SENTENZA N. 242
ANNO 2019
Commenti alla decisione di
I. Antonio Ruggeri, Rimosso
senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla
luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a
prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), per g.c. di Giustizia Insieme
II. Cristiano Cupelli,
Il
Parlamento decide di non decidere e la
Corte costituzionale risponde a se stessa.
La sentenza n. 242 del 2019 e il caso Cappato, per g.c. di Sistema Penale
III. Marilisa D'Amico,
Il
“fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi
penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019),
per g.c. dell’Osservatorio AIC
IV. Giulio Battistella,
Il
diritto all'assistenza medica a morire tra l'intervento «costituzionalmente obbligato»
del Giudice delle leggi e la discrezionalità del Parlamento Spunti di riflessione
sul seguito legislativo, per g.c. dell’Osservatorio AIC
V. Rita Pescatore, Caso
Cappato-Antoniani: analisi di un nuovo modulo monitorio, per g.c. dell’Osservatorio AIC
VI. Mario Romano, Aiuto al
suicidio, rifiuto o rinuncia a trattamenti sanitari, eutanasia (sulle recenti pronunce
della Corte costituzionale), per g.c. di Sistema Penale
VII. Chiara Tripodina, La
“circoscritta area” di non punibilità di aiuto al suicidio. Cronaca e commento di
una sentenza annunciata, per g.c. di Corti supreme e salute
VIII. Tomaso Epindedio, La
sentenza della Corte costituzionale n.242 del 2019: apocalypsis cum figuris, per g.c. di Giudicedonna.it
IX. Francesco Moroni, I
poteri della Corte costituzionale in materia penale: riflessioni a margine del caso
Cappato, per g.c. di Giudicedonna.it
X. Zaira Secchi, Il caso Cappato: prime riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale, per g.c. di Giudicedonna.it
XI. Roberto Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto
fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali:
la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut,
in questa Rivista, Studi, 2020/I
XII. Costanza Masciotta, La Corte costituzionale riconosce
il diritto, preannunciato, a morire rapidamente e con dignità con una tecnica decisoria
dalle dirompenti implicazioni, in questa Rivista, Studi, 2020/I
XIII. Ludovica Poli, La sentenza
n. 242 del 2019 della Corte costituzionale alla luce della giurisprudenza di Strasburgo,
per g.c. dell’Osservatorio AIC
XIV. Omar Caramaschi, La
Corte costituzionale apre al diritto all’assistenza nel morire in attesa dell’intervento
del legislatore (a margine della sent. n. 242 del 2019), per g.c. dell’Osservatorio AIC
XV. Francesco Rinaldi,
Un
totenrecht o diritto di non soffrire? per g.c. di Dirittifondamentali.it
XVI. Massimo
Donini, Libera nos a malo. I diritti di disporre
della propria vita per la neutralizzazione del male, per g.c. di Sistema Penale
XVII. Cristiano
Cupelli, Il
caso (Cappato) è chiuso, ma la questione (agevolazione al suicidio) resta aperta, per g.c. di Sistema Penale
XVIII. Erik Furno, Il
“caso Cappato” ovvero dell’attivismo giudiziale, per g.c. dell’Osservatorio AIC
XIX. Giovanna
Razzano, Nessun
diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte
costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto
al suicidio, per g.c. di Dirittifondamentali.it
XX. Nicola Colaianni, L’aiuto al suicidio tra Corte costituzionale 242/2019
e BundesVerfassungsGericht 26 febbraio 2020, per g.c. di Stato,
Chiese e pluralismo confessionale
XXI. Paolo Caretti,
La
Corte costituzionale chiude il caso Cappato ma sottolinea ancora una volta l’esigenza
di un intervento legislativo in materia di “fine vita”, per g.c. dell’Osservatorio sulle fonti
XXII. Stefano
Catalano, La
sentenza 242 del 2019: una pronuncia additiva molto particolare senza ‘rime obbligate’,
per g.c. dell’Osservatorio
AIC
XXIII. Fabrizio
Politi, La
sentenza n. 242 del 2019 ovvero della rarefazione del parametro costituzionale e
della fine delle “rime obbligate”? Un giudizio di ragionevolezza in una questione
di costituzionalità eticamente (molto) sensibile, per g.c. di Diritti fondamentali
XXIV Federico
Laus, Il
rapporto tra Corte costituzionale e legislatore, alla luce delle pronunce sul caso
Cappato e sulle tutele crescenti nel Jobs Act, per g.c. della Rivista AIC
XXV. Francesco Cirillo, Nuovi
diritti e nuovi doveri nelle questioni di fine vita? (a margine della sent. n. 242
del 2019), per g.c. dell’Osservatorio
AIC
XXVI. Gabriele Fornasari, Paternalismo
hard, paternalismo soft e antipaternalismo nella disciplina penale
dell'aiuto al suicidio. Corte costituzionale e Bundesverfassungsgericht a
confronto, per g.c. di Sistema Penale
XXVII. Nicola Recchia, Il
suicidio medicalmente assistito tra Corte costituzionale e Bundesverfassungsgericht,
per g.c. di Sistema Penale
XXVIII. Franca Meola, Discrezionalità
legislativa e sindacato di costituzionalità ragionando sul tema alla luce del c.d.
caso Cappato, per g.c. di Diritto Pubblico Europeo Rassegna
on-line
XXIX. Francesco Paterniti, La Corte 'pedagogista' di un legislatore colpevolmente inerte, per g.c. di Federalismi.it
XXX. Andrea Patané, Sentenza
Cappato-Antoniani e diritto alla vita: un “testamento costituzionale” al legislatore
che non ha ancora trovato un esecutore, per g.c. di Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO,
Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ,
Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
580 del codice penale, promosso dalla Corte di assise di Milano, nel procedimento
penale a carico di M. C., con ordinanza
del 14 febbraio 2018, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2018 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno
2018.
Visti l’atto di costituzione di M. C., nonché l’atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 24 settembre 2019 il Giudice relatore Franco
Modugno;
uditi gli avvocati Filomena Gallo e Vittorio Manes per M. C. e l’avvocato Generale
dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d’assise di Milano ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale:
a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa
alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione
o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt.
2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione,
in relazione agli artt.
2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con legge 4 agosto 1955, n. 848;
b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione
del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida,
siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza
distinzione rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con gli
artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
Con riguardo alle questioni sub a), il riferimento all’art. 3 (anziché all’art.
2) Cost. che compare nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione deve considerarsi
frutto di mero errore materiale, alla luce del tenore complessivo della motivazione
e delle «[c]onclusioni» che precedono immediatamente il dispositivo stesso.
1.1.– Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni traggono origine
dalla vicenda di F. A., il quale, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto
il 13 giugno 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale
(dunque, permanente). Non era autonomo nella respirazione (necessitando dell’ausilio,
pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell’alimentazione
(venendo nutrito in via intraparietale) e nell’evacuazione. Era percorso, altresì,
da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano
essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda.
Conservava, però, intatte le facoltà intellettive.
All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione
e di cura (comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in
India nel dicembre 2015), la sua condizione era risultata irreversibile.
Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la
volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Di fronte
ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per
dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno “sciopero”
della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di
parlare.
Di seguito a ciò, aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata,
con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica
consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica.
Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato nel giudizio
a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione
profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.
Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito,
l’imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta.
Inviata a quest’ultima la documentazione attestante le proprie condizioni di salute
e la piena capacità di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da essa
il “benestare” al suicidio assistito, con fissazione della data. Nei mesi successivi
alla relativa comunicazione, egli aveva costantemente ribadito la propria scelta,
comunicandola dapprima agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello
al Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come “una liberazione”».
Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove risiedeva)
in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida
l’imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima.
In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva novamente verificato
le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via
autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni,
tanto l’imputato, quanto i familiari, avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli
che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso
sarebbe stato da loro riportato in Italia.
Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando
con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco
letale.
Di ritorno dal viaggio, M. C. si era autodenunciato ai carabinieri.
A seguito di ordinanza di “imputazione coatta”, adottata ai sensi dell’art.
409 del codice di procedura penale dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
ordinario di Milano, egli era stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte
rimettente per il reato di cui all’art. 580 cod. pen., tanto per aver rafforzato
il proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato l’esecuzione.
Il giudice a quo esclude, peraltro, la configurabilità della prima ipotesi accusatoria.
Alla luce delle prove assunte nel corso dell’istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe,
infatti, maturato la decisione di rivolgersi all’associazione svizzera prima e indipendentemente
dall’intervento dell’imputato.
La Corte rimettente ritiene, invece, che l’accompagnamento in auto di F. A.
presso la clinica elvetica integri, in base al diritto vivente, la fattispecie dell’aiuto
al suicidio, in quanto condizione per la realizzazione dell’evento. L’unica sentenza
della Corte di cassazione che si è occupata del tema ha, infatti, affermato che
le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma censurata in via alternativa
rispetto a quelle di istigazione, debbono ritenersi perciò stesso punibili a prescindere
dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell’aspirante suicida. La medesima
sentenza ha precisato, altresì, che, alla luce del dettato normativo (in forza del
quale è punito chiunque agevola «in qualsiasi modo» l’esecuzione dell’altrui proposito
di suicidio), la nozione di aiuto penalmente rilevante deve essere intesa nel senso
più ampio, comprendendo ogni tipo di contributo materiale all’attuazione del progetto
della vittima (fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso, rimuovere ostacoli
o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito e via dicendo,
ovvero anche omettere di intervenire, qualora si abbia l’obbligo giuridico di impedire
l’evento) (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo
1998, n. 3147).
1.2.– Su questo presupposto, la Corte d’assise milanese dubita, tuttavia, della
legittimità costituzionale della norma censurata, anzitutto nella parte in cui incrimina
le condotte di aiuto al suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare
o a rafforzare il proposito della vittima.
Il giudice a quo rileva come la disposizione denunciata presupponga che il suicidio
sia un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di
sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo,
ritenuti preminenti nella visione del regime fascista.
La disposizione dovrebbe essere, però, riletta alla luce della Costituzione:
in particolare, del principio personalistico enunciato dall’art. 2 – che pone l’uomo
e non lo Stato al centro della vita sociale – e di quello di inviolabilità della
libertà personale, affermato dall’art. 13; principi alla luce dei quali la vita
– primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo – non potrebbe essere «concepita
in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare». Di qui, dunque, anche
la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
Il diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con
riguardo ai trattamenti terapeutici, è stato, d’altronde, ampiamente valorizzato
prima dalla giurisprudenza – in particolare, con le pronunce sui casi Welby (Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17
ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza
16 ottobre 2007, n. 21748) – e poi dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre
2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate
di trattamento), che sancisce in modo espresso il diritto della persona capace di
rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la propria
sopravvivenza (compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale), nonché
il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di
tutela da parte dello Stato «la dignità nella fase finale della vita».
La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo. Essa avrebbe conosciuto una evoluzione, il cui approdo
finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt.
2 e 8 CEDU (che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita
e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo «di
decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà».
A fronte di ciò, il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe
oggi identificato, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza
della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino
la sua scelta.
In quest’ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio che non abbiano
inciso sul percorso deliberativo della vittima risulterebbe ingiustificata e lesiva
degli artt. 2, 13, primo comma, e 117 Cost. In tale ipotesi, infatti, la condotta
dell’agevolatore rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso
da un soggetto che esercita una libertà costituzionale, risultando quindi inoffensiva.
1.3.– La Corte d’assise milanese censura, per altro verso, la norma denunciata
nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del
proposito dell’aspirante suicida, con la stessa severa pena – reclusione da cinque
a dieci [recte: dodici] anni – prevista per le condotte di istigazione.
La disposizione violerebbe, per questo verso, l’art. 3 Cost., unitamente al
principio di proporzionalità della pena al disvalore del fatto, desumibile dagli
artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
Le condotte di istigazione al suicidio sarebbero, infatti, certamente più incisive,
anche sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito
alla realizzazione dell’altrui autonoma determinazione. Del tutto diverse risulterebbero,
altresì, nei due casi, la volontà e la personalità del partecipe.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare,
l’inammissibilità delle questioni sotto plurimi profili: per difetto di rilevanza,
avendo il rimettente già escluso, alla luce dell’istruttoria svolta, che il comportamento
dell’imputato sia valso a rafforzare il proposito di suicidio di F. A.; per richiesta
di un avallo interpretativo e omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme
a Costituzione, non preclusa dall’esistenza di un’unica pronuncia di segno contrario
della Corte di cassazione risalente al 1998, inidonea a costituire diritto vivente;
per richiesta, infine, di una pronuncia manipolativa in materia rimessa alla discrezionalità
del legislatore – quale quella dell’individuazione dei fatti da sottoporre a pena
e della determinazione del relativo trattamento sanzionatorio – e in assenza di
una soluzione costituzionalmente obbligata.
Nel merito – ad avviso dell’interveniente – le questioni risulterebbero, comunque
sia, infondate.
Erroneo risulterebbe il riferimento alla disciplina di cui alla legge n. 219
del 2017, posto che il riconoscimento del diritto a rifiutare le cure non implicherebbe
affatto quello di ottenere un aiuto al suicidio, non potendo il paziente chiedere,
in ogni caso, al medico trattamenti contrari alla legge o alla deontologia professionale.
Quanto alla denunciata violazione delle disposizioni della CEDU, come interpretate
dalla Corte di Strasburgo, quest’ultima ha, in realtà, affermato che l’art. 2 della
Convenzione, dato il suo tenore letterale, deve essere interpretato nel senso che
esso contempla il diritto alla vita e non il suo opposto. Esso non conferisce, quindi,
il «diritto a morire», né con l’intervento della pubblica autorità, né con l’assistenza
di una terza persona (Corte
europea dei diritti dell’uomo, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto assoluto di aiuto al suicidio
sarebbe, inoltre, del tutto compatibile con l’art. 8 della Convenzione, restando
affidata al margine di apprezzamento dei singoli Stati la valutazione se l’eventuale
liberalizzazione del suicidio assistito possa far sorgere rischi di abuso a danno
dei pazienti più anziani e vulnerabili.
L’incriminazione dell’aiuto al suicidio risulterebbe, d’altra parte, intrinsecamente
ragionevole, anche qualora si ritenga che alle sue finalità di tutela non resti
estranea la libertà di autodeterminazione del titolare del bene protetto. Tale libertà,
quando si orienti nel senso di porre fine alla propria esistenza, dovrebbe essere,
infatti, «assicurata usque ad vitae supremum exitum»: ottica nella quale l’esecuzione
di quell’estremo proposito dovrebbe rimanere riservata esclusivamente all’interessato,
così da assicurare fino all’ultimo istante l’efficacia di un possibile ripensamento.
Quanto, poi, alla censurata omologazione del trattamento sanzionatorio delle
condotte di istigazione e di agevolazione al suicidio, essa non contrasterebbe con
i parametri evocati, potendo il giudice valorizzare, comunque sia, la diversa gravità
delle condotte stesse in sede di determinazione della pena nell’ambito della cornice
edittale, ovvero ai fini del riconoscimento di circostanze attenuanti.
3.– Si è costituito, altresì, M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale,
con una successiva memoria – contestate le eccezioni di inammissibilità dell’Avvocatura
generale dello Stato – ha rilevato come, di là dalla generica formulazione del petitum,
le questioni debbano ritenersi radicate sul caso di specie.
Alla luce dello sviluppo argomentativo dell’ordinanza di rimessione, i dubbi
di legittimità costituzionale dovrebbero reputarsi circoscritti, in particolare,
alle ipotesi di agevolazione del suicidio di un soggetto che versi «in uno stato
di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, essendo tenuto in vita grazie
a presidi medici in assenza dei quali andrebbe incontro, sia pure in modo lento
e doloroso per sé e per i suoi cari, alla fine della propria esistenza».
In tali termini, le questioni risulterebbero pienamente fondate.
3.1.– Al riguardo, la parte costituita osserva come, nel disegno del legislatore
del codice penale del 1930, la norma censurata fosse destinata a proteggere la vita,
intesa come bene non liberamente disponibile da parte del suo titolare. Nella visione
dell’epoca, infatti, la tutela dell’individuo era secondaria rispetto a quella della
collettività statale: il suicidio era visto, di conseguenza, in termini negativi,
come l’atto di chi, togliendosi la vita, sottraeva forza lavoro e cittadini alla
Patria. Non ritenendosi di dover sanzionare il suicida (neppure qualora ciò fosse
materialmente possibile, ossia nel caso di semplice tentativo), si apprestava quindi
una tutela di tipo indiretto, punendo chi avesse contribuito, sul piano psicologico
o materiale, alla realizzazione del proposito di suicidio altrui.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, il bene della vita dovrebbe
essere riguardato unicamente in una prospettiva personalistica, come interesse del
suo titolare volto a consentire il pieno sviluppo della persona, secondo il disposto
dell’art. 3, secondo comma, Cost. Di qui la maggiore attenzione verso la libertà
di autodeterminazione individuale, anche nelle fasi finali della vita, specie quando
si tratti di persone che versano in condizioni di eccezionale sofferenza: atteggiamento
che ha trovato la sua espressione emblematica nella sentenza della Corte di cassazione
relativa al caso di Eluana Englaro (Cass., n. 21748 del 2007).
Di fondamentale rilievo, in questa cornice, risulterebbe l’intervento normativo
realizzato con la legge n. 219 del 2017, la quale, nel quadro della valorizzazione
del principio costituzionale del consenso informato, ha «positivizzato» il diritto
del paziente di rifiutare le cure e di “lasciarsi morire”.
3.2.– Tale assetto normativo renderebbe ancor più evidente l’incoerenza dell’art.
580 cod. pen., nella parte in cui punisce anche la mera agevolazione del suicidio
di chi abbia liberamente maturato il relativo proposito al fine di porre termine
a uno stato di grave e cronica sofferenza, provocato anche dalla somministrazione
di presidi medico-sanitari non voluti sul proprio corpo.
Per questo verso, la norma censurata si porrebbe in contrasto con il «principio
personalista», di cui all’art. 2 Cost., e con quello di inviolabilità della libertà
personale, affermato dall’art. 13 Cost.: precetto costituzionale, quest’ultimo,
che, unitamente all’art. 32 Cost. (non evocato nel dispositivo dell’ordinanza di
rimessione, ma ripetutamente richiamato in motivazione), assicura la piena libertà
dell’individuo di scegliere quali interferenze esterne ammettere sul proprio corpo
e di tutelare, in questo senso, la sua dignità.
Emblematico, al riguardo, risulterebbe il caso oggetto del giudizio a quo, nel
quale il soggetto che aveva liberamente deciso di concludere la propria esistenza
– senza essere peraltro in grado di provvedervi autonomamente – risultava sottoposto
a trattamenti sanitari molto invasivi, la cui interruzione, ove pure accompagnata
dalla sedazione profonda, lo avrebbe portato alla morte solo dopo diversi giorni,
generando un prolungato stato di sofferenza nei familiari.
La libertà di rifiuto di simili presidi, senza che la dignità del malato sia
vulnerata con l’avvio di una fine lenta e dolorosa, esigerebbe il riconoscimento
della possibilità di accedere, anche tramite l’aiuto di terzi, a un farmaco letale.
La norma censurata violerebbe, in quest’ottica, anche il principio di ragionevolezza,
imponendo un sacrificio assoluto di libertà di primario rilievo costituzionale,
senza distinguere le condotte realmente lesive del bene protetto da quelle volte
invece a consentire l’attuazione del diritto all’autodeterminazione nelle scelte
di fine vita, non realizzabili da parte del diretto interessato.
3.3.– La norma denunciata si porrebbe in contrasto, ancora, con l’art. 8 CEDU
e, di conseguenza, con l’art. 117, primo comma, Cost.
Nella prospettiva della Corte EDU, infatti, il diritto all’autodeterminazione
individuale, anche con riguardo alle scelte inerenti il fine vita, costituisce il
terreno su cui poggia l’interpretazione del citato art. 8 della Convenzione, che
prevede il «diritto al rispetto della vita privata e familiare». Ciò comporta che
le interferenze statali su tale diritto possono ritenersi legittime solo entro i
limiti indicati dal paragrafo 2 dello stesso art. 8, cioè solo a condizione che
siano normativamente previste, oltre che necessarie e proporzionate rispetto a uno
degli scopi indicati dalla predetta disposizione.
Al riguardo, verrebbe in rilievo, come leading case, la sentenza Pretty contro Regno Unito
del 2002, con la quale si è ritenuto che la previsione di un generale divieto
di aiuto al suicidio non si ponesse, nella specie, in contrasto con il canone della
proporzionalità dell’interferenza statale, di cui al citato art. 8, paragrafo 2,
CEDU, in quanto l’ordinamento penale britannico è improntato al principio di flessibilità.
In quel sistema, infatti, vige un regime di azione penale discrezionale e non è,
inoltre, previsto un minimo edittale di pena per l’aiuto al suicidio, cosicché è
consentito al giudice di parametrare o addirittura di escludere la risposta punitiva,
in rapporto al concreto disvalore del fatto.
Lo standard di proporzionalità desumibile dall’art. 8 CEDU apparirebbe, per
converso, apertamente violato dall’art. 580 cod. pen., che stabilisce un divieto
generalizzato e incondizionato di agevolazione dell’altrui proposito suicida, in
un sistema, quale quello italiano, governato dal regime di obbligatorietà dell’azione
penale, prevedendo, per di più, una pena minima edittale di cinque anni di reclusione.
3.4.– La norma denunciata vulnererebbe, ancora, i principi di offensività e
di proporzionalità e la funzione rieducativa della pena, ponendosi così in contrasto
con gli artt. 13, 25, secondo comma – anche in riferimento all’art. 3 –, e 27, terzo
comma, Cost.
L’art. 580 cod. pen. rappresenterebbe, infatti, una ipotesi eccezionale di incriminazione
del concorso in un fatto lecito altrui, giustificabile – anche per quanto attiene
al particolare rigore della risposta punitiva – solo sulla base di una anacronistica
visione statalista del bene giuridico della vita: visione inconciliabile, per le
ragioni indicate, con l’attuale assetto costituzionale.
In questa prospettiva, la condotta di chi si limiti ad agevolare la realizzazione
di un proposito di suicidio liberamente formatosi dovrebbe essere considerata come
un «comportamento “penalmente inane”», essendo volta a garantire il diritto fondamentale
all’autodeterminazione sulle scelte del fine vita, riferite a una esistenza ritenuta
– per circostanze oggettive – non più dignitosa dal suo titolare.
3.5.– Evidente sarebbe anche la violazione del principio di eguaglianza, sotto
plurimi profili.
La norma censurata determinerebbe, infatti, una disparità di trattamento tra
chi è in grado di porre fine alla propria vita da solo, senza bisogno di aiuto esterno,
e chi, invece, è fisicamente impossibilitato a farlo per la gravità delle proprie
condizioni patologiche, con conseguente discriminazione a scapito proprio dei casi
maggiormente meritevoli di considerazione.
Irragionevolmente discriminatoria risulterebbe, inoltre, una disciplina penale
che riconosca la liceità dell’interruzione delle cure con esito letale, e dunque
la non antigiuricidità di una condotta attiva di interruzione di un decorso causale
immediatamente salvifico, punendo invece la condotta attiva di agevolazione della
causazione immediata della morte in condizioni analoghe.
La violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza si apprezzerebbe anche
all’interno della struttura della fattispecie, che vede equiparate quoad poenam
condotte – la determinazione e il rafforzamento del proposito suicidario, da un
lato, e la semplice agevolazione, dall’altro – caratterizzate da un coefficiente
di offensività radicalmente diverso.
Una simile irragionevole equiparazione si risolverebbe anche in un difetto di
proporzionalità del trattamento sanzionatorio, atta a compromettere la funzione
rieducativa della pena.
3.6.– Sulla base di tali considerazioni, la parte costituita ha chiesto, quindi,
che l’art. 580 cod. pen. venga dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella
parte in cui punisce la condotta di chi abbia agevolato l’esecuzione della volontà,
liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile
che produce gravi sofferenze, sempre che l’agevolazione sia strumentale al suicidio
di chi, alternativamente, avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti
sanitari»; ovvero, in subordine, «nella parte in cui prevede che le condotte di
agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del proposito suicidario
siano punite allo stesso modo della istigazione al suicidio».
4.– Sono intervenuti, inoltre, ad opponendum, il Centro Studi «Rosario Livatino»,
la libera associazione di volontariato «Vita è» e il Movimento per la vita italiano.
Tali interventi sono stati dichiarati inammissibili da questa Corte con ordinanza
pronunciata all’udienza pubblica del 23 ottobre 2018.
5.– In esito alla medesima udienza, questa Corte ha pronunciato l’ordinanza n. 207 del
2018, con la quale:
a) ha rilevato come – pur in assenza di una espressa indicazione in tal senso
da parte del giudice a quo – le questioni attinenti al trattamento sanzionatorio
della fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio debbano ritenersi logicamente
subordinate a quelle attinenti al suo ambito applicativo;
b) ha ritenuto non fondate le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura
generale dello Stato;
c) ha escluso che – contrariamente a quanto sostenuto in via principale dal
rimettente – l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo
del proposito della vittima sia, di per sé, incompatibile con la Costituzione: essa
si giustifica, infatti, in un’ottica di tutela del diritto alla vita, specie delle
«persone più deboli e vulnerabili»;
d) ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale
della fattispecie, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida
si identifichi (come nel caso oggetto del giudizio a quo) in una persona «(a) affetta
da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche,
che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di
trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere
e consapevoli»: evenienza nella quale il divieto indiscriminato di aiuto al suicidio
«finisce […] per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta
delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente
dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica
modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata
alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente
lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza
e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive»;
e) ha escluso, tuttavia, di poter porre rimedio – «almeno allo stato» – «al
riscontrato vulnus», tramite una pronuncia meramente ablativa riferita ai pazienti
che versino nelle condizioni sopra indicate: in assenza di una disciplina legale
della prestazione dell’aiuto verrebbero, infatti, a crearsi situazioni gravide di
pericoli di abuso nei confronti dei soggetti in condizioni di vulnerabilità; tale
disciplina dovrebbe, d’altro canto, investire una serie di profili, variamente declinabili
in base a scelte discrezionali, spettanti in linea di principio al legislatore;
f) ha escluso, però, al tempo stesso, di poter ricorrere alla tecnica decisoria
precedentemente adottata in casi similari, costituita dalla dichiarazione di inammissibilità
delle questioni accompagnata da un monito al legislatore per l’introduzione della
disciplina necessaria, alla quale dovrebbe fare seguito, nel caso il cui il monito
resti senza riscontro, la declaratoria di incostituzionalità: tale tecnica, infatti,
ha «l’effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per
un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione»;
effetto che «non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari
caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti»;
g) ha ritenuto, perciò, di dover percorrere una via alternativa: facendo leva,
cioè, sui «propri poteri di gestione del processo costituzionale», questa Corte
ha rinviato il giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni
all’udienza del 24 settembre 2019, «in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale
sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze
di tutela». In questo modo, si è lasciata pur sempre al Parlamento la possibilità
di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità, evitando,
però, che la norma censurata potesse trovare applicazione medio tempore (il giudizio
a quo è rimasto, infatti, sospeso, mentre negli altri giudizi i giudici hanno avuto
modo di valutare se analoghe questioni fossero rilevanti e non manifestamente infondate).
6.– In prossimità della nuova udienza, la parte costituita ha depositato una
ulteriore memoria, rilevando come l’invito rivolto al Parlamento da questa Corte
non sia stato accolto. Nessun seguito hanno, infatti, avuto le proposte di legge
presentate, che prospettavano, peraltro, soluzioni sensibilmente diverse tra loro.
A fronte di ciò, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art.
580 cod. pen., nei contorni già tracciati dall’ordinanza n. 207 del
2018, non sarebbe ulteriormente procrastinabile: e ciò per ragioni radicate,
oltre che nei fondamentali diritti del malato e nella sua dignità, anche nei diritti
inviolabili dell’imputato, il quale si vedrebbe altrimenti infliggere una sanzione
penale sulla base di una norma incostituzionale per cause «ordinamentali a lui non
addebitabili». Il principio di leale collaborazione istituzionale, al quale è stata
accordata la priorità in una prima fase, non potrebbe, dunque, che recedere, allo
stato, dinanzi alle esigenze di ripristino della costituzionalità violata.
Né gioverebbe obiettare che il mantenimento di una “cintura di protezione” penalmente
presidiata è giustificata, nell’ipotesi in esame, da esigenze di tutela del bene
supremo della vita umana. Le funzioni di prevenzione generale e speciale continuerebbero,
infatti, a essere assolte dall’art. 580 cod. pen., quale risultante all’esito della
pronuncia di accoglimento, stante la verificabilità ex post, da parte del giudice
penale, della sussistenza delle quattro condizioni lato sensu scriminanti indicate
dall’ordinanza n.
207 del 2018: condizioni la cui coesistenza risulterebbe largamente idonea a
evitare che la dichiarazione di incostituzionalità possa preludere a una vanificazione
della tutela dei soggetti vulnerabili.
In questa cornice, una sentenza di «accoglimento manipolativo», che inserisca
tali condizioni nel testo dell’art. 580 cod. pen., rappresenterebbe una «garanzia
di certezza in senso pieno», risultando perciò preferibile tanto a una pronuncia
interpretativa di rigetto, quanto a una sentenza additiva di principio: decisione,
quest’ultima, che farebbe gravare sul singolo giudice l’impropria responsabilità
di ricavare la regola attuativa del principio posto dalla Corte costituzionale,
quando invece l’art. 25, secondo comma, Cost. impone che i confini della norma penale
siano determinati e precisi.
A fronte dell’inerzia legislativa, la Corte potrebbe, d’altra parte, ricercare
in norme già vigenti nell’ordinamento idonei criteri ai quali parametrare l’accertamento
preventivo dei requisiti di liceità del suicidio assistito. Ciò particolarmente
alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale, dai
quali emerge una netta attenuazione della tesi per cui gli interventi di accoglimento
manipolativo esigerebbero l’esistenza di strette “rime obbligate”: ritenendosi,
di contro, sufficiente, a tal fine, che il sistema offra «precisi punti di riferimento»
e «soluzioni già esistenti».
Nella specie, la Corte potrebbe utilmente attingere alla disciplina delle modalità
di raccolta della volontà di revoca del consenso alle cure, di cui all’art. 1, comma
5, della legge n. 219 del 2017. I passaggi procedurali prefigurati da tale disposizione
risponderebbero a molte delle esigenze di regolamentazione poste in evidenza dall’ordinanza n. 207 del
2018: in particolare, che sia un medico a verificare ex ante, all’interno dell’alleanza
terapeutica con il paziente, le condizioni indicate da detta ordinanza, attestando
il suo controllo mediante idonea documentazione e prospettando le possibili alternative
al suicidio assistito, compresa la possibilità di ridurre le sofferenze tramite,
ad esempio, le cure palliative.
La parte costituita conclude, pertanto, chiedendo che l’art. 580 cod. pen. sia
dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui prevede che l’aiuto
al suicidio sia punibile anche se la persona che ha inteso porre fine alla propria
vita è “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche
o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in
vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere
decisioni libere e consapevoli”».
Considerato in diritto
1.– La Corte d’assise di Milano dubita della legittimità costituzionale dell’art.
580 del codice penale, che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio,
sotto due distinti profili.
1.1.– La Corte rimettente pone in discussione, in primo luogo, il perimetro
applicativo della disposizione censurata, lamentando che – secondo il diritto vivente
– essa incrimini le condotte di aiuto al suicidio «in alternativa alle condotte
di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione
o al rafforzamento del proposito di suicidio».
La disposizione denunciata violerebbe, per questo verso, gli artt. 2 e 13, primo
comma, della Costituzione, i quali, sancendo rispettivamente il «principio personalistico»
– che pone l’uomo, e non lo Stato, al centro della vita sociale – e quello di inviolabilità
della libertà personale, riconoscerebbero la libertà della persona di autodeterminarsi
anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa
debba aver luogo.
La medesima disposizione si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, i quali, nel
salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della
vita privata, comporterebbero – in base all’interpretazione della Corte europea
dei diritti dell’uomo – che l’individuo abbia il diritto di «decidere con quali
mezzi e a che punto la propria vita finirà» e che l’intervento repressivo degli
Stati in questo campo possa avere soltanto la finalità di evitare rischi di indebita
influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili.
Alla luce di tutti i parametri evocati, risulterebbe, dunque, ingiustificata
la punizione delle condotte di agevolazione dell’altrui suicidio che costituiscano
mera attuazione di quanto autonomamente deciso da chi esercita la libertà in questione,
senza influire in alcun modo sul percorso psichico del soggetto passivo, trattandosi
di condotte non lesive del bene giuridico tutelato.
1.2.– La Corte milanese contesta, in secondo luogo, il trattamento sanzionatorio
riservato alle condotte in questione, censurando l’art. 580 cod. pen. «nella parte
in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che
non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili
con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto
alle condotte di istigazione».
Sotto questo profilo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art.
3 Cost., essendo le condotte di istigazione al suicidio certamente più gravi, sotto
il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito alla
realizzazione dell’altrui autonoma determinazione di porre fine alla propria esistenza,
e risultando del tutto diverse, nei due casi, la volontà e la personalità dell’agente.
Sarebbero violati, inoltre, gli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma,
Cost., in forza dei quali la libertà dell’individuo può essere sacrificata solo
a fronte della lesione di un bene giuridico non altrimenti evitabile e la sanzione
deve essere proporzionata alla lesione provocata, così da prevenire la violazione
e provvedere alla rieducazione del reo.
2.– Con l’ordinanza
n. 207 del 2018, questa Corte ha già formulato una serie di rilievi e tratto
una serie di conclusioni in ordine al thema decidendum. Gli uni e le altre sono,
in questa sede, confermati. A essi si salda, in consecuzione logica, l’odierna decisione.
2.1.– Con la citata ordinanza, questa Corte ha rilevato, anzitutto, come tra
le questioni sollevate intercorra un rapporto di subordinazione implicita: interrogarsi
sul quantum della pena ha, infatti, un senso solo ove le condotte avute di mira
restino penalmente rilevanti e, dunque, solo in caso di mancato accoglimento delle
questioni volte a ridisegnare i confini applicativi della fattispecie criminosa.
Ha ritenuto, altresì, infondate le plurime eccezioni di inammissibilità formulate
dall’Avvocatura generale dello Stato, ivi compresa quella di omessa sperimentazione
dell’interpretazione conforme a Costituzione, rilevando come la prospettata interpretazione
adeguatrice risulti incompatibile con il tenore letterale della norma censurata.
2.2.– Nel merito, questa Corte ha escluso che – contrariamente a quanto sostenuto
in via principale dal giudice a quo – l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché
non rafforzativo del proposito della vittima, possa ritenersi di per sé in contrasto
con la Costituzione.
Per sostenere il contrasto, non è pertinente, infatti, il riferimento del rimettente
al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente – come «primo dei diritti inviolabili
dell’uomo» (sentenza
n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri –
dall’art. 2 Cost. (sentenza
n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 CEDU.
«Dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere
dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto
– di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi
un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa
derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a
morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,
proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty
contro Regno Unito)» (ordinanza n. 207 del
2018).
Neppure, poi, è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio
da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene
della vita: diritto che il rimettente ricava dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.
A prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del 1930, la
ratio dell’art. 580 cod. pen. può essere agevolmente scorta, alla luce del vigente
quadro costituzionale, nella «tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone
più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta
estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante
attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche
per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo
e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del
2018).
Le medesime considerazioni valgono, altresì, ad escludere che la norma censurata
si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con l’art. 8 CEDU, il quale sancisce
il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata: conclusione,
questa, confermata dalla pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo.
2.3.– All’interno del petitum principale del rimettente, questa Corte ha individuato,
nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie
criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi
– come nella vicenda oggetto del giudizio a quo – in una persona «(a) affetta da
una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che
trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti
di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»
(ordinanza n. 207
del 2018).
Si tratta di «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice
fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza
medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni
estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni
vitali». In tali casi, l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi
al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali,
a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di
rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost. Parametro, questo, non evocato
nel dispositivo nell’ordinanza di rimessione, ma più volte richiamato in motivazione.
Nei casi considerati – ha osservato questa Corte – la decisione di accogliere
la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente,
con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione
dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione
profonda continua. Ciò, in forza della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in
materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la cui
disciplina recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era già
pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria – in particolare a seguito delle
sentenze sui casi Welby (Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario
di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione,
sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) – nonché le indicazioni
di questa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato
del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico (ordinanza n. 207 del
2018): principio qualificabile come vero e proprio diritto della persona, che
trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost. (sentenze n. 253 del 2009
e n. 438 del 2008).
La citata legge n. 219 del 2017 riconosce, infatti, ad «[o]gni persona capace
di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario,
ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella
relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art.
1, comma 5): diritto inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia»
tra paziente e medico. In ogni caso, il medico «è tenuto a rispettare la volontà
espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo»,
rimanendo, «in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale»
(art. 1, comma 6).
Integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per
garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) – che tutela
e garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del
paziente, inserendole nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza – la legge
n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari
possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare
le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre,
al comma 2, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione
palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare
sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. Disposizione, questa, che «non può
non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto
di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione
artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche
il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte» (ordinanza n. 207 del
2018).
La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a
disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti
diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto,
il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento
e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Ne è testimonianza
il caso oggetto del giudizio principale, nel quale, «[s]econdo quanto ampiamente
dedotto dalla parte costituita, […] l’interessato richiese l’assistenza al suicidio,
scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con
contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata
prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida.
Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la
morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile
in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava
non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo»
(ordinanza n. 207
del 2018).
Al riguardo, occorre in effetti considerare che la sedazione profonda continua,
connessa all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale – sedazione che rientra
nel genus dei trattamenti sanitari – ha come effetto l’annullamento totale e definitivo
della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso. Si comprende,
pertanto, come la sedazione terminale possa essere vissuta da taluni come una soluzione
non accettabile.
Nelle ipotesi configurate nel dettaglio all’inizio di questo punto 2.3. vengono
messe in discussione, d’altronde, le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano
la repressione penale dell’aiuto al suicidio. Se, infatti, il fondamentale rilievo
del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato
di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari
– anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico,
da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato
dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore)
– non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo
assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di
un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione
dei presidi di sostegno vitale. Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone
più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze
appartengono solitamente a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare
che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato
dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre
termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si
vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa
ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri.
La conclusione è dunque che entro lo specifico ambito considerato, il divieto
assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente
la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese
quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e
32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi
dalla vita.
2.4.– Con la stessa ordinanza n. 207 del
2018, questa Corte ha ritenuto, peraltro, di non poter porre rimedio – «almeno
allo stato» – «al riscontrato vulnus», tramite una pronuncia meramente ablativa,
riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate. Una simile soluzione
avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente
protetti, lasciando «del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto
materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità
etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili
abusi».
In assenza di una specifica disciplina della materia, infatti, «qualsiasi soggetto
– anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire,
a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza
al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva
sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere
libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia
da cui sono affetti». Conseguenze, quelle ora indicate, delle quali «questa Corte
non può non farsi carico» (ordinanza n. 207 del
2018).
Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari, gravidi di
pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità, è suscettibile peraltro
di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile
sulla base di scelte discrezionali: «come, ad esempio, le modalità di verifica medica
della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere
l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva
esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale,
la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella
procedura».
La disciplina potrebbe essere inoltre «introdotta, anziché mediante una mera
modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., in questa sede
censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017
e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione
di cura e di fiducia tra paziente e medico”, opportunamente valorizzata dall’art.
1 della legge medesima» (ordinanza n. 207 del
2018). Potrebbe prospettarsi, ancora, l’esigenza di «introdurre una disciplina
ad hoc per le vicende pregresse», anch’essa variamente calibrabile.
Deve quindi, infine, essere sottolineata l’esigenza di adottare opportune cautele
affinché «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro
un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna
prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente
medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione
profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza […] in accordo con l’impegno
assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010». Il coinvolgimento in un
percorso di cure palliative deve costituire, infatti, «un pre-requisito della scelta,
in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (come già prefigurato
dall’ordinanza n.
207 del 2018).
Peraltro, nel parere del 18 luglio 2019 («Riflessioni bioetiche sul suicidio
medicalmente assistito»), il Comitato nazionale per la bioetica, pur nella varietà
delle posizioni espresse sulla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito,
ha sottolineato, all’unanimità, che la necessaria offerta effettiva di cure palliative
e di terapia del dolore – che oggi sconta «molti ostacoli e difficoltà, specie nella
disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione
specifica nell’ambito delle professioni sanitarie» – dovrebbe rappresentare, invece,
«una priorità assoluta per le politiche della sanità».
Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza
avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative.
2.5.– Questa Corte ha rilevato, da ultimo, come, in casi simili, essa abbia
dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata, accompagnandola con un monito
al legislatore per l’introduzione della disciplina necessaria a rimuovere il vulnus
costituzionale: pronuncia alla quale, ove il monito fosse rimasto senza riscontro,
ha fatto seguito, di norma, una declaratoria di incostituzionalità.
Tale soluzione è stata ritenuta, tuttavia, non percorribile nella specie.
La ricordata tecnica decisoria ha «l’effetto di lasciare in vita – e dunque
esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la
normativa non conforme a Costituzione. La eventuale dichiarazione di incostituzionalità
conseguente all’accertamento dell’inerzia legislativa presuppone, infatti, che venga
sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale, la quale può, peraltro,
sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza
di inammissibilità, mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare.
Un simile effetto non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue
peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti» (ordinanza n. 207 del
2018).
Questa Corte ha ritenuto, quindi, di dover procedere in altro modo. Facendo
leva sui «propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha fissato, cioè,
una nuova udienza di trattazione delle questioni, a undici mesi di distanza (segnatamente,
al 24 settembre 2019): udienza in esito alla quale avrebbe potuto essere valutata
l’eventuale sopravvenienza di una legge regolatrice della materia in conformità
alle segnalate esigenze di tutela.
In questo modo, si è lasciata al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie
decisioni rimesse alla sua discrezionalità, ma si è evitato che, nel frattempo,
la norma potesse trovare applicazione. Il giudizio a quo è rimasto, infatti, sospeso.
3.– Deve però ora prendersi atto di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta
nelle more della nuova udienza. Né, d’altra parte, l’intervento del legislatore
risulta imminente.
I plurimi progetti di legge pure presentati in materia, di vario taglio, sono
rimasti, infatti, tutti senza seguito.
Il relativo esame – iniziato presso la Camera dei deputati, quanto alle proposte
di legge A.C. 1586 e abbinate – si è, infatti, arrestato alla fase della trattazione
in commissione, senza che sia stato possibile addivenire neppure all’adozione di
un testo unificato.
4.– In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento,
questa Corte non può ulteriormente esimersi dal pronunciare sul merito delle questioni,
in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del
2018.
Non è a ciò d’ostacolo la circostanza che – per quanto rilevato nella medesima
ordinanza e come poco sopra ricordato – la decisione di illegittimità costituzionale
faccia emergere specifiche esigenze di disciplina che, pur suscettibili di risposte
differenziate da parte del legislatore, non possono comunque sia essere disattese.
Il rinvio disposto all’esito della precedente udienza risponde, infatti, con
diversa tecnica, alla stessa logica che ispira, nella giurisprudenza di questa Corte,
il collaudato meccanismo della “doppia pronuncia” (sentenza di inammissibilità “con
monito” seguita, in caso di mancato recepimento di quest’ultimo, da declaratoria
di incostituzionalità). Decorso un congruo periodo di tempo, l’esigenza di garantire
la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio
alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia,
alla quale spetta la priorità.
Come più volte si è avuto modo di rilevare, «posta di fronte a un vulnus costituzionale,
non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali
– la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio» (sentenze n. 162 del 2014
e n. 113 del 2011;
analogamente sentenza
n. 96 del 2015). Occorre, infatti, evitare che l’ordinamento presenti zone franche
immuni dal sindacato di legittimità costituzionale: e ciò «specie negli ambiti,
come quello penale, in cui è più impellente l’esigenza di assicurare una tutela
effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore» (sentenza n. 99 del 2019).
Risalente, nella giurisprudenza di questa Corte, è l’affermazione per cui non
può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale
delle leggi la carenza di disciplina – reale o apparente – che da essa può derivarne,
in ordine a determinati rapporti (sentenza n. 59 del 1958).
Ove, però, i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi
a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali
(suscettibile anch’essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell’inerzia legislativa),
questa Corte può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi
a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate
del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché
non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga
il Parlamento (in questo senso, sentenze n. 40 del 2019,
n. 233 e 222 del 2018 e n. 236 del 2016).
5.– Ciò posto, per quanto attiene ai contenuti della presente decisione, questa
Corte ha già puntualmente individuato, nell’ordinanza n. 207 del
2018, le situazioni in rapporto alle quali l’indiscriminata repressione penale
dell’aiuto al suicidio, prefigurata dall’art. 580 cod. pen., entra in frizione con
i precetti costituzionali evocati. Si tratta in specie – come si è detto – dei casi
nei quali venga agevolata l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente
e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno
vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche
che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere
e consapevoli.
Quanto, poi, all’esigenza di evitare che la sottrazione pura e semplice di tale
condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili
vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi «per la vita
di persone in situazioni di vulnerabilità» (ordinanza n. 207 del
2018), già più volte questa Corte, in passato, si è fatta carico dell’esigenza
di scongiurare esiti similari: in particolare, subordinando la non punibilità dei
fatti che venivano di volta in volta in rilievo al rispetto di specifiche cautele,
volte a garantire – nelle more dell’intervento del legislatore – un controllo preventivo
sull’effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta.
Ciò è avvenuto, ad esempio, in materia di aborto, con la sentenza n. 27 del 1975
(la quale dichiarò illegittimo l’art. 546 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva
che la gravidanza potesse essere interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse
«danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione
e non altrimenti evitabile, per la salute della madre»); ovvero, più di recente,
in materia di procreazione medicalmente assistita, con le sentenze n. 96 e n. 229 del 2015
(le quali hanno dichiarato illegittime, rispettivamente, le disposizioni che negavano
l’accesso alle relative tecniche alle coppie fertili portatrici di gravi malattie
genetiche, trasmissibili al nascituro, «accertate da apposite strutture pubbliche»,
e la disposizione che puniva ogni forma di selezione eugenetica degli embrioni,
senza escludere le condotte di selezione volte a evitare l’impianto nell’utero della
donna di embrioni affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili accertate nei
predetti modi).
Nell’odierno frangente, peraltro, un preciso «punto di riferimento» (sentenza n. 236 del
2016) già presente nel sistema – utilizzabile ai fini considerati, nelle more
dell’intervento del Parlamento – è costituito dalla disciplina racchiusa negli artt.
1 e 2 della legge n. 219 del 2017: disciplina più volte richiamata, del resto, nella
stessa ordinanza
n. 207 del 2018.
La declaratoria di incostituzionalità attiene, infatti, in modo specifico ed
esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero
alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari
alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge ora citata:
disposizione che, inserendosi nel più ampio tessuto delle previsioni del medesimo
articolo, prefigura una “procedura medicalizzata” estensibile alle situazioni che
qui vengono in rilievo.
Il riferimento a tale procedura – con le integrazioni di cui si dirà in seguito
– si presta a dare risposta a buona parte delle esigenze di disciplina poste in
evidenza nell’ordinanza
n. 207 del 2018.
Ciò vale, anzitutto, con riguardo alle «modalità di verifica medica della sussistenza
dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto». Mediante
la procedura in questione è, infatti, già possibile accertare la capacità di autodeterminazione
del paziente e il carattere libero e informato della scelta espressa. L’art. 1,
comma 5, della legge n. 219 del 2017 riconosce, infatti, il diritto all’interruzione
dei trattamenti di sostegno vitale in corso alla persona «capace di agire» e stabilisce
che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme previste dal precedente
comma 4 per il consenso informato. La manifestazione di volontà deve essere, dunque,
acquisita «nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente»
e documentata «in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona
con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare», per poi
essere inserita nella cartella clinica. Ciò, «[f]erma restando la possibilità per
il paziente di modificare la propria volontà»: il che, peraltro, nel caso dell’aiuto
al suicidio, è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione,
il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale.
Lo stesso art. 1, comma 5, prevede, altresì, che il medico debba prospettare
al paziente «le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative», promovendo
«ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di
assistenza psicologica». In questo contesto, deve evidentemente darsi conto anche
del carattere irreversibile della patologia: elemento indicato nella cartella clinica
e comunicato dal medico quando avvisa il paziente circa le conseguenze legate all’interruzione
del trattamento vitale e sulle «possibili alternative». Lo stesso deve dirsi per
le sofferenze fisiche o psicologiche: il promovimento delle azioni di sostegno al
paziente, comprensive soprattutto delle terapie del dolore, presuppone una conoscenza
accurata delle condizioni di sofferenza.
Il riferimento a tale disciplina implica, d’altro canto, l’inerenza anche della
materia considerata alla relazione tra medico e paziente.
Quanto all’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure
palliative, l’art. 2 della legge n. 219 del 2017 prevede che debba essere sempre
garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure
palliative previste dalla legge n. 38 del 2010 (e da questa incluse, come già ricordato,
nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza). Tale disposizione risulta estensibile
anch’essa all’ipotesi che qui interessa: l’accesso alle cure palliative, ove idonee
a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della
volontà del paziente di congedarsi dalla vita.
Similmente a quanto già stabilito da questa Corte con le citate sentenze n. 229 e n. 96 del 2015,
la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare
peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore
– a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime spetterà
altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere
evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire
la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.
La delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre, l’intervento di un organo
collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la
tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Nelle more dell’intervento
del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti.
Tali comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi
di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria – sono, infatti,
investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei
valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o,
amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici (art. 12, comma 10, lettera
c, del d.l. n. 158 del 2012; art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio
2013, recante «Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici»):
funzioni che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili e
che si estendono anche al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti
di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative
terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017,
recante «Disciplina dell’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione
clinica»).
6.– Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario,
vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita
a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare
alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto,
alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta
del malato.
7.– I requisiti procedimentali dianzi indicati, quali condizioni per la non
punibilità dell’aiuto al suicidio prestato a favore di persone che versino nelle
situazioni indicate analiticamente nel precedente punto 2.3., valgono per i fatti
successivi alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica.
In quanto enucleate da questa Corte solo con la presente sentenza, in attesa
dell’intervento del legislatore, le condizioni procedimentali in questione non possono
essere richieste, tal quali, in rapporto ai fatti anteriormente commessi, come quello
oggetto del giudizio a quo, che precede la stessa entrata in vigore della legge
n. 219 del 2017. Rispetto alle vicende pregresse, infatti, le condizioni in parola
non risulterebbero, in pratica, mai puntualmente soddisfatte.
Ciò impone una diversa scansione del contenuto della pronuncia sul piano temporale.
Riguardo ai fatti anteriori la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà
subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità
anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente
equivalenti.
Occorrerà dunque che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita
la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica,
dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere
e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà
dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente
con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente
informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni
alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente,
alla sedazione profonda continua. Requisiti tutti la cui sussistenza dovrà essere
verificata dal giudice nel caso concreto.
8.– L’art. 580 cod. pen. deve essere dichiarato, dunque, costituzionalmente
illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella
parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt.
1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione
della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità
equivalenti nei sensi dianzi indicati –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio,
autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti
di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze
fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere
decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione
siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale,
previo parere del comitato etico territorialmente competente.
L’ulteriore questione sollevata in via principale per violazione dell’art. 117,
primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU, resta assorbita.
Parimente assorbite restano le questioni subordinate, attinenti alla misura
della pena.
9.– Questa Corte non può fare a meno, peraltro, di ribadire con vigore l’auspicio
che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore,
conformemente ai principi precedentemente enunciati.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di
chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n.
219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento)
– ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in
motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente
formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta
da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella
reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli,
sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da
una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato
etico territorialmente competente.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 25 settembre 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2019.