Sentenza n. 27 del 1975
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SENTENZA N. 27

ANNO 1975

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott- Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 546 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 2 ottobre 1972 dal giudice istruttore del tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Minella Carmosina ed altri, iscritta al n. 384 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21 del 24 gennaio 1973.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 22 gennaio 1975 il Giudice relatore Paolo Rossi;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

Nel corso del procedimento penale a carico di tale Minella Carmosina ed altri, il giudice istruttore presso il tribunale di Milano ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 546 del codice penale nella parte in cui punisce chi cagiona l'aborto di donna consenziente anche qualora sia stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o per l'equilibrio psichico della gestante, senza che ricorrano gli estremi dello stato di necessità di cui all'art. 54 del codice penale. Osserva il giudice a quo che, secondo la comune interpretazione giurisprudenziale, il c.d. aborto terapeutico ricorre soltanto quando sussiste la inevitabilità e l'attualità del pericolo di un grave danno alla persona, mentre l'aborto praticato a scopo medico per evitare che la donna subisca aggravamenti di preesistenti alterazioni fisiche, rimane sanzionato penalmente. Detta incriminazione contrasterebbe, secondo l'ordinanza di rimessione, con gli artt. 31, secondo comma, e 32, primo comma) della Costituzione secondo cui la Repubblica "protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo" e "tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività". La dichiarazione d'illegittimità della norma consentirebbe invece a moltissime donne di poter ricorrere all'opera dei sanitari, anziché a quella pericolosissima delle fattucchiere.

É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 13 febbraio 1973, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione sollevata.

Osserva la difesa dello Stato che il vigente sistema giuridico penale, se correttamente interpretato, non contrasta con gli invocati principi costituzionali, giacché l'unica esimente esistente (art. 54 c.p.) consente che l'aborto sia praticato tutte le volte che, anche se non sia in pericolo la vita della donna incinta, si prospetti il pericolo di un danno grave alla salute della donna, danno proporzionato alla corrispondente gravità dell'aborto. Il suddetto sistema é pertanto pienamente compatibile con l'art. 31, secondo comma, della Costituzione, che, proteggendo la maternità e l'infanzia, vuol consentire alla donna di portare a termine la gravidanza e di allevare i figli nelle migliori condizioni fisiche, psichiche e ambientali possibili; ed altresì con l'art. 32 Cost., posto che permetterebbe di evitare qualsiasi pericolo di un serio danno alla salute della donna in stato gravidico.

Considerato in diritto

L'ordinanza del giudice istruttore presso il tribunale di Milano solleva un problema grave, argomento di polemiche e di attività legislativa in diverse nazioni.

Non é il caso di rifare la storia del delitto di procurato aborto, legata allo sviluppo del sentimento religioso, all'evolversi della filosofia morale, delle dottrine sociali, giuridiche, politiche e demografiche. Non punito in talune epoche, punito in altre con pene quando lievi quando severissime, il procurato aborto si considerò lesivo di interessi disparati, quali la vita, l'ordine delle famiglie, il buon costume, l'accrescimento della popolazione.

Nel vigente codice penale l'aborto volontario é rubricato come "delitto contro l'integrità della stirpe" (libro II titolo X c.p.). Secondo i lavori preparatori e la Relazione al Re che accompagna il codice, il bene protetto é "l'interesse demografico dello Stato". Il codice precedente, invece, considerava l'aborto fra i "delitti contro la persona", e questa sembra essere più giusta collocazione.

Il prodotto del concepimento fu alternativamente ritenuto semplice parte dei visceri della donna, speranza d'uomo, soggetto animato fin dall'inizio, o dopo un periodo più o meno lungo di gestazione.

Ritiene la Corte che la tutela del concepito - che già viene in rilievo nel diritto civile (artt. 320, 339, 687 c.c.) - abbia fondamento costituzionale. L'art. 31, secondo comma, della Costituzione impone espressamente la "protezione della maternità" e, più in generale, l'art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito.

E, tuttavia, questa premessa - che di per sé giustifica l'intervento del legislatore volto a prevedere sanzioni penali - va accompagnata dall'ulteriore considerazione che l'interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione. Ed é proprio in questo il vizio di legittimità costituzionale, che, ad avviso della Corte, inficia l'attuale disciplina penale dell'aborto.

L'ordinanza in esame denuncia specificamente l'art. 546 del codice penale, in riferimento agli artt. 31 e 32 della Costituzione, nella sola parte in cui punisce chi cagiona l'aborto di donna consenziente, e la donna stessa, "anche quando sia accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico e per l'equilibrio psichico della gestante, ma senza che ricorrano tutti gli estremi dello stato di necessità previsto nell'art. 54 del codice penale".

In tali limiti la questione é fondata. La condizione della donna gestante é del tutto particolare e non trova adeguata tutela in una norma di carattere generale come l'art. 54 c.p. che esige non soltanto la gravità e l'assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità, mentre il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto, ma non é sempre immediato.

Di più. La scriminante dell'art. 54 c.p. si fonda sul presupposto d'una equivalenza del bene offeso dal fatto dell'autore rispetto all'altro bene che col fatto stesso si vuole salvare. Ora non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare.

Opportunamente il legislatore ha previsto, per altri casi, oltre la causa comune di esclusione della pena stabilita nell'art. 54 c.p., alcuni particolari stati di necessità giustificatrice (art. 384 c.p.). Di non diversa considerazione é certamente degno il peculiare stato di necessità della donna incinta in pericolo di grave compromissione nella salute.

La dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 546 c.p. si presenta perciò inevitabile.

Va peraltro precisato che l'esenzione da ogni pena di chi, ricorrendo i predetti presupposti, abbia procurato l'aborto e della donna che vi abbia consentito non esclude affatto, già de jure condito, che l'intervento debba essere operato in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto. Ma ritiene anche la Corte che sia obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l'aborto venga procurato senza serii accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione: e perciò la liceità dell'aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 546 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 febbraio 1975.

Francesco Paolo BONIFACIO -  Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE -  Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO

 

Depositata in cancelleria il 18 febbraio 1975.