CONSULTA ONLINE
SENTENZA N. 344
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
Presidente
Prof.
Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof.
Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo
SPAGNOLI
Prof.
Antonio BALDASSARRE
Prof.
Vincenzo CAIANIELLO
Avv.
Mauro FERRI
Prof.
Luigi MENGONI
Prof.
Enzo CHELI
Dott.
Renato GRANATA
Prof.
Giuliano VASSALLI
Prof.
Francesco GUIZZI
Prof.
Cesare MIRABELLI
Prof.
Fernando SANTOSUOSSO
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, commi primo, lett.a), secondo, terzo e quarto, del d.P.R.
30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme
per l'elezione della Camera dei deputati) e dell'art. 2 della legge 27 febbraio
1958, n. 64 (Modifiche alla legge 6 febbraio 1948, n. 29, <<Norme per la
elezione del Senato della Repubblica>>) promosso con ordinanza emessa il
25 febbraio 1992 dal Tribunale di Firenze nel procedimento di volontaria
giurisdizione proposto da Lessona Carlo nei confronti della Regione Toscana ed
altro, iscritta al n. 365 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visti
l'atto di costituzione della Regione Toscana nonchè
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell'udienza pubblica del 20 aprile 1993 il Giudice relatore Antonio
Baldassarre;
uditi
l'Avvocato Carlo Mezzanotte per la Regione Toscana e l'Avvocato dello Stato
Pier Giorgio Ferri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
l.- Il
Tribunale di Firenze ha sollevato, con ordinanza regolarmente notificata e
comunicata, questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt.
3 e 51 della Costituzione, nei confronti dell'art.7 del d.P.R.
30 marzo 1957, n. 361, nella parte in cui dichiara non eleggibili alla Camera
dei deputati i consiglieri regionali, imponendo agli stessi l'obbligo di
presentare le di missioni e di cessare dalle funzioni almeno 180 giorni prima
della data di scadenza del quinquennio di durata della Camera dei deputati o,
in caso di scioglimento anticipato, entro il termine di sette giorni dalla data
di pubblicazione del decreto di scioglimento nella Gazzetta Ufficiale.
Il caso
nasce allorchè un consigliere della Regione Toscana,
Stefano Passigli, intendendo candidarsi alle elezioni
per la Camera dei deputati, ha rassegnato le proprie dimissioni dal Consiglio
regionale, secondo quanto richiesto dall'art. 7 del d.P.R.
n. 361 del 1957. Convocato per la discussione dell'"accettazione"
delle predette dimissioni, il Consiglio regionale, ritenendo la previsione
dell'ineleggibilità in luogo della incompatibilità di dubbia conformità
rispetto alla Costituzione, ha sospeso la presa d'atto delle dimissioni. Contro
quest'ultima delibera ha proposto ricorso il primo dei non eletti nella lista
alla quale apparteneva il Passigli, Carlo Lessona, il
quale aspirava a subentrare al posto del consigliere dimissionario dopo che
fosse stato accertato il dovere del Consiglio regionale di prender atto delle
dimissioni presentate.
In punto
di rilevanza, il giudice a quo osserva che, ove la disposizione contestata
dovesse essere ritenuta non contraria a Costituzione, si dovrebbe concludere
per l'illegittimità della deliberazione consiliare contestata in quanto
adottata su un presupposto errato, mentre, nell'ipotesi opposta, la suddetta
deliberazione dovrebbe esser considerata legittima e il ricorso del Lessona
dovrebbe essere consequenzialmente respinto.
I dubbi
di costituzionalità espressi dal giudice a quo muovono dal rilievo, più volte
affermato da questa Corte, secondo il quale in materia di elettorato passivo la
regola è costituita dalla più ampia apertura possibile a tutti i cittadini,
essendo consentite le limitazioni a tale principio soltanto se basate su
criteri di rigorosa razionalità: nelle parole di questa Corte, l'eleggibilità è
la regola, mentre l'ineleggibilità e l'incompatibilità rappresentano
l'eccezione. Più in particolare, l'ineleggibilità risulta giustificata soltanto
se ragionevolmente collegata all'esigenza di evitare la captatio
benevolentiae degli elettori;
l'incompatibilità,
invece, soltanto se strettamente connessa al fine di assicurare il corretto
esercizio delle funzioni elettive.
Nell'applicare
tali principi al caso di specie, il giudice rimettente osserva che dai lavori
preparatori emerge chiaramente che con la disposizione impugnata il legislatore
intendeva, non già evitare che il consigliere regionale potesse in fluire
sull'elettorato, ma affermare l'inconciliabilità dello svolgimento della carica
di consigliere regionale con quella di parlamentare a causa del carattere
assorbente del primo.
Questa
intenzione, secondo il giudice a quo, ha un riscontro obiettivo nel fatto che
il consigliere regionale, non possedendo poteri propri e agendo sempre in collegio,
non può indurre alcun metus potestatis
in ordine alle scelte che deve compiere il corpo elettorale. Di qui deriva
l'irrazionalità in sè della disposizione denunziata.
Sussistono,
poi, ad avviso del giudice rimettente, tre distinti profili di ingiustificata
disparità di trattamento.
Innanzitutto,
la disposizione impugnata discriminerebbe irragionevolmente i consiglieri
regionali rispetto ai deputati nazionali, ai ministri e ai sottosegretari, i
quali, pur essendo titolari di poteri propri in grado di condizionare le scelte
dell'elettorato, sono sottoposti semplicemente a un regime d'incompatibilità.
In
secondo luogo, un ulteriore profilo di irragionevole disparità di trattamento
risiederebbe nel fatto che, mentre i consiglieri regionali non possono candidarsi
al Parlamento nazionale senza aver prima rassegnato le dimissioni dal loro
incarico, analogo obbligo non sussiste per gli stessi in relazione alle
elezioni al Parlamento europeo, nonostante che la configurazione delle
circoscrizioni territoriali per queste ultime renda senz'altro più rilevanti i
fenomeni di captatio benevolentiae.
In definitiva, continua il giudice a quo, mal si giustifica che il deputato
italiano possa candidarsi ed essere eletto al Parlamento europeo; che il
parlamentare europeo possa essere eletto ed espletare contemporaneamente il
mandato di parlamentare nazionale; che il consigliere regionale possa
partecipare, come tale, alla competizione per il Parlamento europeo, ma non
possa farlo nelle elezioni per il Parlamento nazionale.
Un ultimo
profilo d'irragionevole disparità di trattamento sarebbe presente, sempre
secondo il giudice a quo, nella disposizione impugnata, in quanto quest'ultima
riserva una disciplina deteriore ai consiglieri regionali rispetto ad altre
categorie considerate nello stesso art. 7, primo comma, del d.P.R.
n. 361 del 1957. Infatti, soltanto ai primi viene imposto l'obbligo di
dimettersi molti mesi prima della presentazione della candidatura, vale a dire
in un momento in cui non può sussistere alcuna certezza sull'effettiva
assegnazione ad essi della candidatura.
Il
giudice a quo segnala, poi, nel dispositivo dell'ordinanza che le censure sopra
ricordate potrebbero valere anche contro l'art.2 della legge 27 febbraio 1958,
n. 64, nella parte in cui estende la disciplina prevista dall'art. 7 del d.P.R. n. 361 del 1957 alle elezioni per il Senato della
Repubblica.
2.- É
intervenuta in giudizio la Regione Toscana per chiedere che la questione sia
accolta.
In punto
di rilevanza, la Regione, nel ricordare in linea di fatto che il Consiglio
regionale, pur nutrendo dubbi sulla costituzionalità dell'art. 7, ha preso atto
della decadenza del consigliere Passigli e che,
quest'ultimo, dopo che aveva impugnato tale delibera, è stato eletto alla
Camera dei deputati, ritiene che tutto ciò non abbia fatto venir meno la
pregiudizialità della questione sollevata rispetto al giudizio a quo, poichè dall'accertamento della costituzionalità
dell'articolo impugnato e, quindi, della legittimità della delibera adottata,
dipende la determinazione del momento in cui il consigliere Passigli
ha cessato di ricoprire la carica regionale, vale a dire la data della
dichiarazione di decadenza ovvero quella di dichiarazione della elezione alla
Camera dei deputati.
Riguardo
al merito della questione sollevata, la Regione, nel ricordare che un'identica
questione è stata dichiarata non fondata da questa Corte con la sentenza n. 5 del
1978, sostiene che le novità normative e giurisprudenziali intercorse nel
frattempo hanno prodotto una modificazione sostanziale dei termini della
questione stessa. Sotto questo profilo, dopo aver ripreso le valutazioni
espresse dall'ordinanza di rimessione relative al trattamento discriminatorio
del consigliere regionale rispetto a quello concernente altre cariche elettive
e all'indubbio parallelismo della ratio della disposizione impugnata con quella
della incompatibilità (ratio che sarebbe confermata dalla mancata limitazione
della ineleggibilità al territorio regionale e dalla estensione della stessa
ineleggibilità soltanto ai presidenti delle giunte provinciali e ai sindaci di
comuni con più di 20.000 abitanti), la Regione sottolinea che la legge 24
gennaio 1979, n. 18, nel prevedere l'incompatibilità soltanto per il presidente
della giunta regionale e per gli assessori regionali, ha chiaramente
riconosciuto le differenti responsabilità poste a carico di questi ultimi
rispetto ai consiglieri regionali (i primi svolgono funzioni monocratiche di
amministrazione attiva, gli altri soltanto funzioni collegiali o di controllo)
e, in ogni caso, ha operato per ipotesi analoghe una netta scelta a favore
dell'incompatibilità, e non dell'ineleggibilità.
Secondo
la medesima parte, la disposizione impugnata sarebbe altresì priva di coerenza
interna, dal momento che sottopone alla stessa disciplina posizioni
sostanzialmente diverse, alcune delle quali sono collegate a funzioni di
amministrazione attiva (presidente provinciale e sindaco di comune con più di
20.000 abitanti), altre no (consigliere regionale). La stessa disposizione,
inoltre, mentre per le categorie appena indicate prevede l'obbligo delle
dimissioni, per altre, invece, richiede semplicemente l'effettiva astensione da
ogni atto inerente all'ufficio rivestito.
Quest'ultima
discriminazione è tanto più irrazionale, secondo la Regione Toscana, ove si
consideri che l'adempimento di quell'obbligo è fissato in una data nella quale
(in base all'art. 20, primo comma, dello stesso d.P.R.
n. 361 del 1957) il dimissionario non può avere ancora la certezza di venir
candidato.
Un'ulteriore
discriminazione a danno delle categorie ora considerate sarebbe implicata pure
dal quarto comma dell'impugnato art. 7, il quale dispone solo per i soggetti
indicati, e non per tutti quelli per i quali è prevista l'ineleggibilità, la
decadenza dalla carica ricoperta a seguito della presentazione della
candidatura.
Sul piano
della giurisprudenza costituzionale, la Regione Toscana sottolinea come nelle
decisioni successive a quella del 1978 questa Corte abbia richiesto una
rigorosa giustificazione razionale per i limiti posti al diritto di elettorato
passivo e abbia ammesso che nelle leggi più recenti si sia realizzata
un'attenuazione delle differenze tra ineleggibilità e incompatibilità.
3.- Il
Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto in giudizio per chiedere
che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Sotto il
primo profilo, la difesa dello Stato sostiene che il giudice a quo, chiamato a
decidere della legittimità della delibera consiliare sulla presa d'atto delle
dimissioni, avrebbe potuto risolvere la controversia indipendentemente dal
dubbio di costituzionalità sollevato, non spettando al Consiglio regionale di
negare l'applicazione a una legge dello Stato, nutrendo dubbi sulla sua costituzionalità.
Per
quanto riguarda il merito della questione, l'Avvocatura dello Stato osserva,
innanzitutto, che il giudice a quo sembra chiedere a questa Corte di rimediare
a un preteso "errore" del legislatore e di trasformare una situazione
di ineleggibilità in una di incompatibilità. Secondo la difesa dello Stato, il
legislatore avrebbe disciplinato coerentemente e non irragionevolmente la
materia, non solo nelle modalità concrete (come, ad esempio, nel collegare
l'effetto di decadenza all'accettazione della candidatura, e non all'assunzione
della carica di parlamentare), ma anche nella sostanza: la captatio
benevolentiae, infatti, va commisurata pure in
relazione alla funzione legislativa e, in particolare, ai poteri del singolo
consigliere di proposta delle leggi. E, del resto, il giudizio di legittimità
costituzionale di questa Corte dovrebbe limitarsi a verificare se la carica
pubblica configurata come causa d'ineleggibilità sia tale, ove sia rivestita da
un candidato alle elezioni nazionali, da potersi ragionevolmente ritenere che
possa influenzare in modo scorretto la competizione elettorale, e non potrebbe
spingersi, invece, sino al punto di apprezzare l'intensità di tale influenza.
Ove ciò facesse, come sembra richiedere il giudice a quo, invaderebbe la sfera
della opportunità politica riservata al legislatore.
In ordine
alle pretese disparità di trattamento prospettate dal giudice a quo,
l'Avvocatura dello Stato, dopo aver ricordato che la giurisprudenza
costituzionale formatasi in materia ha avuto ad oggetto soltanto situazioni
personali non differenziabili da quelle costituenti causa di ineleggibilità
ovvero situazioni personali diversamente trattate ai fini della eleggibilità
alla stessa carica, sottolinea che il caso di specie non rientra nè nell'una, nè nell'altra
ipotesi: il giudice a quo, infatti, non chiede di modificare i confini di una
categoria sottoposta a ineleggibilità includendovi situazioni che, benchè non contemplate, siano appartenenti alla medesima
categoria individuata dal legislatore, ma chiede piuttosto di sopprimere un
motivo di ineleggibilità e di trasformarlo in incompatibilità basandosi su una
analogia molto larga. In effetti, i confronti operati dall'ordinanza di
rimessione hanno ad oggetto, secondo la difesa dello Stato, situazioni non
omogenee, ora perchè queste appartengono a diversi
livelli, ora perchè concernono posizioni considerate
in termini invertiti, ora perchè ineriscono a
ordinamenti differenti. In relazione a quest'ultima ipotesi, l'Avvocatura dello
Stato sottolinea che la mancata previsione della ineleggibilità dei consiglieri
regionali al Parlamento europeo discende da un atto normativo della Comunità
europea, reso soltanto esecutivo dalla legge n. 150 del 1977.
4.- In
prossimità dell'udienza la Regione Toscana ha depositato una memoria, con la
quale, oltre a ribadire argomentazioni già svolte, replica alle deduzioni
svolte dall'Avvocatura dello Stato.
In
particolare, la difesa della Regione osserva che non può considerarsi il
legislatore arbitro assoluto nella determinazione delle ipotesi di
ineleggibilità e di incompatibilità, poichè lo scopo
prescelto dal legislatore con l'adozione di un certo limite al diritto di
elettorato passivo deve rispondere alla ratio della stessa limitazione e, se
tale ratio è quella della incompatibilità, si rende necessario convertire in
quest'ultima il limite erroneamente previsto come causa di ineleggibilità. Che
ciò possa essere fatto dalla Corte costituzionale non vi sarebbe dubbio,
avendolo quest'ultima già fatto in passato. Che ciò debba essere fatto nel caso
in questione, deriverebbe inequivocabilmente dai lavori preparatori della legge
impugnata, dai quali risulta che l'intento perseguito era quello di escludere
il contemporaneo svolgimento di due cariche (consigliere regionale e
parlamentare) caratterizzate da un impegno elevato e costante.
A
contrastare tale conclusione, continua la Regione, non vale affermare che il
consigliere regionale può influenzare l'elettorato esercitando il proprio
potere d'iniziativa legislativa, poichè questo
rischio, oltre a essere pressochè inconsistente, non
è stato giudicato dal legislatore tale da portare alla previsione della
ineleggibilità dei deputati e dei senatori, titolari di un potere del tutto
analogo, per la elezione dei consigli regionali e di quelli provinciali e
comunali. Nè è vero, sempre, secondo la Regione
Toscana, che le cause d'incompatibilità riguardanti i presidenti e gli
assessori regionali rispetto alla carica di parlamentare europeo sono stabilite
da atti normativi europei, poichè in realtà per quei
soggetti un autonomo regime di incompatibilità è disposto dalla legge n.18 del
1979, che può pertanto costituire un valido tertium comparationis.
Nè va dimenticato, continua
la stessa parte, che questa Corte, di recente (sent. n. 97 del 1991
), ha sottolineato l'importanza, ai fini della giustificatezza del limite, dei vari livelli delle
assemblee elettive, nel senso che, quando si partecipa ad elezioni di diverso
livello, non appare in generale giustificata l'ineleggibilità in luogo della
incompatibilità: la prima, infatti, va sancita soltanto quando il pericolo
della captatio benevolentiae
rappresenti una circostanza di fatto obiettivamente presente e ineludibile.
Riguardo alla
eccezione di inammissibilità per irrilevanza formulata dall'Avvocatura dello
Stato, la difesa della Regione osserva che, poichè
oggetto del giudizio a quo è l'accertamento della legittimità della mancata
accettazione delle dimissioni, l'eventuale incostituzionalità della previsione
della ineleggibilità e, conseguentemente, dell'obbligo di dimissioni prima
dell'inizio della competizione elettorale non potrebbe non influenzare il
giudizio sulla legittimità della delibera consiliare relativa alla "presa
d'atto" delle dimissioni.
5.- Nel corso
della pubblica udienza le parti hanno ribadito le proprie posizioni. Un nuovo
argo mento è stato introdotto soltanto dalla difesa della Regione Toscana, la
quale ha ritenuto di individuare una conferma dell'ininfluenza del possesso
della carica di consigliere regionale sulle scelte dell'elettorato nella netta
distinzione tra livello politico e livello amministrativo delle pubbliche
amministrazioni, operata dall'art. 3 del decreto legislativo 3 febbraio 1993,
n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e
revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2
della legge 23 ottobre 1992, n. 421).
Considerato
in diritto
l.- Il
Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, primo comma,
lettera a), del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361
(Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione della
Camera dei deputati). Più precisamente, il giudice a quo dubita, in riferimento
ai parametri indicati, delle disposizioni che stabiliscono l'ineleggibilità dei
consiglieri regionali alla Camera dei deputati (art. 7, primo comma, lettera
a), prescrivendo con sequenzialmente per gli stessi consiglieri la cessazione
dalle funzioni almeno 180 giorni prima della scadenza della Camera dei
deputati, nonchè l'obbligo della formale
presentazione delle dimissioni, e prevedendo l'accettazione della candidatura
come motivo di decadenza dalla carica di consigliere regionale.
2.- Va
preliminarmente respinta l'eccezione d'inammissibilità per irrilevanza
formulata dall'Avvocatura dello Stato.
Ad avviso di
quest'ultima, la mancanza di pregiudizialità della questione discenderebbe dal
rilievo che il giudice a quo, non potendo riconoscere al Consiglio regionale,
nell'esercizio di un autonomo dovere di conoscenza ufficiale di un atto
unilaterale di dimissioni, il potere di sospendere l'applicazione della legge
(statale) regolante l'ineleggibilità del consigliere regionale e il conseguente
obbligo di questi di presentare le dimissioni, avrebbe potuto e dovuto decidere
il giudizio indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità
costituzionale sollevata, nel senso di riconoscere l'autonomo dovere dell'assemblea
elettiva di procedere in ogni caso alla presa d'atto delle dimissioni
presentate da uno dei suoi membri.
Premesso che,
secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., da ultimo, sent. n.163 del 1993), l'autonomia del
giudizio a quo preclude al giudice costituzionale di procedere a una nuova
valutazione dei presupposti processuali e lo autorizza a disattendere la
posizione del giudice a quo sulla rilevanza soltanto quando quest'ultima
dovesse risultare palesemente arbitraria ovvero basata su argomentazioni del
tutto implausibili (v., da ultimo, sentt. nn. 238, 163 e 103 del 1993; 436 del 1992), occorre precisare che non
può logicamente escludersi la possibilità interpretativa, accolta pure da una
parte (minoritaria) della dottrina, per la quale la presa d'atto sia
configurabile come atto recettizio delle dimissioni, di modo che
l'illegittimità di queste ultime possa consequenzialmente comportare
l'illegittimità dell'altro atto. Sotto tale profilo, pertanto, non risulta implausibile l'argomentazione addotta dal giudice a quo a
sostegno della rilevanza della questione, secondo la quale l'eventuale
dichiarazione d'illegittimità costituzionale delle previsioni relative
all'ineleggibilità contenuta nell'art. 7, primo comma, lettera a), del d.P.R. n. 361 del 1957 e al conseguente obbligo di
dimissioni, disciplinato nel successivo terzo comma, non può non influenzare la
valutazione sulla legittimità del comportamento del Consiglio regionale
concernente, non già la sospensione dell'applicazione della legge, ma il
rifiuto, giustificato o meno che sia, di concorrere con un proprio atto a
realizzare una condotta complessiva contra legem.
3.- La
questione merita l'accoglimento.
Come hanno
ricordato le parti del presente giudizio, questa Corte, con la sentenza n. 5 del 1978, si è pronunziata
nel senso della non fondatezza su una questione in parte identica e
nell'occasione ha risposto a molti dei problemi sollevati ora dal giudice a
quo.
La Corte ha
allora affermato che l'intento, perseguito dal legislatore con la disposizione
denunziata, non è già quello proprio della incompatibilità, ma è piuttosto
quello di impedire che i titolari di determinati uffici pubblici possano
valersi dei poteri connessi alla loro carica per influire indebitamente sulla competizione
elettorale, nel senso di alterare la par condicio fra i vari concorrenti
attraverso la possibilità di esercitare una captatio benevolentiae o un metus publicae potestatis nei confronti
degli elettori.
Questo
intento, contrariamente a quanto supposto dal giudice a quo, risulta confermato
dai lavori preparatori della legge elettorale del 5 febbraio 1948, n. 26,
approvata dall'Assemblea costituente in sede legislativa, il cui art. 6 è
divenuto, poi, l'art. 7 del testo unico delle leggi per l'elezione della Camera
dei deputati, contenuto nel ricordato d.P.R n. 361
del 1957. Nella discussione per l'elaborazione della disposizione impugnata la
posizione di coloro che avrebbero voluto limitarsi a prevedere
l'incompatibilità tra la funzione di parlamentare e quella di consigliere
regionale, già affermata dall'art.122, secondo comma, della Costituzione, fu
inequivocabilmente battuta dalla opposta idea di coloro che ritenevano, sul
presupposto che lo scopo della ineleggibilità fosse distinto e diverso da quello
della incompatibilità, che il legislatore ordinario, andando oltre la
previsione direttamente stabilita dalla Costituzione, ben potesse,
nell'esercizio della sua discrezionalità politica, disporre l'ineleggibilità
dei consiglieri regionali a ciascuna delle Camere. E, ai fini della
ricostruzione della "volontà" del legislatore, poco importa se alcuni
parlamentari motivarono allora il voto a favore dell'ineleggibilità adducendo
argomenti che in realtà avrebbero dovuto valere nel senso della scelta della incompatibilità,
come, in particolare, il voler perseguire lo scopo di escludere che si potesse
contemporaneamente partecipare alle assemblee elettive nazionali e a quelle
regionali.
In armonia
con tale intento, la ricordata sentenza n. 5 del 1978 ha respinto i dubbi
di legittimità costituzionale sull'art. 7 del d.P.R.
n. 361 del 1957, sollevati in riferimento all'art. 51 della Costituzione,
avvertendo, tuttavia, che la "detta ineleggibilità potrebbe, semmai, non
apparire altrettanto giustificata secondo gli orientamenti giurisprudenziali di
questa Corte laddove produca effetti per tutto il territorio nazionale anzichè nell'ambito della regione nella quale il
consigliere regionale eserciti il proprio mandato: ma siffatta questione non
costituisce oggetto del giudizio sottoposto a questa Corte" (punto 3, in
diritto).
In
quell'occasione sono stati dichiarati non fondati anche i dubbi di legittimità
costituzionale sollevati nei confronti della stessa disposizione in riferimento
all'art.3 della Costituzione. In particolare, la Corte ha ritenuto non
sussistente tanto l'asserita disparità di trattamento fra l'ipotesi del
consigliere regionale ineleggibile come parlamentare e l'ipotesi inversa di
quest'ultimo dichiarato incompatibile con la carica di consigliere regionale,
quanto l'addotta discriminazione a sfavore dei consiglieri regionali stessi
derivante dall'aver l'art. 7 sottoposto questi ultimi allo stesso trattamento
(ineleggibilità) previsto per cariche diverse, come quelle di presidente di
giunta provinciale e di sindaco di comuni con più di 20.000 abitanti. Più
precisamente, mentre nel primo caso la Corte ha basato la sua pronunzia
d'infondatezza sul rilievo che si pretendeva comparare situazioni tra loro
eterogenee (consigliere regionale/deputato o senatore), nel secondo caso,
invece, non ha ritenuto arbitrario che il legislatore abbia equiparato le
diverse cariche prima ricordate piuttosto che sottoporre allo stesso
trattamento previsto per i consiglieri regionali uffici ancor più distanti,
come quello di consigliere provinciale o di consigliere comunale.
In
definitiva, nel giudizio del 1978 la Corte si è già pronunziata su tre distinti
profili, che sono ora riproposti dal giudice a quo: innanzitutto, su quello
relativo alla pretesa contraddizione dell'art. 7 che prescrive
l'ineleggibilità, con la propria ratio legis,
supposta come appropriata a una previsione di incompatibilità; in secondo
luogo, sull'aspetto attinente alla pretesa irragionevole equiparazione delle
tre distinte categorie indicate alle lettere a), b) e c), cioé
quella fra i consiglieri regionali e i presidenti delle giunte provinciali o i
sindaci dei comuni maggiori; in terzo luogo, sulla asserita disparità di
trattamento esistente fra la previsione d'ineleggibilità stabilita per i
consiglieri regionali che intendano candidarsi al Parlamento nazionale e la
previsione di incompatibilità disposta per i parlamentari che siano eletti nei
consigli regionali. Inoltre, non si può negare che l'ultimo dei profili
indicati pregiudica sostanzialmente l'ulteriore nuova prospettazione del
giudice a quo, concernente la pretesa disparità di trattamento intercorrente
tra la previsione contestata e la disciplina posta per l'elezione del
parlamento europeo, in relazione alla quale l'art. 6 della legge 24 gennaio
1979, n.18, ha stabilito semplicemente l'incompatibilità del parlamentare
europeo con il presidente di giunta regionale e l'assessore regionale,
lasciando del tutto fuori la figura del consigliere regionale.
4.- Restano,
tuttavia, profili di costituzionalità sollevati dall'ordinanza di rimessione,
che non sono stati toccati dalla precedente decisione. A parte il fatto che i
confini della questione sottoposta al presente giudizio sono più ampi di quelli
esaminati nel 1978 - considerato che ora l'ineleggibilità dei consiglieri
regionali è contestata in relazione a tutte le sue possibilità applicative -,
in questo caso il giudice a quo denunzia anche l'irrazionalità in sè della disposizione impugnata, derivante dal dubbio che
l'ineleggibilità sia una conseguenza irragionevolmente sproporzionata rispetto
alla natura dei poteri che ciascun consigliere regionale può esercitare al fine
della captatio benevolentiae
degli elettori.
In effetti,
ad un attento esame dei lavori preparatori, non risulta in alcun modo chiarito
quali potrebbero essere i poteri attribuiti al consigliere regionale il cui
esercizio, ove questi fosse candidato alle elezioni per la Camera o per il
Senato, possa essere presuntivamente considerato come possibile fattore di
turbativa della par condicio che in campagna elettorale dev'essere assicurata a
tutti i candidati. Nè alcuna più precisa indicazione
è rinvenibile nella giurisprudenza o anche in dottrina.
Tuttavia,
dovendo escludersi che l'esercizio di poteri collegiali possa essere
determinante ai fini della previsione di cause di ineleggibilità, non resta
altro che supporre che la previsione contenuta nell'art.7 del d.P.R. n. 361 del 1957 debba essere essenzialmente
riferita, come ha indicato l'Avvocatura dello Stato, al potere di iniziativa
legislativa spettante a ciascun membro del Consiglio regionale.
Così
interpretato, l'art. 7, primo comma, lettera a), del d.P.R.
n. 361 del 1957 risulta palesemente irragionevole e assolutamente incoerente
con il sistema delle ineleggibilità legislativamente previsto. Nell'ambito di
questo sistema, infatti, la titolarità di un potere d'iniziativa legislativa
non è mai posta come causa d'ineleggibilità, per il semplice fatto che, ove si
considerasse l'esercizio di quel potere come possibile motivo di turbativa
della par condicio fra i concorrenti ad una elezione politica o, addirittura,
come mezzo idoneo rispetto al fine illecito della captatio
benevolentiae o del metus publicae potestatis nei confronti
degli elettori, dovrebbero essere considerati ineleggibili, allo stesso titolo,
anche i consiglieri regionali o i parlamentari in carica che intendessero
ripresentarsi nelle successive elezioni per il rinnovo dell'organo di
appartenenza. Ed è questa una conseguenza che non può essere ragionevolmente
sostenuta e che dimostra l'inidoneità del sopraindicato potere a dar luogo a
svolgimenti in grado di produrre apprezzabili distorsioni o turbative rispetto
alla parità di chances dei candidati in una competizione elettorale
autenticamente democratica e, in definitiva, rispetto alla libera e genuina
espressione del voto popolare, garantita come principio primario e inviolabile
dagli artt. 1, 2 e 51 della Costituzione.
A obiezioni
analoghe sarebbe sottoponibile la norma impugnata nell'ipotesi che il motivo
della previsione dell'ineleggibilità fosse individuato nei poteri di controllo
politico esercitabili dal singolo consigliere regionale nei confronti della
giunta e di ciascuno dei componenti di questa. In generale, comunque, non può
esser trascurato il rilievo che poteri come quelli finora esaminati non sono
assunti, di norma, come ragioni determinanti di ipotesi di ineleggibilità, dal
momento che sono privi di quei caratteri di decisività e di gestione attiva
della cosa pubblica, che sono requisiti essenziali al fine di configurare
ragionevolmente il pericolo che una determinata carica pubblica possa essere
utilizzata per acquisire illecitamente consensi elettorali.
Tantomeno,
poi, sarebbe giustificabile la disposizione impugnata ove si ritenesse che
l'ineleggibilità dei consiglieri regionali derivi dal semplice fatto di
rivestire quella carica o, in altre parole, dal prestigio proveniente da
quell'investitura anche in termini di maggiore conoscibilità del candidato da parte
dell'elettorato. Pur in tal caso, oltre a sfuggire a qualsiasi possibilità di
comprensione una previsione del genere circoscritta ai soli consiglieri
regionali, si rivelerebbe palesemente irragionevole una disciplina della
ineleggibilità che mirasse a delimitare l'influenza nella competizione
elettorale della notorietà derivante dal ricoprire determinate cariche
pubbliche, tanto più nell'ambito di società, come quella nella quale viviamo,
dove l'emergere di figure note al pubblico dipende da fattori molteplici e si
verifica in svariati settori della vita sociale, fra i quali quello considerato
non è certo il più rilevante.
In
definitiva, la tenuità, se non l'inconsitenza, delle
ragioni poste a base della previsione legislativa concernente l'ineleggibilità
dei consiglieri regionali alla Camera dei deputati dimostra l'evidente mancanza
di quella rigorosa prova dell'indispensabilità del limite esaminato rispetto
all'esigenza primaria di assicurare una libera competizione elettorale, che
questa Corte, a partire dalla sentenza n. 46 del 1969, costantemente
richiede in riferimento al principio fondamentale contenuto nell'art. 51 della
Costituzione. Per questo, infatti, l'eleggibilità è la norma, l'ineleggibilità
è l'eccezione (v., da ultimo, sentt. nn. 388 e 310 del 1991; 539 del 1990; 510 del 1989; 1020 e 235 del 1988). Di modo che, ove la
giustificazione dell'eccezione si rivelasse ragionevolmente priva di un legame
necessario con l'esigenza di assicurare una corretta e libera concorrenza
elettorale, non può non seguirne la dichiarazione d'illegittimità
costituzionale della disposizione che la prevede.
Siffatta
conclusione si impone tanto più ove si consideri che l'art. 7, primo comma,
lettera a), del d.P.R. n. 361 del 1957, suppone, come
si è prima ricordato, che l'ineleggibilità ivi prevista non è limitata al caso
in cui il consigliere regionale intenda presentare la propria candidatura in un
collegio elettorale ricompreso nel territorio dove esercita il proprio mandato,
ma produce effetti pur nell'ipotesi di candidatura in altra parte del
territorio nazionale. Ebbene, questa possibilità, una volta che sia vista quale
connotato intrinseco della disposizione impugnata, rappresenta, come è indicato
nella sentenza n. 5 del 1978, un ulteriore
sintomo della palese irragionevolezza della stessa, in conseguenza della
eccessiva e, comunque, sproporzionata ampiezza del campo degli effetti ad essa
collegabile.
5.- Per
effetto di questa pronunzia d'illegittimità costituzionale dell'art. 7, primo
comma, lettera a), del d.P.R. n. 361 del 1957, il
quale prevede l'ineleggibilità alla Camera dei "deputati regionali o
consiglieri regionali", tale ineleggibilità viene meno anche in relazione
alla elezione al Senato della Repubblica. Infatti, poichè
l'art. 2 della legge 27 febbraio 1958, n. 64, suppone che per l'elezione del
Senato si applicano, in tema di ineleggibilità, le leggi stabilite per la
Camera, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale emanata con la presente
pronunzia nei confronti dell'art. 7, primo comma, lettera a), del testo unico
delle leggi per l'elezione della Camera si estende automaticamente alle
elezioni per il Senato.
Allo stesso
modo, viene ovviamente meno la possibilità di applicare all'ipotesi contestata
i commi secondo, terzo e quarto dell'art. 7 del d.P.R.
n. 361 del 1957, i quali sono stati impugnati dal giudice a quo non come
disposizioni a sè stanti, ma solo in quanto riferiti
ai consiglieri regionali.
A seguito
della pronunzia ora adottata viene, dunque, meno l'ineleggibilità dei
consiglieri regionali a parlamentari nazionali.
Resta ferma,
tuttavia, la norma, immediatamente applicabile, contenuta nell'art. 122,
secondo comma, della Costituzione. Ne deriva, pertanto, che al momento tra la
carica di consigliere regionale e quella di membro di una delle Camere del
Parlamento è stabilita l'incompatibilità. Ciò non toglie, tuttavia, che il
legislatore possa prevedere l'ineleggibilità a parlamentare nazionale del
presidente della giunta regionale e degli assessori regionali, poichè le considerazioni svolte in relazione ai consiglieri
regionali non possono certo estendersi a categorie, come quelle ora ricordate,
che sono individualmente investite di importanti poteri politici e di rilevanti
funzioni di amministrazione attiva.
Ma, in
verità, l'auspicio di questa Corte è che una legislazione, come quella vigente,
ricca di incongruenze logiche e divenuta ormai anacronistica di fronte ai
profondi mutamenti che lo sviluppo tecnologico e sociale ha prodotto nella
comunicazione politica, sia presto riformata dal legislatore al fine di
realizzare nel modo più pieno e significativo il valore costituzionale della
libertà e della genuinità della competizione elettorale e del diritto
inviolabile di ciascun cittadino di concorrere all'elezione dei propri
rappresentanti politici e di partecipare in condizioni di eguaglianza
all'accesso a cariche pubbliche elettive.
PER QUESTI
MOTIVI
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, primo comma, lettera a), del
d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo
unico delle leggi recanti norme per la elezione alla Camera dei deputati).
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
11/06/93.
Francesco
Paolo CASAVOLA, Presidente
Antonio
BALDASSARRE, Redattore
Depositata in
cancelleria il 28/07/93.