Sentenza n. 262 del 2017

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SENTENZA N. 262

ANNO 2017

 

Commenti alla decisione di

 

I. Renzo Dickmann, La Corte costituzionale consolida l'autodichia degli organi costituzionali, per g.c. di Federalismi.it

 

II. Nicola Lupo, Sull’autodichia la Corte Costituzionale, dopo lunga attesa, opta per la continuità, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

III. Giampiero Buonomo, La Corte, la sete e il prosciutto, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

IV. Leonardo Brunetti, Giudicare in autonomia: il nuovo vestito dell'autodichia, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

V. Luca Castelli, Il "combinato disposto” delle sentenze n. 213 e n. 262 del 2017 e i suoi (non convincenti) riflessi sull’autodichia degli organi costituzionali, per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

VI Gianluca Marolda, Fumata nera per il punto di equilibrio tra l’autonomia costituzionale delle Camere e del Presidente della Repubblica e il potere giudiziario. Breve nota alla sentenza n. 262/2017 della Consulta, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

VII. Giampiero Buonomo, L’autodichia degli organi costituzionali è a sua volta costituzionale, per g.c. di laCostituzione.info

 

VIII. Giuseppina Barcellona, I "paradisi normativi” e la grande regola dello Stato di diritto: l’autodichia degli organi costituzionali e la tutela dei diritti dei "terzi”, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

IX. Giacomo D’Amico, La Corte adegua la sua autodichia alla «propria» giurisprudenza ma fino a che punto? per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

X. Francesco Dalla Balla, I paradossi dell’autodichia, per g.c. di Federalismi.it

 

XI. Marta Manganaro, L’autodichia come «manifestazione tradizionale» dell’autonomia degli organi costituzionali: le aspettative deluse dopo Corte cost. n. 120/2014, per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo                       GROSSI                                                         Presidente

- Giorgio                    LATTANZI                                                     Giudice

- Aldo                        CAROSI                                                               

- Marta                      CARTABIA                                                         

- Mario Rosario         MORELLI                                                            

- Giancarlo                CORAGGIO                                                        

- Giuliano                  AMATO                                                               

- Silvana                    SCIARRA                                                            

- Daria                       de PRETIS                                                           

- Nicolò                     ZANON                                                               

- Augusto Antonio    BARBERA                                                          

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sorti a seguito della deliberazione con la quale il Senato della Repubblica ha approvato gli artt. da 72 a 84 del Titolo II (Contenzioso) del Testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica e della deliberazione da parte del Presidente della Repubblica degli artt. 1 e seguenti del decreto presidenziale 24 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89, e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34, promossi dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanze-ricorsi del 19 dicembre 2014 e del 19 gennaio 2015, notificate il 13 luglio 2015, depositate in cancelleria il 16 luglio 2015, ed iscritte ai nn. 1 e 2 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2015, fase di merito.

Visti gli atti di costituzione del Senato della Repubblica e del Presidente della Repubblica nonché gli atti di intervento della Camera dei deputati e di P. L.;

udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2016 il Giudice relatore Giuliano Amato;

uditi gli avvocati dello Stato Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente della Repubblica, Federico Basilica per il Senato della Repubblica, Ruggero Di Martino per la Camera dei deputati e gli avvocati Stefano Battini e Aldo Sandulli per P. L.;

udito nuovamente nell’udienza pubblica del 26 settembre 2017, rifissata in ragione della intervenuta modifica della composizione del collegio, il Giudice relatore Giuliano Amato, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Nicolò Zanon;

uditi nuovamente gli avvocati dello Stato Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente della Repubblica, Federico Basilica per il Senato della Repubblica, Ruggero Di Martino per la Camera dei deputati e l’avvocato Aldo Sandulli per P. L.

Ritenuto in fatto

1.− Con ordinanze rispettivamente del 19 dicembre 2014 e del 19 gennaio 2015 (reg. confl. pot. n. 1 e n. 2 del 2015), le sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno sollevato due conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica e del Presidente della Repubblica, in relazione alle rispettive disposizioni regolamentari che disciplinano la tutela giurisdizionale nelle controversie di lavoro dei propri dipendenti.

In entrambi i giudizi nei quali sono stati promossi i conflitti, la Corte di cassazione è chiamata a giudicare sui ricorsi proposti ai sensi dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione da alcuni dipendenti del Senato e della Presidenza della Repubblica, per l’annullamento delle decisioni rese dagli organi di autodichia delle rispettive istituzioni, nell’ambito di giudizi relativi a controversie di lavoro.

2.– Il conflitto proposto nei confronti del Senato della Repubblica (reg. confl. pot. n. 1 del 2015) è relativo alla deliberazione degli artt. da 72 a 84 del Titolo II (Contenzioso) del Testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica.

La Corte ricorrente chiede che la Corte costituzionale, dopo aver riconosciuto l’ammissibilità del conflitto, dichiari che non spettava al Senato deliberare tali disposizioni, in via principale nella parte in cui, in violazione degli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma (in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale), 108, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, «precludono l’accesso dei dipendenti del Senato alla tutela giurisdizionale in riferimento alle controversie di lavoro insorte con l’Amministrazione del Senato»; e in via subordinata nella parte in cui, in violazione degli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost., non consentono il ricorso in Cassazione per violazione di legge (art. 111, settimo comma, Cost.) contro le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali previsti da tali disposizioni.

2.1.– La Corte di cassazione premette di essere chiamata a giudicare in ordine al ricorso proposto, ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., da un dipendente del Senato, per la cassazione della decisione n. 141 del 29 settembre 2011, assunta in grado di appello dal Consiglio di garanzia del Senato, nell’ambito di un giudizio di ottemperanza relativo a una controversia di lavoro.

Le sezioni unite ricordano di aver sollevato nel medesimo procedimento questioni di legittimità costituzionale sull’art. 12 del regolamento del Senato approvato il 17 febbraio 1971, e successive modifiche, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, secondo comma, 111, primo, secondo e settimo comma, e 113, primo comma, Cost., che tali questioni sono state dichiarate inammissibili dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 120 del 2014, e che devono ora essere riesaminate «soprattutto ed essenzialmente alla luce di tale pronuncia».

La Corte ricorrente richiama il proprio costante orientamento sull’art. 12 del citato regolamento (in virtù del quale il Consiglio di Presidenza del Senato approva i regolamenti interni dell’amministrazione e adotta i provvedimenti relativi al personale dipendente), «sempre interpretato nel senso dell’attribuzione al Senato della autodichia in materia di controversie tra il personale dipendente e l’Amministrazione del Senato, datrice di lavoro, con conseguente esclusione della giurisdizione di qualsiasi giudice esterno sulle controversie che attengono allo stato ed alla carriera giuridica ed economica dei dipendenti». Sottolinea altresì che da tale interpretazione deriverebbe anche l’inammissibilità del ricorso straordinario presentato ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost. (a questo riguardo, vengono richiamate le sentenze delle sezioni unite del 19 novembre 2002, n. 16267, e del 23 aprile 1986, n. 2861).

2.2.– La Corte di cassazione rileva anzitutto che, pur mancando un espresso fondamento costituzionale dell’autodichia, a differenza di quanto previsto per le Camere dall’art. 66 Cost. per il giudizio sui «titoli di ammissione dei […] componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità», sia «opinione condivisa […] quella che fa discendere dall’autonomia normativa riconosciuta alle Camere dall’art. 64, primo comma, Cost., che prevede che esse adottano il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei loro componenti, anche la possibilità che tale normativa regolamentare preveda un procedimento di composizione delle liti» fra il personale dipendente e l’amministrazione del Senato.

La disciplina dell’autodichia, invece, è contenuta nel «Testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica», approvato dal Consiglio di Presidenza del Senato il 18 dicembre 1987 ed emanato con il decreto del Presidente del Senato 1° febbraio 1988, n. 6314.

Le sezioni unite descrivono il sistema di tutela previsto dalle disposizioni regolamentari che, all’interno del Senato, disciplinano il contenzioso dell’amministrazione con i suoi dipendenti e con i terzi. Esso si impernia su due gradi di giudizio, affidati a collegi decisionali formati in prevalenza da senatori nominati all’inizio di ogni legislatura dal Presidente del Senato, dotati di particolari qualifiche e competenze e non appartenenti al Consiglio di Presidenza, ossia la Commissione contenziosa in primo grado e il Consiglio di garanzia in grado di appello.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 120 del 2014, avrebbe riconosciuto che tale normativa regolamentare attribuisce, aderendo a una antica tradizione interpretativa, l’autodichia in ordine alle controversie relative allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei dipendenti del Senato, con esclusione del sindacato di qualsiasi altro giudice esterno. La stessa Corte costituzionale avrebbe chiarito che «la protezione dell’area di indipendenza e libertà parlamentare non attiene soltanto all’autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle stesse norme regolamentari», comportando necessariamente la sottrazione a ogni altra giurisdizione degli strumenti che garantiscono il rispetto del diritto parlamentare (a questo riguardo sono citate in particolare le sentenze n. 379 del 1996 e n. 129 del 1981).

Avverso le decisioni del Consiglio di garanzia sarebbe possibile solo «l’impugnazione per revocazione con ricorso proposto alla stessa Commissione di garanzia», secondo quanto previsto dall’art. 83 del citato t.u., con ciò delineandosi un «sistema tutto interno di risoluzione del contenzioso del personale dipendente dell’Amministrazione del Senato che non consente la tutela giurisdizionale ordinaria in generale, né quella in particolare costituita dal ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost.».

Il carattere derivato dell’autodichia in materia di controversie di lavoro, ossia la circostanza che la sua disciplina sia prevista da una «normativa subprimaria regolamentare del Senato», benché la collochi a un «livello sottordinato» rispetto all’autodichia in materia di titoli di ammissione dei componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e incompatibilità, non esclude la possibilità di un raffronto di tale normativa regolamentare subprimaria con la Costituzione, poiché essa «ha comunque natura normativa nel senso che appartiene al complesso edificio di norme che formano l’ordinamento della Repubblica».

2.3.– La Corte ricorrente sottolinea, dunque, che, mentre l’autodichia prevista dalla legge ordinaria può essere oggetto di giudizio di costituzionalità incidentale, analoga possibilità non è configurabile né per l’autodichia espressa dal regolamento parlamentare né per quella che abbia un fondamento costituzionale indiretto («art. 64, primo comma, Cost. e norme subregolamentari da esso derivate»), mancando un atto con forza di legge ai sensi dell’art. 134 Cost.

A questo proposito, le sezioni unite richiamano diffusamente la sentenza n. 154 del 1985 e le ordinanze n. 444 e n. 445 del 1993, con le quali rispettivamente la Corte costituzionale avrebbe chiarito che i regolamenti parlamentari non sono atti con forza di legge ex art. 134 Cost., con ciò precludendosi «ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, primo comma, Cost.», e che «nella competenza del giudice delle leggi […] non possono comprendersi i regolamenti parlamentari, né espressamente né in via di interpretazione».

Risulta significativa, per le stesse sezioni unite, la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte EDU) resa nel caso Savino e altri contro Italia, (sentenza del 28 aprile 2009), con cui si sarebbe riconosciuta la natura giurisdizionale degli organi di autodichia delle Camere. In particolare, la Corte EDU avrebbe chiarito che «la disciplina dei regolamenti parlamentari minori è sufficiente a garantirne la precostituzione per legge», soddisfacendosi «l’esigenza di una "base legale” richiesta dalla norma convenzionale». La Corte EDU, invece, avrebbe riconosciuto l’assenza di indipendenza e di imparzialità di questi organi, accertando «la violazione della imparzialità oggettiva della sezione giurisdizionale dell’ufficio di presidenza, […] ritenendo che la sua composizione determinasse una inammissibile commistione in capo agli stessi soggetti tra l’esercizio di funzioni amministrative e l’esercizio di funzioni giurisdizionali».

Da ultimo, la Corte ricorrente richiama ancora la sentenza n. 120 del 2014 della Corte costituzionale, con cui sarebbe stata confermata l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari, «ma in una prospettiva più ampia e maggiormente sensibile al principio di continuità del controllo di costituzionalità delle norme dell’ordinamento giuridico».

Da questo punto di vista, secondo le sezioni unite, la Corte costituzionale avrebbe mutato la propria valutazione, riferendo l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari «esclusivamente al giudizio incidentale di costituzionalità». E, infatti, la Corte costituzionale avrebbe sottolineato che i regolamenti parlamentari non sono fonti puramente interne alle Camere, bensì fonti dell’ordinamento generale, la cui competenza normativa incontra i limiti fissati dalla Costituzione (artt. 64 e 72 Cost.).

Conseguentemente, la Corte costituzionale avrebbe configurato, quale sede per definire l’ambito di competenza riservato ai regolamenti parlamentari, il conflitto di attribuzione tra poteri, «nella misura in cui il superamento di tale ambito ridondi in invasione o turbativa di altro potere dello Stato, quale quello giurisdizionale», sottolineando la necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali, quale innanzitutto quello di accesso alla giustizia (art. 24, primo comma, Cost.).

Le sezioni unite ritengono, pertanto, che tale evoluzione nell’orientamento della Corte costituzionale dia applicazione al «principio di continuità del controllo di costituzionalità che vuole che non ci siano aree franche sottratte al controllo di costituzionalità», concludendo che «la continuità del controllo di costituzionalità si affianca alla continuità del sindacato di legittimità (ex art. 111, settimo comma, Cost.): come nessuna fonte normativa è sottratta al rispetto della Costituzione così nessuna decisione di giustizia è sottratta al rispetto della legge».

2.4.– Quanto ai profili di merito del conflitto, la Corte di cassazione – ribadendo di essere stata adita con ricorso straordinario nei confronti dell’impugnata decisione del Consiglio di garanzia del Senato – censura il carattere invasivo delle richiamate norme subregolamentari nei confronti del potere giurisdizionale di cui è investita.

Si determinerebbe, in particolare, una «turbativa del potere giurisdizionale […] di duplice portata»: una più generale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma, (quest’ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale), 108, secondo comma, 111, primo e secondo comma, Cost., e una più specifica, con riguardo agli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost.

Qualora l’autodichia del Senato fosse rimossa, la giurisdizione comune si riespanderebbe, con la conseguenza che il ricorso pendente innanzi alla Cassazione sarebbe inammissibile, ma per una ragione diversa e logicamente successiva rispetto a quella più radicale e prioritaria dell’assoluto difetto di giurisdizione.

Nel caso in cui, invece, si ritenesse legittima la configurazione degli organi di autodichia del Senato come giudici speciali, verrebbe in rilievo la preclusione all’accesso al sindacato di legittimità con ricorso straordinario (artt. 111, settimo comma, Cost. e 360, quarto comma, del codice di procedura civile), parimenti derivante dalla stessa autodichia e produttiva di un ingiustificato trattamento differenziato (art. 3, primo comma, Cost.). Il ricorso straordinario per cassazione avente a oggetto le decisioni degli organi di autodichia del Senato sarebbe invece ammissibile, laddove venisse rimossa simile preclusione.

2.5.– Il principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), unitamente al diritto di agire in giudizio per la tutela di diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.), sarebbe violato dall’autodichia del Senato, poiché una determinata categoria di soggetti sarebbe esclusa dalla tutela giurisdizionale in ragione della propria condizione di dipendenti, condizione né significativa, né giustificativa di un simile diverso trattamento (vengono citate, con particolare riguardo al diritto di difesa e di accesso alla giustizia, fra le altre, le sentenze n. 238 e n. 120 del 2014, n. 98 del 1965).

Non si potrebbe ipotizzare, peraltro, che l’autonomia del Senato possa «bilanciare, fino a comprimerlo del tutto, il diritto alla tutela giurisdizionale del personale dipendente nella misura in cui può ragionevolmente escludersi che alcun rischio tale autonomia guarentigiata corra a causa di un’iniziativa giudiziaria di un suo dipendente».

2.6.– L’art. 102, secondo comma, Cost., che vieta l’istituzione di giudici straordinari o speciali, coniugato con la VI disposizione transitoria e finale, sarebbe violato, in ragione della qualificazione della Commissione contenziosa e del Consiglio di garanzia quali giudici speciali, istituiti dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Peraltro, anche laddove si individuasse un profilo di continuità rispetto all’autodichia dell’ordinamento pre-repubblicano, non sarebbe in ogni caso rispettata la prescritta revisione degli organi speciali di giurisdizione esistenti al momento dell’entrata in vigore della Costituzione.

La citata mancata revisione degli organi di autodichia del Senato verrebbe in rilievo anche con riguardo alla violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., ossia dei principi del giusto processo e della necessità che il contraddittorio si svolga davanti a un giudice terzo e imparziale, e dell’art. 108, secondo comma, Cost., con specifico riguardo al requisito di indipendenza dei giudici speciali, non potendo ritenersi rispettoso di tali principi un processo che si svolga innanzi ad un giudice incardinato in una delle parti.

Il carattere giurisdizionale degli organi di autodichia emergerebbe inoltre dalla già ricordata decisione della Corte EDU nel caso Savino e altri contro Italia, nella quale è affermato che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, è giudice qualsiasi autorità che dirima una controversia.

2.7.– La Corte ricorrente, in via subordinata, afferma che – anche qualora si volesse ritenere che gli organi di autodichia del Senato siano organi speciali di giurisdizione di antica tradizione, esistenti anche prima dell’entrata in vigore della Costituzione, e che il procedimento di revisione di cui alla VI disposizione transitoria e finale si sia effettivamente svolto, in aderenza ai principi del giusto processo e ai requisiti di terzietà, imparzialità e indipendenza del giudice – vi sarebbe comunque una violazione degli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost. Sarebbe, infatti, precluso il ricorso straordinario per cassazione che il settimo comma dell’art. 111 Cost., quale «proiezione del principio di eguaglianza», riconosce nei confronti di qualsiasi sentenza che, non altrimenti impugnabile, può essere censurata per violazione di legge.

Secondo la Corte ricorrente, la garanzia del ricorso straordinario per cassazione non potrebbe subire deroghe rispetto alle decisioni rese dagli organi di autodichia del Senato, considerato che i commi settimo e ottavo dell’art. 111 Cost. prevedono espressamente che ciò possa avvenire solo per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra e per le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

2.8.– Le sezioni unite ritengono che tali profili di illegittimità costituzionale non siano superabili attraverso una interpretazione adeguatrice delle disposizioni subregolamentari, poiché è il loro tenore testuale ad escludere la possibilità di ricorrere alla giurisdizione ordinaria. Il rimettente evidenzia, peraltro, che il giudice non potrebbe pervenire a questo risultato attraverso l’interpretazione adeguatrice, dal momento che la stessa Corte costituzionale ha escluso di poter sindacare tali norme nel giudizio in via incidentale. Non resterebbe, dunque, che ricorrere al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.

2.9.– La Corte di cassazione precisa, inoltre, che non assume rilievo la circostanza che le norme subregolamentari del Senato censurate siano risalenti nel tempo. Nel conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, infatti, a differenza che in quello fra Stato e Regioni, non è previsto alcun termine per la proposizione del conflitto.

Sussisterebbe pertanto l’interesse a ricorrere, poiché la Corte di cassazione è chiamata a pronunciarsi sulla richiesta del ricorrente che invoca il suo sindacato di legittimità, impedito dalla disciplina subregolamentare del Senato.

Sarebbero, infine, soddisfatti i requisiti soggettivo (ossia la natura di potere dello Stato della Corte di cassazione e del Senato della Repubblica) e oggettivo (ossia il tono costituzionale del conflitto, che sarebbe «insito nella natura di diritto fondamentale della tutela giurisdizionale», la cui lesione è lamentata dal dipendente del Senato e che «ridonda non già in vizio di incostituzionalità, ma in lesione o turbativa del potere giurisdizionale»).

Quanto alla forma di decisione utilizzata per sollevare il conflitto da parte di un organo del potere giudiziario, le sezioni unite ritengono che essa sia l’ordinanza, poiché – essendo i suoi presupposti sorti nel corso del giudizio – presenterebbe i caratteri dell’incidentalità (al riguardo viene in particolare valorizzato il rinvio operato dall’art. 37, quinto comma, della legge 11 marzo del 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» all’art. 23, secondo comma, della medesima legge).

3.– Con ordinanza n. 137 del 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto, ai sensi dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953, disponendo la notifica degli atti anche alla Camera dei deputati.

4.– Il Senato della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 1° settembre 2015, si è costituito in giudizio, chiedendo che il conflitto sia dichiarato inammissibile «e/o in subordine» infondato.

4.1.– Dopo aver richiamato i termini della controversia oggetto del ricorso straordinario per cassazione presentato dal proprio dipendente e la sentenza n. 120 del 2014 della Corte costituzionale, il Senato afferma che con il conflitto sollevato dalle sezioni unite sarebbero riproposti «in buona sostanza […] i dubbi di legittimità costituzionale precedentemente denunciati sollevando la questione dichiarata inammissibile» con la stessa sentenza n. 120 del 2014, «opportunamente riformulati per censurare il carattere invasivo delle norme regolamentari rispetto al potere giurisdizionale della Cassazione».

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il conflitto sarebbe pertanto inammissibile, in quanto fondato su un’interpretazione errata della citata sentenza n. 120 del 2014, con specifico riferimento all’oggetto censurabile attraverso il conflitto tra poteri.

Le sezioni unite, infatti, rivendicando l’esercizio della propria funzione giurisdizionale, avrebbero fatto improprio ricorso al conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato: non si potrebbe in tale sede porre in discussione il potere normativo dell’organo costituzionale con cui sono istituiti gli organi di giustizia interna, ma solo il suo esatto dimensionamento, il suo corretto esercizio, la sua proporzionalità rispetto alle prerogative costituzionali di altri organi e la sua rispondenza al criterio del nesso funzionale, che, peraltro, ad avviso dell’Avvocatura, non potrebbe essere negato a fronte di mere controversie di lavoro dei dipendenti.

La Corte di cassazione contesterebbe, invece, radicalmente il sistema di autodichia, «senza che risultino in alcun modo chiariti i termini specifici del "conflitto tra poteri” sulla cui ammissibilità e fondatezza […] è chiamata ad esprimersi» la Corte costituzionale. Quest’ultima, con la sentenza n. 120 del 2014 – nella ricostruzione dell’Avvocatura generale dello Stato – avrebbe, invece, affermato che con il conflitto di attribuzione possono essere poste in discussione solo le modalità concrete di scorretto esercizio dell’autodichia, ma non le fonti normative istitutive di quel potere.

Poiché l’atto introduttivo del conflitto «non esprime con correttezza l’oggetto del contendere e non consente perciò di valutare in modo esatto la fondatezza del conflitto proposto, che ripropone gli argomenti alla base della questione di legittimità già decisa», il conflitto dovrebbe essere dichiarato inammissibile, difettando di un requisito essenziale.

4.2.– Quanto al merito del conflitto di attribuzione, il Senato della Repubblica si sofferma innanzitutto sulla nozione di autonomia degli organi costituzionali, alla luce della peculiare posizione che essi rivestono nell’ordinamento e delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione. Tale autonomia non solo comprenderebbe «l’autonomia normativa e la potestà di autorganizzazione», ma si estenderebbe anche «al momento applicativo delle fonti di autonomia», includerebbe «la scelta delle misure idonee ad assicurarne l’osservanza» e comporterebbe «la necessità di sottrarre a qualsiasi giurisdizione gli strumenti intesi a garantirne il rispetto».

Ne conseguirebbe, in questa prospettiva, la preclusione di qualsiasi sindacato sulle fonti di autonomia dell’organo costituzionale, alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale, secondo la quale gli organi costituzionali, essendo «posti al centro del sistema», non possono che vedersi riconosciuta una «indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere».

Alla luce del «contributo della giurisprudenza costituzionale nella ricostruzione degli istituti in cui si sostanzia l’autonomia degli organi costituzionali», tale autonomia sarebbe assistita sia dalle prerogative espresse in Costituzione, sia da quelle che non hanno simile riconoscimento formale, ma che «comunque sono consolidate dal loro perpetuarsi per effetto di una "lunga tradizione” […], o discendono da consuetudini […], o conseguono all’ampio margine di apprezzamento della "peculiare autonomia normativa” […], o sono ricavabili dalla posizione di autonomia e indipendenza dell’organo […], o desumibili dalle "antiche tradizioni interpretative”».

Dopo aver sottolineato che la Corte costituzionale avrebbe sempre riconosciuto e tutelato le prerogative dell’organo costituzionale funzionali a garantire quella stessa posizione di autonomia e indipendenza (sono citate le sentenze n. 1 del 2013 e n. 231 del 1975), che l’autonomia costituzionale dell’organo tende a coincidere con le prerogative dei suoi componenti (sentenze n. 290 del 2007 e n. 154 del 2004) e che le guarentigie devono essere considerate nel loro insieme, essendo funzionali a garantire l’autonomia dell’organo costituzionale (sentenze n. 1 del 2013 e n. 154 del 1985), l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che, per la stessa Corte, «parte integrante di questa peculiare dimensione di autonomia è costituita dalle prerogative implicite dell’organo costituzionale».

Conseguentemente, sebbene non vi sia un espresso riferimento in Costituzione, sarebbe opinione condivisa quella che fa discendere dall’art. 64, primo comma, Cost. la possibilità che la disciplina regolamentare preveda un procedimento di composizione delle liti fra dipendenti e amministrazione di appartenenza (a questo riguardo viene citata diffusamente la sentenza n. 66 del 1964), rispetto al fondamento dell’indipendenza delle Camere, che si ritroverebbe nell’attività politica e che si estrinsecherebbe nel «potere di auto-regolamento (c.d. autonomia)», comprensivo sia della potestà di autoamministrarsi, sia di quella di autogiudicarsi.

L’infondatezza del conflitto emergerebbe da tali considerazioni di principio, oltre che dalla circostanza che, trovando il sistema di autodichia la sua fonte negli artt. 64 e 66 Cost., nelle consuetudini costituzionali e nella complessiva posizione dell’organo costituzionale e avendo tali fonti rango costituzionale, il conflitto «avrebbe potuto trovare spazio solo qualora la fonte normativa dell’autodichia si fosse collocata a livello di fonte primaria non costituzionale».

4.3.– Quanto alla censura attinente al divieto di istituzione di giudici speciali, sarebbe evidente, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, che tale limite opererebbe solo nei confronti del legislatore ordinario. Sarebbe peraltro dubbio che gli organi giurisdizionali interni possano qualificarsi come giudici speciali.

L’Avvocatura generale dello Stato si sofferma, quindi, diffusamente sul divieto di istituire giudici speciali e sui requisiti richiesti dalla Costituzione per il mantenimento di quelli precostituzionali, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale, da cui emergerebbe che l’indipendenza del giudice consiste nell’autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette o indirette, che riguarda non solo l’ordine giudiziario nel suo complesso, ma anche i singoli organi ordinari e speciali.

Tanto premesso, l’Avvocatura generale approfondisce la composizione dei collegi giudicanti istituiti e disciplinati dagli organi costituzionali. A tale fine, richiama la sentenza della Corte EDU resa nel caso Savino e altri contro Italia, che avrebbe dichiarato la piena compatibilità con la CEDU del sistema di giustizia interna della Camera dei deputati, rilevando solo una violazione dell’art. 6 della CEDU con riferimento alla competenza dell’organo di appello.

D’altro canto, a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, in entrambe le Camere sarebbero stati intrapresi processi di revisione delle norme interne che delineano l’assetto del sistema di autodichia, così che quest’ultimo si configurerebbe ora come un «autentico sistema giurisdizionale interno, caratterizzato dalla presenza di giudici qualificati […] e di veri e propri regolamenti di procedura», che presenterebbe «le garanzie e i caratteri propri dell’attività giurisdizionale, rendendo così pieno ed effettivo il diritto di difesa degli interessati e ingiustificata la censura sollevata».

Sottolinea, inoltre, l’Avvocatura generale dello Stato che l’autodichia delle Camere affonderebbe le sue radici nel periodo precostituzionale, secondo quelle «risalenti tradizioni interpretative» riconosciute dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 120 del 2014. Di conseguenza, le norme dei regolamenti parlamentari non potrebbero non superare lo scrutinio di costituzionalità, rispetto all’art. 102, secondo comma, e alla VI disposizione transitoria e finale, Cost.

Ancora, secondo la difesa del Senato, l’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione sulla nozione di giudici speciali si porrebbe in contrasto con le tendenze del diritto dell’Unione europea, teso a «un pluralismo giurisdizionale», con la conseguenza che dovrebbe essere privilegiata un’interpretazione restrittiva della stessa nozione di giudice speciale, «ravvisabile soltanto in relazione agli organi giurisdizionali istituiti e disciplinati in forme apertamente derogatorie rispetto al sistema».

4.4.– Rispetto ai profili oggettivi del conflitto, l’Avvocatura generale dello Stato assume che il sistema dell’autodichia sarebbe non solo compatibile con i principi costituzionali, ma «addirittura costituzionalmente necessitato», in quanto garanzia principale dell’autonomia e indipendenza del Parlamento. Non sarebbe, dunque, condivisibile la «tesi riduttiva» della Corte di cassazione, secondo cui l’autonomia delle Camere andrebbe garantita solo rispetto alle funzioni legislative o politiche, con esclusione degli atti concernenti i dipendenti, sul presupposto che il sindacato giurisdizionale esterno su di essi non comprometta tale autonomia.

Al contrario, l’attività amministrativa degli organi parlamentari sarebbe sempre strumentale all’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche e si configurerebbe quale supporto indispensabile per il loro concreto svolgimento. L’intervento di poteri esterni che incidessero su tale attività di supporto e, segnatamente, sulle persone addette allo svolgimento di essa, inciderebbe, direttamente o indirettamente, sul libero espletamento delle funzioni parlamentari. A questo proposito, viene citata la sentenza n. 129 del 1981 della Corte costituzionale, che avrebbe affermato che l’autodichia costituisce un ineliminabile strumento per tutelare l’autonomia normativa e l’indipendenza del Parlamento, «posto che, se il "momento applicativo” delle norme emanate dall’organo parlamentare fosse rimesso al giudizio […] di un potere esterno, l’autonomia e l’indipendenza stesse sarebbero inevitabilmente dimezzate».

Peraltro, pur essendo precluso simile controllo giurisdizionale esterno, il sistema di autodichia assicurerebbe tutte le garanzie di autonomia e indipendenza sia sul piano soggettivo attinente alla composizione degli organi interni, sia su quello oggettivo relativo al procedimento.

4.5.– L’Avvocatura generale dello Stato afferma che in caso di accoglimento del conflitto si determinerebbe un effetto paradossale. In particolare, la rimozione dell’autodichia condurrebbe all’assoggettamento del personale dipendente del Senato alla giurisdizione del giudice ordinario, con conseguente equiparazione con il personale contrattualizzato delle amministrazioni di cui al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Tale equiparazione sarebbe «impropria alla luce della specialità dello statuto giuridico del personale del Senato, in ragione della connessione delle funzioni da questo esercitate con le attribuzioni costituzionali del Senato della Repubblica».

4.6.– Con riguardo alla censura prospettata dalle sezioni unite in via subordinata, ossia quella relativa alla invasione del potere giurisdizionale nella parte in cui è precluso il sindacato di legittimità ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost. sulle decisioni degli organi di autodichia, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che tale soluzione si presenterebbe come «distonica» rispetto al quadro normativo e giurisprudenziale.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, infatti, «la funzione assegnata alla Cassazione consente di far convivere nel medesimo ordinamento generale i due principi […] della giurisdizione unica e della giurisdizione plurima configurandola come arbitro delle giurisdizioni non come soggetto dotato di funzione nomofilattica generale». L’esclusione del ricorso per cassazione per violazione di legge e la sua ammissibilità solo per motivi relativi alla giurisdizione, nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, costituirebbero «il riconoscimento a livello costituzionale delle funzioni» di questi ultimi «di difesa del diritto obiettivo nel proprio ordine di competenze e quindi della funzione di nomofilachia con riferimento al plesso giurisdizionale cui appartengono».

L’accoglimento del conflitto con riguardo a questa specifica prospettazione potrebbe minare, secondo il Senato, «l’equilibrio connaturato all’autodichia degli organi costituzionali che istituisce una funzione giurisdizionale in limitati ambiti presso di sé connotati dalla pertinenza all’effettività di un ordinamento normativo speciale, proprio al fine di evitare ingerenze esterne».

4.7.– L’Avvocatura generale dello Stato, conclusivamente, ritiene che non vi siano ragioni per accogliere il conflitto, in quanto il Senato non avrebbe invaso alcuna competenza espressamente attribuita dalla Costituzione alla Corte di cassazione. Non si potrebbe individuare nemmeno alcun improprio esercizio delle attribuzioni delle Camere, che determini effetti lesivi sul corretto esercizio della funzione nomofilattica della Corte di cassazione. Solo a fronte di atti concretamente lesivi delle prerogative della giurisdizione – che trovassero il loro fondamento sulle fonti di autodichia – sarebbe stato possibile sollevare fondatamente un conflitto di attribuzioni, secondo quanto delineato con la sentenza n. 120 del 2014 della Corte costituzionale.

5.– In data 29 marzo 2016, il Senato della Repubblica ha depositato una memoria, con cui insiste per l’inammissibilità e, in subordine, per l’infondatezza del conflitto.

5.1.– L’Avvocatura generale dello Stato, riprendendo le argomentazioni già svolte nell’atto di costituzione in giudizio, ricorda, anzitutto, le differenze che caratterizzano il giudizio di legittimità costituzionale e quello sui conflitti interorganici, per poi affermare che la Corte di cassazione, con il presente conflitto, avrebbe riproposto le medesime censure già sollevate in via incidentale e dichiarate inammissibili con la sentenza n. 120 del 2014 della Corte costituzionale. Tale profilo emergerebbe in particolare dalla circostanza che gli argomenti addotti sono quasi interamente incentrati sull’inviolabilità del diritto alla tutela giurisdizionale piena ed effettiva: ciò dimostrerebbe l’intenzione della Corte di cassazione di garantire tutela al dipendente ricorrente, piuttosto che rivendicare l’esercizio di un potere menomato.

Sarebbe, dunque, evidente come la Corte di cassazione, attraverso un’indebita commistione tra i due tipi di giudizi – quello di legittimità e quello sui conflitti – mirerebbe surrettiziamente a stimolare una pronuncia della Corte costituzionale in relazione a profili che esulano dall’ambito oggettivo del giudizio sui conflitti e che, del resto, sarebbero stati già vagliati in sede di giudizio di legittimità costituzionale.

L’Avvocatura generale dello Stato sottolinea, in definitiva, come l’impostazione delle sezioni unite tenda a realizzare una «inammissibile interscambiabilità degli strumenti di giustizia costituzionale», con la conseguenza che la Corte costituzionale sarebbe – in relazione a un medesimo oggetto e, in questa ipotesi, ai regolamenti parlamentari – incompetente in sede di giudizio incidentale e competente in sede di giudizio per conflitto.

Ciò determinerebbe, peraltro, ad avviso dell’Avvocatura generale, un «ulteriore paradosso», poiché il titolare del diritto fondamentale alla giustizia non avrebbe titolo e modo per far valere l’asserita incostituzionalità delle norme che tale diritto negano o violano, mentre il giudice comune, che di quel diritto non è titolare, potrebbe (indirettamente) ottenerne la tutela, assumendo che sia stata invasa la sua sfera di attribuzioni.

5.2.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, quindi, che l’ordinanza con cui è stato proposto il conflitto sarebbe manifestamente illogica e contradditoria, a causa della formulazione, da parte della Corte di cassazione, di un doppio petitum, il quale implicherebbe due modi diversi di qualificare gli organi di giustizia domestica, con differenti ordini di conseguenze. Secondo la prospettazione addotta in via principale, gli organi di giustizia domestica avrebbero natura amministrativa e, dopo il ricorso a tali rimedi interni, sarebbe possibile adire il giudice comune; secondo la prospettazione addotta in via subordinata, gli stessi organi sarebbero qualificati quali giudici speciali.

L’accoglimento del primo ordine di censure condurrebbe a disattendere i principi definiti dalla Corte EDU, nella citata sentenza Savino e altri contro Italia, che ha qualificato gli organi di autodichia come «Tribunale», ai sensi dell’art. 6 della CEDU, alla luce del «rispetto di talune garanzie proprie della giurisdizione che sono state considerate soddisfatte nel caso concreto». Inoltre, le garanzie e i caratteri propri dell’attività giurisdizionale che caratterizzano il sistema di autodichia dovrebbero impedire la configurazione di forme di giurisdizione condizionata, la quale peraltro si tradurrebbe in una surrettizia duplicazione di giudizi.

Qualora venisse accolta la prospettazione avanzata in via subordinata e, dunque, gli organi di autodichia fossero qualificati come giudici speciali, verrebbe a mancare il presupposto soggettivo del conflitto di attribuzione, poiché i due organi che si confrontano in questo giudizio sarebbero riconducibili al medesimo potere giurisdizionale, con ciò configurandosi un inammissibile conflitto intrapotere.

5.3.– Quanto al merito, l’Avvocatura generale dello Stato ribadisce l’infondatezza del conflitto, con il quale, censurando l’autodichia, sarebbe messa in discussione l’autonomia e l’indipendenza riconosciuta dalla Costituzione agli organi espressione della sovranità popolare. Se, infatti, si ammettesse l’intervento di un potere esterno, sarebbe la stessa autonomia garantita alle Camere dall’art. 64 Cost. a risultarne irrimediabilmente pregiudicata.

Osserva ancora sul punto l’Avvocatura generale dello Stato che il «sapiente ed equilibrato bilanciamento» fra l’esigenza di garantire autonomia e indipendenza delle Camere e il riconoscimento per il personale dipendente del diritto di accedere a un «Tribunale» con garanzie analoghe a quelle della giurisdizione sarebbe del tutto stravolto in caso di accoglimento delle censure prospettate dalle sezioni unite, «col conseguente rischio che un potere (quello giudiziario) finirebbe per invadere sfere di autonomia costituzionalmente riservate ad organi sovrani».

6.– È intervenuta nel giudizio per conflitto di attribuzione la Camera dei deputati, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 1° settembre 2015 e con successiva memoria depositata il 29 marzo 2016, chiedendo che il conflitto sia dichiarato inammissibile, o in subordine infondato, con argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle prospettate dal Senato della Repubblica.

7.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato l’8 settembre 2015, P. L., in qualità di dipendente del Senato che ha proposto il ricorso straordinario per cassazione avverso la decisione adottata in sede di appello dal Consiglio di garanzia del Senato, chiedendo l’accoglimento delle conclusioni formulate dalla Corte di cassazione.

7.1.– Dopo aver dettagliatamente ricostruito le vicende processuali che hanno dato origine al conflitto di attribuzione promosso dalla Corte di cassazione nei confronti del Senato della Repubblica, la difesa della parte privata argomenta in ordine all’ammissibilità del suo atto di intervento. A tal fine, richiama alcune decisioni della Corte costituzionale, per dimostrare che la sua esclusione dal giudizio costituzionale «si tradurrebbe nella definitiva sottrazione delle garanzie del contraddittorio, non essendovi altra sede nella quale […] possa far valere il proprio interesse sostanziale» (vengono al riguardo citate le sentenze n. 386 del 2005 e n. 76 del 2001).

7.2.– Quanto al merito del conflitto, la difesa della parte privata osserva che la sentenza n. 120 del 2014 della Corte costituzionale avrebbe posto «le premesse per il superamento del principio di autodichia sui rapporti di lavoro dei dipendenti delle Camere». La Corte costituzionale, infatti, pur confermando l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari in sede di giudizio di legittimità costituzionale, avrebbe affermato che essi sono sottoposti agli ordinari canoni interpretativi, alla luce dei principi e delle disposizioni costituzionali che ne definiscono la sfera di competenza.

Secondo la parte interveniente, la Corte costituzionale avrebbe così affermato che la legittimità dell’autodichia dipende dalla sua estensione e, quindi, dal rispetto o dal superamento dei limiti costituzionali che delimitano la sfera di competenza del potere dell’organo parlamentare di organizzarsi in modo autonomo. Di conseguenza, «le disposizioni dei regolamenti parlamentari che prevedono l’autodichia, in ordine a vicende e rapporti che "esulano dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare”, pur costituendo "norme non sindacabili” in sede di giudizio di legittimità costituzionale, nondimeno rappresentano "fonti di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili”».

In questa prospettiva, dal punto di vista sostanziale non si tratterebbe più di stabilire se sia costituzionalmente legittima la fonte che prevede l’autodichia, ma occorrerebbe verificare se determinate vicende o rapporti rientrino nell’ambito costituzionalmente riservato alla sfera di autonomia e autodichia degli organi parlamentari, oppure si collochino al di fuori di quel confine, con conseguente applicazione del comune regime di tutela costituzionale dei diritti.

Dal punto di vista processuale, la «natura regolamentare parlamentare delle norme istitutive dell’autodichia» non precluderebbe la possibilità di sollevare conflitto di attribuzione, quando un potere si ritenga leso o menomato dall’attività dell’altro, essendo tale tipo di giudizio la sede naturale in cui risolvere le questioni attinenti alla delimitazione degli ambiti di competenza.

7.3.– Tanto premesso, la parte interveniente ritiene che la decisione della Corte costituzionale rispetto al conflitto sollevato dalla Corte di cassazione dipenda dalla ritenuta inerenza o meno alle funzioni primarie delle Camere dei rapporti di lavoro dei suoi dipendenti e dalla collocazione di essi all’interno dell’ambito di competenza riservato ai regolamenti parlamentari.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 120 del 2014, qualificando la questione come controversa, avrebbe comunque offerto almeno due indicazioni nel senso che questi rapporti di lavoro si collocano al di fuori dell’ambito di competenza dei regolamenti parlamentari e non risultano connessi con le funzioni primarie del Parlamento, con la conseguenza che la tutela giurisdizionale dei diritti dei dipendenti non potrebbe essere incisa dall’autodichia. In particolare, la Corte costituzionale avrebbe fatto riferimento a ciò che avviene in alcuni ordinamenti costituzionali vicini, che non prevedono più l’autodichia sui rapporti di lavoro dei dipendenti e con i terzi. Inoltre, la Corte costituzionale avrebbe richiamato l’immunità parlamentare prevista dall’art. 68 Cost. e la necessità della sua stretta interpretazione, che impone di accertare rigorosamente il nesso funzionale fra l’opinione espressa e l’attività parlamentare, per contenere l’impedimento all’accesso al giudice da parte di coloro che si ritengano danneggiati. Secondo la parte interveniente, «un simile stretto nesso funzionale non è ravvisabile con riferimento ai rapporti di lavoro dei dipendenti, le cui vicende non ineriscono alle "funzioni primarie” delle Assemblee parlamentari, né sollevano il rischio di comprometterne "lo statuto di garanzia”».

A questo ultimo proposito, la difesa dell’interveniente sottolinea le specificità del caso concreto, al fine di dimostrare l’assenza di ogni rischio di compromissione dello statuto di garanzia delle Camere. Simile conclusione sarebbe confortata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte EDU, in relazione al diritto al giudice, laddove avrebbe affermato la necessità che lo Stato dimostri che l’oggetto della controversia sia connesso all’esercizio dell’autorità statale, non essendo sufficiente una semplice allegazione in merito alla partecipazione dei dipendenti all’esercizio della pubblica amministrazione (è menzionata la sentenza della Corte EDU del 19 aprile 2007, Vilho Eskelinen e altri contro Finlandia).

7.4.– Da ultimo, la difesa della parte interveniente si sofferma in modo particolare sulla prospettazione offerta in via subordinata dalla Corte di cassazione, ossia sulla ipotesi di riconoscere contro le decisioni degli organi di autodichia il ricorso per cassazione per violazione di legge. In questo modo, riconoscendo la «natura pienamente giurisdizionale degli organi di autodichia» sarebbe possibile «assicurare la piena conformità di questi giudici al modello costituzionale prefigurato dall’art. 108, comma secondo, Cost.»: tale scelta, «una volta completato il percorso di revisione e piena riconduzione dell’autodichia al modello dell’art. 108 Cost., potrebbe costituire un equilibrato bilanciamento tra le varie istanze in gioco», anche considerando che l’autonomia e l’indipendenza delle Camere non sarebbe incisa dal controllo limitato ai soli profili di legittimità di cui all’art. 111 Cost. Inoltre, gli organi di autodichia quali organi giurisdizionali e sottoposti al controllo della Corte di cassazione potrebbero «assicurare una elevata specializzazione, in relazione ad un contenzioso che present[a] indubitabili elementi di specificità».

7.5.– La parte interveniente ha depositato ulteriore memoria il 15 marzo 2016, con cui ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni della Corte di cassazione e ha specificamente replicato agli argomenti spesi dall’Avvocatura generale dello Stato.

In particolare, quanto alle eccezioni di inammissibilità, la difesa dell’interveniente osserva che con il conflitto di attribuzione sollevato nei confronti del Senato della Repubblica, le sezioni unite della Corte di cassazione non avrebbero chiesto alla Corte costituzionale di valutare se l’autodichia «in quanto tale» menomi la sfera riservata al potere giurisdizionale, bensì «se tale sfera venga lesa dall’applicazione di siffatto istituto ad una controversia di lavoro in tema di demansionamento del personale dipendente».

Nel merito, si osserva che la giurisprudenza costituzionale relativa alle prerogative degli organi costituzionali abbia progressivamente circoscritto e limitato le deroghe al regime di giurisdizione comune, anziché affermare un assoluto principio di non interferenza della magistratura sugli organi costituzionali. Coerentemente, nella medesima giurisprudenza, sarebbe stato dato rilievo al «principio supremo di tutela del diritto al giudice dei cittadini», che potrebbe risultare compresso solo nel caso in cui vi fosse un preciso riferimento nella Costituzione e fosse necessario realizzare un interesse pubblico di pari rilievo costituzionale.

In secondo luogo, la difesa della parte privata ribadisce le ragioni per le quali ritiene che l’autonomia delle Camere non sarebbe compromessa dalla sottrazione delle sole controversie di lavoro dall’ambito di estensione dell’autodichia.

Infine, la difesa della parte interveniente osserva che la stessa Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio innanzi alla Cassazione, aveva qualificato gli organi di autodichia delle Camere come giudici speciali. Una volta affermata tale natura, non si potrebbero sottrarre le relative decisioni a «un sindacato di legittimità che deve ritenersi costituzionalmente indefettibile».

La difesa della parte privata conclude ribadendo di ritenere preferibile l’accoglimento del conflitto con riguardo alla prospettazione offerta in via subordinata dalla Corte di cassazione, poiché ciò consentirebbe al ricorrente di ottenere, in tempi brevi, una pronuncia definitiva dopo un lungo iter processuale.

8.– Il conflitto (reg. confl. pot. n. 2 del 2015) nei confronti del Presidente della Repubblica è proposto in relazione alla deliberazione degli artt. 1 e seguenti del decreto presidenziale 24 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89 e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34.

La Corte ricorrente chiede che la Corte costituzionale, dopo aver riconosciuto l’ammissibilità del conflitto, dichiari che non spettava al Presidente della Repubblica deliberare tali disposizioni, in via principale nella parte in cui, in violazione degli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma (in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale), 108, primo comma, e 111, primo comma, Cost., «precludono l’accesso dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica alla tutela giurisdizionale comune, in riferimento alle controversie di lavoro insorte con lo stesso»; e in via subordinata nella parte in cui, in violazione degli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost., «non consentono, contro le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali da tali disposizioni previste, il ricorso in cassazione per violazione di legge ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost.».

8.1.– La Corte di cassazione premette di essere chiamata a giudicare in ordine al ricorso proposto da alcuni dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, per la cassazione della decisione del 17 aprile 2012, assunta dal Collegio d’appello, di conferma della decisione del Collegio giudicante di primo grado, il quale aveva respinto la richiesta dei ricorrenti di riconoscimento del diritto alla corresponsione delle somme maturate a titolo di indennità perequativa e di indennità di comando, non più corrisposte dal Segretariato della Presidenza della Repubblica a partire dal loro inquadramento in ruolo.

8.2.– La Corte ricorrente ricorda, anzitutto, che, nel regime anteriore alla disciplina regolamentare del contenzioso interno prevista dai decreti presidenziali n. 81 e n. 89 del 1996, la giurisprudenza di legittimità aveva negato la sussistenza di un’autodichia del Presidente della Repubblica nelle controversie con i suoi dipendenti.

Tale indirizzo fu, però, in seguito superato dalla stessa Corte di cassazione, a sezioni unite, con la sentenza, resa in sede di regolamento di giurisdizione, del 17 marzo 2010, n. 6529. In tale pronuncia, essa prese atto che l’organo costituzionale «si è dotato consapevolmente, sin dal 1996, di una struttura decisionale articolata per la soluzione di tali conflitti ed ha visto, negli ultimi anni, il giudice amministrativo dubitare […] della propria potestas judicandi sui conflitti stessi». Quindi, ricordando la sentenza della Corte EDU resa nel caso Savino e altri contro Italia, avrebbe riconosciuto il fondamento costituzionale indiretto del potere del Presidente della Repubblica di riservare alla propria cognizione interna le controversie in materia di impiego del personale ed avrebbe affermato che tale potere è stato esercitato assicurando i principi di precostituzione, imparzialità e indipendenza dei collegi previsti per la risoluzione delle controversie.

La Corte ricorrente ricorda, quindi, che la Corte costituzionale ha successivamente pronunciato la sentenza n. 120 del 2014, con cui, pur dichiarandosi l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale e ribadendosi l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari, si sarebbe delineata la «direttrice di possibili sviluppi, fornendo significativi elementi di novità», indicando la possibile sindacabilità dei regolamenti parlamentari attraverso la via del conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Secondo la Cassazione, il conflitto di attribuzione sarebbe dunque configurabile laddove, a fronte del superamento dei limiti che gli artt. 64 e 72 Cost. pongono alla competenza normativa dei regolamenti parlamentari, si determini una invasione o una turbativa di altro potere dello Stato, quale quello giurisdizionale, che sarebbe «espressione della garanzia generale alla tutela giurisdizionale, riconosciuta come diritto fondamentale». Il rispetto dei diritti fondamentali costituirebbe un limite alla competenza regolamentare delle Camere, il cui superamento costituirebbe «un’invasione di campo, una violazione delle regole di competenza, un’alterazione dell’equilibrio dei poteri dello Stato».

La Corte costituzionale, in definitiva, con la sentenza n. 120 del 2014 avrebbe reso possibile «il raffronto tra la normativa subregolamentare del Senato in tema di autodichia in materia di controversie di lavoro del personale dipendente e la Costituzione», chiarendo che «lo strumento processuale di verifica è il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ex art. 134 Cost.».

Ciò posto, ritiene la Corte di cassazione che le conclusioni raggiunte dalla Corte costituzionale nella menzionata pronuncia rispetto all’autodichia del Senato della Repubblica possano valere anche con riguardo all’autodichia del Presidente della Repubblica in materia di controversie del personale, «pur nella sua particolare connotazione».

8.3.– Premette ancora la ricorrente che, con il decreto presidenziale n. 81 del 1996, successivamente integrato dal decreto presidenziale n. 89 del 1996, e modificato dal decreto presidenziale n. 34 del 2008, emanati ai sensi della legge 9 agosto 1948, n. 1077 (Determinazione dell’assegno e della dotazione del Presidente della Repubblica e istituzione del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica), si sarebbe eliminato «il precedente carattere eventuale dell’autodichia (di cui al decreto n. 31 del 1980)» e si sarebbe esclusa «implicitamente la possibilità di ricorso al giudice amministrativo».

In particolare, per le controversie di lavoro del personale, con tali decreti presidenziali sono stati istituiti, quale organo di primo grado, il Collegio giudicante (nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Segretario Generale, e composto da un consigliere di Stato, da un consigliere di Corte d’appello e da un consigliere della Corte dei conti) e, quale organo di secondo e ultimo grado, il Collegio d’appello (nominato anch’esso con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Segretario Generale e composto da un presidente di sezione del Consiglio di Stato, da un consigliere della Corte di cassazione e da un consigliere della Corte dei conti).

La Corte ricorrente richiama le caratteristiche della procedura seguita di fronte a tali organi, che ricalcherebbe quella prevista per i ricorsi ai giudici amministrativi.  Sottolinea che, alla luce della configurazione e della composizione degli organi in questione, essi sono stati ritenuti idonei a soddisfare le condizioni di precostituzione, imparzialità e indipendenza richiesti dalla CEDU, come interpretata dalla Corte EDU con la decisione resa nel caso Savino e altri contro Italia, che risultano corrispondere ai principi espressi dagli artt. 25, 104, 107 e 108 Cost.

8.4.– Premettono ancora le sezioni unite che, sebbene i regolamenti presidenziali non siano assimilabili ai regolamenti parlamentari, non potrebbe, tuttavia, negarsi che anche i predetti decreti non abbiano forza di legge e pertanto non possano essere oggetto di questioni di legittimità costituzionale in via incidentale.

Nel contempo, sarebbe indubbio che gli stessi decreti non possano essere sottratti al controllo di costituzionalità, quantomeno attraverso il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Tale conflitto sarebbe configurabile quando – come nel caso in esame – l’esercizio del potere normativo al di fuori degli ambiti costituzionalmente riservati ad un potere si traduca in una invasione o turbativa di altro potere dello Stato, e in particolare del potere giurisdizionale, «che altro non è che espressione della garanzia generale alla tutela giurisdizionale, riconosciuta come diritto fondamentale».

Spetterebbe così alla Corte costituzionale, in sede di conflitto di attribuzione, definire il «confine tra i due distinti valori della autonomia della Presidenza della Repubblica, da un lato, e la legalità-giurisdizione, dall’altro».

8.5.– Tanto premesso, le sezioni unite della Corte di cassazione illustrano i «profili di illegittimità costituzionale rilevabili nella fattispecie», sul presupposto che l’invasione del potere giurisdizionale richieda l’indicazione dei parametri costituzionali «versandosi comunque in una ipotesi di vizio di illegittimità costituzionale in senso lato».

Esse ritengono che la menomazione o turbativa del potere giurisdizionale sia di duplice portata: una, più generale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma (quest’ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale), 108, primo comma, e 111, primo comma, Cost.; e una, più specifica, in riferimento agli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost. Qualora, infatti, la Corte costituzionale dichiarasse illegittima l’autodichia del Presidente della Repubblica rispetto alle controversie instaurate dai suoi dipendenti, si riespanderebbe la giurisdizione comune, permettendo l’accesso alla giustizia attualmente negato ai ricorrenti; qualora fosse, invece, accolta la soluzione prospettata in via subordinata – sul presupposto che gli organi di autodichia siano legittimamente configurabili quali giudici speciali – sarebbe consentito, nei confronti delle decisioni degli organi di autodichia, il ricorso straordinario per cassazione.

In merito alla richiesta formulata in via principale, la Corte di cassazione ritiene che l’autodichia del Presidente della Repubblica sulle controversie instaurate dai suoi dipendenti contrasti con il principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), unitamente al riconoscimento a tutti della facoltà di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.), in quanto una determinata categoria di soggetti sarebbe irragionevolmente esclusa dalla tutela giurisdizionale (vengono in particolare citate le sentenze n. 238 e n. 120 del 2014). Secondo la Corte ricorrente, non sarebbe ipotizzabile che l’autonomia del Presidente della Repubblica «possa bilanciare, fino a comprimerlo del tutto, il diritto alla tutela giurisdizionale del personale dipendente, nella misura in cui può ragionevolmente escludersi che alcun rischio tale autonomia guarentigiata corra a causa di un’iniziativa giudiziaria di suoi dipendenti».

Sarebbe violato, inoltre, l’art. 102, secondo comma, Cost., che esclude che possano essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali, unitamente alla VI disposizione transitoria e finale, che richiede entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione la revisione degli organi speciali di giurisdizione esistenti, con l’eccezione delle giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari. Il Collegio giudicante e il Collegio d’appello della Presidenza della Repubblica si configurerebbero, infatti, quali giudici speciali, istituiti dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Né – secondo la Corte ricorrente – si potrebbe ravvisare «una continuità con un analogo apparato di autodichia (vera e propria) nel sistema ordinamentale anteriore all’entrata in vigore della Costituzione (e neppure in quello pre-repubblicano)».

Sarebbero altresì violati gli artt. 108, primo comma, e 111, primo comma, Cost., che, rispettivamente, pongono una riserva di legge con riguardo all’ordinamento giudiziario e al giusto processo, pur se «i "giudici” istituiti con i citati decreti presidenziali soddisfano le esigenze di precostituzione, imparzialità e indipendenza, richieste dall’art. 6 p. 1, della Convenzione EDU e dagli artt. 108, secondo comma e 111, secondo comma, della Costituzione».

In subordine, sarebbe in ogni caso configurabile la violazione dell’art. 111, settimo comma, Cost., unitamente all’art. 3, primo comma, Cost. Il ricorso straordinario per cassazione per violazione di legge nei confronti di ogni sentenza costituirebbe, infatti, proiezione del principio di uguaglianza, poiché assicurerebbe che la legge sia interpretata e applicata allo stesso modo nei confronti di tutte le parti in giudizio. Una deroga rispetto a tale garanzia dovrebbe essere prevista espressamente dalla Costituzione.

8.6.– Le sezioni unite sottolineano di non poter superare i prospettati dubbi di legittimità costituzionale attraverso un’interpretazione adeguatrice della disciplina regolamentare censurata, il cui tenore testuale inequivocabilmente esclude qualunque sindacato della giurisdizione ordinaria sulle decisioni assunte dagli organi di autodichia, finanche nella forma del sindacato di legittimità esercitato in generale dalla Corte di cassazione.

Nessuna interpretazione adeguatrice da parte del giudice comune sarebbe, peraltro, possibile se si considera che a tale risultato non è giunta neppure la Corte costituzionale in sede di sindacato incidentale.

Non resterebbe, dunque, che ricorrere al conflitto di attribuzione tra poteri per accertare che i ricordati «dubbi di legittimità costituzionale», e soprattutto l’asserita lesione del diritto alla tutela giurisdizionale dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, «ridondano in menomazione o turbativa del potere giurisdizionale» della Corte di cassazione, alla quale sarebbe impedito l’esercizio del sindacato di legittimità domandato dai ricorrenti.

8.7.– La Corte ricorrente afferma, infine, che il conflitto sarebbe stato proposto tempestivamente nonostante le disposizioni regolamentari asseritamente lesive delle proprie attribuzioni costituzionali siano risalenti nel tempo, in quanto in tale giudizio non è previsto alcun termine per adire la Corte costituzionale.

Nel caso in esame, sussisterebbe l’attualità dell’interesse a ricorrere, poiché la Corte di cassazione è chiamata a decidere un ricorso proposto da dipendenti della Presidenza della Repubblica.

La Corte ricorrente ritiene sussistenti anche i requisiti soggettivo (ossia la natura di potere dello Stato della medesima Corte e del Presidente della Repubblica) e oggettivo (ossia il tono costituzionale del conflitto, che sarebbe insito nella natura di diritto fondamentale della tutela giurisdizionale, la cui violazione ridonderebbe in lesione o turbativa del potere giurisdizionale).

Da ultimo, le sezioni unite ritengono che il provvedimento per sollevare conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato da parte di un organo del potere giudiziario, nel caso in cui i relativi presupposti insorgano nel corso del giudizio e, dunque, il conflitto abbia i caratteri dell’incidentalità, sia l’ordinanza (a questo proposito vengono richiamati sia gli artt. 37, terzo comma, della legge n. 87 del 1953 e 24 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, che si riferiscono al "ricorso”, sia il generale rinvio operato dall’art. 37, quinto comma, della stessa legge ai precedenti artt. 23, 25 e 26).

9.– Con ordinanza n. 138 del 2015 la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto, ai sensi dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953.

10.– Il Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il primo 1° settembre 2015, si è costituito in giudizio, chiedendo che il conflitto sia dichiarato inammissibile e, in subordine, infondato.

10.1.– L’Avvocatura generale dello Stato, dopo aver ripercorso la vicenda processuale nel cui ambito è stato sollevato il conflitto di attribuzione da parte della Corte di cassazione, sottolinea come il ricorso per conflitto riproponga sostanzialmente i medesimi dubbi di legittimità costituzionale prospettati nei confronti del regolamento del Senato della Repubblica, e dichiarati inammissibili con la sentenza n. 120 del 2014, «opportunamente riformulati per censurare il carattere invasivo delle norme regolamentari rispetto al potere giurisdizionale della Corte di Cassazione».

Quindi, dopo aver ricordato i parametri costituzionali la cui violazione è lamentata dalle sezioni unite della Corte di cassazione, l’Avvocatura generale dello Stato osserva come non sia «casuale» che il doppio petitum prospettato con il conflitto sollevato nei confronti del Presidente della Repubblica coincida con quello sollevato nei confronti del Senato: tale corrispondenza – a suo avviso – testimonierebbe «l’intento della Cassazione di utilizzare lo strumento del conflitto di attribuzioni […] per verificare la "resistenza” del sistema di autodichia degli organi costituzionali, a prescindere dalla diversità intrinseca di tali sistemi e dalla loro distinta matrice costituzionale».

10.2.– In punto di ammissibilità, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che il conflitto si fondi su una interpretazione errata della sentenza n. 120 del 2014 della Corte costituzionale.

La Corte di cassazione, rivendicando l’esercizio della sua funzione giurisdizionale asseritamente lesa dalle fonti di autonomia degli organi costituzionali, lamenterebbe la violazione del diritto alla tutela giurisdizionale dei dipendenti al fine di ottenere la riespansione dell’ordinaria tutela giurisdizionale. Simile richiesta, però, esulerebbe dall’ambito del conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Oggetto di quest’ultimo, infatti, non potrebbe essere il potere normativo dell’organo costituzionale, mediante il quale sono stati istituiti gli organi di giustizia interna, bensì solo il suo esatto dimensionamento, il suo corretto esercizio, la sua proporzionalità rispetto alle prerogative costituzionali di altri organi e «la sua rispondenza al criterio del nesso funzionale», il quale non potrebbe negarsi rispetto a controversie aventi a oggetto rapporti organici o di servizio.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 120 del 2014, avrebbe negato che le fonti di autonomia siano censurabili in sede di conflitto, potendo invece esserlo specifici atti, che su quelle fonti di autonomia si fondino, se lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili.

Il conflitto sarebbe dunque inammissibile, poiché l’atto introduttivo non avrebbe correttamente individuato «l’oggetto del contendere».

10.3.– Nel merito, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’autonomia degli organi costituzionali discenderebbe dalla loro peculiare posizione e dalle funzioni loro attribuite dalla Costituzione. Collocati al centro del sistema, essi godrebbero di determinate guarentigie strettamente preordinate a garantire il libero svolgimento delle funzioni costituzionali loro assegnate. Tale ampia nozione di autonomia non comprenderebbe solo l’autonomia normativa e la potestà di autorganizzazione, ma si estenderebbe al momento applicativo delle fonti di autonomia, includerebbe la scelta delle misure idonee ad assicurarne l’osservanza e comporterebbe la necessità di sottrarre a qualsiasi giurisdizione il controllo sugli strumenti tesi a garantirne il rispetto.

Con specifico riguardo al Presidente della Repubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ricorda che la legge n. 1077 del 1948 prevede che nel Segretariato generale siano inquadrati tutti gli uffici e i servizi necessari per l’esercizio delle funzioni presidenziali, che esso rappresenti l’amministrazione della Presidenza della Repubblica e che sovraintenda a tutti gli uffici e ai servizi della stessa. Al Segretariato generale sarebbe, pertanto, riconosciuta una peculiare posizione, direttamente strumentale all’espletamento delle funzioni che la Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica.

Dalla prima ricordata nozione di autonomia discenderebbe la competenza esclusiva dello stesso organo costituzionale in ordine alla scelta delle misure idonee a garantire il rispetto delle fonti interne di autonomia e «la conseguente necessità di sottrarre a qualsiasi giurisdizione gli strumenti intesi a garantirne il rispetto».

L’Avvocatura generale dello Stato osserva, quindi, che, con l’entrata in vigore della Costituzione e il riconoscimento dell’indipendenza della magistratura, l’autonomia dell’organo costituzionale e le relative prerogative non avrebbero più lo scopo di proteggere gli organi supremi dello Stato da «eventuali deviazioni dell’azione giurisdizionale», ma sarebbero «funzionali a preservare la suprema politicità degli organi e delle funzioni loro attribuite, in quanto immediato riflesso della sovranità popolare». Da qui discenderebbero le particolari prerogative degli organi costituzionali, tra i quali il Presidente della Repubblica. L’ampia autonomia loro riconosciuta sarebbe «pertanto riconducibile all’intrinseca politicità dei massimi organi rappresentativi, e alla conseguente necessità di assicurarne il libero svolgimento delle funzioni».

L’Avvocatura generale dello Stato richiama le decisioni della Corte costituzionale dalle quali si ricaverebbe che l’autonomia degli organi costituzionali comprende sia le prerogative espressamente previste in Costituzione, sia quelle che tale riconoscimento formale non hanno, ma che «comunque sono consolidate dal loro perpetuarsi per effetto di una "lunga tradizione” […], o discendono da consuetudini […], o conseguono all’ampio margine di apprezzamento della "peculiare autonomia normativa” […], o sono ricavabili dalla posizione di autonomia e indipendenza dell’organo […], o desumibili dalle "antiche tradizioni interpretative”» (sono menzionate le sentenze n. 120 del 2014, n. 154 del 1985, n. 78 del 1984, n. 129 del 1981 e n. 231 del 1975).

Con particolare riferimento al Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale avrebbe avvalorato un’ampia nozione di autonomia, che si fonderebbe su prerogative implicite, a partire dalla consuetudine costituzionale ravvisata a fondamento dell’esenzione dalla giurisdizione contabile. È poi richiamata la sentenza n. 1 del 2013, nella quale la Corte avrebbe affermato che non è necessario che la garanzia di autonomia sia prevista in Costituzione, ben potendo la legge e i regolamenti degli organi costituzionali «esprimere prerogative implicite alla particolare struttura ed alle specifiche funzioni» dell’organo costituzionale.

L’Avvocatura generale dello Stato – alla luce della nozione di autonomia a suo avviso ricavabile dalla giurisprudenza costituzionale – ritiene che l’autodichia del Presidente della Repubblica si traduca nella tutela delle complesse attribuzioni costituzionali del Presidente delineate dalle norme costituzionali (è diffusamente richiamata in proposito la sentenza n. 1 del 2013).

Essa afferma, quindi, che, nell’esercizio dei suoi poteri, il Presidente della Repubblica dispone «di un proprio corpo burocratico», costituito dal Segretariato generale della Repubblica, e che quest’ultimo si pone in rapporto di derivazione organica rispetto al Presidente, costituendo pertanto parte integrante dello stesso organo presidenziale. L’autodichia rappresenterebbe, dunque, uno dei corollari dell’autonomia del Presidente della Repubblica e garantirebbe, insieme all’autonomia normativa, contabile e finanziaria, l’indipendenza di tale organo costituzionale.

A sostegno di tale nozione di autonomia, comprensiva di prerogative implicite dell’organo costituzionale, si sarebbe espressa anche la Corte costituzionale (è ricordata, in particolare, la sentenza n. 129 del 1981).

Da tale giurisprudenza si ricaverebbe che – benché espressamente prevista solo dall’art. 66 Cost. – la possibilità di disciplinare un procedimento di composizione delle liti con il personale dipendente si fonderebbe sull’autonomia normativa delle Camere (art. 64, primo comma, Cost.).

«Analogamente», secondo l’Avvocatura generale dello Stato, anche l’autodichia del Presidente della Repubblica avrebbe un fondamento consuetudinario: «la diretta strumentalità del Segretariato rispetto alle funzioni del Presidente della Repubblica sin dalla nascita della burocrazia dell’organo costituzionale […] non ha mai fatto dubitare dell’esistenza di una residua forma di giustizia ritenuta esercitabile dal Capo dello Stato».

L’autodichia spetterebbe «in modo per dir così naturale» al Presidente della Repubblica, in quanto organo costituzionale e come tale in posizione di assoluta indipendenza e irresponsabilità e, quindi, al di fuori di ogni controllo e ingerenza esterna. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la previsione di un controllo giudiziario esterno sull’organizzazione amministrativa del Segretariato generale si tradurrebbe nel condizionamento dell’esercizio delle funzioni presidenziali, potendo incidere direttamente sui provvedimenti aventi ad oggetto non solo i diritti patrimoniali  dei dipendenti, ma la stessa organizzazione degli uffici e la flessibilità di tale organizzazione, in base alle esigenze di volta in volta individuate dal Presidente della Repubblica.

10.4.– Con riferimento all’asserita violazione del divieto di istituire giudici speciali previsto dall’art. 102 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato osserva, in primo luogo, che gli organi interni della Presidenza della Repubblica troverebbero «piena e diretta legittimazione, sul piano costituzionale, nelle incomprimibili esigenze di preservare l’autonomia e l’indipendenza della Presidenza e, con esse, il principio della divisione dei poteri».

In secondo luogo, si dovrebbe considerare – a suo avviso – che l’art. 102 Cost., nel vietare l’istituzione di giudici speciali, mirerebbe ad evitare che possano trovare ingresso nell’ordinamento «organismi giurisdizionali troppo dipendenti dall’Esecutivo». Gli organi di autodichia sarebbero invece funzionali ad assicurare non solo l’autonomia e l’indipendenza dell’organo costituzionale, ma anche il diritto di difesa degli interessati.

Dopo aver richiamato la giurisprudenza costituzionale relativa alle giurisdizioni speciali precostituzionali e alle condizioni della loro sopravvivenza, l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea, quindi, che l’indipendenza del giudice, consistente nell’autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette o indirette esterne, riguarderebbe l’ordine giudiziario nel suo complesso e i singoli organi sia ordinari sia speciali. A questo proposito, essa osserva che – quanto al profilo soggettivo – la composizione dei collegi giudicanti della Presidenza della Repubblica sarebbe pienamente conforme a quanto richiesto dalla Corte EDU nella decisione resa nel caso Savino e altri contro Italia,

Inoltre, secondo l’Avvocatura dello Stato, «l’indagine imposta dalla VI disposizione transitoria impone per la Presidenza della Repubblica di seguire le tracce della consuetudine costituzionale che la fonda ed esse, nella situazione pre-costituzionale, si rinvengono nel generale principio di giustizia ritenuta del sovrano».

Infine, la prospettiva della Corte di cassazione contrasterebbe con le tendenze del diritto dell’Unione europea, secondo il quale si dovrebbe privilegiare una interpretazione restrittiva di giudice speciale, «ravvisabile soltanto in relazione agli organi giurisdizionali istituiti e disciplinati in forme apertamente derogatorie rispetto al sistema».

10.5.– Con riguardo ai profili oggettivi del conflitto, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che, sebbene i decreti presidenziali non siano censurabili nel giudizio di legittimità costituzionale, bensì in sede di conflitto di attribuzione fra poteri, come riconosciuto con la sentenza n. 120 del 2014 per i regolamenti parlamentari, e sebbene l’autodichia dello stesso Presidente della Repubblica non abbia un fondamento costituzionale espresso, nondimeno i decreti presidenziali che hanno previsto organi interni per la decisione delle controversie di lavoro dei dipendenti di tale organo costituzionale troverebbero un fondamento nelle prerogative implicite dell’organo costituzionale.

Il sistema di autodichia della Presidenza della Repubblica fornirebbe inoltre garanzie idonee di precostituzione, imparzialità e indipendenza, quali quelle previste dall’art. 6 CEDU, che corrisponderebbero peraltro – anche secondo la Corte di cassazione – ai principi di cui agli artt. 25, 104, 107 e 108 Cost.

Richiamando la giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto un «fondamento univoco di taluni profili organizzativi degli organi costituzionali sulla base di comuni profili funzionali, idonei a garantirne l’autonomia», potrebbe ritenersi sussistente – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – una vera e propria consuetudine su cui si fonderebbe l’autodichia del Presidente della Repubblica. A questo proposito dovrebbero essere tenuti in considerazione: «l’ampio lasso di tempo ormai intercorso dai primi decreti presidenziali […], nell’ambito del quale si è dispiegata la ripetizione costante ed uniforme del comportamento nel tempo degli attori istituzionali coinvolti (c.d. diuturnitas)»; «la conformità degli organi giudicanti e dei procedimenti disciplinati dai richiamati decreti presidenziali ai parametri costituzionali e ai parametri CEDU»; e gli argomenti utilizzati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 129 del 1981 in merito alla consuetudine relativa all’autonomia contabile e all’esenzione dal giudizio di conto per il Presidente della Repubblica.

10.6.– L’Avvocatura generale evidenzia, quindi, l’«effetto paradossale» che deriverebbe dalla rimozione dell’autodichia, ossia l’impropria equiparazione del personale della Presidenza della Repubblica al personale contrattualizzato delle amministrazioni di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, alla luce della specialità dell’ordinamento del personale della Presidenza della Repubblica.

10.7.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la richiesta formulata in via subordinata dalla ricorrente – ossia la possibilità che avverso le decisioni degli organi di autodichia sia possibile esperire il ricorso straordinario innanzi alla Corte di cassazione – apparirebbe «distonica» rispetto al quadro normativo e giurisprudenziale vigente. Peraltro, il suo accoglimento minerebbe in modo irrimediabile «l’equilibrio connaturato all’autodichia della Presidenza della Repubblica».

10.8.– L’Avvocatura generale dello Stato, in data 29 marzo 2016, ha depositato, in difesa del Presidente della Repubblica, ulteriore memoria, con cui insiste per la dichiarazione di inammissibilità e, in subordine, di infondatezza del conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato.

In tale atto, l’Avvocatura generale dello Stato insiste in modo particolare sulle eccezioni di inammissibilità del conflitto. Essa richiama nuovamente le differenze che caratterizzano i giudizi incidentali di legittimità costituzionale e quelli sui conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato, al fine di dimostrare che la Corte di cassazione avrebbe operato una indebita commistione fra le due tipologie, e ribadisce che la formulazione di un doppio petitum da parte della ricorrente implicherebbe due modi diversi di qualificare gli organi di autodichia, con differenti ordini di conseguenze.

Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato approfondisce gli argomenti già spesi nell’atto di costituzione in giudizio, con particolare attenzione all’individuazione del fondamento costituzionale dell’autodichia: l’autonomia dell’organo costituzionale comprenderebbe, oltre alla potestà di produzione normativa e di organizzazione amministrativa in relazione alle proprie strutture interne, anche la potestà di dare applicazione alle disposizioni regolamentari poste a presidio della sua posizione costituzionale.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza del 19 dicembre 2014 (iscritta al n. 1 del reg. confl. pot. del 2015), ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica in relazione all’approvazione, da parte del medesimo Senato, degli articoli da 72 a 84 del Titolo II (Contenzioso) del Testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica.

La ricorrente premette di essere stata investita della decisione sul ricorso proposto, ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, da un dipendente del Senato, per l’annullamento della decisione, resa il 29 settembre 2011, in grado di appello, dal Consiglio di garanzia del Senato, nell’ambito di un giudizio di ottemperanza relativo ad una controversia di lavoro.

Osserva la Corte di cassazione che le disposizioni regolamentari ricordate, affidando ad organi interni a quel ramo del Parlamento la decisione delle controversie con l’amministrazione del Senato, che attengano allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei dipendenti del Senato, precluderebbero l’accesso di questi ultimi alla piena tutela giurisdizionale, così comprimendo la sfera di attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria, in violazione degli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma, quest’ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale, 108, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost.

Evidenzia la ricorrente, in primo luogo, che la Costituzione prevede testualmente una vera e propria autodichia solo all’art. 66 Cost., a mente del quale ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità. Ritiene, conseguentemente, che le disposizioni regolamentari del Senato – le quali, invece, riservano ad organi interni di quest’ultimo anche la decisione delle controversie con i suoi dipendenti – si porrebbero in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), coniugato con il riconoscimento a tutti del diritto fondamentale di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.). 

La ricorrente denuncia, inoltre, la violazione dell’art. 102, secondo comma, Cost., il quale esclude che possano essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Tale parametro – a suo avviso – dovrebbe essere letto congiuntamente alla VI disposizione transitoria e finale della Costituzione, ai sensi della quale, entro cinque anni dall’entrata in vigore di quest’ultima, si sarebbe dovuto procedere alla revisione degli organi speciali di giurisdizione all’epoca esistenti. Alla luce di tale disciplina costituzionale, la Commissione contenziosa ed il Consiglio di garanzia – previsti dalle fonti di autonomia del Senato quali giudici, rispettivamente di primo e secondo grado, delle controversie instaurate dai dipendenti nei confronti dell’amministrazione del Senato – si porrebbero, rispetto alla giurisdizione ordinaria, come giudici speciali illegittimamente istituiti dopo l’entrata in vigore della Costituzione.

Ove si individuasse un profilo di continuità rispetto all’autodichia dell’ordinamento pre-repubblicano, il difetto di revisione degli organi di autodichia del Senato determinerebbe anche la violazione dell’art. 111 Cost., che afferma il principio del giusto processo (primo comma) e la necessità che il contraddittorio si svolga davanti ad un giudice terzo e imparziale (secondo comma), non potendo ritenersi rispettoso di tali principi un processo che si svolga «dinanzi ad un giudice incardinato in una delle parti».

Per la stessa ragione, non sarebbe soddisfatto neppure il principio dell’indipendenza dei giudici speciali, prescritto dall’art. 108, secondo comma, Cost.

Secondo la ricorrente, la lesione dei ricordati principi – e, in particolare, del diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale – ridonderebbe «non già in un vizio di incostituzionalità, ma in lesione o turbativa del potere giurisdizionale». La normativa "sub-regolamentare” approvata dal Senato avrebbe perciò un carattere invasivo delle attribuzioni del potere giudiziario.

Osserva, infine, la Corte di cassazione che «il carattere chiuso e circoscritto del sistema di autodichia del Senato» precluderebbe la possibilità del ricorso straordinario riconosciuto dal settimo comma dell’art. 111 Cost. Qualora si ritenesse che gli organi di autodichia del Senato siano organi speciali di giurisdizione, esistenti anche prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, e che il procedimento di revisione, prescritto dalla VI disposizione transitoria e finale della Costituzione, abbia avuto corso, così da soddisfare i canoni del giusto processo e quelli di terzietà, imparzialità ed indipendenza del giudice, residuerebbe comunque, a tutto concedere, la violazione degli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost.

Chiede, pertanto, la ricorrente, in via subordinata, che in tale ipotesi il ricorso sia accolto, nella parte in cui le menzionate disposizioni regolamentari non consentono il ricorso in Cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., contro le decisioni pronunciate dagli organi di autodichia.

2.– Con un ulteriore conflitto, sollevato con ordinanza del 19 gennaio 2015 (iscritta al n. 2 del reg. confl. pot. del 2015), la Corte di cassazione, sezioni unite civili, chiede a questa Corte di dichiarare che non spettava al Presidente della Repubblica approvare il decreto presidenziale 24 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89, e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34, i quali istituiscono e disciplinano, all’interno della Presidenza della Repubblica, gli organi competenti a decidere sui ricorsi presentati dal personale del Segretariato generale della medesima Presidenza della Repubblica.

La ricorrente riferisce di essere investita della decisione sul ricorso proposto, ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., da alcuni dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, per la cassazione della decisione resa, il 17 aprile 2012, dal Collegio d’appello della Presidenza della Repubblica, in un giudizio promosso dai medesimi dipendenti al fine di ottenere il riconoscimento di somme maturate a titolo di indennità perequativa e indennità di comando, nell’ambito del rapporto di lavoro intercorso con il Segretariato generale.

La Corte di cassazione rileva come i predetti decreti presidenziali – in violazione degli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma, quest’ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale della Costituzione, 108, primo comma, e 111, primo comma, Cost. − precludano l’accesso dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica alla tutela giurisdizionale comune nelle controversie di lavoro e, dunque, determinino una «lesione o turbativa del potere giurisdizionale».

Premette la ricorrente come la sussistenza di un’autodichia «vera e propria» in tema di controversie instaurate dai dipendenti della Presidenza della Repubblica con il medesimo organo costituzionale sia stata negata, dalla giurisdizione ordinaria, sino alla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione 17 marzo 2010, n. 6529. Quest’ultima avrebbe, invece, registrato la scelta del Presidente della Repubblica di dotarsi, a partire dal 1996, di organi interni per la decisione di tali controversie. In questa sentenza sarebbe stato evidenziato, da un lato, come tale scelta abbia un fondamento costituzionale indiretto nella potestà di autorganizzazione e nell’autonomia contabile dell’organo costituzionale e, dall’altro, come gli organi così istituiti soddisfino i requisiti richiesti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Savino e altri contro Italia (sentenza del 28 aprile 2009).

In tale contesto – osserva la Corte di cassazione – è successivamente intervenuta la sentenza n. 120 del 2014 di questa Corte, e i principi in essa affermati dovrebbero trovare applicazione anche con riguardo all’autodichia del Presidente della Repubblica in materia di controversie che attengano allo stato e alla carriera giuridica ed economica del personale di tale organo costituzionale.

Ad avviso delle sezioni unite, l’autodichia del Presidente della Repubblica si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) e con il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.), poiché il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale spettante a ciascun dipendente dell’organo non potrebbe risultare del tutto sacrificato, pur se posto in bilanciamento con la garanzia costituzionale di autonomia del Presidente della Repubblica.

La Corte di cassazione ravvisa inoltre, nelle disposizioni impugnate, la violazione del divieto di istituzione di giudici speciali, previsto dall’art. 102, secondo comma, Cost. e dalla VI disposizione transitoria e finale, ai sensi della quale, entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, si sarebbe dovuto procedere alla revisione degli organi speciali di giurisdizione all’epoca esistenti. Assume infatti che il Collegio giudicante di primo grado ed il Collegio d’appello, quali giudici delle controversie dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, previsti dai ricordati decreti presidenziali, si porrebbero, rispetto alla giurisdizione ordinaria, appunto come giudici speciali, illegittimamente istituiti dopo l’entrata in vigore della Costituzione.

In via subordinata, la ricorrente osserva che, ove si ritenesse legittima la configurazione degli organi di giustizia interna della Presidenza della Repubblica come giudici speciali, rileverebbe comunque la preclusione dell’accesso al sindacato di legittimità nella forma del ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., e dell’art. 360, quarto comma, del codice di procedura civile, con conseguente ingiustificato trattamento differenziato (art. 3, primo comma, Cost.) dei dipendenti della Presidenza della Repubblica rispetto agli altri dipendenti pubblici. E chiede, dunque, che questa Corte, accogliendo il conflitto, affermi la possibilità di esperire il ricorso straordinario per cassazione avverso le decisioni in ultimo grado, o in grado unico, degli organi di giustizia interna della Presidenza della Repubblica.

In conclusione, i dubbi relativi alla compatibilità con la Costituzione delle disposizioni regolamentari in tema di autodichia – e soprattutto la denunciata lesione del diritto alla tutela giurisdizionale in capo ai dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica – si risolverebbero, per la ricorrente, in una invasione o turbativa del potere giurisdizionale della Corte di cassazione, la quale non potrebbe svolgere il sindacato di legittimità domandatole dai ricorrenti.

3.– I ricorsi per conflitto di attribuzione, proposti dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, rispettivamente nei confronti del Senato della Repubblica e del Presidente della Repubblica, hanno entrambi ad oggetto gli atti normativi con cui gli organi costituzionali in questione hanno disciplinato le controversie con i propri dipendenti, prevedendo che la decisione di queste sia affidata ad organi interni. Ed entrambi i ricorsi chiedono a questa Corte di pronunciarsi sul fondamento e sull’esatta delimitazione dei poteri di autodichia dei due organi costituzionali.

Poiché i termini dei conflitti sono largamente coincidenti, devono essere riuniti e decisi con unica sentenza (sentenza n. 129 del 1981).

4.– In via preliminare, deve essere dichiarato ammissibile l’intervento spiegato – nel giudizio iscritto al reg. confl. pot. n. 1 del 2015 – da P. L., parte ricorrente nel giudizio instaurato innanzi alla Corte di cassazione.

Nei giudizi per conflitto di attribuzione non è, di norma, ammesso l’intervento di soggetti diversi da quelli legittimati a promuovere il conflitto o a resistervi. Tale regola, tuttavia, non opera quando la pronuncia resa nel giudizio costituzionale potrebbe precludere la tutela giudiziaria della situazione giuridica soggettiva vantata dall’interveniente (da ultimo, sentenze n. 52 del 2016, n. 144 del 2015, n. 222 e n. 221 del 2014). Tale è la situazione di P. L. nel giudizio in esame, poiché il rigetto del ricorso impedirebbe all’interveniente di agire innanzi alla giurisdizione ordinaria a tutela di un proprio diritto soggettivo: è quindi necessario che P. L. sia ammesso a far valere le proprie ragioni davanti a questa Corte.

5.– Va inoltre confermata, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’ammissibilità dei conflitti sollevati dalla Corte di cassazione – già dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con le ordinanze n. 137 e n. 138 del 2015 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.

5.1.– Con riguardo al profilo soggettivo, deve essere ribadita la legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte di un conflitto tra poteri dello Stato, a fronte della costante giurisprudenza di questa Corte, che tale legittimazione riconosce ai singoli organi giurisdizionali, in quanto competenti, in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione, a dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle proprie funzioni, la volontà del potere cui appartengono (ex multis, con specifico riferimento alla legittimazione della Corte di cassazione, sentenze n. 29 e n. 24 del 2014, n. 320 del 2013 e n. 333 del 2011).

Né sussistono dubbi, in base alla costante giurisprudenza costituzionale, in ordine alla qualificazione come poteri dello Stato del Senato della Repubblica (ex multis, ordinanza n. 139 del 2016) e del Presidente della Repubblica (ex multis, sentenza n. 1 del 2013).

5.2.– L’ammissibilità dei conflitti deve essere confermata anche sotto il profilo oggettivo, in quanto entrambe le ordinanze prospettano un conflitto «per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali» (art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953).

Sul punto, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in relazione ad entrambi i conflitti, che la prospettazione della Corte di cassazione si fonderebbe su un’interpretazione errata della sentenza n. 120 del 2014 di questa Corte. Ad avviso dell’Avvocatura, attraverso lo strumento del conflitto, non potrebbe essere posto in discussione il potere normativo mediante il quale sono istituiti gli organi di giustizia interna, ma solo – per il tramite dell’impugnazione di singoli «atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili» – il suo esatto dimensionamento, il suo corretto esercizio, la sua proporzionalità «rispetto alle prerogative di altri organi depositari dei valori del sistema (separazione dei poteri; tutela dei diritti fondamentali)», nonché la «rispondenza al criterio del nesso funzionale», rispetto all’autonomia delle Camere e del Presidente della Repubblica, della decisione della singola controversia di lavoro assunta dagli organi interni. In caso contrario, si realizzerebbe un’indebita commistione tra i due tipi di giudizi, quello di legittimità costituzionale e quello sui conflitti tra poteri, poiché sarebbe invocata una pronuncia relativa a profili, peraltro già vagliati in sede di giudizio di legittimità costituzionale, che esulano dall’ambito oggettivo di un conflitto.

L’eccezione non è fondata.

I singoli atti applicativi della fonte di autonomia non sono che conseguenza della previsione contenuta in quella fonte, che attribuisce ad organi interni la decisione sulle controversie di lavoro dei dipendenti degli organi costituzionali in questione; e la ricorrente ritiene lesiva della sua sfera di attribuzioni costituzionali la stessa approvazione di quelle fonti. Pertanto, oggetto di entrambi i conflitti sono tali fonti di autonomia, in quanto altererebbero, a danno delle attribuzioni della giurisdizione di legittimità, nella prospettazione della ricorrente, l’ordine costituzionale delle competenze.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, si tratta di fonti non sindacabili nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (sentenze n. 120 del 2014 e n. 154 del 1985). Questa stessa giurisprudenza ha tuttavia riconosciuto che tali fonti sono suscettibili di dar luogo a un conflitto tra poteri se ledono la sfera di attribuzione di un altro organo costituzionale.

I conflitti in esame sono pertanto ammissibili, perché la Corte di cassazione – sia pure sottolineando particolarmente l’asserita lesione, da parte degli atti impugnati, di diritti fondamentali delle parti private – lamenta che la fonte di autonomia avrebbe illegittimamente sottratto alla Corte di cassazione quote di potere giurisdizionale.

Devono essere rigettate anche le ulteriori eccezioni di inammissibilità prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza pubblica, relative all’asserita contraddittorietà dei petita contenuti negli atti introduttivi. Infatti, tali asserite contraddittorietà involgono profili di merito, da apprezzare unitamente a quest’ultimo.

6.– Va infine precisato, sempre in via preliminare, che questa Corte, nel giudizio per conflitto tra poteri dello Stato, non è chiamata a decidere singole questioni di legittimità costituzionale di atti normativi, sollevate in relazione a specifici parametri costituzionali, bensì ad assicurare l’ordine costituzionale delle competenze tra gli organi in conflitto. Le censure mosse dalla ricorrente in relazione alla violazione di diritti individuali, ovvero in ordine alla lesione di specifici parametri costituzionali, devono essere valutate alla luce del tipo di giudizio instaurato innanzi a questa Corte, preordinato, appunto, a verificare se competa al Senato della Repubblica e al Presidente della Repubblica approvare norme che attribuiscano ad organi interni la cognizione delle controversie instaurate dai propri dipendenti, sottraendole alla giurisdizione e, dunque, ledendone la sfera di attribuzione.

Pertanto, pur lamentando la ricorrente, in entrambi i ricorsi, la lesione di plurimi parametri costituzionali e, anzitutto, dell’art. 24 Cost. – essenzialmente nella prospettiva della spettanza, ai ricorrenti nei giudizi a quibus, del diritto individuale di azione – ciò che conta, ai fini del presente giudizio per conflitto, è che la medesima ricorrente abbia avuto cura di motivare la ridondanza di tali asserite lesioni sulla propria sfera di attribuzioni costituzionali: ed è sull’allegata violazione di tale sfera che questa Corte è chiamata a pronunciarsi.

7. – Entrambi i ricorsi non sono fondati.

7.1. L’autodichia che viene ora in rilievo come potestà degli organi costituzionali di decidere attraverso organi interni le controversie che attengano allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei loro dipendenti, applicando la disciplina normativa che gli stessi organi si sono dati in materia costituisce manifestazione tradizionale della sfera di autonomia riconosciuta agli organi costituzionali, a quest’ultima strettamente legata nella concreta esperienza costituzionale.

Questa Corte deve tener conto della circostanza per cui l’autodichia è stata ritenuta dagli organi costituzionali chiamati in giudizio – sulla base di una risalente tradizione per le Camere, in virtù di più recenti orientamenti per il Presidente della Repubblica – una delle condizioni per il dispiegarsi della propria autonomia e, perciò, per il libero ed efficiente svolgimento delle proprie funzioni. Alla luce di tale circostanza, è dunque qui in discussione se le deroghe al diritto comune che l’autodichia implica – in particolare, la sottrazione alla giurisdizione comune delle controversie tra gli organi in questione e i loro dipendenti – violino l’ordine costituzionale delle competenze. 

7.2. Come è noto, l’autonomia che la Costituzione riconosce agli organi costituzionali per quel che qui interessa, Camere e Presidente della Repubblica si manifesta, innanzitutto, sul piano normativo. La Costituzione ne ragiona espressamente solo in riferimento alle Camere, conferendo a ciascuna di esse il potere di darsi un regolamento (art. 64 Cost.). Questa Corte ha tuttavia già riconosciuto che anche i regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica debbono considerarsi sorretti da un implicito fondamento costituzionale, conferendo alla legge che li prevede (legge 9 agosto 1948, n. 1077, recante «Determinazione dell’assegno e della dotazione del Presidente della Repubblica e istituzione del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica») un carattere meramente ricognitivo (sentenza n. 129 del 1981).

La giurisprudenza costituzionale ha inoltre avuto modo di definire i contorni dell’autonomia normativa che la Costituzione così assegna tanto alle Camere, quanto al Presidente della Repubblica. In relazione alle Camere, questa Corte ha affermato che l’autonomia in parola non attiene alla sola disciplina del procedimento legislativo, per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione, ma riguarda anche l’organizzazione interna (sentenza n. 120 del 2014). In relazione al Presidente della Repubblica, essa ha evidenziato che tale organo necessita di un proprio apparato organizzativo, non solo per amministrare i beni rientranti nella dotazione presidenziale, ma anche per consentire un libero ed efficiente esercizio delle proprie funzioni, garantendo in tal modo la non dipendenza del Presidente rispetto ad altri poteri dello Stato (sentenza n. 129 del 1981).

Riferendosi ad entrambi gli organi, questa Corte ha in definitiva chiarito che, attraverso la potestà normativa in parola, gli organi costituzionali in questione sono messi nella condizione di provvedere alla «produzione di apposite norme giuridiche, disciplinanti l’assetto ed il funzionamento dei loro apparati serventi» (sentenza n. 129 del 1981).

Così, l’autonomia normativa logicamente investe anche gli aspetti organizzativi, ricomprendendovi ciò che riguarda il funzionamento degli apparati amministrativi "serventi”, che consentono agli organi costituzionali di adempiere liberamente, e in modo efficiente, alle proprie funzioni costituzionali.

Su questo stesso fondamento poggia la potestà, riconosciuta agli organi costituzionali, di approvare norme relative al rapporto di lavoro con i propri dipendenti: infatti, il buon esercizio delle alte funzioni costituzionali attribuite agli organi in questione dipende in misura decisiva dalle modalità con le quali è selezionato, normativamente disciplinato, organizzato e gestito il personale.

D’altra parte, l’autonomia normativa qui in questione ha un fondamento che ne rappresenta anche il confine: giacché, se è consentito agli organi costituzionali disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, non spetta invece loro, in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa, né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali). Del resto, queste ultime controversie, pur potendo avere ad oggetto rapporti non estranei all’esercizio delle funzioni dell’organo costituzionale, non riguardano in principio questioni puramente interne ad esso e non potrebbero perciò essere sottratte alla giurisdizione comune.

7.3. La giurisprudenza costituzionale ha già riconosciuto che l’autonomia degli organi costituzionali «non si esaurisce nella normazione, bensì comprende – coerentemente – il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l’osservanza» (sentenza n. 129 del 1981, e, nello stesso senso, anche sentenze n. 120 del 2014 e n. 379 del 1996). Tale momento applicativo, ossia proprio l’autodichia di cui qui si discute, costituisce dunque uno svolgimento dell’autonomia normativa che la Costituzione riconosce esplicitamente o implicitamente alle Camere e al Presidente della Repubblica.

Tutto ciò vale necessariamente per ciò che attiene alla diretta disciplina delle funzioni costituzionali primarie attribuite agli organi di vertice del sistema: si pensi, ad esempio, alle modalità di voto nelle Camere, soggette non solo all’esaustiva capacità qualificatoria del regolamento parlamentare, con esclusione di qualunque potestà definitoria alternativa da parte del diritto comune, ma anche sottratte a poteri d’accertamento e d’interpretazione "esterni”, in particolare dell’autorità giudiziaria (sentenza n. 379 del 1996). Ma ciò vale anche per l’interpretazione e l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro, in occasione di controversie che oppongano i dipendenti all’organo costituzionale (nel nostro caso, le Camere e il Presidente della Repubblica) presso il quale prestano servizio.

In altri termini, le Camere e il Presidente della Repubblica hanno provveduto a disciplinare, attraverso le fonti di autonomia, il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, poiché hanno ritenuto tale scelta funzionale alla più completa garanzia della propria autonomia. La conseguente riserva agli organi di autodichia dell’interpretazione e dell’applicazione di tali fonti non comporta un’alterazione dell’ordine costituzionale delle competenze e, in particolare, una lesione delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria ricorrente: costituisce, invece, il razionale completamento dell’autonomia organizzativa degli organi costituzionali in questione, in relazione ai loro apparati serventi, la cui disciplina e gestione viene in tal modo sottratta a qualunque ingerenza esterna.

In questa direzione va dunque sciolta la riserva esplicitamente formulata nella sentenza n. 120 del 2014 di questa Corte, che definiva «questione controversa» il confine e il fondamento dell’autodichia: in tanto quest’ultima non è lesiva di attribuzioni costituzionali altrui, in quanto (e solo in quanto) riguardi i rapporti di lavoro dei dipendenti.   

D’altra parte, ammettere che gli organi costituzionali possano, in forza dell’autonomia loro riconosciuta, regolare da sé i rapporti con il proprio personale, per poi consentire che siano gli organi della giurisdizione comune ad interpretare ed applicare tale speciale disciplina, significherebbe dimezzare quella stessa autonomia che si è inteso garantire.

7.4.– Gli organi di autodichia sono dunque chiamati a decidere sulle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti in luogo dell’autorità giudiziaria "comune”.

Ciò significa, in primo luogo, che la tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti non è assente, come lamenta la ricorrente.

A fronte di situazioni nelle quali tale tutela risultava effettivamente inesistente, questa Corte ha riconosciuto, e non può che ribadire qui, che la "grande regola” del diritto al giudice e alla tutela giurisdizionale effettiva dei propri diritti, in quanto scelta che appartiene ai grandi principi di civiltà del tempo presente, non può conoscere eccezioni (sentenza n. 238 del 2014).

Nel caso in esame, tuttavia, la tutela delle posizioni giuridiche dei dipendenti, nelle controversie che li oppongano all’organo costituzionale, risulta assicurata per il tramite dell’istituzione di organi interni e procedure di garanzia variamente conformate, in un contesto che al tempo stesso consente che l’interpretazione e l’applicazione della specifica normativa approvata in materia dagli organi costituzionali sia sottratta ad ingerenze esterne.

La tutela dei dipendenti è quindi assicurata non già attraverso un giudice speciale ex art. 102 Cost., ma mediante organi interni non appartenenti all’organizzazione giudiziaria, in tanto giustificati in quanto finalizzati alla migliore garanzia dell’autonomia dell’organo costituzionale.

L’affidamento a collegi interni del compito di interpretare e applicare le norme relative al rapporto di lavoro dei dipendenti con gli organi costituzionali di cui si tratta, nonché la sottrazione delle decisioni di tali collegi al controllo della giurisdizione comune è, in definitiva, un riflesso dell’autonomia degli stessi organi costituzionali.

Non essendo stati configurati gli organi di autodichia quali giudici speciali, avverso le loro decisioni non sarebbe neppure configurabile – come richiesto in via subordinata dalla ricorrente – il ricorso ex art. 111, settimo comma, Cost. 

In secondo luogo, ma è quel che più conta ai fini del riconoscimento dell’esistenza di una tutela effettiva, deve sottolinearsi la circostanza che le fonti interne approvate dalle Camere e dal Presidente della Repubblica hanno dato vita ad organi di autodichia i quali, benché "interni” ed estranei all’organizzazione della giurisdizione, risultano costituiti secondo regole volte a garantire la loro indipendenza ed imparzialità, come del resto, in relazione alla funzione del giudicare, impongono i principi costituzionali ricavabili dagli artt. 3, 24, 101 e 111 Cost. e come ha richiesto la Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare nella sentenza 28 aprile 2009, Savino e altri contro Italia.  In particolare, le fonti di autonomia delle Camere assicurano attualmente idonee incompatibilità, volte ad impedire che il medesimo soggetto possa contemporaneamente far parte dell’organo amministrativo che assume i provvedimenti relativi al personale (Consiglio di Presidenza del Senato e Ufficio di Presidenza della Camera) e degli organi di autodichia in primo e secondo grado. Inoltre, pur prevedendo che i componenti di tali ultimi organi siano scelti in larga parte fra i parlamentari, le medesime fonti richiedono che costoro possiedano determinate competenze tecniche, sul corretto presupposto che la loro qualificazione professionale possa favorire un esercizio indipendente della funzione (sentenza n. 177 del 1973).

Per parte sua, il Presidente della Repubblica ha istituito organi di primo e secondo grado, composti solo da magistrati, nominati con suo decreto, su proposta del Segretario generale, previa designazione dei Presidenti dei rispettivi organi giudiziari.

Né è da trascurare che, presso entrambi gli organi costituzionali, i giudizi si svolgono, in primo e in secondo grado, secondo moduli procedimentali di natura sostanzialmente giurisdizionale, idonei a garantire il diritto di difesa e un effettivo contraddittorio. 

Tutto ciò ulteriormente conferma che la deroga alla giurisdizione qui in discussione, di cui costituisce riflesso la connessa limitazione del diritto al giudice, non si risolve in un’assenza di tutela. Tale limitazione, infatti, risulta compensata dall’esistenza di rimedi interni affidati ad organi che, pur inseriti nell’ambito delle amministrazioni in causa, garantiscono, quanto a modalità di nomina e competenze, che la decisione delle controversie in parola sia assunta nel rispetto del principio d’imparzialità, e al tempo stesso assicurano una competenza specializzata nella decisione di controversie che presentano significativi elementi di specialità (specialità riconosciuta dalla stessa parte privata intervenuta in giudizio a sostegno dell’accoglimento del conflitto). 

Si può quindi affermare che gli organi di autodichia sono chiamati a dirimere, in posizione super partes, controversie tra l’amministrazione dell’organo costituzionale e i suoi dipendenti secondo moduli procedimentali di carattere giurisdizionale, e dunque a svolgere funzioni obiettivamente giurisdizionali per la decisione delle controversie in cui siano coinvolte le posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti. Non a caso, questa Corte ha già riconosciuto che il carattere oggettivamente giurisdizionale dell’attività degli organi di autodichia, posti in posizione d’indipendenza, li rende giudici ai fini della loro legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme di legge cui le fonti di autonomia effettuino rinvio (sentenza n. 213 del 2017; in precedenza, per la qualificazione di situazioni analoghe, sentenze n. 376 del 2001 e n. 12 del 1971).

8.– Per tutto quanto affermato, l’approvazione, da parte del Senato della Repubblica e del Presidente della Repubblica, degli atti normativi impugnati non ha determinato una lesione della sfera di attribuzioni della ricorrente Corte di cassazione, sezioni unite civili. Vanno perciò rigettati i ricorsi per conflitto da questa proposti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara che spettava al Senato della Repubblica e al Presidente della Repubblica approvare gli atti impugnati con le ordinanze di cui in epigrafe, nelle parti in cui riservano ad organi di autodichia la decisione delle controversie di lavoro instaurate dai propri dipendenti.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 dicembre 2017.