Sentenza n. 310 del 1991

 

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SENTENZA N. 310

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Ettore GALLO                                                   Presidente

Dott. Aldo CORASANITI                                         Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, ultimo capoverso, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), promosso con ordinanza emessa l'11 dicembre 1990 dal Tribunale di Como sul ricorso in materia elettorale proposto da Charrey Franco per l'annullamento della delibera 19 luglio 1990 del Consiglio comunale di Campione d'Italia, iscritta al n. 111 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visto l'atto di costituzione di Charrey Franco nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 4 giugno 1991 il Giudice relatore Mauro Ferri;

Udito l'Avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri;

 

Ritenuto in fatto

 

Con delibera del 19 luglio 1990 il Consiglio comunale di Campione d'Italia, preso atto dell'avvenuta decadenza di Charrey Franco dalla carica di sindaco a seguito di condanna penale irrevocabile alla pena di otto mesi di reclusione per il delitto di falso ideologico in atto pubblico con il beneficio della sospensione condizionale della pena (condanna da ultimo confermata con sentenza del 3 aprile 1990 della Corte di cassazione), eleggeva un nuovo Sindaco.

Il Charrey impugnava la delibera consiliare innanzi al Tribunale di Como chiedendone l'annullamento per non essersi verificata alcuna decadenza dalla carica di Sindaco; in subordine eccepiva l'illegittimità costituzionale dell'art. 271 del T.U. della legge comunale e provinciale del 1934, come sostituito dall'art. 4 della legge 1 giugno 1977 n. 286, nonché dell'art. 6, ultimo capoverso, del d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570 per violazione degli artt. 3 e 51 Cost. (nonché anche dell'art. 97 Cost.).

Si costituiva la Prefettura di Como sostenendo, nel merito, l'infondatezza della questione di costituzionalità.

Il Tribunale di Como, con ordinanza dell'11 dicembre 1990, sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 6, ultimo capoverso, del d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570, in relazione agli artt. 3 e 51 della Costituzione.

Osservava il Tribunale, in ordine alla rilevanza della questione di costituzionalità, quanto segue:

a) L'art. 6, ultimo capoverso, del d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570 (secondo cui non può essere nominato sindaco chi ha subito condanna, per qualsiasi reato commesso nella qualità di pubblico ufficiale o con abuso di ufficio, ad una pena restrittiva della libertà personale superiore a sei mesi) è ancora in vigore.

Non può giovare al ricorrente il disposto dell'art. 64, primo comma, lettera c), della legge 8 giugno 1990 n. 142 (sul nuovo ordinamento delle autonomie locali), che - nell'abrogare l'art. 271 sopra cit. - non ha però travolto l'art. 6 cit., anche perché l'art. 31 della medesima legge riserva ad altro intervento legislativo la materia relativa alle elezione dei consigli comunali (e provinciali) e allo status dei componenti. Né rileva il successivo art. 40 che riguarda solo i poteri discrezionali di rimozione e sospensione degli amministratori locali attribuiti all'Autorità centrale.

b) La decadenza di diritto dalla carica di Sindaco opera anche in caso di sospensione condizionale della pena.

Vero è che l'art. 166 c.p., nel nuovo testo introdotto dalla legge 7 febbraio 1990 n. 19 estende gli effetti della sospensione condizionale della pena alle pene accessorie; ma la decadenza dalla carica di Sindaco non costituisce pena accessoria sia perché l'art. 6 cit. non la qualifica tale, sia perché l'istituto si atteggia a requisito negativo, per coloro che siano chiamati a far parte di organi elettivi, affinché sia tutelato il normale e corretto svolgimento del rapporto elettorale. Ove anche poi fosse da qualificare come effetto penale della condanna non sarebbe comunque estensibile per analogia il disposto dell'art. 166 del codice penale, considerato che il secondo comma di tale norma, nello stabilire che la condanna a pena sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici e privati, ha fatto salvi "i casi specificamente previsti dalla legge". D'altra parte la posizione di chi aspiri ad un impiego pubblico o privato è diversa da quelladi chi aspiri ad una carica elettiva, essendo previsto solo nel primo caso un procedimento disciplinare all'esito del quale poter infliggere la misura sanzionatoria massima.

Il giudice a quo osservava poi in ordine alla non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità:

vi è un'ingiustificata disparità di trattamento (art. 3 della Costituzione) ed un'irragionevole limitazione del diritto di accesso alle cariche elettive (art. 51 della Costituzione).

Per effetto della citata legge n. 19 del 1990 chi è condannato per un reato che comporta l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, nel caso di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, conserva (oltre all'elettorato attivo, anche) l'elettorato passivo e quindi può accedere a tutte le cariche elettive dello Stato e a (quasi) tutte quelle degli enti locali. Peraltro la legge 22 maggio 1980 n. 193, abrogando il n. 7 dell'art. 2 del T.U. delle leggi recanti norme per la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali (d.P.R. n. 223 del 1967), che escludeva per un periodo di cinque anni la capacità elettorale dei condannati per una serie di delitti, tra i quali il falso, ha soppresso la causa di perdita del diritto elettorale attivo (e passivo) che discendeva dalla condanna in quanto tale.

Pertanto, mentre prima della legge n. 19 del 1990 non poteva configurarsi alcuna disparità di trattamento, perché per tutti i condannati per reati comportanti l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, ancorché fosse stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, veniva meno l'elettorato e l'eleggibilità, dopo l'entrata in vigore di tale legge, tutti coloro che godono della sospensione condizionale della pena non perdono in generale l'elettorato passivo (oltre che attivo) e quindi possono accedere alle più elevate cariche, quale ad es. quella di Presidente della Giunta regionale; rimane però preclusa soltanto la possibilità di essere nominati alla carica di sindaco e, in caso di precedente nomina, si verifica la decadenza di diritto, con conseguente irragionevole disparità di trattamento che non si giustifica con la diversa natura di tale carica.

2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione sulla base dei seguenti rilievi:

a) La circostanza che la vigente normativa prescriva più rigorosi requisiti per l'accesso alla carica di sindaco, e per la permanenza in essa, rispetto ad altre cariche elettive non comporta alcuna illegittima disparità di trattamento.

Ciò in considerazione della natura e del carattere peculiare della carica stessa cui fanno capo rilevantissime funzioni (ad esempio come ufficiale di governo con potere di adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sanità, igiene, edilizia e polizia locale). D'altra parte l'art. 15 legge 19 marzo 1990 n. 55 (che ha dettato disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso) ha previsto consimili ipotesi di ineleggibilità, sospensione e decadenza anche dalle cariche di presidente della giunta regionale e di assessore regionale.

b) Non sussiste neppure la violazione dell'art. 51 Cost., che riserva alla legge la determinazione dei requisiti di volta in volta necessari per l'ammissione a pubbliche cariche elettive; tali requisiti possono anche essere negativi, quale quello (diretto ad assicurare la trasparenza e la correttezza dell'attività del sindaco) di non essere incorso in una sentenza irrevocabile di condanna per particolari tipi di reati.

3. - Con ordinanza pronunciata nell'udienza del 4 giugno 1991, questa Corte dichiarava inammissibile, per tardività, la costituzione in giudizio della parte privata Charrey.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Tribunale di Como ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dell'art. 6, ultimo capoverso, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570. Tale norma stabilisce che non può essere nominato sindaco chi ha riportato condanna superiore a sei mesi per reato commesso nella qualità di pubblico ufficiale o con abuso d'ufficio, e non inferiore a un anno per qualsiasi altro delitto.

Secondo la prospettazione del tribunale remittente, la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione per ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altre cariche pubbliche elettive quali quelle di deputato o senatore, di consigliere regionale, provinciale o comunale: infatti in seguito all'art. 4 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, che ha sostituito l'art. 166 del codice penale, la sospensione condizionale della pena si estende anche alle pene accessorie con la conseguenza che i condannati per delitti che comportano l'interdizione dai pubblici uffici, se beneficiano della sospensione condizionale, rimangono eleggibili alle cariche anzidette e, in linea generale, a qualsiasi altra carica pubblica; tuttavia in forza della norma censurata, che si configura come legge speciale, sono ineleggibili alla carica di sindaco e, se la condanna definitiva interviene successivamente alla elezione, incorrono nella decadenza ope legis dalla carica medesima.

La irrazionalità e il carattere ingiustamente discriminatorio della norma anzidetta - sempre ad avviso del giudice a quo - concreterebbe anche una violazione dell'art. 51, primo comma, della Costituzione.

2. - La questione non è fondata.

L'art. 6 del d.P.R. n. 570 del 1960 stabilisce che non può essere nominato sindaco chi si trova in una serie di condizioni successivamente elencate, l'ultima delle quali consiste, come si è detto, nell'avere riportato condanna per qualsiasi reato commesso nella qualità di pubblico ufficiale o con abuso d'ufficio ad una pena restrittiva della libertà personale superiore a sei mesi, ovvero per qualsiasi altro delitto, alla pena della reclusione non inferiore ad un anno.

Chi si trova in siffatta condizione viene pertanto ad essere colpito da una vera e propria incapacità legale ad assumere l'ufficio di sindaco, incapacità che cessa soltanto in seguito a riabilitazione. Trattasi evidentemente di una legge speciale che si riferisce ad una carica pubblica che è sì elettiva, ma elettiva di secondo grado, disciplinata quindi in modo distinto e autonomo rispetto ai requisiti prescritti per la eleggibilità alle Assemblee primarie cui si accede per elezione diretta, siano esse la Camera dei deputati e il Senato, ovvero i Consigli regionali, provinciali e comunali.

Tale normativa concernente il sindaco risale molto indietro nel tempo, e, almeno per quanto riguarda l'ultimo capoverso dell'art. 6, è la riproduzione pressoché letterale di precedenti testi legislativi. La si trova infatti nell'ultimo capoverso dell'art. 146 del Testo Unico approvato con regio decreto 4 febbraio 1915, n. 148, punto d'arrivo dell'elaborazione legislativa dello Stato liberale in materia di comuni e province. Ma anche il Testo Unico della legge comunale e provinciale approvato con regio decreto 3 marzo 1934 n. 383, in pieno ventennio fascista, riproduce all'art. 46, ultimo capoverso, n. 11 la medesima disposizione, naturalmente riferita al Podestà o al Vice Podestà, che pure erano nominati dall'autorità governativa (ministro dell'interno o prefetto), di guisa che si sarebbe anche potuto ritenere superfluo stabilire per legge in tali casi il divieto di nomina.

Caduto il regime autoritario, il decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1, disponendo la ricostituzione delle amministrazioni comunali su base elettiva, ripristinò sostanzialmente, nell'art. 7, l'art. 146 del Testo Unico del 1915. E identica norma è rimasta nell'art. 6 del Testo Unico approvato (in seguito a delega legislativa conferita dall'art. 21 della legge 24 febbraio 1951, n. 84) con d.P.R. 5 aprile 1951, n. 203, riprodotto infine in identico tenore nell'art. 6 del Testo Unico approvato con d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570. Vale la pena poi di sottolineare che la legge 23 aprile 1981, n. 154 che ha disciplinato organicamente la normativa concernente l'eleggibilità a consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale, abrogando esplicitamente le disposizioni precedenti, nulla ha innovato per quanto riguarda le norme sopraricordate che attengono specificamente ai requisiti richiesti per essere eletto sindaco.

3. - Resta perciò confermato il carattere assolutamente speciale della normativa anzidetta che costituisce eccezione alla regola generale, valida ugualmente in linea di principio per le elezioni di secondo grado, per cui chi è elettore è anche eleggibile.

La ragione di tale speciale disciplina va ricercata nelle caratteristiche particolari che contraddistinguono la carica di sindaco.

Infatti al sindaco sono attribuite, insieme alle importantissime funzioni propriamente attinenti alle competenze del comune quale ente di autonomia locale (art. 36 della legge 8 giugno 1990 n. 142: "ordinamento delle autonomie locali"), ulteriori funzioni di competenza statale, nell'esercizio delle quali il sindaco agisce come ufficiale del governo: tali funzioni già preesistenti nell'ordinamento dello Stato liberale (vedi il citato Testo Unico n. 148 del 1915) sono oggi regolate dall'art. 38 della legge n. 142 citata. Per apprezzare appieno l'importanza e la delicatezza di dette attribuzioni basterà ricordare, fra quelle elencate nel citato art. 38, la disposizione del secondo comma concernente i provvedimenti contingibili e urgenti in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale. Ma oltre a queste vanno menzionate le funzioni attribuite al sindaco da leggi speciali in ordine alla tenuta dei registri di stato civile e di popolazione, agli adempimenti in materia elettorale, di leva militare e di statistica, in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, ed altre menzionate nel predetto art. 38. Trattasi, come osserva l'Avvocatura dello Stato, di poteri che incidono direttamente sullo svolgimento delle attività e sugli interessi primari della comunità locale. Ne deriva come non sia configurabile, sotto il profilo della disparità di trattamento, il raffronto con altre cariche pubbliche elettive anche al più alto livello politico, per le quali il legislatore si è in genere attenuto al principio secondo cui, salvo il requisito dell'età nel caso del Parlamento, l'elettorato passivo coincide con l'elettorato attivo.

Per le medesime considerazioni attinenti all'importanza, delicatezza e peculiarità dei poteri attribuiti e delle funzioni esercitate non può nemmeno tacciarsi di irragionevolezza la scelta operata dal legislatore di mantenere la rigorosa normativa preesistente in ordine ai requisiti per l'eleggibilità a sindaco, nonostante sia stata effettuata direttamente o indirettamente una revisione "liberalizzatrice" in materia di godimento del diritto all'elettorato attivo, e conseguentemente anche passivo (vedi in proposito la legge 22 maggio 1980 n. 193 che ha abrogato il numero 7 del primo comma dell'art. 2 del Testo Unico delle leggi recanti norme per la disciplina dell'elettorato attivo, approvato con d.P.R. 20 marzo 1967 n. 223 e la legge 7 febbraio 1990 n. 19, già ricordata, che con l'art. 4 ha sostituito l'art. 166 del codice penale).

Si deve pertanto concludere che nella norma in esame non è ravvisabile alcuna violazione dell'art. 3 della Costituzione.

4. - Quanto al secondo profilo prospettato dal tribunale remittente, vale a dire l'incostituzionalità della norma per contrasto con l'art. 51 della Costituzione, le argomentazioni in precedenza svolte valgono ad escluderne la fondatezza.

Invero, una volta riconosciuto che le limitazioni speciali previste per escludere l'eleggibilità a sindaco di chiunque abbia riportato condanne per determinati reati a determinate pene detentive non costituiscono una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altre cariche elettive non comparabili, né sono caratterizzate da irragionevolezza, ne consegue che le predette limitazioni non contraddicono nemmeno l'art. 51 della Costituzione. È infatti insegnamento costante di questa Corte che, fermo restando essere l'eleggibilità la regola e l'ineleggibilità l'eccezione, la legge che determina i requisiti necessari, sia in positivo che in negativo, non è censurabile sul piano della legittimità costituzionale, purché le cause di ineleggibilità in rapporto alle diverse cariche rispondano a motivi di pubblico interesse e siano contenute in limiti razionali: non può dirsi sicuramente che tali canoni non siano stati rispettati dalla norma in esame.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, ultimo capoverso, del d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570 (Testo Unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali) sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dal Tribunale di Como con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 1991.

 

Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 5 luglio 1991.