SENTENZA N.
254
ANNO 2020
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Mario
Rosario MORELLI;
Giudici: Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO,
Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco
VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge
10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli
ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive,
nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e
dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di
vita e di lavoro), e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro
a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre
2014, n. 183), promosso dalla Corte d’appello di Napoli, nel procedimento
instaurato da C. R. contro B. srl, con ordinanza
del 18 settembre 2019, iscritta al n. 39 del registro ordinanze 2020 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie
speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto di
costituzione di C. R.;
udito nell’udienza
pubblica del 3 novembre 2020 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati
Maria Matilde Bidetti e Arcangelo Zampella per C. R.;
deliberato nella camera
di consiglio del 4 novembre 2020.
1.– Con ordinanza del
18 settembre 2019, iscritta al n. 39 del registro ordinanze 2020, la Corte
d’appello di Napoli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo
in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e
delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei
rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle
esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro
a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre
2014, n. 183).
La Corte rimettente
espone di dovere decidere sul ricorso di C. R., una lavoratrice che ha
impugnato il licenziamento collettivo intimato il 1° luglio 2016 «per
violazione dei criteri di scelta […] e comunque per violazione della
procedura». Alla parte ricorrente nel giudizio principale, assunta dopo il 7
marzo 2015, si applicherebbe la disciplina dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del
2015, nella versione antecedente alle innovazioni apportate dal decreto-legge
12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e
delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n.
96.
1.1.– In primo luogo,
la Corte d’appello di Napoli ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e degli artt.
1 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, quest’ultimo «sia unitariamente inteso che
nel combinato disposto con l’art. 3 del medesimo decreto legislativo», in
riferimento agli artt.
3, 4, 24, 35, 38, 41 e 111 della Costituzione.
Le disposizioni censurate irragionevolmente introdurrebbero un regime
sanzionatorio differenziato «a seconda della data di assunzione» nell’ipotesi
della «stessa violazione dei criteri di scelta, avvenuta contestualmente in una
medesima procedura di licenziamento collettivo tra omogenei rapporti di
lavoro».
Il giudice a quo
denuncia, anzitutto, la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
Il rimettente assume
che «una medesima violazione realizzatasi in un medesimo momento, afferente ai
criteri di scelta di una stessa procedura» conduca a «forme di tutela
profondamente difformi per misura di indennizzo, per tipologia di provvedimento
e per capacità dissuasiva». Solo per i rapporti di lavoro instaurati fino al 7
marzo 2015, sarebbe riconosciuta una tutela reintegratoria,
«all’interno di un modello processuale caratterizzato da efficace celerità» e
con la «ricostituzione integrale della posizione previdenziale». Per i rapporti
di lavoro sorti a decorrere dal 7 marzo 2015, la reintegrazione sarebbe
esclusa.
Il fluire del tempo non
potrebbe legittimare «l’applicazione di sanzioni adeguate e dissuasive per
alcuni e non effettive per altri». Né, con riguardo a una procedura di
licenziamento collettivo, la finalità di incentivare l’occupazione potrebbe
giustificare in modo plausibile un trattamento difforme di vecchi e nuovi
assunti.
Il rimettente
prospetta, inoltre, la violazione dell’art. 3 Cost.,
sotto un distinto profilo, correlato agli artt. 4 e 35 Cost.
Il sistema di tutela delineato dal legislatore sarebbe inidoneo a ristorare il
danno subìto per effetto di un licenziamento collettivo illegittimo e non
presenterebbe un’adeguata capacità di deterrenza. Il riconoscimento di una
tutela eminentemente indennitaria non salvaguarderebbe il «diritto del
prestatore alla conservazione del posto di lavoro, che costituisce la fonte del
proprio sostentamento».
Per le medesime ragioni,
la disciplina in esame sarebbe lesiva anche dell’art. 41 Cost.,
in quanto comprometterebbe il «rispetto dei valori della dignità umana e
dell’utilità sociale, che deve caratterizzare l’iniziativa economica privata,
anche nella particolare espressione che connota il riconosciuto potere del
datore di lavoro di recedere (legittimamente) dal contratto di lavoro».
L’inadeguatezza
caratterizzerebbe anche il profilo previdenziale e processuale.
Ad avviso del
rimettente, solo la reintegrazione, limitata ai lavoratori assunti prima del 7
marzo 2015, tutelerebbe «la pienezza della posizione previdenziale». La
disciplina censurata, nell’escludere la reintegrazione, contrasterebbe con
l’art. 38 Cost.
Per quel che attiene
alle implicazioni processuali della disciplina, l’eliminazione del “rito
Fornero” (art. 1, commi da 47 a 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92, recante
«Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva
di crescita»), introdotto allo scopo di garantire in maniera più rapida i
diritti del lavoratore illegittimamente licenziato, pregiudicherebbe
l’effettività della tutela giurisdizionale. In contrasto con gli artt. 24 e 111
Cost., il nuovo modello processuale, applicabile ai
lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, differirebbe il ristoro del
pregiudizio subìto, «peraltro limitato, e non assistito dalla ricostruzione del
presupposto pensionistico».
1.2.– La Corte
d’appello di Napoli, in secondo luogo, censura l’art. 10 del d.lgs. n. 23 del
2015, «sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con l’art. 3 del
d.lgs. 23/15», sul presupposto che la materia dei licenziamenti collettivi sia
riconducibile alle «competenze normative dell’Unione» e che dunque si possano
invocare le disposizioni della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L’introduzione
di un sistema sanzionatorio inefficace violerebbe i «vincoli derivanti
dall’adesione all’Unione Europea e ai trattati internazionali», che presentano
una «diretta incidenza costituzionale per il tramite del contenuto normativo
degli artt. 10 e 117, 1° co., Cost.».
Le disposizioni
censurate, «nell’ambito di una stessa procedura di licenziamento collettivo»,
introdurrebbero per i soli lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015 «un
sistema sanzionatorio peggiorativo in quanto privo dei caratteri di efficacia
ed effettività della sanzione, che le fonti internazionali impongono quale
necessaria tutela di un diritto sociale fondamentale». Esse violerebbero,
anzitutto, gli artt.
10 e 117, primo
comma, Cost., attraverso l’interposizione
dell’art. 30 CDFUE, che riconoscerebbe il diritto di ogni lavoratore alla
tutela contro il licenziamento ingiustificato, in conformità al diritto
dell’Unione e alle legislazioni e alle prassi nazionali.
Secondo il rimettente,
la previsione citata non rappresenterebbe «una disposizione meramente
programmatica priva di un proprio nucleo precettivo specifico attuabile nel
giudizio», ma vincolerebbe «la potestà normativa» dei singoli Stati in base
agli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., a
prescindere «dalla integrazione eteronoma degli interventi rimessi ai singoli
Stati». Il contenuto precettivo dell’art. 30 CDFUE sarebbe definito dall’art.
24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3
maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.
Tale fonte internazionale, richiamata nelle Spiegazioni che accompagnano l’art.
30 CDFUE, identificherebbe la tutela del lavoratore, in caso di licenziamento
illegittimo, in un congruo indennizzo o in un’altra misura adeguata.
Le disposizioni in
esame determinerebbero «un arretramento di tutela», che porrebbe «l’assetto
normativo censurato in conflitto anche con gli artt. 20, 21 e 47 della Carta
dei Diritti Fondamentali dell’Unione», rilevanti nell’ordinamento interno per
il tramite degli artt. 10 e 117, primo comma, Cost.
L’applicazione di sanzioni difformi per «violazioni del tutto equiparabili»,
nel pregiudicare «i lavoratori più giovani», si porrebbe in contrasto con i
princìpi di eguaglianza (art. 20 CDFUE) e di non discriminazione (art. 21
CDFUE).
L’apparato
sanzionatorio introdotto dalle disposizioni censurate non sarebbe neppure
compatibile con l’art. 47 CDFUE, che imporrebbe di «assicurare un rimedio
efficace, effettivo e con capacità di inibire la violazione di un diritto
fondamentale».
1.3.– L’art. 10 del
d.lgs. n. 23 del 2015, «sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con
l’art. 3 del d.lgs. 23/15», sarebbe lesivo, infine, degli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., «nella parte in cui ha introdotto in assenza di
una specifica attribuzione normativa e comunque in violazione dei principi e
dei criteri direttivi della legge delega, una disciplina sanzionatoria per i
licenziamenti collettivi, statuendo un modello sanzionatorio in contrasto con i
principi e i diritti fondamentali dell’Unione e con le Convenzioni
internazionali».
L’estensione ai
licenziamenti collettivi del sistema sanzionatorio «previsto per i
“licenziamenti economici”» confliggerebbe «con l’oggetto, i principi e i
criteri direttivi della legge che ha conferito al Governo il temporaneo potere
di legiferare». La legge di delega riguarderebbe soltanto i licenziamenti
individuali, senza estendersi alla diversa materia dei licenziamenti
collettivi, come dimostrerebbero i lavori parlamentari (sedute del 17 febbraio
2015 della Commissione lavoro della Camera dei deputati e dell’11 febbraio 2015
della Commissione lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato
della Repubblica).
Una delega destinata a
incidere «profondamente su materie di rilevanza dell’Unione» avrebbe richiesto
«una chiara ed esplicita enunciazione». Per garantire «il raccordo tra
l’ordinamento italiano e i processi normativi dell’UE», sarebbe necessaria
quella «articolata procedura di elaborazione», prevista dall’art. 30 della
legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia
alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione
europea).
La disciplina in esame
si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 76 Cost.
anche sotto un differente profilo, strettamente connesso con la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost. Essa,
nell’apprestare un «modello inadeguato di tutela», violerebbe l’art. 1, comma
7, della legge n. 183 del 2014 e l’obbligo ivi prescritto di rispettare il
diritto dell’Unione europea e le convenzioni internazionali.
2.– Con atto depositato
il 15 maggio 2020, si è costituita C. R., parte ricorrente nel giudizio
principale, e ha chiesto l’accoglimento delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Napoli.
Le questioni in esame
sarebbero ammissibili, perché suffragate da una motivazione adeguata in merito
alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza e accompagnate dalla
formulazione di un petitum inequivocabile.
Esse, inoltre,
sarebbero fondate, anzitutto in riferimento ai «principi direttamente posti
dalla Costituzione italiana», che assicurano una «tutela più ampia e completa».
La disciplina censurata
sarebbe lesiva del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
A fronte della
violazione dei criteri di scelta, nell’àmbito della medesima procedura
coesisterebbero forme di tutela quanto mai eterogenee, distinte in base alla
data dell’assunzione. Ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015,
sarebbe riconosciuta una tutela meramente indennitaria, con esclusione della
reintegrazione e del pieno ripristino della posizione previdenziale, garantiti
ai soli lavoratori assunti in epoca anteriore. Né il fluire del tempo né la
finalità di incentivare l’occupazione, estranea all’area di licenziamenti
collettivi, potrebbero giustificare la contemporanea applicazione di due regimi
diversificati a soggetti che si trovano in una identica situazione di fatto.
Una sanzione di tipo
meramente indennitario non rappresenterebbe un adeguato ristoro del pregiudizio
sofferto e un’efficace dissuasione, in contrasto con gli artt. 3, 4 e 35 Cost., che impongono di assicurare piena tutela ai diritti
del lavoratore illegittimamente licenziato.
Sarebbe violato anche
l’art. 38 Cost. Al venir meno della contribuzione obbligatoria,
correlata alla perdita del posto di lavoro, non potrebbe sopperire la
contribuzione figurativa, di importo minore, associata alla Nuova assicurazione
sociale per l’impiego (NASpI).
L’eliminazione del
“rito Fornero” determinerebbe «un ritardo nella erogazione di un indennizzo […]
già decurtato ab origine» e vanificherebbe quel simultaneus
processus, «necessario particolarmente per le
violazioni dei criteri di scelta». In base alla data di assunzione, difatti,
muterebbero i riti applicabili, con violazione dell’art. 24 Cost.
Il descritto sistema
sanzionatorio, in quanto inefficace, colliderebbe con l’art. 30 CDFUE, che si ispira
all’art. 24 della Carta sociale europea. Le decisioni del Comitato europeo dei
diritti sociali, nell’interpretare tale ultima previsione anche con riguardo
alla disciplina italiana dei licenziamenti collettivi, attribuirebbero rilievo
primario alla tutela specifica.
La compresenza di
regimi sanzionatori sperequati in una procedura unitaria si porrebbe in
contrasto anche con i princìpi di eguaglianza (art. 20 CDFUE) e di non
discriminazione (art. 21 CDFUE).
La disciplina dettata
dall’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 lederebbe, da ultimo, l’art. 76 Cost. La legge n. 183 del 2014 non avrebbe conferito al
legislatore delegato il potere di regolare la materia dei licenziamenti
collettivi, che non potrebbe essere ricondotta all’àmbito dei licenziamenti
economici e sarebbe da sempre assoggettata a «una disciplina differenziata
rispetto ai licenziamenti individuali».
2.1.– In vista
dell’udienza, la parte ha depositato una memoria illustrativa, per ribadire le
conclusioni formulate nell’atto di costituzione.
La parte osserva, in
linea preliminare, che, con l’ordinanza
del 4 giugno 2020 (causa C-32/20, TJ contro Balga srl), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha
dichiarato manifestamente irricevibili le questioni pregiudiziali poste dalla
Corte d’appello di Napoli.
A sostegno della
fondatezza delle restanti censure, la parte richiama la decisione del Comitato
europeo dei diritti sociali, pubblicata l’11 febbraio 2020, sul reclamo
collettivo n. 158/2017 proposto dalla Confederazione generale italiana del
lavoro (CGIL) contro l’Italia, e invoca l’autorevolezza peculiare di tali
decisioni e la necessità di tenerne conto (si richiama la sentenza di questa
Corte n. 194 del 2018).
Il Comitato, in
particolare, avrebbe ritenuto incompatibile con l’art. 24 della Carta sociale
europea un sistema di tutela meramente indennitaria, con la predeterminazione
di un limite massimo, e avrebbe sottolineato che un rimedio risarcitorio
potrebbe costituire una adeguata forma di riparazione, in alternativa alla
reintegrazione, soltanto se assicurasse l’integrale ristoro del pregiudizio
derivante dal licenziamento illegittimo.
La parte ha rilevato
che il fulcro delle censure «non è tanto, e non è solo, la diversità di regimi applicati
contestualmente in ragione del tempo», ma «la diversa portata protettiva dei
due rimedi globalmente considerati», quello meramente indennitario, da ultimo
introdotto con le disposizioni censurate, e quello reintegratorio,
il solo efficace e dissuasivo.
Sarebbe, inoltre,
irragionevole la scelta legislativa di accordare la tutela reintegratoria
per la sola ipotesi del licenziamento orale e di negarla per quella,
altrettanto grave, del licenziamento intimato in violazione dei criteri di
scelta, definiti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, nel rispetto
delle previsioni inderogabili della legge e dei princìpi di non discriminazione
e di razionalità. Alla violazione dei criteri di scelta dovrebbe essere
ricondotta anche la fattispecie del licenziamento collettivo «intimato in
violazione delle percentuali di manodopera femminile e di lavoratori
appartenenti alle categorie protette».
Alla luce di tali
rilievi, la parte auspica «una pronuncia ablativa o manipolativa» di questa
Corte, che riconduca ad legitimitatem le previsioni
censurate.
3.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri non è intervenuto in giudizio.
All’udienza del 3
novembre 2020, la parte costituita ha insistito per l’accoglimento delle
conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
1.– Con l’ordinanza
indicata in epigrafe (reg. ord. n. 39 del 2020), la
Corte d’appello di Napoli dubita della legittimità costituzionale – per
violazione degli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111, 10 e 117, primo comma, della
Costituzione, questi ultimi due in relazione agli artt. 20, 21, 30 e 47 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza
il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 e all’art. 24
della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3
maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 –,
dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo
in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e
delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei
rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle
esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro
a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre
2014, n. 183).
Le questioni sono sorte
in un giudizio di appello avente ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento
collettivo.
Il rimettente afferma
di dover applicare l’art. 10, secondo periodo, del d.lgs. n. 23 del 2015. Tale
disposizione, per l’inosservanza dei criteri di scelta che il giudice a quo
ritiene di ravvisare nel caso di specie, richiama a sua volta quel che
stabilisce l’art. 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo per i
licenziamenti intimati in difetto di giustificato motivo, oggettivo o
soggettivo, o di giusta causa.
Il citato art. 3, comma
1, statuisce che il giudice «dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data
del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità
non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio», in un intervallo originariamente compreso
tra un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità.
Con una motivazione che
supera il vaglio di non implausibilità, il giudice a
quo argomenta che, per un licenziamento intimato il 1° luglio 2016, non viene
in rilievo l’incremento dell’indennità nel minimo (sei mensilità) e nel massimo
(trentasei mensilità), successivamente disposto dall’art. 3, comma 1, del
decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei
lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9
agosto 2018, n. 96.
L’art. 1 del d.lgs. n.
23 del 2015 individua nella data dell’assunzione il discrimine temporale tra la
vecchia e la nuova disciplina, applicabile ai lavoratori assunti a decorrere
dal 7 marzo 2015 o per i quali a decorrere dal 7 marzo 2015 l’originario
contratto a tempo determinato sia stato convertito in contratto a tempo
indeterminato.
Quanto alla disciplina
che opera per i lavoratori assunti fino al 7 marzo 2015, a regolare le
conseguenze della violazione dei criteri di scelta interviene l’art. 5, comma
3, terzo periodo, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa
integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive
della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia
di mercato del lavoro), così come modificato dall’art. 1, comma 46, della legge
28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del
lavoro in una prospettiva di crescita).
La previsione citata
dispone che il giudice annulli il licenziamento e condanni il datore di lavoro
alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità
risarcitoria, non superiore a dodici mensilità, «commisurata all’ultima
retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello
dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel
periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative,
nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca
di una nuova occupazione».
Le censure si
incentrano sulla complessiva inadeguatezza della tutela, esclusivamente
indennitaria, ora prevista nell’ipotesi di licenziamenti collettivi intimati in
violazione dei criteri di scelta. Le questioni possono essere aggregate in
alcuni nuclei essenziali, nei termini di séguito esposti.
1.1.– Le disposizioni
censurate contrasterebbero, anzitutto, con l’art. 3 Cost.,
in quanto, nel contesto della medesima procedura di licenziamento collettivo,
introdurrebbero «un ingiustificato differente regime sanzionatorio»
nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta.
Pur in presenza di
«identiche violazioni relative a fattispecie del tutto omogenee, intervenute
simultaneamente nella medesima procedura comparativa», sarebbero previsti due
regimi sanzionatori «del tutto disomogenei per livelli di tutela», con una
conseguente «irragionevole disparità di trattamento».
Il fluire del tempo non
giustificherebbe una tale disomogeneità, nell’àmbito di un medesimo
licenziamento collettivo, né si potrebbe invocare la finalità di «favorire
l’ingresso nel mondo del lavoro dei nuovi assunti attraverso una flessibilizzazione dell’uscita», finalità che di per sé si
contrappone alla disciplina dei licenziamenti collettivi.
Il giudice a quo
denuncia, inoltre, il contrasto con l’art. 3 Cost.,
sotto un distinto profilo, correlato con gli artt. 4 e 35 Cost.
Il legislatore avrebbe
attuato un irragionevole bilanciamento tra gli interessi di rilievo
costituzionale, coinvolti nella disciplina dei licenziamenti collettivi. I
lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 vedrebbero fortemente compresso
il diritto, tutelato costituzionalmente, a restare occupati, mentre un’ampia
flessibilità sarebbe riconosciuta al datore di lavoro nell’effettuare scelte di
riduzione del personale.
Il sistema così
congegnato, «del tutto svincolato dal danno effettivo» e parametrato alla
retribuzione utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR),
che la contrattazione collettiva potrebbe perfino azzerare, sarebbe privo di
efficacia dissuasiva e non contribuirebbe a orientare il datore di lavoro verso
un esercizio responsabile del potere di recesso.
Le medesime considerazioni
inducono il rimettente a ritenere violato anche l’art. 41 Cost.:
la disciplina in esame sacrificherebbe i «valori della dignità umana e
dell’utilità sociale», che il datore di lavoro non può ignorare, neanche quando
esercita la scelta di ridurre il personale occupato.
L’inadeguatezza della
tutela si coglierebbe anche guardando al profilo previdenziale, come pure a
quello processuale.
Per il profilo
previdenziale, la Corte rimettente sostiene che solo la reintegrazione assicura
«[i]l ripristino della posizione previdenziale effettiva». La tutela
indennitaria implicherebbe la «perdita della posizione contributiva», che non
sarebbe compensata dal sistema degli ammortizzatori sociali. Vi sarebbe dunque
contrasto con l’art. 38 Cost.
Nel considerare il
profilo processuale, le censure si incentrano sulla scelta del legislatore di
eliminare lo speciale e più celere “rito Fornero” (art. 1, commi da 47 a 68,
della legge n. 92 del 2012), applicabile «alle controversie aventi ad oggetto
l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della
legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono
essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro».
Le controversie in
esame sarebbero ora trattate secondo il meno spedito rito ordinario di
cognizione. Il legislatore avrebbe violato gli artt. 24 e 111 Cost., rendendo «meno efficace, perché privo di
immediatezza», il rimedio giurisdizionale.
1.2.– L’inefficace sistema
sanzionatorio infrangerebbe anche gli «obblighi derivanti dall’adesione ai
Trattati dell’Unione» e la «normativa interposta», in particolare la Carta
sociale europea, che prevedono sanzioni effettive «quale necessaria tutela di
un diritto sociale fondamentale».
La Corte d’appello di
Napoli muove dal presupposto che, per effetto della direttiva 98/59/CE del
Consiglio del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, tale disciplina sia
«ormai “attratta” nelle competenze concretamente attuate dall’Unione Europea» e
che tanto basti per ricondurla nell’àmbito di applicazione della CDFUE.
Le previsioni censurate
lederebbero il diritto a una tutela effettiva, efficace, adeguata e dissuasiva
contro i licenziamenti ingiustificati, in violazione degli artt. 10 e 117,
primo comma, Cost., in relazione all’art. 30 CDFUE e
all’art. 24 della Carta sociale europea.
Secondo la Corte
rimettente, l’art. 30 CDFUE non rappresenterebbe «una disposizione meramente
programmatica priva di un proprio nucleo precettivo specifico attuabile nel
giudizio», ma porrebbe «un vincolo nei confronti del Legislatore nazionale»,
poiché, interpretato alla luce dell’art. 24 della Carta sociale europea,
dovrebbe comportare un congruo indennizzo o altre misure adeguate nel caso di
licenziamento ingiustificato.
Il giudice a quo
denuncia il contrasto con gli art. 10 e 117, primo comma, Cost.,
in relazione agli artt. 20 e 21 CDFUE, in quanto «un sistema sanzionatorio, suscettibile
di generare per violazioni del tutto equiparabili una sostanziale difformità di
disciplina rispetto alla misura applicabile in capo al soggetto responsabile
dell’illecito» rischierebbe di penalizzare «i lavoratori più giovani» e di
introdurre disparità di trattamento.
Gli artt. 10 e 117,
primo comma, Cost. sarebbero violati anche per il
tramite dell’art. 47 CDFUE, che sancisce il diritto a rimedi adeguati, poiché
il legislatore non avrebbe assicurato «un rimedio efficace, effettivo e con
capacità di inibire la violazione di un diritto fondamentale».
1.3.– La scelta del
legislatore delegato di estendere il nuovo regime sanzionatorio anche ai
licenziamenti collettivi violerebbe, infine, l’art. 76 Cost.
La Corte d’appello di
Napoli denuncia il contrasto con l’oggetto, i principi e i criteri direttivi
della legge delega che, nel citare i licenziamenti economici, farebbe
riferimento alle sole «ipotesi di recesso individuale per motivo oggettivo».
L’inadeguato modello di
tutela delineato dal legislatore contrasterebbe con l’art. 76 Cost. e con l’art. 117, primo comma, Cost.,
per violazione dei criteri direttivi enunciati dall’art. 1, comma 7, della
legge n. 183 del 2014, che vincolano il legislatore delegato al «puntuale
rispetto dei principi e dei diritti sanciti» dalla normativa dell’Unione
europea e dalle convenzioni internazionali.
2.– Occorre
preliminarmente evidenziare taluni tratti peculiari che contraddistinguono la
vicenda oggi sottoposta al vaglio di questa Corte e dare conto delle novità
sopravvenute all’ordinanza di rimessione.
Con riguardo alla
violazione delle norme della Carta di Nizza, il giudice a quo ha ritenuto di
proporre contemporaneamente rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
dell’Unione europea e incidente di costituzionalità. La questione proposta in
via pregiudiziale si prefigge, nell’ottica del doppio rinvio che il rimettente
esperisce, di chiarire il «contenuto della Carta dei Diritti fondamentali», per
assumere poi «una diretta rilevanza nel giudizio di costituzionalità»
2.1.– Come questa Corte
ha ribadito di recente (sentenze n. 63 e n. 20 del 2019
e ordinanze n.
182 del 2020 e n. 117 del 2019),
l’attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella
leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate –
ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali nella
prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata.
A tale riguardo, non è
senza significato che l’art. 19, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea
(TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1°
novembre 1993, consideri nel medesimo contesto – così da rivelarne il legame
inscindibile – il ruolo della Corte di giustizia, chiamata a salvaguardare «il
rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati»
(comma 1), e il ruolo di tutte le giurisdizioni nazionali, depositarie del
compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori
disciplinati dal diritto dell’Unione» (comma 2).
2.2.– A séguito del
rinvio pregiudiziale avviato dall’odierno rimettente, si è pronunciata per
prima la Corte di giustizia dell’Unione europea che, con ordinanza
del 4 giugno 2020 (causa C-32/20, TJ contro Balga srl), ha dichiarato manifestamente irricevibili le
questioni proposte.
Tale decisione è
incentrata sull’assenza «di un collegamento tra un atto di diritto dell’Unione
e la misura nazionale in questione», collegamento richiesto dall’art. 51,
paragrafo 1, della Carta di Nizza. Esso non si identifica nella mera affinità
tra le materie prese in esame e nell’indiretta influenza che una materia
esercita sull’altra (punto 26).
In consonanza con tali
indicazioni, anche questa Corte opera una rigorosa ricognizione dell’àmbito di
applicazione del diritto dell’Unione europea ed è costante nell’affermare che
la CDFUE può essere invocata, quale parametro interposto, in un giudizio di
legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di
legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo (sentenza n. 194 del
2018, punto 8. del Considerato in diritto e, già in precedenza, sentenza n. 80 del
2011, punto 5.5. del Considerato in diritto).
La direttiva 98/59/CE
istituisce una procedura di consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e
di informazione dell’autorità pubblica competente, al fine di limitare il
ricorso a riduzioni del personale e attenuarne le conseguenze mediante «misure
sociali di accompagnamento intese in particolare a facilitare la
riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati» (Corte
di giustizia, ordinanza 4 giugno 2020, già citata, punto 30). Questa fonte
di diritto secondario ha dato luogo, per la natura procedurale delle
disposizioni ora richiamate, a una «armonizzazione parziale», che tuttavia «non
si propone di realizzare un meccanismo di compensazione economica generale a
livello dell’Unione in caso di perdita del posto di lavoro né armonizza le
modalità della cessazione definitiva delle attività di un’impresa» (punto 31).
La violazione dei
criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, così come le modalità adottate
dal datore di lavoro nel dar séguito ai licenziamenti, sono materie che, nella
ricostruzione fornita dalla Corte di Lussemburgo, non si collegano con gli
obblighi di notifica e di consultazione derivanti dalla direttiva 98/59 CE e
restano, in quanto tali, affidate alla competenza degli Stati membri (punto
32).
Da questi rilievi
discende che la situazione giuridica della ricorrente nel procedimento
principale «non rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione» e
che l’interpretazione delle disposizioni della Carta dunque «non ha alcun
rapporto con l’oggetto del procedimento principale» (punto 23).
3.– Sulle vicende ora
richiamate questa Corte non ha ragione di esprimersi. Sussistono, infatti,
molteplici profili di inammissibilità da esaminare d’ufficio.
4.– Il primo di tali
profili attiene alla descrizione della fattispecie concreta e alla motivazione
in ordine al requisito della rilevanza.
4.1.– La parte
ricorrente nel giudizio principale ha impugnato il licenziamento collettivo,
intimato il 1° luglio 2016, «per violazione dei criteri di scelta ai sensi
dell’art. 5 della legge 223/91 e comunque per violazione della procedura»
(punto 4.), come confermano anche le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione
della parte.
La Corte rimettente
riferisce di dover decidere sull’appello proposto contro la sentenza di primo
grado, che ha rigettato l’impugnazione del licenziamento collettivo «per
genericità ed infondatezza dei motivi» (punto 3.).
In ordine alla
rilevanza, il giudice a quo si limita a puntualizzare che un rapporto di lavoro
sorto dopo il 7 marzo 2015 è assoggettato alla disciplina dell’art. 3 del
d.lgs. n. 23 del 2015, che regola le «conseguenze sanzionatorie nel caso di
accoglimento delle domande» (punto 8.).
La declaratoria di
illegittimità costituzionale implicherebbe «un cambiamento del quadro normativo
assunto dal giudice rimettente» e, in tale prospettiva, troverebbe conferma la
rilevanza delle questioni proposte, che il giudice a quo sarebbe chiamato a
illustrare con «una motivazione non implausibile»
(punto 7.).
4.2.– La rilevanza del
dubbio di costituzionalità non si identifica nell’utilità concreta di cui le
parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 174 del
2019, punto 2.1. del Considerato in diritto). Essa presuppone la necessità
di applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce
alla decisione e si riconnette all’incidenza della pronuncia di questa Corte su
qualsiasi tappa di tale percorso.
4.3.– A fronte di
un’impugnazione che investe l’inosservanza dei criteri di scelta e, in via
subordinata, il mancato rispetto delle procedure, la Corte d’appello di Napoli
non illustra in alcun modo le ragioni che inducono a privilegiare
l’inquadramento della vicenda controversa nella prima delle fattispecie dedotte
nel ricorso e, pertanto, a censurare la relativa disciplina sanzionatoria,
comparandola, quanto a efficacia dissuasiva, a quella antecedente.
È proprio con riguardo
alla violazione dei criteri di scelta, difatti, che appare netta la cesura tra
la tutela reintegratoria assicurata dall’art. 5,
comma 3, terzo periodo, della legge n. 223 del 1991 e la tutela meramente
indennitaria introdotta dall’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015. Per la
violazione delle procedure, al contrario, non si riscontra una apprezzabile
discontinuità, poiché anche la disciplina anteriore (art. 5, comma 3, secondo
periodo, della legge n. 223 del 1991) contempla una tutela meramente
indennitaria, pur se diversamente configurata.
L’onere di motivazione
si rivela, peraltro, ancor più pregnante in un giudizio di appello, chiamato a
sindacare, sulla base di specifici motivi di gravame, la correttezza di una
decisione di primo grado che ha rigettato integralmente il ricorso.
La Corte rimettente non
offre alcun ragguaglio sulle ragioni che fondano l’illegittimità del
licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta e inducono,
dunque, a disattendere le valutazioni di segno contrario espresse dal giudice
di primo grado.
Con riguardo alla
disciplina sanzionatoria dei licenziamenti individuali viziati sotto il profilo
sostanziale (sentenza
n. 194 del 2018) o dal punto di vista formale o procedurale (sentenza n. 150 del
2020), questa Corte ha potuto scrutinare il merito delle censure anche alla
luce dell’argomentazione esaustiva svolta in punto di rilevanza dai giudici a quibus, che hanno di volta in volta illustrato il ricorrere
di una ipotesi di illegittimità, sostanziale o formale, dei licenziamenti
impugnati e la necessità di applicare la corrispondente disciplina di
protezione.
Pur consapevole del
fatto che il dubbio di costituzionalità verte sulle conseguenze sanzionatorie
previste solo nel caso di accoglimento delle domande (punto 8 citato),
l’odierno rimettente trascura di descrivere la fattispecie concreta e di
allegare elementi idonei a corroborare l’accoglimento dell’impugnazione in
virtù di una violazione dei criteri di scelta, già esclusa dal giudice di prime
cure.
L’applicazione della
disciplina sanzionatoria, che il giudice a quo sospetta di incostituzionalità,
richiede preventivamente l’individuazione dei vizi del licenziamento
collettivo. Tale presupposto riveste un rilievo cruciale alla luce sia
dell’alternativa che la parte delinea tra inosservanza dei criteri di scelta e
inosservanza della procedura, sia dell’intervento di una pronuncia di primo
grado che ha escluso ogni vizio dell’impugnato licenziamento collettivo.
Su tale ineludibile
antecedente logico, il rimettente non si sofferma e omette, anche solo con un’argomentazione
non implausibile, di avvalorare la rilevanza dei
prospettati dubbi di costituzionalità.
Tali lacune nella
descrizione della fattispecie concreta impediscono, dunque, a questa Corte di
valutare la rilevanza delle questioni sollevate.
5.– A determinare
l’inammissibilità delle questioni concorre, inoltre, l’incertezza in ordine
all’intervento richiesto a questa Corte.
5.1.– Dalla
formulazione delle censure, non è dato comprendere se il rimettente prefiguri
l’integrale caducazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in
cui sanziona la violazione dei criteri di scelta, o una pronuncia sostitutiva,
che allinei il contenuto precettivo di tale previsione alle soluzioni dettate
dall’art. 5, comma 3, terzo periodo, della legge n. 223 del 1991, come
ridefinito dall’art. 1, comma 46, della legge n. 92 del 2012.
È la stessa parte
ricorrente nel giudizio principale che auspica, nella memoria illustrativa
depositata in prossimità dell’udienza, «una pronuncia ablativa o manipolativa»,
con una indicazione perplessa, di per sé rivelatrice dell’ambiguità del petitum.
Né spetta a questa
Corte sciogliere l’alternativa descritta, in difetto di indicazioni univoche da
parte del rimettente.
5.2.– Egualmente
irrisolta permane l’alternativa, che comunque investe le scelte eminentemente
discrezionali del legislatore, tra il ripristino puro e semplice della tutela reintegratoria o la rimodulazione della tutela
indennitaria, in una più accentuata chiave deterrente.
Dalla giurisprudenza di
questa Corte (sentenze n. 150 del 2020,
punto 9. del Considerato in diritto, n. 194 del 2018,
punto 9.2. del Considerato in diritto, e n. 46 del 2000,
punto 5. del Considerato in diritto) e dalle stesse fonti internazionali
evocate dal giudice a quo (art. 24 della Carta sociale europea), si ricava,
difatti, che molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata
compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato.
Sia la tutela reintegratoria sia la tutela indennitaria possono essere
diversamente modulate e ampio è il margine di apprezzamento che spetta al
legislatore nell’attuazione dei diritti sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost. e, in una prospettiva convergente, dall’art. 24 della
Carta sociale europea.
A fronte di una vasta
gamma di soluzioni, la Corte rimettente non enuncia in termini nitidi
l’intervento idoneo a sanare le numerose sperequazioni censurate, sulla base di
precisi punti di riferimento già presenti nella trama normativa.
Anche per tali
ulteriori ragioni, le questioni di legittimità costituzionale devono essere
dichiarate inammissibili.
6.– Tali profili
assorbono ogni ulteriore ragione di inammissibilità.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge 10
dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli
ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive,
nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e
dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di
vita e di lavoro) e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015,
n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a
tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella
versione antecedente alle modifiche dettate dall’art. 3, comma 1, del
decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei
lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9
agosto 2018, n. 96, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41,
76, 111, 10 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due in
relazione agli artt. 20, 21, 30 e 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, e all’art. 24 della Carta sociale europea,
riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa
esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, dalla Corte d’appello di Napoli,
con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 novembre
2020.
F.to:
Mario Rosario MORELLI,
Presidente
Silvana SCIARRA,
Redattore
Filomena PERRONE,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 26 novembre 2020.