Sentenza n. 160

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SENTENZA N. 160

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3, n. 4, 6 e 7 della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), e 9-bis del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), promosso con ordinanza emessa il 9 luglio 1996 dalla Corte d'appello di Catanzaro sui ricorsi, riuniti, proposti da Fuda Pietro contro Minniti Francesco Giovanni ed altra, e Mollace Vincenzo contro Minniti Francesco Giovanni ed altri, iscritta al n. 1136 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di costituzione di Fuda Pietro, Mollace Vincenzo, Minniti Francesco Giovanni e della Regione Calabria, nonchè l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 25 febbraio 1997 il Giudice relatore Francesco Guizzi;

uditi gli avvocati Franco G. Scoca per Fuda Pietro, Francesco Scalzi per Mollace Vincenzo, Oreste Morcavallo per Minniti Francesco Giovanni, Raffaele Mirigliani per la Regione Calabria, e l'Avvocato dello Stato Plinio Sacchetto per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte di appello di Catanzaro, prima sezione civile, investita dei ricorsi proposti da Pietro Fuda e Vincenzo Mollace avverso la sentenza n. 503 del 1996 del Tribunale di Catanzaro nella causa elettorale fra gli stessi Fuda e Mollace, Francesco Giovanni Minniti e la Regione Calabria, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, numero 4, e degli artt. 6 e 7 della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), nonchè dell'art. 9-bis del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), e successive modificazioni e integrazioni, nella parte in cui ricomprendono le cause di lavoro nelle fattispecie di litispendenza che sono fonte di incompatibilità, e non consentono, una volta promossa l'azione popolare di cui al citato art. 9-bis, l'esercizio dei diritti e delle facoltà volte a rimuovere detta incompatibilità.

Con riguardo all'art. 3, numero 4, della legge n. 154 del 1981, il giudice a quo richiama la giurisprudenza di questa Corte tesa a valorizzare il principio di elettorato passivo, ritenendo irragionevole il sacrificio delle situazioni giuridiche fondate sul rapporto di lavoro (con le connesse rivendicazioni di inquadramento a fini previdenziali) e del diritto di elettorato passivo. Tanto più che il legislatore ha accordato una deroga per le liti tributarie, sulla base del rilievo che la conflittualità fra ente impositore e contribuente "appare quasi normale", il che avviene anche fra ente datoriale e dipendente.

In merito agli artt. 6 e 7 della legge n. 154 del 1981 e all'art. 9-bis del d.P.R. n. 570 del 1960, il Collegio rimettente si sofferma sull'orientamento giurisprudenziale favorevole alla coesistenza della fase contenziosa amministrativa (art. 7 della legge n. 154) e di quella giurisdizionale, disciplinata dall'art. 9-bis del citato d.P.R. n. 570, osservando che si priva l'eletto della più ampia tutela assicurata dalla procedura amministrativa. Chiunque, determinato da interessi particolari, voglia provocare la decadenza di un consigliere, non gli offrirà, certo, la possibilità di rimuovere l'incompatibilità nei modi e nei tempi previsti dall'art. 7, e lo "brucerà" con il deposito del ricorso giudiziario.

E' così vanificata la facoltà di far venir meno l'incompatibilità per lite pendente, che l'evoluzione legislativa sembra invece voler favorire al fine di contemperare l'interesse pubblico con il corretto esercizio delle funzioni e il diritto di elettorato passivo. L'art. 7 della legge n. 154 ammette come rimedio l'impugnazione della delibera consiliare innanzi l'autorità giudiziaria ordinaria, garantendo l'attore popolare e il primo dei non eletti; ma il deposito del ricorso, ai sensi dell'art. 9-bis del d.P.R. n. 570 del 1960, cristallizza la fattispecie e preclude l'utile rimozione dell'incompatibilità.

2. Si é costituito Pietro Fuda, sostenendo la fondatezza della questione anche in considerazione del fatto che nelle liti di lavoro si rinviene, più che in quelle tributarie, la potenziale conflittualità fra ente impositore e contribuente (sentenza n. 58 del 1972 di questa Corte). La parte privata analizza, poi, il sistema costruito dalla legge n. 154 del 1981, da un lato, e dall'art. 9-bis del d.P.R. n. 570 del 1960, dall'altro.

Il ricorso giurisdizionale contemplato dall'art. 9-bis é delineato in modo tale che nessun termine - se non quello dell'ultimo comma dell'art. 6 della legge n. 154 - é previsto per rimuovere l'incompatibilità, sì che la decadenza deriva automaticamente dal ricorso e dalla pronuncia del giudice adito. Di qui, l'alternativa prospettata dalla parte privata: o il sistema viene inteso nel senso che il ricorso al giudice, proposto in mancanza del provvedimento amministrativo, conduce in caso di esito favorevole non alla decadenza, ma all'obbligo per il consigliere eletto di iniziare il procedimento di cui all'art. 7 della legge n. 154, oppure il ricorso stesso deve ritenersi implicitamente abrogato. Fuori da questa alternativa, si paleserebbe l'illegittimità costituzionale dell'art. 9-bis del d.P.R. n. 570, per violazione degli artt. 3 e 51 della Costituzione, essendovi disparità di trattamento dell'eletto in relazione al fatto del terzo, a seconda che sia esperita o no l'azione popolare preclusiva della sanatoria in via amministrativa; e sarebbe violato, altresì, il diritto di elettorato passivo, in quanto l'iniziativa del terzo interessato preclude la rimozione della incompatibilità.

3. Si é costituito Vincenzo Mollace, cittadino elettore, appellante avverso la sentenza di primo grado del Tribunale di Catanzaro, anch'egli nel senso della fondatezza della questione alla luce della giurisprudenza costituzionale che vuole ristrette le cause di incompatibilità e ineleggibilità soltanto a ciò che é indispensabile per la soddisfazione degli interessi pubblici (fra le altre, ricorda la sentenza n. 46 del 1969).

4. Si é poi costituito, per sostenere l'infondatezza della questione, Giovanni Minniti, presentatore del ricorso ai sensi dell'art. 9-bis del d.P.R. n. 570, accolto dal Tribunale di Catanzaro con la sentenza citata. Egli osserva che la mancata abrogazione dell'art. 9-bis, al momento di definire la nuova disciplina delle incompatibilità con la legge n. 154 del 1981, é frutto di una precisa scelta legislativa: l'accoglimento della questione frantumerebbe un impianto normativo volto a garantire l'interesse pubblico, oltre che il diritto dell'elettore di adire l'autorità giudiziaria per porre fine alla situazione di incompatibilità, quando vi sia inerzia dell'eletto e del Consiglio di appartenenza.

Certo, la pendenza di lite tributaria non é più causa di incompatibilità, ma vi é sostanziale differenza fra tali liti e quelle di lavoro, perchè la potestà impositiva dello Stato sottrae al privato la piena disponibilità della vertenza e la possibilità di determinarne l'esito. I rapporti di lavoro e le liti che ne derivano sono stati disciplinati dal legislatore in maniera diversa (sentenza n. 48 del 1987); e in proposito la Corte ha precisato che la necessaria garanzia di obiettività nell'esercizio delle funzioni é esclusa dalla sussistenza di rapporti di dipendenza diretta o indiretta, da rapporti di affari o da posizioni personali di conflitto con l'amministrazione (sentenza n. 42 del 1961). Si osserva, quindi, come il diritto di elettorato passivo trovi adeguata tutela, senza che vi sia discriminazione rispetto ad altri cittadini, nella facoltà dell'eletto di rimuovere la causa di incompatibilità entro dieci giorni dal suo verificarsi. L'azione popolare - esperibile da chiunque vi abbia interesse e finanche dal Prefetto - conosce come finalità primaria la tutela del buon andamento e dell'imparzialità dell'amministrazione.

5. Si é costituita infine la Regione Calabria nel senso della fondatezza, soffermandosi sull'irragionevolezza dell'art. 3, numero 4, della legge n. 154, nella parte in cui non esclude dalle fattispecie di litispendenza le cause di lavoro dei dipendenti dell'ente, in considerazione del diverso trattamento riservato alle liti per fatto connesso con l'esercizio del mandato dell'amministratore dell'ente.

6. E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità. L'Avvocatura obietta, innanzitutto, che l'ordinanza non motiva sulla rilevanza della questione; quanto alla "non manifesta infondatezza" il giudice a quo si limiterebbe a "mere variazioni o divagazioni". L'individuazione dei limiti all'elettorato passivo é rimessa al legislatore, che nel caso di specie ha rispettato il canone di razionalità. Nè appare persuasivo il richiamo, presente nell'ordinanza, agli interessi particolari del promotore dell'azione popolare, dal momento che gli strumenti di tutela in tale settore dovrebbero essere non diminuiti, ma rafforzati.

Considerato in diritto

1. La questione di legittimità costituzionale nasce dal giudizio, in appello, avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Catanzaro ha dichiarato la decadenza di un consigliere regionale, accogliendo una domanda, proposta ai sensi dell'art. 9-bis del d.P.R. n. 570 del 1960, che, nel "cristallizzare" la fattispecie, ha impedito all'eletto di rimuovere utilmente l'incompatibilità dopo la notifica del ricorso.

La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Catanzaro investe le seguenti disposizioni:

- l'art. 3, numero 4, della legge n. 154 del 1981, nella parte in cui include nelle fattispecie di litispendenza che sono fonte di incompatibilità le cause di lavoro: ciò sarebbe illegittimo alla luce del principio costituzionale che tutela il diritto di elettorato passivo (artt. 3 e 51 della Costituzione), anche in considerazione del fatto che la stessa disposizione esclude dal novero delle incompatibilità le liti tributarie;

- il Collegio denuncia altresì le norme che regolano la procedura di rimozione dell'incompatibilità (artt. 6 e 7 della legge n. 154 del 1981) e, soprattutto, l'art. 9-bis del d.P.R. n. 570 del 1960 che disciplina l'azione popolare elettorale: disposizioni che sarebbero illegittime nella parte in cui non consentono l'esercizio dei diritti volti a rimuovere la causa di incompatibilità per lite pendente; e infatti, secondo la giurisprudenza prevalente, la domanda ex art. 9-bis cristallizza la fattispecie, precludendo all'eletto di adempiere tardivamente l'obbligo di rimuovere la causa di incompatibilità .

E' dunque l'art. 9-bis, come interpretato dalla Cassazione, la norma investita in via primaria dal dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, mentre la menzione degli artt. 6 e 7 della legge n. 154 del 1981 é fatta evidentemente per cautela - e comunque in via subordinata - sì che questa Corte ha al suo esame tutte le norme procedurali essenziali, restando così determinato il thema decidendum.

2. Occorre esaminare la prima questione sollevata, quella che si indirizza alla statuizione dell'incompatibilità.

Il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 3, numero 4, della legge n. 154 del 1981 é infondato. Spetta al legislatore, nel ragionevole esercizio della sua discrezionalità, attuare l'art. 51 della Costituzione, stabilendo il regime delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità. L'aver escluso le liti tributarie dalle fattispecie di litispendenza che sono causa di incompatibilità non vizia d'irragionevolezza la disposizione: una cosa sono, invero, le liti tributarie, altra le cause di lavoro. E non si dimentichi, a tal riguardo, che non vi é incompatibilità per le liti connesse con l'esercizio del mandato elettivo, sia quelle correlate ai compiti istituzionali, sia quelle con cui si fa valere un interesse della collettività (Cass. n. 3756 del 1985).

3. Più delicato il secondo punto, che attiene alla concorrenza dei due meccanismi, quello contenzioso amministrativo e l'azione popolare.

Va ricordato, innanzitutto, che la legge n. 154 del 1981, pur così prodiga di abrogazioni della disciplina elettorale previgente (v. l'art. 10), ha tenuto ferma l'azione popolare elettorale introdotta dall'art. 9-bis del d.P.R. 570 del 1960, come integrato dalla legge 23 dicembre 1966, n. 1147. Vi é, quindi, la coesistenza di due meccanismi diversi: il primo, quello contenzioso amministrativo, mira a rimuovere l'incompatibilità attraverso una procedura in contraddittorio che consente all'eletto di presentare osservazioni, prevedendo come extrema ratio la pronuncia di decadenza; mentre l'azione popolare é costruita in modo tale da "cristallizzare la fattispecie" al momento della proposizione della domanda. Se l'eletto non rimuove tempestivamente l'incompatibilità, confidando nel procedimento amministrativo ex art. 7 della legge n. 154 del 1981, lo fa "a suo rischio", come ha affermato questa Corte nella sentenza n. 235 del 1989.

La concorrenza dei due meccanismi é pacificamente ammessa dalla giurisprudenza, ordinaria e costituzionale (v., di recente, la sentenza n. 357 del 1996), ma deve operare in modo proporzionato rispetto ai beni pubblici meritevoli di protezione: le limitazioni poste al diritto di elettorato passivo, che questa Corte ha ricondotto alla sfera dei diritti inviolabili (sentenze nn. 571 del 1989 e 235 del 1988), devono essere necessarie e ragionevolmente proporzionate (sentenze nn. 141 del 1996 e 476 del 1991).

Ora, la decadenza pronunciata in sede giurisdizionale anche quando il consigliere abbia rimosso la causa di incompatibilità, dopo la proposizione dell'azione popolare, rappresenta una misura non proporzionata rispetto ai beni salvaguardati dalla incompatibilità stessa; e va qui ribadito che la decadenza é veramente l'extrema ratio (sentenza n. 357 del 1996). E' significativo in proposito il disagio della dottrina, che ha auspicato una correzione da parte della giurisprudenza tale da permettere al consigliere di rimuovere, anche nel corso dell'azione giudiziale, la causa di incompatibilità.

4. Questa Corte é ben consapevole che una materia così delicata richiede che sia il legislatore a operare un bilanciamento degli interessi meritevoli di tutela; e ad essa é preclusa l'adozione di una pronuncia tendente a integrare o a sostituire la normativa vigente, che sarebbe giustificata, sì, dalla tutela di un diritto fondamentale qual é il diritto di elettorato passivo, ma finirebbe per ledere l'ambito riservato alla discrezionalità legislativa.

Ferma la concorrenza dei due meccanismi (quello previsto dall'art. 7 della legge n. 154 del 1981 e l'azione diretta al tribunale, contemplata dall'art. 9-bis del d.P.R. n. 570 del 1960), gli artt. 3 e 51 impongono di temperare l'eccessiva severità del sistema attuale, quale risulta definito dalla giurisprudenza, assicurando la proporzione tra fini perseguiti e mezzi prescelti. Bisogna dunque consentire di rimuovere la causa d'incompatibilità entro un termine ragionevolmente breve, dopo la notifica del ricorso di cui all'art. 9-bis, per assicurare un equilibrio fra la ratio giustificativa della incompatibilità e la salvaguardia del diritto di elettorato passivo, senza pregiudizio di un futuro intervento del Parlamento e di un'evoluzione giurisprudenziale che diano compiuta razionalità al sistema.

L'art. 9-bis del d.P.R. n. 570 del 1960 é quindi illegittimo nella parte in cui prevede che la decadenza possa essere pronunciata in sede giurisdizionale, senza che sia data all'interessato la facoltà di rimuovere utilmente la causa di incompatibilità entro un congruo termine dalla notifica del ricorso previsto da esso.

A seguito della parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 9-bis, citato, rimangono superati i dubbi sugli artt. 6 e 7 della legge n. 154 del 1981. Le relative censure vanno pertanto dichiarate infondate.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 9-bis del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali) e successive modificazioni e integrazioni, nella parte in cui prevede che la decadenza del consigliere in situazione di incompatibilità possa essere pronunciata dal giudice adito senza che sia data all'interessato la facoltà di rimuovere utilmente la causa di incompatibilità entro un congruo termine dalla notifica del ricorso previsto da detto art. 9-bis;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, numero 4, e degli artt. 6 e 7 della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Catanzaro, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 giugno 1997.

Renato GRANATA: Presidente

Francesco GUIZZI: Redattore

Depositata in cancelleria il 4 giugno 1997.