio che é alla base del nostro ordinamento costituzionale (art. 2 Cost.). Trasferendo tali esigenze al trattamento sanitario obbligatorio, non é difficile scorgere che il primo limite, imposto dal rispetto della persona umana, consiste nella necessità che sia assicurato un accertamento medico tecnicamente corretto dei presupposti del trattamento, perché soltanto questa condizione assicura che la limitazione imposta alla libertà del soggetto corrisponde ad una sua effettiva necessità terapeutica, senza la quale il trattamento stesso costituirebbe un mezzo realizzato per fini diversi dalla cura, e quindi, estranei alla persona che lo subisce".

  1. - Nel giudizio così instaurato interveniva - in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri - l'Avvocatura dello Stato, che, richiamando la sentenza di questa Corte n. 106/1972, negava che la norma impugnata introduca una "presunzione fondata su un'altra presunzione", essendo solo prevista, in essa, una ragionevole cautela nell'accertamento della cessazione dello stato di pericolosità. D'altra parte, i limiti imposti dal rispetto della persona umana (art. 32 cpv. Cost.) sarebbero rispettati attraverso le ripetute verifiche dello stato del soggetto e la possibilità di revoca anticipata della misura.
  2. - Della costituzionalità dell'art. 222 c.p. dubitava altresì, sotto un diverso profilo, il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Roma, chiamato ad applicare la misura di sicurezza in questione nei confronti di Riva Giuseppe, prosciolto perché riconosciuto infermo di mente dai reati di resistenza e oltraggio a P. U., incensurato e risultato allo stato "affetto da una forma di malattia mentale riconducibile a forte esaurimento nervoso e trattabile ambulatoriamente (grazie anche alla fattiva collaborazione della famiglia e ad una concreta prospettiva di lavoro)" (r.o. 480/78).

Nell'ordinanza, emessa il 20 maggio 1978, il giudice a quo osservava che "la previsione che l'infermo di mente debba essere sottoposto solo e soltanto alla misura di sicurezza detentiva dell'ospedale psichiatrico giudiziario" - fondata sulle preminenti finalità di prevenzione e difesa sociale assegnate nel codice vigente alle misure di sicurezza - si traduce in una distorsione della funzione di risocializzazione a questa assegnata dalla Carta costituzionale nei casi in cui la malattia mentale da cui il soggetto é affetto sia, per la sua natura o per il grado di evoluzione, curabile ambulatoriamente, o comunque con tecniche o terapie conciliabili con un suo normale inserimento nel contesto sociale. Ciò tanto più in quanto esiste nel sistema un'altra misura di sicurezza, la libertà vigilata, che - essendo sottoposta ad una disciplina sufficientemente elastica da consentire al magistrato di sorveglianza l'individuazione degli obblighi da imporre al prosciolto per infermità mentale (cure ambulatoriali, periodi di osservazione presso nosocomi ecc.) - sarebbe funzionalmente idonea a rimuovere le cause della pericolosità senza compromettere le potenzialità di risocializzazione del soggetto. La sostituibilità della libertà vigilata alle case di cura e di custodia é del resto già contemplata per i semi - infermi di mente dall'art. 219, terzo comma, c.p. La mancata previsione, nell'art. 222 c.p., di un'analoga facoltà di sostituzione contrasterebbe, ad avviso del giudice a quo, con i diritti al lavoro, alla salute e, in genere, ad una attiva partecipazione alla vita sociale garantiti dagli artt. 4, primo e secondo comma, e 32 Cost.

La censura d'incostituzionalità, di conseguenza, dovrebbe investire "anche l'art. 231 stesso codice laddove non prevede, come adeguato e conforme aggravamento per delle violazioni di particolare gravità delle prescrizioni della libertà vigilata applicata ad un infermo di mente, l'applicazione della misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario in luogo della casa di lavoro o della colonia agricola".

  1. - Intervenendo in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri nel giudizio così instaurato, l'Avvocatura dello Stato osservava che, essendo opinabile, allo stato delle conoscenze scientifiche, l'individuazione delle modalità più adeguate alla cura dei malati di mente, essa non può che spettare al legislatore ordinario: sicché il problema sollevato dall'ordinanza sarebbe di politica legislativa e non di legittimità costituzionale. Ed invero, a preminente sul diritto al lavoro v'è il dovere - diritto di curarsi se infermi; ed il diritto alla salute é di certo tutelato con la prescrizione di ricovero adeguato".

Quanto alla censura mossa all'art. 231 c.p., l'Avvocatura osservava che con essa veniva chiesta alla Corte una sorta d'integrazione, non consentita, del sistema normativo; e che, non essendo la violazione delle prescrizioni alla libertà vigilata necessariamente segno di infermità mentale da curare in manicomio giudiziario, mancherebbe il nesso di conseguenzialità di cui all'art. 27, ultima parte, l. n. 87 del 1953 e la questione sarebbe quindi irrilevante. In ogni caso, essa sarebbe infondata, essendo evidentemente problema di politica legislativa l'individuazione delle sanzioni appropriate per le suddette inosservanze.

  1. - Decidendo sull'istanza di revoca anticipata della misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario per la durata minima di dieci anni avanzata da Nebiolo Dario prosciolto per vizio totale di mente dall'imputazione di omicidio - la Sezione di sorveglianza di Bologna con ordinanza in data 7 dicembre 1978, sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 215 e 222 c.p., in riferimento agli artt. 3, primo comma e 32 Cost. (r.o. 372/79).

La Sezione osservava innanzitutto che la misura di sicurezza manicomiale si fonda sulla concezione adottata dal legislatore del 1930, secondo cui l'infermità psichica rende probabile la commissione di reati: concezione che é una specificazione di quella che aveva ispirato la legge manicomiale N. 36, del 1904 la quale vedeva il malato di mente come elemento perturbatore della società dei "sani" e perciò si preoccupava innanzitutto di provvedere al suo ricovero coattivo, subordinando a tale intervento quello terapeutico. Di siffatta preminenza delle finalità di sicurezza sono espressione varie disposizioni che consentono (o consentivano) il ricovero in manicomio: anche indipendentemente da ogni provvedimento relativo alla custodia preventiva (art. 88 c.p.p.); anche durante l'esecuzione della pena (art. 148 c.p., prima della sentenza n. 146/1975); ovvero anche prima dell'accertamento dell'attribuibilità del fatto - reato (art. 206 c.p.); o ancora in una forma che non é quella della misura di sicurezza provvisoria (art. 258 c.p.p.). Ed un'ulteriore riprova di tale finalizzazione sta, secondo il giudice a quo, nell'assegnazione ai manicomi giudiziari di una funzione complementare rispetto a quelli "civili", fino a prevedere talvolta il ricovero alternativo nell'uno o nell'altro, a discrezione del giudice (artt. 148 c.p. e 88 c.p.p.ora citati).

Atteso poi il suddetto fondamento della misura (pericolosità derivante da infermità psichica), il fatto - reato - osservava ancora la Sezione di sorveglianza - si pone logicamente come frutto di una pericolosità preesistente, e non come causa esso stesso della pericolosità, ed é conseguentemente solo l'occasione per l'irrogazione della misura di sicurezza manicomiale: che viene disposta, quindi, "quando" e non "perché" é stato commesso un reato.

Dalla vaghezza e genericità delle disposizioni concernenti le modalità d'esecuzione della misura di sicurezza in questione (artt. 213 cpv. c.p., 64 e 65 l. 26 luglio 1975, n. 354, 20 d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431) il giudice a quo deduceva un'identità sostanziale del relativo regime rispetto a quello di esecuzione della pena, di talché potrebbe affermarsi che la sentenza di proscioglimento per vizio totale di mente risparmia al soggetto la condanna ma non lo salva dalla pena". Anzi nella realtà dei fatti la misura, per una serie di meccanismi perversi e aberranti inscindibili dalla natura stessa dei manicomi giudiziari, "é la più dura ed inumana pena del nostro ordinamento".

Ad una concezione del tutto diversa - rilevava poi la Sezione di sorveglianza - si ispira invece la nuova legislazione sui malati di mente (l. 180/1978, sostituita dalla l. 833/78 sul servizio sanitario nazionale): la quale, fondandosi su un profondo mutamento di indirizzo delle concezioni psichiatriche dominanti - che escludono l'origine organica di molte malattie mentali e la sufficienza di trattamenti farmacologici che non siano accompagnati da interventi di carattere psicologico e sociale da realizzare in un ambiente di vita non artificiale - ha affermato "il criterio che gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi territoriali extra ospedalieri, ed ha considerato eccezionali gli interventi" di ricovero obbligatorio; i quali comunque, non possono più fondarsi sulla pericolosità dell'alienato, bensì solo sulla necessità di urgenti interventi terapeutici, e devono avere durata la più breve possibile e tale da ridurre al minimo le limitazioni della libertà dell'infermo.

Dal raffronto tra questa nuova disciplina e quella concernente il ricovero in manicomio giudiziario discende, ad avviso del giudice a quo, una grave ed irrazionale disparità di trattamento "in danno dei sottoposti alla misura di sicurezza manicomiale, che come infermi di mente hanno diritto allo stesso tipo di prestazioni curative e riabilitative previsto in via generale e che in concreto di tali prestazioni vengono privati proprio per effetto dell'internamento nell'ospedale psichiatrico giudiziario". Né si potrebbe fondatamente sostenere che tale disparità "sia resa legittima dalla diversa situazione di fatto connessa all'avere il sottoposto alla misura di sicurezza manicomiale commesso un reato", giacché questo, secondo quanto già detto, é solo occasione e presupposto e non già causa della misura.

D'altra parte, essendo il trattamento cui é sottoposto il ricoverato in manicomio giudiziario di natura essenzialmente carceraria ed afflittiva e quindi antitetico al regime degli interventi terapeutici e riabilitativi previsti dalla nuova legge, risulta evidente, secondo il giudice a quo, "il carattere non solo non terapeutico ma dannoso per la salute psichica degli internati infermi della misura di sicurezza medesima": di qui la censura di violazione dell'art. 32 Cost. mossa alle norme impugnate.

  1. - Della legittimità costituzionale degli artt. 204 cpv. e 222, primo comma, c.p. dubitava anche, in riferimento 21 solo art. 3, primo comma Cost., il giudice istruttore del Tribunale di Milano con ordinanza del 29 dicembre 1979 emessa nel procedimento penale per porto illegale di armi a carico di Fusi Giacomo, che da una perizia psichiatrica all'uopo disposta era risultato totalmente incapace d'intendere e di volere - in quanto affetto da schizofrenia paranoide - e peraltro persona sicuramente non pericolosa (r.o. 966/79).

Riferendosi alle argomentazioni sviluppate nelle sentenze di questa Corte nn. 68/1967 e 106/1972, il G. I. opinava che - alla stregua della radicale diversità della disciplina dei trattamenti sanitari, anche obbligatori, contenuta nella legge 180/1978 rispetto a quella concernente l'internamento in manicomio giudiziario - dovrebbe escludersi che questo possa rispondere a finalità terapeutiche nei confronti di malati di mente che risultino socialmente non pericolosi; così come dovrebbe escludersi che la previsione di un internamento minimo di due anni risponda ad esigenza di controllo sanitario e non, invece, di (malintesa) difesa sociale.

Ciò premesso, il giudice a quo osservava che il contrasto col principio di uguaglianza consiste non nella statuizione di una presunzione di pericolosità basata sull'id quod plerumque accidit, bensì nell'assolutezza di essa che, non consentendo la prova contraria, comporta il concreto rischio di sottoporre alla misura persone in effetti non pericolose ed oblitera le diversità di natura, origine e conseguenza esistenti tra le varie infermità e le differenze soggettive nell'ambito di una stessa infermità: il che non sarebbe ragionevole, specie "in una materia tanto complessa e variabile come quella delle propensioni criminali, essendo di per sé evidente che da meri giudizi di probabilità (necessariamente relativi e validi fino a prova contraria) non possono trarsi prognosi infallibili e assolute".

  1. - Argomenti analoghi a quelli già riferiti venivano succintamente svolti anche nell'ordinanza l6 novembre 1979 del Tribunale di Como, con la quale, nel corso di un procedimento penale a carico di Sampietro Giuseppe, veniva sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 13, secondo comma Cost., questione di costituzionalità dei citati artt. 204 e 222 c.p. (r.o. 68/80).
  2. - Alla motivazione della sopra illustrata ordinanza 7 dicembre 1978 della Sezione di sorveglianza di Bologna si richiamava espressamente il giudice istruttore del Tribunale di Milano nel sollevare - con ordinanza del 4 febbraio 1980 emessa nel procedimento penale a carico di Prada Pierantonio - questione di legittimità costituzionale degli artt. 215 e 222 c.p. in riferimento agli artt. 3, primo comma e 32 Cost. (r.o. 192/80).

In particolare il G. I. si soffermava sul "capovolgimento" dei principi ispiratori della legge manicomiale del 1904 operato con la 1. 833/1978 (artt. 1 cpv., 2 lett. g, 34), lamentando la disparità di trattamento tra i malati di mente socialmente pericolosi che ne consegue, a seconda che abbiano o meno commesso un fatto - reato. E, a dimostrazione dell'irragionevolezza di essa, metteva in rilievo l'occasionalità e la trascurabile entità dell'episodio oggetto del procedimento (il Prada, privo di un braccio, era accusato di oltraggio e di aver tentato di colpire con un pugno un agente), nonché la diversità di conseguenza che tale difformità di disciplina comporta per l'inimputabile che abbia commesso violenza carnale (ipotesi non infrequente)in dipendenza del fatto puramente estrinseco che la querela sia stata o non presentata.

Rispetto al diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost. - a suo avviso certamente leso rispetto ai soggetti già guariti, o comunque non più pericolosi, dalla previsione di un biennio minimo d'internamento - il G. I. osservava che ad escludere l'illegittimità di tale previsione non basta la possibilità di revoca anticipata della misura ex art. 70 l. 354/75; anche perché la necessità all'uopo di un ricorso (sia pure non limitato a soggetti portatori di un interesse particolarmente qualificato) la renderebbe strumento inidoneo a garantire, per qualsiasi internato, che la custodia in ospedale psichiatrico non si protragga oltre il necessario.

Il fatto poi che la durata minima dell'internamento sia ricollegata al solo parametro della pena comminata in astratto - e, come precisato dalla giurisprudenza, secondo i criteri della contestazione (pena massima irrogabile, computando le aggravanti e non le attenuanti) - comporta, a parere del G.I., che si parifichino situazioni anche profondamente diverse tra loro, impedendo ogni possibilità di valutazione differenziata dei singoli casi concreti (es. comparazione tra attenuanti e aggravanti).

Il giudice a quo evidenziava infine le disparità di trattamento che l'art. 222 c.p. comporta rispetto ai seminfermi di mente, per i quali - a differenza che per i totalmente infermi - é talora consentita (art. 219, terzo comma c.p.) la scelta tra la misura di sicurezza detentiva e quella non detentiva.

  1. - Nel giudizio così instaurato interveniva il Prada che, richiamando le argomentazioni svolte dal G. I. di Milano, sosteneva in particolare l'inidoneità del criterio della commissione di un reato a costituire valido strumento per differenziare la posizione dell'infermo di mente "comune" da quella dell'infermo di mente "imputato". La previsione dell'inimputabilità di costui, escludendo che nei suoi confronti sia celebrato un processo, impedirebbe infatti che si compiano gli accertamenti relativi alla sussistenza del fatto, alla sua addebitabilità al prevenuto ed alla sua natura di reato, dato che su tali circostanze normalmente non si pronuncia (e non si può pronunciare) il giudice naturale con tutte le garanzie previste dalla legge. Inoltre, il carattere "inumano" e "degradante" del trattamento riservato agli infermi di mente in manicomio giudiziario comporterebbe violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e quindi del principio di cui all'art. 10, primo comma, Cost..
  2. - Lo stesso G. I. di Milano sollevava poi con motivazione sostanzialmente identica, questione di legittimità costituzionale degli artt. 204 cpv.,215 e 222 c.p., in relazione agli artt. 3, primo comma e 32 Cost.; questa volta, peraltro, riferendosi solo alla diversa disciplina di cui alla legge 833/1978 ed all'inammissibilità di prova contraria sulla pericolosità sociale. L'ordinanza (r.o. 896/80) veniva emessa il 29 settembre 1980 nel corso di un procedimento penale per furto, rapina ed altro a carico di Romeo Luigi, risultato all'esame peritale del tutto incapace d'intendere e di volere al momento del fatto e bisognoso, secondo il perito, di un trattamento diverso da quello praticabile col ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario.
  3. - Sulle conseguenze del riferimento alla pena comminata in astratto dalla legge si appuntava invece la censura di violazione dell'art. 3 Cost. prospettata rispetto all'art. 222 c.p. dal giudice istruttore del tribunale di Pisa con ordinanza del23 febbraio 1980 (r.o. 360/80), emessa nel corso del procedimento a carico di Tempesti Alessandro, riconosciuto affetto da vizio totale di mente. Premesso che a costui era addebitato, oltre a due contravvenzioni, il furto di oggetti di modesto valore custoditi all'interno di un'autovettura e che - in virtù dell'attenuante del danno di speciale tenuità quanto meno equivalente alle aggravanti contestate - egli avrebbe sicuramente meritato una pena inferiore ai due anni di reclusione, il G. I. contestava la razionalità di una previsione per cui non solo la durata del ricovero, ma addirittura l'applicazione o meno della misura in questione, ed in definitiva la stessa pericolosità sociale, dipende dall'entità della pena massima stabilità dalla legge per l'ipotesi astratta di reato (superiore a due anni di reclusione; se inferiore, si fa luogo alla semplice comunicazione della sentenza di proscioglimento all'autorità di P.S.). In tal modo, secondo il giudice a quo, "sfugge del tutto il collegamento tra pericolosità e gravità del fatto in concreto", manca cioè ogni possibilità di adattamento della misura all'effettiva entità del reato e quindi al grado di pericolosità del soggetto. "Così, persone che, portate a giudizio per rispondere di fatti pur ricadenti sotto la stessa ipotesi di reato, sarebbero punite in modo diverso in rapporto alla diversa gravità del fatto, sono considerate ugualmente pericolose agli effetti dell'applicazione della misura tanto che saranno ricoverate in manicomio per uguale periodo minimo; e persone che, portate a giudizio per rispondere di reati diversi, sarebbero però condannate alla stessa pena in rapporto ad una gravità del fatto sostanzialmente corrispondente e dovrebbero quindi denotare una pericolosità di uguale grado, sono invece soggette oppure no alla misura a secondo del titolo di reato".

Il rimedio a ciò potrebbe essere, ad avviso del G. I. mutuato dalla soluzione già adottata in tema di concessione del perdono giudiziale, ove dall'originario criterio della pena edittale massima (art. 169 c.p., come approvato con R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) si é passati a quello della pena in concreto (art. 19 R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404).

  1. - Una questione di legittimità degli artt. 204, ultimo comma, 215 e 222 c.p. veniva altresì sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 32 Cost., dal Tribunale di Roma con ordinanza del 25 febbraio 1980 emessa nel procedimento penale a carico di Furlan Giorgio imputato dei reati di cui agli artt. 521 e 527 c.p. e ritenuto all'esame peritale totalmente incapace d'intendere e di volere (r.o. 367/80).

Nella motivazione, il Tribunale - con argomenti analoghi a quelli svolti dalla Sezione di sorveglianza di Bologna - sosteneva che, con l'entrata in vigore della legge n. 180/1978,sono venuti a mancare i presupposti culturali, scientifici e sociali che giustificavano la presunzione assoluta di pericolosità degli infermi di mente, essendo ormai opinione scientifica comune che il malato di mente non sia sempre persona pericolosa, e che il ricovero - salvo ipotesi ben individuate - non sia utile o sia addirittura dannoso alla salute del paziente. Di qui, oltre alla violazione degli artt. 32 e 3 - perché la suddetta presunzione non consentirebbe di distinguere tra situazioni diverse anche quello dell'art. 24 Cost., perché in tali ipotesi sarebbe irragionevolmente compromesso il diritto di difesa.

  1. - Alla motivazione della suesposta ordinanza del Tribunale di Roma si richiamava espressamente il Pretore di Pieve di Cadore nel sollevare, in riferimento sempre agli artt. 3, 24 e 32 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 204 cpv. e 222 c.p. nel procedimento per i reati di cui agli artt. 341 e 367 c.p. a carico di Pais Marden Ivano, che secondo la perizia all'uopo disposta era totalmente infermo di mente al momento del fatto ma non pericoloso al momento del giudizio (ordinanza del 20 dicembre 1980: r.o. 90/81).
  2. - Ancora il G. I. del Tribunale di Milano dubitava della legittimità costituzionale dell'art. 222 c.p. - questa volta in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 27, terzo comma e 32 Cost. - con ordinanza emessa il 27 maggio 1980 (r.o.519/80) nel corso del procedimento penale a carico di D'Amato Antonio. Costui aveva manifestato turbe psicopatologiche dopo il suo arresto e, ricoverato perciò nel reparto di osservazione neuropsichiatrica della casa circondariale di San Vittore, aveva aggredito un altro detenuto procurandogli lesioni gravissime. All'esame peritale, era risultato che quest'ultimo episodio - oggetto del giudizio - era stato commesso in stato di totale incapacità d'intendere e di volere e che peraltro egli aveva poi integralmente riacquistato la sanità mentale, sì da doversi escludere che fosse socialmente pericoloso.

Rilevato che, ciò nonostante, avrebbe dovuto applicarsi la misura del ricovero in manicomio giudiziario (rectius, ospedale psichiatrico giudiziario) per almeno due anni ex art. 222 c.p., il G. I. riteneva tale conseguenza in contrasto con i principi di cui agli artt. 3, 27 e 32 cpv. Cost. (l'ordinanza richiamava anche l'art. 2 Cost., senza peraltro svolgere rispetto ad esso alcuna specifica motivazione). Innanzitutto perché, applicando la medesima misura sanzionatoria al reo affetto da infermità psichica ed al reo sano di mente, si parificano situazioni soggettive diverse. In secondo luogo perché - sulla base delle stesse affermazioni tratte dalla Corte nella sentenza n. 68 del 1967 - la legittimità costituzionale del citato art. 222 dovrebbe ritenersi subordinata all'effettiva esistenza dello stato d'infermità psichica; anche perché gli "effetti devastanti" che il ricovero in un luogo per alienati psichici può notoriamente determinare su una persona sana di mente farebbero sortire alla misura di sicurezza l'effetto contrario a quello corrispondente alla sua precipua funzione.

  1. - Anche il Pretore di San Donà di Piave, con ordinanza del 25 giugno 1980 (r.o. 658/80) emessa nel procedimento per truffa a carico di Rizzardi Carlo - risultato totalmente incapace d'intendere e di volere al momento del fatto ma sano di mente all'epoca del giudizio - sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 222, primo comma, c.p. lamentando l'ingiustificata parificazione del malato di mente al sano (art. 3 Cost.) ed il pregiudizio alla salute di quest'ultimo derivante dall'obbligatorio ricovero in manicomio giudiziario.
  2. - Censure identiche - per profili e motivazione - a quelle formulate dal G. I. di Milano nell'ordinanza 4 febbraio 1980 muoveva altresì agli artt. 215 e 222 c.p. il giudice istruttore del Tribunale di Pisa con ordinanza del 4 settembre 1980 (r.o. 11/81) emessa nel corso del procedimento a carico di Grassi Guglielmo che, fuggito da una clinica psichiatrica, aveva aggredito un conducente impossessandosi della sua vettura. Nella specie era risultata la totale infermità mentale dell'imputato al momento del fatto, ma l'ultimo controllo peritale aveva evidenziato che egli era in buon equilibrio psichico (ma sotto trattamento psicotropo di mantenimento) ed aveva escluso che fosse persona socialmente pericolosa.
  3. - Alla motivazione della suddetta ordinanza 4 febbraio 1980 del G. I. di Milano si richiamava altresì espressamente il Pretore di Pisa, nel sollevare, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost. questione di legittimità costituzionale dei citati artt. 204 cpv. e 222 c.p. con ordinanza del 21 marzo 1981 (r.o. 360/81) emessa nel corso del procedimento per i reati di cui gli artt. 340, 341 e 651 c.p. a carico di Giaconi Anna Maria, nei cui confronti la perizia aveva accertato che era totalmente incapace d'intendere e di volere al momento del fatto,ma che non era affatto pericolosa e che era quasi completamente guarita (sicché il ricovero in manicomio giudiziario poteva risultarle dannoso).
  4. - Anche il G. I. del Tribunale di Grosseto si riportava espressamente alle argomentazioni del G. I. di Milano (ord. 4 febbraio 1980) e della Sezione di sorveglianza di Bologna (ord.7 dicembre 1978) nel sollevare, sotto i medesimi profili prospettati dal primo, questione di legittimità costituzionale degli artt. 215, 204 cpv, e 222 c.p. (ordinanza del 20 maggio 1981 r.o. 480/81). Nella specie, all'imputata Martinazzo Malvina erano addebitati reati in astratto gravi (artt. 578 e 411 c.p.) ma in concreto di lieve entità per le particolari modalità del fatto, sicché "il probabile concorso di circostanze attenuanti renderebbe applicabile una pena di due anni di reclusione". Anche in questo caso, l'imputata era risultata totalmente incapace d'intendere e di volere al momento del fatto, ma ne era stata del tutto esclusa la pericolosità sociale.

Nel giudizio così instaurato interveniva, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato, peraltro con atto depositato il 15 gennaio 1982, e quindi fuori termine.

  1. - La legittimità costituzionale degli artt. 204, 215 e 222 c.p., in quanto statuenti un periodo minimo di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, veniva infine posta in dubbio dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 29 maggio 1981 (r.o. 573/81) emessa nel procedimento penale a carico di Scroccaro Silvano, che era risultato affetto da vizio totale di mente. Ad avviso del Tribunale, tali norme si pongono in contrasto cong li artt. 3 e 32 Cost., "avuto riguardo alla impossibilità di determinare la pericolosità prima della scadenza del termine minimo in relazione alla legge sugli ospedali psichiatrici del 1978 che prevede per i cittadini in genere (non imputati) il trattamento psichiatrico obbligatorio solo fino a quando sussiste in senso lato la pericolosità".
  2. - Nel giudizio così instaurato interveniva, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato, la quale richiamate le sentenze nn. 68/1967 e 106/1972 di questa Corte, sottolineava che in base alla successiva sentenza n. 110/1974 - apparentemente ignota al Tribunale di Venezia - é possibile far cessare l'applicazione della misura di sicurezza de qua anche prima della scadenza del termine minimo, sicché il ricovero "non si protrae necessariamente anche oltre la esclusa pericolosità". É vero, aggiungeva l'Avvocatura, che permane una differenza di trattamento rispetto al cittadino comune nell'ipotesi d'internamento provvisorio, giacché mentre l'internamento in ospedale del non imputato non é obbligatorio se sia infermo di mente ma chiaramente non pericoloso, per il soggetto imputato o prosciolto esso é obbligatorio; anche se una volta esclusa la pericolosità, la misura può essere ben tosto revocata. Ma tale differenza si giustifica - secondo l'Avvocatura - in ragione della commissione di un reato, che rende "tutt'altro che peregrina" - diversamente che per i non imputati - l'ipotesi che il soggetto abbia ad ulteriormente delinquere. Né, per altro verso, sussisterebbe violazione dell'art. 32 Cost., in quanto "il soggetto imputato o prosciolto da reato che risulti infermo di mente é obbligato agli accertamenti sanitari ai fini della valutazione della sua pericolosità per disposizione di legge".

 

Considerato in diritto

 

  1. - I giudici a quibus denunziano talune disposizioni del codice penale (artt.: 204, cpv,205 cpv.,215,222 e 231) con riferimento ad una pluralità di parametri costituzionali (artt.: 3,4,13, secondo comma; 24, secondo comma; 27, primo e terzo comma; 32, primo e secondo comma; 111) e sotto molteplici profili.

Centrale e comune a tutte le ordinanze di rimessione é, peraltro, la questione se sia costituzionalmente legittimo il trattamento normativamente riservato ai soggetti che, essendone stata accertata l'incapacità di intendere o di volere, per infermità psichica, al momento in cui hanno commesso un fatto di reato - non colposo e punito con pena edittale superiore nel massimo ad anni due di reclusione - sono stati, perciò, prosciolti, perché non imputabili (art. 88 del codice Penale). Ciò in quanto di costoro si deve "sempre" ordinare il ricovero in un manicomio (ora "ospedale psichiatrico") giudiziario per un periodo minimo predeterminato dalla legge (art. 222, primo e secondo comma, del codice penale), presumendosene la pericolosità sociale.

I ventidue giudizi, di cui alle ordinanze indicate in epigrafe, che propongono questioni identiche od analoghe possono, perciò, essere riuniti e decisi con unica sentenza.

  1. - Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi su questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto disposizioni di legge - sostanziali e processuali - concernenti le misure di sicurezza e, in particolare, la misura di sicurezza detentiva del ricovero in manicomio, ora ospedale psichiatrico, giudiziario.

Sinteticamente e per quanto può rilevare ai fini del presente giudizio - che concerne unicamente soggetti prosciolti perché non imputabili per infermità mentale ai quali va applicata, obbligatoriamente ed automaticamente, la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per il periodo minimo legislativamente fissato - basterà ricordare che la Corte ha giudicato indenni da censure di costituzionalità (mosse con riferimento agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 27, secondo comma - in realtà terzo - e 32 Cost.) le disposizioni del codice penale (artt. 204,secondo comma, 222, primo e secondo comma, 224, ultimo comma) che stabiliscono una presunzione assoluta di pericolosità sociale a carico, appunto, degli imputati prosciolti per infermità psichica da un reato di una certa gravità. Ciò perché "la presunzione stessa deve ritenersi giustificata allorché si sia in presenza di condizioni le quali consentano di far ritenere, sulla base di valutazioni obiettive ed uniformi desunte dalla comune esperienza, la probabilità di un futuro comportamento criminoso da parte di chi abbia commesso un reato in circostanze che ne precludevano l'imputabilità" (sent. 106/1972). La presunzione di pericolosità presuppone, dunque, la riferibilità di un fatto di reato (non colposo, punito con la pena della reclusione superiore nel massimo a due anni) ad un soggetto che, nel momento in cui lo ha commesso, era incapace di intendere o di volere per infermità psichica. E, poiché la pericolosità sociale consiste in una probabilità di recidiva (art. 203, primo comma, del codice penale) e dà quindi luogo ad un giudizio prognostico, la ragionevolezza del criterio presuntivo adottato dal legislatore poggia sull'accertamento di una infermità psichica che, come si é manifestata nella commissione di un reato, così, secondo dati di comune esperienza, può dar luogo alla reiterazione di condotte criminose. In altre parole, é il giudizio di probabilità, la prognosi di recidiva che il legislatore vuole si deduca obbligatoriamente dall'accertamento dei due indicati e correlati presupposti, e questa sua scelta "non può ritenersi condizionata a vincoli discendenti dal rispetto di principi costituzionali, e più particolarmente da quello dell'art. 3, ma rimane invece affidata a valutazioni di politica legislativa" (sent. 106/1972 cit.).

  1. - Alla stregua di questo medesimo filone argomentativo, per cui la presunzione di pericolosità in tanto può considerarsi costituzionalmente legittima, in quanto si basa sull'id quod plerum que accidit (cfr. sentenze: nn. 19 del 1966, 68 del 1967 e 106 del 1972) la Corte - con la sentenza n. 1 del 1971 - ha, invece, dichiarato la illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 3, primo comma, Cost., dell'art. 224, secondo comma, del codice penale "nella parte in cui rende obbligatorio ed automatico per i minori degli anni quattordici il ricovero per almeno tre anni in riformatorio giudiziario". Ciò perché la norma in esame riguarda in modo identico situazioni diverse (dell'infante, del bimbo in tenera età e del minore prossimo al raggiungimento del quattordicesimo anno di età) e perché é arbitrario, in quanto non suffragato da alcun dato di esperienza, ritenere normale la pericolosità del minore di quattordici anni.
  2. - Va, infine, ricordato che la Corte ha ripetutamente sottolineato come il rigore del sistema - in quanto fondato sulla presunzione assoluta di pericolosità - trovi temperamento nella possibilità di revoca della misura di sicurezza, ex art. 207 del codice penale. Del terzo comma di quest'ultima disposizione la Corte, con la sentenza n. 110 del 1974, ha, poi, dichiarato la illegittimità costituzionale "nella parte in cui attribuisce al Ministro di grazia e giustizia - anziché al giudice di sorveglianza - il potere di revocare le misure di sicurezza", pervenendo quindi, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, alla pronuncia di incostituzionalità anche del secondo comma del medesimo art. 207 del codice penale "in quanto non consente (al giudice) la revoca delle misure di sicurezza prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge".
  3. - Conclusivamente, si può dire che la disciplina complessiva della misura di sicurezza detentiva del ricovero in manicomio (ora ospedale psichiatrico) giudiziario, per effetto della giurisprudenza della Corte e per la successiva intervenuta abrogazione dell'art. 207, ultimo comma, del codice penale (in forza dell'art. 89 della legge 26 luglio 1975 n. 354), si é sostanzialmente modificata rispetto all'impianto originario.

Ciò nel senso che, pur ferma, salvo che per i minori degli anni quattordici, la presunzione legale di pericolosità sociale desunta dalla commissione di un reato di una certa gravità in condizioni di totale incapacità di intendere o di volere per infermità psichica, "spetta al giudice il potere di revoca della misura di sicurezza - ove sia accertata la cessazione dello stato di pericolosità (art. 207, comma primo, del codice penale) - anche prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge" (sent. n. 110 del 1974, citata).

  1. - Tanto ricordato, la Corte riafferma anzitutto la legittimità in via di principio, nel campo delle misure di sicurezza, di tecniche normative di tipizzazione di fattispecie di pericolosità" cui collegare l'applicazione di determinate misure.

L'esigenza di una determinazione legale sufficientemente precisa dei presupposti delle misure di sicurezza deriva, anzi, dalla affermazione costituzionale del principio di legalità(art. 25, ultimo comma, Cost.). Rientra, dunque, sempre invia di principio, nella responsabilità del legislatore anche determinare se e quali spazi e criteri d'orientamento sia opportuno lasciare alla discrezionalità o all'apprezzamento tecnico del giudice, in vista dell'adeguamento finalistico delle misure alle situazioni individuali.

É parimenti acquisita alla giurisprudenza della Corte la doverosità del sindacato, alla stregua del principio di uguaglianza, su singole fattispecie di pericolosità costruite in termini "presuntivi" e rigidi, là dove la presunzione di pericolosità non abbia fondamento nell'id quod plerumque accidit ed abbia per conseguenza la indiscriminata applicazione delle misure di sicurezza in situazioni che differiscono fra loro proprio negli aspetti cui la misura ragionevolmente può riferirsi (sent. n. 1 del 1971, dianzi citata).

La questione di legittimità costituzionale del trattamento previsto dall'art. 222 del codice penale per gli autori di reato prosciolti per infermità psichica non può, pertanto, essere dissolta nella questione generica della "pericolosità presunta", ma si incentra sui contenuti specifici di una specifica tipizzazione o presunzione normativa, in forza della quale i presupposti dell'obbligatorio ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario sono costituiti da: commissione di un delitto di una certa gravità (espressa dal massimo edittale di pena) e totale infermità mentale dell'imputato al momento del fatto.

"Presunzione di pericolosità", in concreto, non significa altro che l'obbligatoria ed automatica applicazione della misura in tali ipotesi, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione e da eventuali ulteriori accertamenti; l'unico limite é che fra il fatto giudicato e la sentenza non sia decorso un tempo superiore a cinque ovvero a dieci anni (art. 204,cpv., n. 1 e 2, codice penale), nei quali casi si deve fare luogo a giudizio di pericolosità in concreto, secondo il principio enunciato come generale dall'art. 203 del codice penale.

La logica della disposizione denunciata sta nell'assumere l'infermità psichica dell'autore del reato quale elemento che caratterizza e collega i due termini della disciplina: il delitto in cui l'infermità ha manifestato una sua specifica pericolosità ed il tipo di risposta legale. La misura "di sicurezza" del ricovero obbligatorio in ospedale psichiatrico giudiziario costituisce la risposta alla pericolosità del soggetto; risposta modellata sulla specifica ragione (causa) di questa sua ritenuta pericolosità, vale a dire l'infermità psichica quale si é estrinsecata nel delitto commesso. Presupposti e definizione dell'istituto pongono così in risalto - e inscindibilmente collegano - dimensioni di "sicurezza" e dimensione terapeutica; il che é necessario a legittimare la misura, sia di fronte alla finalità di prevenzione speciale, "riabilitativa", propria in genere delle misure di sicurezza (sentenza n. 68 del 1967) sia di fronte al principio, anche esso costituzionale, di tutela della salute (art. 32 Cost.).

Come misura "finalizzata" - orientata a risultati, ad un tempo di sicurezza e di terapia - il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario appare pertanto ragionevolmente connesso al duplice presupposto tipico della commissione di un delitto non lieve e dell'infermità psichica quale condizione del delitto.

  1. - Le argomentazioni sin qui richiamate ed esposte valgono a confutare in modo esplicito od implicito quelle in contrario addotte dalla maggior parte dei giudici rimettenti, al fine di contestare la legittimità costituzionale della presunzione di pericolosità sociale posta dalle norme denunziate. Va, peraltro, precisato che ci si riferisce alle questioni sollevate in giudizi nei quali indagini peritali esperite caso per caso hanno escluso la pericolosità sociale dell'imputato, pur essendo rimasta sostanzialmente inalterata, nella sua natura, nelle sue caratteristiche e nella sua intensità, rispetto al momento del fatto, l'infermità psichica dell'imputato stesso, che determinandone il vizio totale di mente, ne comporta il proscioglimento ai sensi dell'art. 88 del codice penale. Questo presupposto di fatto accomuna le varie questioni, tutte rivolte, pur su piani e sotto profili diversi, ad indubbiare il criterio presuntivo posto dal legislatore, la cui razionalità si assume smentita, nelle fattispecie considerate dall'accertamento peritale.

In aggiunta alle considerazioni sopra svolte, più che ribadire la natura prognostica - di reiterazione di condotte criminose - del giudizio di pericolosità sociale, che rende del tutto ragionevole (anzi ineliminabile in ogni caso) il ricorso a criteri probabilistici, val la pena di osservare che il riferimento al massimo della pena edittale, assunto quale indice della gravità del reato, e non invece alla pena irrogabile in concreto, tenendo conto di eventuali attenuanti, oltre a discendere in modo coerente dal presupposto della misura rappresentato da una sentenza di proscioglimento (e non di condanna) dell'imputato incapace, garantisce la applicazione della misura stessa in tutte le situazioni normativamente descritte con pieno rispetto del principio di uguaglianza. Quanto alla ulteriore censura, per cui le norme impugnate assoggetterebbero adugua le disciplina infermità di natura diversa, ovvero della stessa natura ma di diversa intensità da soggetto a soggetto, basterà rilevare che presupposto per l'applicazione della misura é un accertamento di incapacità di intendere o di volere per infermità psichica e che tale requisito é sufficiente ad accomunare infermità che, pur se di natura ed intensità diverse, danno luogo all'identico risultato in termini di imputabilità (art. 88 del codice penale).

Lo stesso requisito, d'altra parte, differenzia nettamente la situazione del totalmente infermo di mente rispetto a quella del seminfermo di mente, la cui capacità di intendere o di volere, pur se grandemente scemata, non é esclusa (art. 89 c.p.). É perciò del tutto legittimo - oltre che razionalmente adeguato - che solo per il secondo e non anche per il primo sia prevista, in determinati casi, la possibilità di sostituire la misura di sicurezza detentiva con quella, non detentiva, della libertà vigilata (art. 219, terzo comma c.p.). Dall'affermata legittimità di tale trattamento differenziato deriva l'infondatezza dell'ulteriore censura di violazione del diritto al lavoro garantito dall'art. 4 Cost.. Deve di conseguenza ritenersi precluso l'esame dell'ulteriore censura mossa dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Roma all'art. 231 c.p. sotto il profilo della mancata previsione della possibilità di sostituire, in senso inverso, la misura di sicurezza detentiva alla libertà vigilata in caso di gravi violazioni alle prescrizioni inerenti a questa, trattandosi evidentemente di questione prospettabile solo presupponendo la fondatezza di quella or ora disattesa.

Delle questioni sollevate con riferimento agli artt. 13, secondo comma, 111 e 24, secondo comma Cost., basterà dire che sono state già dichiarate infondate dalla Corte con le sentenze nn. 19 del 1966 e 68 del 1967, e che i giudici rimettenti non propongono ora argomentazioni diverse da quelle allora disattese.

Nemmeno può ritenersi vulnerato il principio della personalità della responsabilità penale, di cui all'art. 27, primo comma, Cost. Pur a voler ammettere, in via di ipotesi, che nel campo di applicazione del citato disposto costituzionale rientrino anche le misure di sicurezza e non, invece, soltanto le pene, resta che il vincolo ivi posto attiene al momento della costruzione della fattispecie e comporta la necessità di un collegamento tra il presupposto specifico della misura e il soggetto cui essa viene applicata: in altre parole, si esige che la misura stessa venga applicata soltanto a soggetti dei quali risulti accertata la pericolosità criminale. Rispetto al precetto costituzionale é invece indifferente il modo in cui il suddetto collegamento viene configurato, se cioé esso debba risultare da un accertamento caso per caso della pericolosità ovvero da una presunzione stabilita dal legislatore sulla base di presupposti razionalmente idonei a fondarla.

La censura, infine, mossa con riferimento all'art. 27, terzo comma Cost., é già stata respinta da questa Corte (sentenze N. 68 del 1967 e 106 del 1972) con il rilievo che tale norma "si riferisce soltanto alle pene e non considera le misure di sicurezza proprio perché esse tendono ad un risultato che uguaglia quella rieducazione cui deve mirare la pena". Al proposito si può aggiungere che rispetto al parametro costituzionale invocato viene in considerazione il tipo di misura prefigurato in via generale dal legislatore e la sua astratta idoneità a perseguire finalità rieducative, non invece le modalità di determinazione e di accertamento dei presupposti per la sua applicazione.

Vero é che la questione qui da ultimo disattesa ha ad oggetto non tanto la presunzione di pericolosità sociale, come normativamente posta, quanto il ricovero obbligatorio in ospedale psichiatrico giudiziario, per il dubbio che tale ricovero non sia razionalmente idoneo al conseguimento delle finalità curative e risocializzanti assegnate - accanto alle finalità di prevenzione sociale - alla misura di sicurezza in questione. Nella stessa prospettiva si pongono altri giudici rimettenti che denunziano una possibile lesione dell'art. 32, primo comma, Cost. con riguardo alle condizioni strutturali ed alle prassi terapeutiche degli ospedali psichiatrici giudiziari, ovvero una violazione del principio di uguaglianza, stante il trattamento gravemente deteriore riservato agli infermi di mente ai quali viene applicata la misura di sicurezza in esame rispetto ai comuni malati di mente, cui si applica la nuova legislazione in materia, ai sensi della quale il ricovero obbligatorio é eccezionale, di durata limitata e fondato soltanto sulla necessità di urgenti interventi terapeutici, senza che venga più in considerazione la pericolosità dell'infermo (legge 13 maggio 1978, n. 180 e legge 23 dicembre 1978, n. 833).

Prendendo in esame quest'ultima censura, é evidente la non omogeneità delle situazioni messe a confronto, posto che la misura di sicurezza in questione torna applicabile soltanto a quegli infermi di mente che, essendo stati prosciolti dall'imputazione di un reato di una certa gravità perché commesso in stato di totale incapacità di intendere o di volere, vengono dalla legge considerati socialmente pericolosi. Al comune malato di mente non é riferibile invece la commissione di alcun reato, o almeno di un reato di uguale gravità, e tanto basta a legittimare il differente trattamento normativo.

Quanto infine ai rilievi che vengono mossi alle effettive condizioni organizzative e di gestione degli ospedali psichiatrici giudiziari, rappresentate come tali da menomare grandemente o addirittura vanificare la funzione di cura degli internati per soddisfare, invece e soltanto, una funzione repressiva e segregante, questa Corte, giudice delle leggi, non può dedurne motivi di incostituzionalità delle norme denunziate, tra le quali non sono comprese quelle disciplinanti appunto gli ospedali psichiatrici giudiziari. Ciò non toglie che le carenze lamentate dai giudici rimettenti, in base a personali, sofferte esperienze e risultanti anche da indagini ufficiali condotte o promosse da autorità a ciò competenti, esigano la più attenta considerazione e la più sollecita iniziativa da parte del legislatore e dei pubblici poteri. Il problema umano e sociale del trattamento da riservare ai soggetti prosciolti perché non imputabili per infermità psichica non può essere affrontato e risolto in termini formali e nominalistici - di etichetta verrebbe fatto di dire - ma impone l'adozione di misure concretamente idonee alla cura e non soltanto alla custodia di quei soggetti medesimi, essendo evidente che la loro risocializzazione dipende dalla guarigione o quanto meno dal miglioramento delle loro condizioni psichiche.

  1. - Le considerazioni svolte e le conclusioni sin qui raggiunte muovono, come si é detto, dal presupposto che la situazione di infermità psichica accertata rispetto al momento del fatto risulti immutata nel momento del giudizio ovvero in quello successivo in cui la misura in questione debba essere ordinata, ove a ciò si sia omesso di provvedere con la sentenza di proscioglimento (art. 205 cpv. n. 2 c.p.). In altre parole le disposizioni di legge denunziate in tanto sono indenni da vizi di costituzionalità in quanto una tale infermità sia inalterata nel tempo in cui la misura di sicurezza é applicata ed eseguita (la vicinanza temporale fra il giudizio e l'esecuzione della misura é, nell'ipotesi normale, assicurata dall'immediata esecutività delle sentenze di proscioglimento per inimputabilità).

La disposizione dell'art. 222 cod. pen., peraltro, prescinde dalla "attualizzazione" del giudizio di infermità mentale, guardando esclusivamente al momento del fatto. La struttura "presuntiva" della fattispecie si rivela contenere, come bene hanno osservato alcune ordinanze di rimessione, una presunzione duplice: innanzitutto quella che ricollega infermità e pericolosità, e che é quella che la Corte, in precedenti pronunce, ha già ritenuto non in contrasto con i criteri di comune esperienza. Ma la applicazione della misura a distanza di tempo dal fatto (obbligatoria ed automatica fino a che non siano trascorsi cinque o dieci anni) poggia su una presunzione ulteriore, concernente il perdurare (non della sola pericolosità, ma) della stessa infermità psichica, senza mutamenti significativi dal momento del delitto al momento del giudizio.

Una simile presunzione assoluta di durata dell'infermità psichica, lungi dall'esprimere esigenze di tutela discrezionalmente apprezzate dal legislatore, finisce per allontanare la disciplina normativa dalle sue basi razionali. Dietro la presunzione non vi sono né dati d'esperienza suscettibili di generalizzazione, né esigenze di semplificazione probatoria. Indurre, a distanza di tempo imprecisata, lo stato di salute mentale attuale da quello del tempo del commesso delitto, é questione di fatto che può e deve essere verificata caso per caso; totalmente privo di base scientifica sarebbe comunque ipotizzare uno stato di salute (anzi di malattia) che si mantenga costante, come regola generale valida per qualsiasi caso d'infermità totale di mente. Quanto alle preoccupazioni probatorie (che pure hanno trovato un'eco in precedenti pronunce della Corte) é di tutta evidenza che la prognosi postuma, richiesta (al perito psichiatra) dall'accertamento della imputabilità o non imputabilità al momento del fatto, presenta difficoltà incomparabilmente maggiori della diagnosi dello stato di salute psichica presente al momento del giudizio od in quello successivo in cui la misura debba essere applicata. Di regola, anzi, sarà proprio questa diagnosi a fornire elementi basilari per la ricostruzione (induttiva, spesso opinabile) dello stato di salute nei periodi anteriori. Una regola "presuntiva", come quella implicita nell'art. 222 cod. pen., che imponga di ricostruire il presente dal passato, si rivela pertanto un'inversione totale della logica del giudizio scientifico, su cui poggia qualsiasi ragionevole disciplina dell'infermità di mente.

La conseguenza pratica della norma denunciata é che, collegandosi la misura di sicurezza all'infermità psichica al momento del fatto, la misura andrà ugualmente applicata a soggetti che, al momento del giudizio, siano ancora infermi di mente, e ad altri il cui stato di salute (ovviamente oggetto dell'esame peritale concernente l'imputabilità) abbia invece subito una positiva evoluzione. I giudizi a quibus offrono al riguardo una precisa ed inquietante esemplificazione.

La differenza evidenziata - che la disciplina legale ignora - attiene proprio all'elemento - lo stato di salute psichica attuale - che solo é idoneo a giustificare una misura di sicurezza orientata alla salute psichica del destinatario, quale é per definizione l'ospedale psichiatrico giudiziario. Di qui l'illegittimità costituzionale dell'art. 222, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non subordina il provvedimento di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento - da parte del giudice della cognizione o della esecuzione - della persistente pericolosità sociale derivante dall'infermità medesima al tempo dell'applicazione della misura.

In questi limiti, la pronuncia d'illegittimità deve investire, di riflesso, anche gli artt. 204 cpv. e 205 cpv. n. 2 c.p.: il primo, in quanto, dettando una disposizione generale e quindi riferendosi anche alla misura di sicurezza in questione, pone una presunzione assoluta che preclude accertamenti sulla pericolosità anteriore ai termini ivi fissati (dieci o cinque anni dal fatto); il secondo, in quanto preclude analoghi accertamenti al giudice dell'esecuzione che sia chiamato ad applicare la misura, ove non ordinata nella sentenza di proscioglimento. Immune da censura é invece l'art. 215 c.p., pure denunziato in talune ordinanze, giacché esso si limita a prevedere, tra le altre, la misura di sicurezza in questione, senza dettare alcuna disposizione che investa la sua concreta disciplina.

  1. - In questi termini, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale delle norme su indicate contribuisce a restituire coerenza ad un sistema normativo, nel quale la rigida logica originaria delle presunzioni di pericolosità é già stata fortemente incrinata, a seguito della dichiarazione d'illegittimità costituzionale dei commi secondo e terzo dell'art. 207 cod. pen., con conseguente trasformazione della revoca anticipata delle misure di sicurezza, da atto politico del Ministro, inattività giurisdizionale doverosa, ricorrendone i presupposti sostanziali (la competenza a provvedere é ora regolata dall'art. 70 della legge 26 luglio 1975, n. 354). La "presunzione di durata" della pericolosità - implicita nella determinazione inderogabile (per il giudice) di un periodo minimo di durata della misura di sicurezza - ha cessato di essere assoluta, lasciando spazio a puntuali verifiche giudiziali dell'evolversi della situazione concreta. La contrapposizione di presunzioni legali al giudizio concreto di pericolosità ha perciò già perso il suo vero significato, che era collegato all'applicazione obbligatoria di una misura per un periodo minimo inderogabile, mentre un principio generale unificante é ora ravvisabile nel potere - e dovere - del giudice di disporre, sulla base degli opportuni, concreti accertamenti, la revoca della misura, in qualsiasi momento la persona sottoposta abbia cessato d'essere pericolosa.

Perfetta coerenza e continuità, in conclusione, vi é fra la presente decisione e la sent. n. 110/74

, nel superamento di un sistema che, se riconosce la legittimità in via di principio della tipizzazione legale di fattispecie di pericolosità, già si é allontanato da un sistema di determinazione della durata delle misure di sicurezza in termini rigidi, agganciati ad ulteriori presunzioni. Il potere di apprezzamento concreto del giudice, che la presente pronuncia ritiene necessario ad evitare ingiustificati livellamenti di situazioni diverse, non é altro se non il potere di non internare in ospedale psichiatrico giudiziario soggetti che, in considerazione del loro attuale stato di salute, avrebbero il diritto di ottenere immediatamente la revoca c.d. anticipata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 222, primo comma, 204, cpv. e 205, cpv. n. 2, del codice penale, nella parte in cui non subordinano il provvedimento di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della cognizione o della esecuzione della persistente pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima al tempo dell'applicazione della misura;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 222, primo comma e 204 cpv., nonché dell'art. 215 cpv. n. 3 cod. pen., sollevate in riferimento agli artt. 4, primo e secondo comma, 27, primo e terzo comma e 32, primo e secondo comma, Cost. dai Tribunali di Roma e Venezia, dalla Sezione di sorveglianza di Bologna, dai giudici istruttori presso i Tribunali di Firenze, Milano, Pisa, Grosseto e Bologna, dai giudici di sorveglianza di Roma e Frosinone nonché dai Pretori di Pisa, Pieve di Cadore e S. Donà di Piave con le ordinanze in epigrafe;

3) dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dei suddetti artt. 222, primo comma e 204 cpv. cod. pen., sollevate in riferimento agli artt. 13, secondo comma, 24, secondo comma e 111 Cost. dai Tribunali di Roma e Como, dai giudici istruttori presso i Tribunali di Firenze e Siena, dal giudice di sorveglianza di Frosinone e dal Pretore di Pieve di Cadore con le ordinanze indicate in epigrafe;

4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 231 cod. pen. sollevata in riferimento agli artt. 4, primo e secondo comma e 32 Cost. dal giudice di sorveglianza di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 1982.

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.

Giovanni VITALE - Cancelliere

Depositata in cancelleria il 27 luglio 1982.