Sentenza n. 185 del 2015

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SENTENZA N. 185

ANNO 2015

 

Commenti alla decisione di

 

I. (G.L.), È costituzionalmente illegittima la previsione di applicazione obbligatoria della recidiva, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

II. Riccardo Dies, nota di -, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

III. Federica Urban, Sulla illegittimità costituzionale dell’applicazione obbligatoria della recidiva anche ai reati di particolare gravità e allarme sociale, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                  Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi dalla Corte di cassazione, quinta sezione penale, con ordinanza del 10 settembre 2014, e dalla Corte d’appello di Napoli, terza sezione penale, con ordinanza del 19 novembre 2014, rispettivamente iscritte al n. 227 del registro ordinanze 2014 e al n. 35 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2015.

         Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nella camera di consiglio dell’8 luglio 2015 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– La Corte di cassazione, quinta sezione penale, con ordinanza del 10 settembre 2014 (r.o. n. 227 del 2014), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005,       n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione).

Il giudice a quo premette che, con sentenza emessa il 21 dicembre 2011, la Corte d’assise di Napoli aveva dichiarato N.F. colpevole dei reati di cui agli artt. 81, cpv., 600 e 600-bis cod. pen. e, applicate le circostanze attenuanti generiche ed esclusa la contestata recidiva, lo aveva condannato alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione. Il giudice di primo grado aveva altresì condannato N.M., per il reato di cui all’art. 600-bis cod. pen., alla pena di giustizia, assolvendola dall’imputazione ex art. 600 cod. pen. per non aver commesso il fatto.

La Corte d’assise d’appello di Napoli, in accoglimento dell’appello del procuratore generale, aveva parzialmente riformato la sentenza di primo grado e, ritenendo, con riferimento a N.F., obbligatoria la recidiva contestata ed equivalenti le circostanze attenuanti generiche, aveva rideterminato la pena in otto anni e due mesi di reclusione.

La Corte rimettente riferisce che gli imputati avevano proposto, a mezzo del proprio difensore, ricorso per cassazione contro la sentenza di secondo grado, sostenendo, tra l’altro, che erroneamente era stata ritenuta obbligatoria l’applicazione della recidiva e aggiungendo che, nel caso in cui questo motivo non fosse stato accolto, si sarebbe dovuta sollevare una questione di legittimità costituzionale «degli artt. 99 e 69 cod. pen., dell’art. 407, comma 2, cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3, 25, 27 e 111 Cost.».

Il giudice a quo ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza   n. 192 del 2007) e di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio 2010, n. 35738), l’art. 99, quinto comma, cod. pen., prevede un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che si affianca alle diverse forme di recidiva facoltativa disciplinate dai primi quattro commi del medesimo articolo, che diventano obbligatorie nel caso in cui il soggetto commette un nuovo delitto incluso fra quelli indicati dall’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, non occorrendo che anche il delitto per il quale vi è stata precedente condanna rientri nell’elencazione di cui al menzionato art. 407 (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798).

La questione di legittimità costituzionale sarebbe pertanto rilevante, in quanto la richiamata giurisprudenza costituzionale e di legittimità «rende ragione […] della qualificazione come obbligatoria della recidiva [semplice] applicata nel caso di specie all’imputato, posto che […] entrambi i reati per i quali è intervenuta condanna sono ricompresi nel “catalogo” di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.» e che l’imputato è gravato da un precedente penale per il reato di rissa di cui all’art. 588 cod. pen.

La questione sarebbe inoltre non manifestamente infondata, con riferimento all’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della manifesta irragionevolezza e dell’identità di trattamento di situazioni diverse cui la norma dà luogo, e all’art. 27, terzo comma, Cost.

La Corte rimettente ricorda che la giurisprudenza costituzionale, intervenuta in seguito alla sostituzione, ad opera dell’art. 4 della legge n. 251 del 2005, dell’art. 99 cod. pen., ha messo a fuoco la fisionomia dell’istituto della recidiva, individuando il suo fondamento nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo (sentenza n. 192 del 2007). Con riferimento alla recidiva facoltativa, in particolare, l’aumento di pena per il fatto per il quale si procede può essere disposto «solo allorché il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (ordinanza n. 409 del 2007; conformi, ex plurimis, ordinanze n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008).

In linea con l’impostazione adottata dalla Corte costituzionale – prosegue il giudice a quo – le sezioni unite della Corte di cassazione hanno sottolineato, da una parte, che «il giudizio sulla recidiva non riguarda l’astratta pericolosità del soggetto o un suo status personale svincolato dal fatto reato» e, dall’altra, che il riconoscimento e l’applicazione della recidiva quale circostanza aggravante postulano, invece, «la valutazione della gravità dell’illecito commisurata alla maggiore attitudine a delinquere manifestata dal soggetto agente, idonea ad incidere sulla risposta punitiva – sia in termini retributivi che in termini di prevenzione speciale – quale aspetto della colpevolezza e della capacità di realizzazione di nuovi reati, soltanto nell’ambito di una relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questo commesso, che deve essere concretamente significativo – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti, e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798).

Alla luce della richiamata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, quindi, l’applicabilità della recidiva richiede una relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito, che deve risultare da un accertamento condotto, nel caso concreto, sulla base di criteri enucleati dalle sezioni unite della Corte di cassazione, quali la natura dei reati, il tipo di devianza di cui sono il segno, la qualità dei comportamenti, il margine di offensività delle condotte, la distanza temporale e il livello di omogeneità esistente fra loro, l’eventuale occasionalità della ricaduta e ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio 2010, n. 35738).

Ad avviso della Corte rimettente, «I criteri indicati dalle Sezioni unite riflettono le condizioni “sostanziali” per l’applicazione della circostanza aggravante, fungendo così da strumento necessario ad assicurare che, nel caso concreto, l’applicazione della recidiva sia coerente con il suo fondamento, ossia con la riconoscibilità, nella ricaduta nel delitto, di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo».

Tuttavia, prosegue il giudice a quo, l’accertamento, nel caso concreto, della significatività del nuovo episodio delittuoso sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo è precluso nell’ipotesi di recidiva obbligatoria prevista dalla norma censurata, che pone appunto un automatismo basato su una presunzione. «Attesa, evidentemente, l’identità del fondamento della recidiva facoltativa e di quella obbligatoria, l’oggetto di detta presunzione coincide con le condizioni “sostanziali” per l’applicazione della circostanza aggravante, sicché lo scrutinio di legittimità costituzionale della norma censurata rinvia, in prima battuta, alla valutazione della ragionevolezza della presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità del reo delineata dal legislatore con riferimento ai delitti espressivi ricompresi nel “catalogo” di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.».

Richiamata la giurisprudenza costituzionale relativa alle presunzioni assolute (sentenza n. 139 del 2010), la Corte rimettente conclude che i criteri in forza dei quali il giudice, nei casi di cui ai primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen., accerta se in concreto la reiterazione del delitto sia espressione di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità del reo non possono formare oggetto di una presunzione assoluta basata esclusivamente sul titolo del reato. Infatti, «il riferimento ad un determinato reato espressivo (ovvero a una categoria o a un “elenco” di reati espressivi) è in radice inidoneo a fornire alla presunzione in cui si sostanzia la norma censurata dati di esperienza generalizzati in ordine alla sintomaticità del nuovo episodio delittuoso sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo (Corte cost., sentenza n. 183 del 2011), sintomaticità il cui accertamento […] richiede la verifica in concreto di una serie di elementi […] insuscettibili di trovare effettiva espressione nella mera indicazione del titolo del nuovo delitto commesso e, dunque, di formare oggetto della presunzione assoluta di cui alla norma censurata».

La norma censurata sarebbe allora manifestamente irragionevole, perché l’applicazione obbligatoria della recidiva, «Svincolata dall’accertamento in concreto sulla base dei criteri applicativi indicati e affidata alla sola indicazione del titolo del nuovo delitto», viene privata di una base empirica adeguata a preservare il fondamento della circostanza aggravante (ossia l’attitudine della ricaduta nel delitto ad esprimere una più accentuata colpevolezza e una maggiore pericolosità del reo), risolvendosi in una presunzione assoluta – appunto – di più accentuata colpevolezza o di maggiore pericolosità del tutto irragionevole.

La manifesta irragionevolezza della norma impugnata, peraltro, troverebbe ulteriore conferma nel criterio legislativo di individuazione dei reati che comportano la recidiva obbligatoria, «criterio incentrato sul catalogo di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., che contiene “un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale” (Corte cost., sentenza n. 192 del 2007)»: invero, una valutazione di gravità e allarme sociale di determinati reati effettuata in relazione ad istituti processuali (quali la durata delle indagini preliminari ovvero la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare) è priva di correlazione con l’accertamento della sussistenza, nel caso concreto, delle condizioni applicative della recidiva e, in particolare, è inidonea ad esprimere una «relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo delitto», in grado di offrire un congruo fondamento giustificativo al giudizio di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità in cui deve sostanziarsi l’applicazione della recidiva.

L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche per l’identico trattamento riservato, dall’art. 99, quinto comma, cod. pen., a situazioni diverse: «infatti, ad identica riconducibilità del nuovo delitto nel “catalogo” di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., ben possono corrispondere situazioni connotate, dal punto di vista delle condizioni “sostanziali” di applicazione della circostanza, da profonda diversità, avuto riguardo, ad esempio, al tipo di devianza di cui i reati sono sintomatici o all’eventuale occasionalità della ricaduta».

La norma censurata, insomma, darebbe luogo ad un’illegittima uguaglianza di trattamento di situazioni diverse, in quanto precluderebbe l’accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.

Ad avviso della Corte rimettente, infine, la questione sarebbe non manifestamente infondata anche con riferimento al principio di proporzionalità della pena riconducibile all’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la preclusione dell’accertamento giurisdizionale della sussistenza, nel caso concreto, delle condizioni “sostanziali” legittimanti l’applicazione della recidiva rende la pena palesemente sproporzionata – e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanificandone, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa.

2.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, con memoria depositata il 7 gennaio 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

Ad avviso della difesa dello Stato, come rilevato dalla Corte di cassazione, la maggiore severità della disciplina della recidiva reiterata nel caso di realizzazione di un delitto di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., «non è irragionevole in quanto limitata a fattispecie specifiche, caratterizzate da notevole allarme sociale, indice del perdurare della capacità a delinquere del reo», secondo una scelta legislativa non in contrasto con i principi costituzionali, essendo finalizzata a sanzionare più severamente, sia pure comprimendo gli spazi di discrezionalità del giudice, chi abbia continuato a commettere reati nonostante l’irrogazione di precedenti condanne.

La questione, comunque, sarebbe inammissibile in quanto la Corte rimettente non ha preliminarmente verificato la possibilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati.

Infatti il giudice a quo non ha considerato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, vi sarebbero delle ipotesi in cui è consentito non applicare l’aumento di pena per la recidiva, ancorché obbligatoria.

Ciò accade, in primo luogo, nel caso di concorso tra la recidiva obbligatoria (non reiterata) e una o più circostanze attenuanti, in quanto il divieto di prevalenza sancito dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., opera solamente nelle ipotesi di recidiva reiterata di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen. e non anche in quelle di recidiva obbligatoria di cui al quinto comma del medesimo articolo.

L’esclusione della recidiva obbligatoria dalle limitazioni poste al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee permetterebbe, dunque, al giudice di ritenere prevalenti, su di essa, eventuali circostanze attenuanti, «in tal modo recuperando la possibilità di adattare la pena al caso concreto, venuta meno la causa della obbligatorietà della recidiva». Insomma, la perdita di discrezionalità nella decisione sull’applicabilità della recidiva «verrebbe compensata dalla facoltà di ritenerla subvalente nel giudizio di bilanciamento con circostanze di segno opposto».

In secondo luogo, come hanno ricordato le sezioni unite della Corte di cassazione, la recidiva è circostanza aggravante ad effetto speciale quando comporta un aumento di pena superiore a un terzo e pertanto soggiace, in caso di concorso con circostanze aggravanti dello stesso tipo, alla regola dell’applicazione della pena prevista per la circostanza più grave, e ciò pur quando l’aumento che ad essa segua sia obbligatorio, per avere il soggetto, già recidivo per un qualunque reato, commesso uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.

L’applicabilità dell’art. 63, terzo comma, cod. pen., quindi, può comportare una deroga al regime di obbligatorietà dell’aumento di pena per la recidiva di cui al quinto comma dell’art. 99 cod. pen.

3.– La Corte d’appello di Napoli, terza sezione penale, con ordinanza del 19 novembre 2014 (r.o. n. 35 del 2015), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005.

La Corte rimettente – richiamato «interamente il contenuto della ordinanza emessa dalla V sezione della S.C.C. in data 3 luglio 2014, dep. 10 settembre 2014, che in tutto […] condivide» – ritiene la questione non manifestamente infondata, con riferimento all’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della manifesta irragionevolezza e dell’identità di trattamento di situazioni diverse cui la norma impugnata dà luogo, e all’art. 27, terzo comma, Cost.

Sotto il profilo della ragionevolezza, la norma censurata introdurrebbe un «discutibile automatismo basato su una presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza e maggiore  pericolosità del reo, delineata dal legislatore con un altrettanto discutibile riferimento alla categoria disomogenea dei reati cui all’art. 407, co. 2 lett. a) c.p.p.», individuati a fini processuali (durata delle  indagini  preliminari  o  sospensione  dei termini  di  durata  massima  della  custodia  cautelare), senza alcuna correlazione con le condizioni che fondano l’aumento di pena per la recidiva.

Si tratterebbe, peraltro, «di un elenco comprensivo di alcuni – ma non di tutti – i delitti  di particolare gravità e allarme sociale».

La norma censurata si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della disparità di trattamento, «sub specie di trattamento identico, riservato dall’art. 99, co. 5 c.p. a situazioni diverse: quelle in cui il nuovo delitto è indice di  maggiore colpevolezza/pericolosità, e quelle in cui invece non lo è».

Sarebbe violato infine il principio di proporzionalità della pena sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost.

Ad avviso del giudice rimettente, la questione sarebbe anche rilevante «atteso che vengono in rilievo, per tutti gli imputati, precedenti datati e disomogenei rispetto alla regiudicanda».

4.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, con memoria depositata il 14 aprile 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe manifestamente inammissibile, perché l’ordinanza di rimessione presenta un’assoluta carenza di descrizione della fattispecie concreta e di motivazione sulla rilevanza.

La questione, nel merito, sarebbe infondata, in quanto la Corte rimettente non ha preliminarmente verificato la possibilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati.

Al riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato formula le medesime considerazioni svolte in relazione all’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione.

La difesa dello Stato ricorda, infine, che la Corte di cassazione ha già ritenuto la maggiore severità della disciplina della recidiva reiterata nel caso di realizzazione di un delitto di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., non irragionevole in quanto limitata a fattispecie specifiche, caratterizzate da notevole allarme sociale, e indicative del perdurare della capacità a delinquere del reo.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, quinta sezione penale, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione).

La Corte rimettente ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 192 del 2007) e di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio 2010, n. 35738), l’art. 99, quinto comma, cod. pen., prevede un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che si affianca alle diverse forme di recidiva facoltativa disciplinate dai primi quattro commi del medesimo articolo (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798), e ritiene che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., con riferimento all’art. 3 Cost., non sia manifestamente infondata. Infatti, a suo avviso, l’applicazione obbligatoria della recidiva, «Svincolata dall’accertamento in concreto sulla base dei criteri applicativi indicati [dalla giurisprudenza] e affidata alla sola indicazione del titolo del nuovo delitto», viene privata di una base empirica adeguata a preservare il fondamento della circostanza aggravante (ossia l’attitudine della ricaduta nel delitto ad esprimere una più accentuata colpevolezza e una maggiore pericolosità del reo), risolvendosi in una presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza o di maggiore pericolosità, del tutto irragionevole.

La manifesta irragionevolezza della norma impugnata, peraltro, troverebbe ulteriore conferma nel criterio legislativo di individuazione dei reati che comportano la recidiva obbligatoria – «criterio incentrato sul catalogo di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., che contiene “un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale” (Corte cost., sentenza n. 192 del 2007)» – che è privo di correlazione con l’accertamento della sussistenza, nel caso concreto, delle condizioni della recidiva e, in particolare, è inidoneo ad esprimere una «relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo delitto» in grado di offrire un congruo fondamento giustificativo al giudizio di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità, da cui deve essere sorretta l’applicazione della recidiva.

La norma censurata violerebbe, in secondo luogo, il principio di uguaglianza dettato dall’art. 3 Cost., in quanto darebbe luogo ad un’illegittima uguaglianza di trattamento di situazioni diverse, precludendo l’accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.

Infine, la questione sarebbe non manifestamente infondata in relazione al principio di proporzionalità della pena, riconducibile all’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la preclusione dell’accertamento giurisdizionale della sussistenza, nel caso concreto, delle condizioni “sostanziali” legittimanti l’applicazione della recidiva renderebbe la pena palesemente sproporzionata – e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanificandone, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa.

2.– La Corte d’appello di Napoli, terza sezione penale, sempre con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., muove analoghe censure all’art. 99, quinto comma, cod. pen., richiamando «interamente il contenuto della ordinanza emessa dalla V sezione della S.C.C. in data 3 luglio  2014, dep. 10 settembre 2014», con cui è stata sollevata la medesima questione di legittimità costituzionale.

3.– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione.

4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione sollevata dalla Corte d’appello di Napoli (r.o. n. 35 del 2015), perché l’ordinanza di rimessione presenta un’assoluta carenza di descrizione della fattispecie concreta e di motivazione sulla rilevanza.

L’eccezione è fondata.

La Corte rimettente – dopo aver enunciato le ragioni della non manifesta infondatezza della questione, anche attraverso il rinvio all’ordinanza della Corte di cassazione – ha ritenuto la questione rilevante «atteso che vengono in rilievo, per tutti gli imputati, precedenti datati e disomogenei rispetto alla regiudicanda».

Il giudice a quo, però, ha omesso, sia di indicare il capo di imputazione e il titolo di reato per cui procede, sia di descrivere il fatto contestato agli imputati. Dall’ordinanza di rimessione non emerge se il reato per cui si procede e a cui si riferisce la recidiva rientra nel catalogo dell’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, situazione che costituisce il presupposto per l’applicazione della norma censurata.

La mancanza di indicazione del reato contestato e di descrizione della fattispecie impedisce a questa Corte di verificare la rilevanza della questione, rendendola manifestamente inammissibile (ex multis, ordinanze n. 16 del 2014 e n. 295 del 2013).

5.– Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, anche la questione sollevata dalla Corte di cassazione (r.o. n. 227 del 2014) sarebbe inammissibile, perché il rimettente non ha preliminarmente verificato la possibilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità, non avendo considerato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, vi sarebbero delle ipotesi in cui al giudice è consentito non applicare l’aumento di pena per la recidiva, ancorché obbligatoria.

Ciò accade, in primo luogo, nel caso di concorso tra la recidiva obbligatoria (non reiterata) e una o più circostanze attenuanti, in quanto il divieto di prevalenza sancito dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., opera solamente nelle ipotesi di recidiva reiterata di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen. e non anche in quelle di recidiva obbligatoria di cui al quinto comma del medesimo articolo.

L’esclusione della recidiva obbligatoria dalle limitazioni poste al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee permetterebbe, dunque, al giudice di ritenere prevalenti, su di essa, eventuali circostanze attenuanti, «in tal modo recuperando la possibilità di adattare la pena al caso concreto, venuta meno la causa della obbligatorietà della recidiva».

In secondo luogo, come hanno ricordato le sezioni unite della Corte di cassazione, la recidiva è circostanza aggravante ad effetto speciale quando comporta un aumento di pena superiore a un terzo e pertanto soggiace, in caso di concorso con circostanze aggravanti dello stesso tipo, alla regola dell’applicazione della pena prevista per la circostanza più grave, e ciò pur quando l’aumento che ad essa segua sia obbligatorio, per avere il soggetto, già recidivo per un qualunque reato, commesso uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. L’applicabilità dell’art. 63, terzo comma, cod. pen., perciò, può comportare una deroga al regime di obbligatorietà dell’aumento di pena per la recidiva di cui al quinto comma dell’art. 99 cod. pen.

L’eccezione è priva di fondamento.

La Corte rimettente – premesso che la Corte d’assise d’appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di primo grado che aveva condannato gli imputati per i reati di cui agli artt. 81, cpv., 600 e 600-bis cod. pen., ha rideterminato la pena, ritenendo la contestata recidiva obbligatoria e le circostanze attenuanti generiche equivalenti – ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., rilevante, in quanto la giurisprudenza costituzionale e di legittimità  sulla disciplina della recidiva, così come ridisegnata dalla legge n. 251 del 2005, «rende ragione […] della qualificazione come obbligatoria della recidiva [semplice] applicata nel caso di specie all’imputato, posto che […] entrambi i reati per i quali è intervenuta condanna sono ricompresi nel “catalogo” di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.» e che l’imputato è gravato da un precedente penale per il reato di rissa di cui all’art. 588 cod. pen.

Il giudice a quo chiarisce, quindi, che la recidiva contestata ad uno degli imputati ed applicata dalla sentenza di appello è semplice ma obbligatoria, rientrando il nuovo episodio delittuoso nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.

Considerato che la recidiva obbligatoria si affianca alle diverse forme di recidiva facoltativa disciplinate dai primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen. (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798) e che, nel caso di specie, si tratta di un’ipotesi di recidiva sì obbligatoria ma semplice, l’aumento relativo è quello, indicato dal primo comma dell’art. 99 cod. pen., di un terzo della pena da infliggere per il nuovo reato. Non viene pertanto in considerazione l’applicabilità dell’art. 63, terzo comma, cod. pen.

È vero, invece, che, trattandosi di recidiva semplice, non dovrebbe operare, nella fattispecie in esame, l’art. 69, quarto comma, cod. pen., che introduce, nei casi previsti dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., ossia nelle ipotesi di recidiva reiterata, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti. Però la Corte d’assise d’appello di Napoli ha ritenuto la recidiva equivalente alle attenuanti generiche e con il ricorso per cassazione gli imputati hanno contestato l’applicazione della recidiva e non anche il giudizio di comparazione, che è rimasto sottratto al sindacato di legittimità della Corte di cassazione. Perciò la Corte era inevitabilmente tenuta a fare applicazione della norma impugnata.

6.– Nel merito la questione sollevata dalla Corte di cassazione è fondata.

7.– L’art. 4 della legge n. 251 del 2005 ha sostituito l’art. 99 cod. pen., introducendo nel quinto comma un’ipotesi di recidiva obbligatoria, che ricorre «Se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale».

Nel ricostruire i lineamenti della recidiva dopo l’avvenuta sostituzione dell’art. 99 cod. pen., effettuata con l’art. 4 della legge n. 251 del 2005, la giurisprudenza costituzionale ha messo a fuoco l’istituto, individuando il suo fondamento nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo, e ha prospettato la facoltatività di tutte le ipotesi di recidiva diverse da quella del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., e quindi anche la facoltatività della recidiva reiterata, prevista dal quarto comma (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 171 del 2009, n. 257, n. 193, n. 90 e     n. 33 del 2008).

In particolare è stato chiarito che nel caso di recidiva facoltativa l’aumento di pena può essere disposto «solo allorché il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (ordinanza n. 409 del 2007; conformi, ex plurimis, ordinanze n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008).

8.– L’orientamento prospettato da questa Corte è stato recepito dalla giurisprudenza di legittimità, che ha riconosciuto la natura facoltativa di tutte le ipotesi di recidiva, ad eccezione di quella rappresentata dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen., e ha ritenuto che quando la contestazione concerne una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen. è compito del giudice verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito è effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistenti fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante, significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero riscontro formale dei precedenti penali. All’esito di tale verifica si ritiene che al giudice sia consentito negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio 2010, n. 35738. In senso conforme, Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798).

9.– Nel caso della recidiva prevista dall’art. 99, quinto comma, cod. pen., questa verifica è preclusa; l’aumento della pena consegue automaticamente al mero riscontro formale della precedente condanna e dell’essere il nuovo reato compreso nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., senza che il giudice sia tenuto ad accertare in concreto se, in rapporto ai precedenti, il nuovo episodio delittuoso sia indicativo di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo.

La norma censurata, quindi, introduce un vero e proprio automatismo sanzionatorio, basato sul titolo del nuovo reato, e più precisamente sulla sua appartenenza al catalogo dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen..

Ad avviso del giudice rimettente, è questo automatismo che, per la sua irragionevolezza, si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.

9.1.– Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità legislativa, il cui esercizio non può formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, salvo che si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie (ex multis: sentenze n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006).

Nel caso di specie, il rigido automatismo sanzionatorio cui dà luogo la norma censurata – collegando l’automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso – è del tutto privo di ragionevolezza, perché inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo.

L’obbligatorietà stabilita dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen. impone l’aumento della pena anche nell’ipotesi in cui esiste un solo precedente, lontano nel tempo, di poca gravità e assolutamente privo di significato ai fini della recidiva.

È da notare che «la funzione del quinto comma è quella di prefigurare, in rapporto a ciascuna delle forme di recidiva facoltativa in precedenza disciplinate, altrettante ipotesi di recidiva obbligatoria» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798). Ciò significa che mentre nei primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen. sono previste ipotesi di diversa gravità della recidiva, con il passaggio da quella semplice (primo comma) a quella aggravata (secondo comma), a quella pluriaggravata (terzo comma) e a quella reiterata (quarto comma), che possono avere un significato assai diverso ai fini della valutazione della colpevolezza e della pericolosità del reo, nel quinto comma tutte queste diverse ipotesi vengono irragionevolmente parificate in una previsione di obbligatorietà, che comporta un aumento di pena solo in ragione del titolo del reato che è stato commesso. Ne deriva che il giudice nell’applicare la pena prevista per questo reato deve aumentarla, anche se l’aumento è privo di una reale giustificazione, oggettiva o soggettiva. 

L’irragionevolezza della norma impugnata è ancor più manifesta se si considera che l’elenco dei delitti che comportano l’obbligatorietà, contenuto nell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., concerne reati eterogenei, collegati dal legislatore solo in funzione di esigenze processuali e in particolare del termine di durata massima delle indagini preliminari, e quindi inidonei ad esprimere un comune dato significativo ai fini dell’applicazione della recidiva.

9.2.– L’automatismo sanzionatorio introdotto dalla norma censurata non potrebbe giustificarsi neppure ritenendo che esso si fondi su una presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità del reo.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit». In particolare, «l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (ex multis, sentenze n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e    n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).

Nel caso di specie, la presunzione in questione, relativa alla colpevolezza e alla pericolosità del reo, sarebbe giustificata unicamente dall’appartenenza del nuovo episodio delittuoso al catalogo dei reati indicati dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., ma non potrebbe trovare fondamento in un dato di esperienza generalizzato.

Un dato del genere infatti non esiste, posto che per le ragioni indicate ben possono ipotizzarsi accadimenti reali contrari alla generalizzazione presunta.

In conclusione, l’art. 99, quinto comma, cod. pen., nel prevedere che nei casi di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., la recidiva è obbligatoria, contrasta con il principio di ragionevolezza e parifica nel trattamento obbligatorio situazioni personali e ipotesi di recidiva tra loro diverse, in violazione dell’art. 3 Cost.

9.3.– La previsione di un obbligatorio aumento di pena legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun «accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – “sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo” (sentenza n. 192 del 2007)» (sentenza n. 183 del 2011), viola anche l’art. 27, terzo comma, Cost., che implica «“un costante ‘principio di proporzione’ tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenza n. 341 del 1994)» (sentenza n. 251 del 2012). La preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art. 27, terzo comma, Cost.

10.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «è obbligatorio e,».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), limitatamente alle parole «è obbligatorio e,»;

2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 4 della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2015.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2015.