ANNO 2017
Commenti alla decisione di
I. Renzo Dickmann, La
Corte costituzionale consolida l'autodichia degli organi costituzionali,
per g.c. di Federalismi.it
II. Nicola
Lupo, Sull’autodichia
la Corte Costituzionale, dopo lunga attesa, opta per la continuità, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
III. Giampiero Buonomo, La
Corte, la sete e il prosciutto, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
IV. Leonardo
Brunetti, Giudicare
in autonomia: il nuovo vestito dell'autodichia, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
V. Luca Castelli, Il “combinato disposto” delle sentenze n. 213 e n. 262 del 2017 e i suoi (non convincenti) riflessi sull’autodichia degli organi costituzionali, per g.c. dell’Osservatorio Costituzionale AIC
VI Gianluca Marolda, Fumata
nera per il punto di equilibrio tra l’autonomia costituzionale delle Camere e del
Presidente della Repubblica e il potere giudiziario. Breve nota alla sentenza
n. 262/2017 della Consulta, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
VII. Giampiero Buonomo, L’autodichia
degli organi costituzionali è a sua volta costituzionale, per g.c. di laCostituzione.info
VIII. Giuseppina Barcellona, I
“paradisi normativi” e la grande regola dello Stato di diritto: l’autodichia
degli organi costituzionali e la tutela dei diritti dei “terzi”, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
IX. Giacomo
D’Amico, La
Corte adegua la sua autodichia alla «propria» giurisprudenza ma fino a che
punto? per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
X. Francesco Dalla Balla, I
paradossi dell’autodichia, per g.c. di Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi per conflitto di attribuzione
tra poteri dello Stato, sorti a seguito della deliberazione con la quale il
Senato della Repubblica ha approvato gli artt. da 72 a 84 del Titolo II
(Contenzioso) del Testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione
riguardanti il personale del Senato della Repubblica e della deliberazione da
parte del Presidente della Repubblica degli artt. 1 e seguenti del decreto
presidenziale 24 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9
ottobre 1996, n. 89, e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008,
n. 34, promossi dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con
ordinanze-ricorsi del 19 dicembre 2014 e del 19 gennaio 2015, notificate il 13
luglio 2015, depositate in cancelleria il 16 luglio 2015, ed iscritte ai nn. 1
e 2 del
registro conflitti tra poteri dello Stato 2015, fase di merito.
Visti gli atti di
costituzione del Senato della Repubblica e del Presidente della Repubblica
nonché gli atti di intervento della Camera dei deputati e di P. L.;
udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2016
il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditi gli avvocati dello Stato Massimo
Massella Ducci Teri per il Presidente della
Repubblica, Federico Basilica per il Senato della Repubblica, Ruggero Di
Martino per la Camera dei deputati e gli avvocati Stefano Battini
e Aldo Sandulli per P. L.;
udito nuovamente nell’udienza pubblica del
26 settembre 2017, rifissata in ragione della
intervenuta modifica della composizione del collegio, il Giudice relatore
Giuliano Amato, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Nicolò
Zanon;
uditi nuovamente gli avvocati dello Stato
Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente della
Repubblica, Federico Basilica per il Senato della Repubblica, Ruggero Di
Martino per la Camera dei deputati e l’avvocato Aldo Sandulli
per P. L.
Ritenuto
in fatto
1.− Con
ordinanze rispettivamente del 19 dicembre 2014 e del 19 gennaio 2015 (reg. confl. pot.
n. 1 e n. 2 del 2015), le sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno
sollevato due conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti
del Senato della Repubblica e del Presidente della Repubblica, in relazione
alle rispettive disposizioni regolamentari che disciplinano la tutela
giurisdizionale nelle controversie di lavoro dei propri dipendenti.
In entrambi i giudizi
nei quali sono stati promossi i conflitti, la Corte di cassazione è chiamata a
giudicare sui ricorsi proposti ai sensi dell’art. 111, settimo comma, della
Costituzione da alcuni dipendenti del Senato e della Presidenza della
Repubblica, per l’annullamento delle decisioni rese dagli organi di autodichia
delle rispettive istituzioni, nell’ambito di giudizi relativi a controversie di
lavoro.
2.– Il conflitto
proposto nei confronti del Senato della Repubblica (reg. confl.
pot. n. 1 del 2015) è
relativo alla deliberazione degli artt. da 72 a 84 del Titolo II (Contenzioso)
del Testo unico delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il
personale del Senato della Repubblica.
La Corte ricorrente
chiede che la Corte costituzionale, dopo aver riconosciuto l’ammissibilità del
conflitto, dichiari che non spettava al Senato deliberare tali disposizioni, in
via principale nella parte in cui, in violazione degli artt. 3, primo comma,
24, primo comma, 102, secondo comma
(in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale), 108, secondo comma,
e 111, primo e
secondo comma, della Costituzione, «precludono l’accesso dei dipendenti del
Senato alla tutela giurisdizionale in riferimento alle controversie di lavoro
insorte con l’Amministrazione del Senato»; e in via subordinata nella parte in
cui, in violazione degli artt. 111, settimo comma,
e 3, primo comma,
Cost., non consentono il ricorso in Cassazione per violazione di legge
(art. 111, settimo comma, Cost.) contro le decisioni pronunciate dagli organi
giurisdizionali previsti da tali disposizioni.
2.1.– La Corte di cassazione
premette di essere chiamata a giudicare in ordine al
ricorso proposto, ai
sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., da un dipendente del Senato, per la cassazione
della decisione n. 141 del 29 settembre 2011, assunta in grado di appello dal
Consiglio di garanzia del Senato, nell’ambito di un giudizio di ottemperanza
relativo a una controversia di lavoro.
Le sezioni unite ricordano di aver sollevato nel medesimo procedimento
questioni di legittimità costituzionale sull’art. 12 del regolamento del Senato
approvato il 17 febbraio 1971, e successive modifiche, in riferimento agli
artt. 3, 24, 102, secondo comma, 111, primo, secondo e settimo comma, e 113,
primo comma, Cost., che tali questioni sono state dichiarate inammissibili dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 120 del
2014, e che devono ora essere riesaminate «soprattutto ed essenzialmente
alla luce di tale pronuncia».
La Corte ricorrente richiama il proprio costante orientamento sull’art.
12 del citato regolamento (in virtù del quale il Consiglio di Presidenza del
Senato approva i regolamenti interni dell’amministrazione e adotta i
provvedimenti relativi al personale dipendente), «sempre interpretato nel senso
dell’attribuzione al Senato della autodichia in materia di controversie tra il
personale dipendente e l’Amministrazione del Senato, datrice di lavoro, con
conseguente esclusione della giurisdizione di qualsiasi giudice esterno sulle
controversie che attengono allo stato ed alla carriera giuridica ed economica
dei dipendenti». Sottolinea altresì che da tale interpretazione deriverebbe
anche l’inammissibilità del ricorso straordinario presentato ai sensi dell’art.
111, settimo comma, Cost. (a questo riguardo, vengono richiamate le sentenze
delle sezioni unite del 19 novembre 2002, n. 16267, e del 23 aprile 1986, n.
2861).
2.2.– La Corte di cassazione rileva anzitutto che, pur mancando un espresso
fondamento costituzionale dell’autodichia, a differenza di quanto previsto per
le Camere dall’art. 66 Cost. per il giudizio sui «titoli di ammissione dei […]
componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità»,
sia «opinione condivisa […] quella che fa discendere dall’autonomia normativa
riconosciuta alle Camere dall’art. 64, primo comma, Cost., che prevede che esse
adottano il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei loro componenti,
anche la possibilità che tale normativa regolamentare preveda un procedimento
di composizione delle liti» fra il personale dipendente e l’amministrazione del
Senato.
La disciplina dell’autodichia, invece, è contenuta nel «Testo unico
delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale del
Senato della Repubblica», approvato dal Consiglio di Presidenza del Senato il
18 dicembre 1987 ed emanato con il decreto del Presidente del Senato 1°
febbraio 1988, n. 6314.
Le sezioni unite descrivono il sistema di tutela previsto dalle
disposizioni regolamentari che, all’interno del Senato, disciplinano il
contenzioso dell’amministrazione con i suoi dipendenti e con i terzi. Esso si
impernia su due gradi di giudizio, affidati a collegi decisionali formati in
prevalenza da senatori nominati all’inizio di ogni legislatura dal Presidente
del Senato, dotati di particolari qualifiche e competenze e non appartenenti al
Consiglio di Presidenza, ossia la Commissione contenziosa in primo grado e il
Consiglio di garanzia in grado di appello.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 120 del
2014, avrebbe riconosciuto che tale normativa regolamentare attribuisce,
aderendo a una antica tradizione interpretativa, l’autodichia in ordine alle
controversie relative allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei
dipendenti del Senato, con esclusione del sindacato di qualsiasi altro giudice
esterno. La stessa Corte costituzionale avrebbe chiarito che «la protezione
dell’area di indipendenza e libertà parlamentare non attiene soltanto all’autonomia
normativa, ma si estende al momento applicativo delle stesse norme
regolamentari», comportando necessariamente la sottrazione a ogni altra
giurisdizione degli strumenti che garantiscono il rispetto del diritto
parlamentare (a questo riguardo sono citate in particolare le sentenze n. 379 del
1996 e n.
129 del 1981).
Avverso le decisioni del Consiglio di garanzia sarebbe possibile solo
«l’impugnazione per revocazione con ricorso proposto alla stessa Commissione di
garanzia», secondo quanto previsto dall’art. 83 del citato t.u.,
con ciò delineandosi un «sistema tutto interno di risoluzione del contenzioso
del personale dipendente dell’Amministrazione del Senato che non consente la
tutela giurisdizionale ordinaria in generale, né quella in particolare
costituita dal ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111, settimo comma,
Cost.».
Il carattere derivato dell’autodichia in materia di controversie di
lavoro, ossia la circostanza che la sua disciplina sia prevista da una
«normativa subprimaria regolamentare del Senato»,
benché la collochi a un «livello sottordinato»
rispetto all’autodichia in materia di titoli di ammissione dei componenti e
delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e incompatibilità, non esclude la
possibilità di un raffronto di tale normativa regolamentare subprimaria
con la Costituzione, poiché essa «ha comunque natura normativa nel senso che
appartiene al complesso edificio di norme che formano l’ordinamento della
Repubblica».
2.3.– La Corte ricorrente sottolinea, dunque, che, mentre l’autodichia
prevista dalla legge ordinaria può essere oggetto di giudizio di
costituzionalità incidentale, analoga possibilità non è configurabile né per
l’autodichia espressa dal regolamento parlamentare né per quella che abbia un
fondamento costituzionale indiretto («art. 64, primo comma, Cost. e norme subregolamentari da esso derivate»), mancando un atto con
forza di legge ai sensi dell’art. 134 Cost.
A questo proposito, le sezioni unite richiamano diffusamente la sentenza n. 154 del
1985 e le ordinanze
n. 444 e n.
445 del 1993, con le quali rispettivamente la Corte costituzionale avrebbe
chiarito che i regolamenti parlamentari non sono atti con forza di legge ex art. 134 Cost., con ciò precludendosi
«ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, primo comma, Cost.», e che «nella competenza del giudice
delle leggi […] non possono comprendersi i regolamenti parlamentari, né
espressamente né in via di interpretazione».
Risulta significativa, per le stesse sezioni unite, la decisione della
Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte EDU) resa nel caso Savino e altri contro
Italia, (sentenza del 28 aprile 2009), con cui si sarebbe riconosciuta la
natura giurisdizionale degli organi di autodichia delle Camere. In particolare,
la Corte EDU avrebbe chiarito che «la disciplina dei regolamenti parlamentari
minori è sufficiente a garantirne la precostituzione
per legge», soddisfacendosi «l’esigenza di una “base legale” richiesta dalla
norma convenzionale». La Corte EDU, invece, avrebbe riconosciuto l’assenza di
indipendenza e di imparzialità di questi organi, accertando «la violazione
della imparzialità oggettiva della sezione giurisdizionale dell’ufficio di
presidenza, […] ritenendo che la sua composizione determinasse una inammissibile
commistione in capo agli stessi soggetti tra l’esercizio di funzioni
amministrative e l’esercizio di funzioni giurisdizionali».
Da ultimo, la Corte ricorrente richiama ancora la sentenza n. 120 del
2014 della Corte costituzionale, con cui sarebbe stata confermata
l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari, «ma in una prospettiva più
ampia e maggiormente sensibile al principio di continuità del controllo di
costituzionalità delle norme dell’ordinamento giuridico».
Da questo punto di vista, secondo le sezioni unite, la Corte
costituzionale avrebbe mutato la propria valutazione, riferendo
l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari «esclusivamente al giudizio
incidentale di costituzionalità». E, infatti, la Corte costituzionale avrebbe
sottolineato che i regolamenti parlamentari non sono fonti puramente interne
alle Camere, bensì fonti dell’ordinamento generale, la cui competenza normativa
incontra i limiti fissati dalla Costituzione (artt. 64 e 72 Cost.).
Conseguentemente, la Corte costituzionale avrebbe configurato, quale
sede per definire l’ambito di competenza riservato ai regolamenti parlamentari,
il conflitto di attribuzione tra poteri, «nella misura in cui il superamento di
tale ambito ridondi in invasione o turbativa di altro potere dello Stato, quale
quello giurisdizionale», sottolineando la necessità di garantire il rispetto
dei diritti fondamentali, quale innanzitutto quello di accesso alla giustizia
(art. 24, primo comma, Cost.).
Le sezioni unite ritengono, pertanto, che tale evoluzione
nell’orientamento della Corte costituzionale dia applicazione al «principio di
continuità del controllo di costituzionalità che vuole che non ci siano aree
franche sottratte al controllo di costituzionalità», concludendo che «la
continuità del controllo di costituzionalità si affianca alla continuità del
sindacato di legittimità (ex art.
111, settimo comma, Cost.): come nessuna fonte normativa è sottratta al
rispetto della Costituzione così nessuna decisione di giustizia è sottratta al
rispetto della legge».
2.4.– Quanto ai profili di merito del conflitto, la Corte di cassazione –
ribadendo di essere stata adita con ricorso straordinario nei confronti
dell’impugnata decisione del Consiglio di garanzia del Senato – censura il
carattere invasivo delle richiamate norme subregolamentari
nei confronti del potere giurisdizionale di cui è investita.
Si determinerebbe, in particolare, una «turbativa del potere
giurisdizionale […] di duplice portata»: una più generale, in riferimento agli
artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma, (quest’ultimo in
combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale), 108, secondo
comma, 111, primo e secondo comma, Cost., e una più
specifica, con riguardo agli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost.
Qualora l’autodichia
del Senato fosse rimossa, la giurisdizione comune si riespanderebbe,
con la conseguenza che il ricorso pendente innanzi alla Cassazione sarebbe
inammissibile, ma per una ragione diversa e logicamente successiva rispetto a
quella più radicale e prioritaria dell’assoluto difetto di giurisdizione.
Nel caso in cui,
invece, si ritenesse legittima la configurazione degli organi di autodichia del
Senato come giudici speciali, verrebbe in rilievo la preclusione all’accesso al
sindacato di legittimità con ricorso straordinario (artt. 111, settimo comma,
Cost. e 360, quarto comma, del codice di procedura
civile), parimenti derivante dalla stessa autodichia e produttiva di un
ingiustificato trattamento differenziato (art. 3, primo comma, Cost.). Il
ricorso straordinario per cassazione avente a oggetto le decisioni degli organi
di autodichia del Senato sarebbe invece ammissibile, laddove venisse rimossa
simile preclusione.
2.5.– Il principio di
uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), unitamente al diritto di agire in
giudizio per la tutela di diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma,
Cost.), sarebbe violato dall’autodichia del Senato, poiché una determinata
categoria di soggetti sarebbe esclusa dalla tutela giurisdizionale in ragione
della propria condizione di dipendenti, condizione né significativa, né
giustificativa di un simile diverso trattamento (vengono citate, con
particolare riguardo al diritto di difesa e di accesso alla giustizia, fra le
altre, le sentenze
n. 238 e n.
120 del 2014, n.
98 del 1965).
Non si potrebbe
ipotizzare, peraltro, che l’autonomia del Senato possa «bilanciare, fino a
comprimerlo del tutto, il diritto alla tutela giurisdizionale del personale
dipendente nella misura in cui può ragionevolmente escludersi che alcun rischio
tale autonomia guarentigiata corra a causa di un’iniziativa giudiziaria di un
suo dipendente».
2.6.– L’art. 102,
secondo comma, Cost., che vieta l’istituzione di giudici straordinari o
speciali, coniugato con la VI disposizione transitoria e finale, sarebbe
violato, in ragione della qualificazione della Commissione contenziosa e del
Consiglio di garanzia quali giudici speciali, istituiti dopo l’entrata in
vigore della Costituzione. Peraltro, anche laddove si individuasse un profilo
di continuità rispetto all’autodichia dell’ordinamento pre-repubblicano,
non sarebbe in ogni caso rispettata la prescritta revisione degli organi
speciali di giurisdizione esistenti al momento dell’entrata in vigore della
Costituzione.
La citata mancata revisione
degli organi di autodichia del Senato verrebbe in rilievo anche con riguardo
alla violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., ossia dei principi
del giusto processo e della necessità che il contraddittorio si svolga davanti
a un giudice terzo e imparziale, e dell’art. 108, secondo comma, Cost., con
specifico riguardo al requisito di indipendenza dei giudici speciali, non
potendo ritenersi rispettoso di tali principi un processo che si svolga innanzi
ad un giudice incardinato in una delle parti.
Il carattere
giurisdizionale degli organi di autodichia emergerebbe inoltre dalla già
ricordata decisione della Corte EDU nel caso Savino e altri contro
Italia, nella quale è affermato che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, è giudice qualsiasi autorità che dirima una controversia.
2.7.– La Corte
ricorrente, in via subordinata, afferma che – anche qualora si volesse ritenere
che gli organi di autodichia del Senato siano organi speciali di giurisdizione
di antica tradizione, esistenti anche prima dell’entrata in vigore della
Costituzione, e che il procedimento di revisione di cui alla VI disposizione
transitoria e finale si sia effettivamente svolto, in aderenza ai principi del
giusto processo e ai requisiti di terzietà, imparzialità e indipendenza del giudice
– vi sarebbe comunque una violazione degli artt. 111, settimo comma, e 3, primo
comma, Cost. Sarebbe, infatti, precluso il ricorso straordinario per cassazione
che il settimo comma dell’art. 111 Cost., quale
«proiezione del principio di eguaglianza», riconosce nei confronti di qualsiasi
sentenza che, non altrimenti impugnabile, può essere censurata per violazione
di legge.
Secondo la Corte
ricorrente, la garanzia del ricorso straordinario per cassazione non potrebbe
subire deroghe rispetto alle decisioni rese dagli organi di autodichia del
Senato, considerato che i commi settimo e ottavo dell’art. 111 Cost. prevedono
espressamente che ciò possa avvenire solo per le sentenze dei tribunali
militari in tempo di guerra e per le decisioni del Consiglio di Stato e della
Corte dei conti.
2.8.– Le sezioni unite ritengono
che tali profili di illegittimità costituzionale non siano superabili
attraverso una interpretazione adeguatrice delle
disposizioni subregolamentari, poiché è il loro
tenore testuale ad escludere la possibilità di ricorrere alla giurisdizione
ordinaria. Il rimettente evidenzia, peraltro, che il giudice non potrebbe
pervenire a questo risultato attraverso l’interpretazione adeguatrice,
dal momento che la stessa Corte costituzionale ha escluso di poter sindacare
tali norme nel giudizio in via incidentale. Non resterebbe, dunque, che
ricorrere al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
2.9.– La Corte di cassazione
precisa, inoltre, che non assume rilievo la circostanza che le norme subregolamentari del Senato censurate siano risalenti nel
tempo. Nel conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, infatti, a
differenza che in quello fra Stato e Regioni, non è previsto alcun termine per
la proposizione del conflitto.
Sussisterebbe pertanto
l’interesse a ricorrere, poiché la Corte di cassazione è chiamata a
pronunciarsi sulla richiesta del ricorrente che invoca il suo sindacato di
legittimità, impedito dalla disciplina subregolamentare
del Senato.
Sarebbero, infine,
soddisfatti i requisiti soggettivo (ossia la natura di potere dello Stato della
Corte di cassazione e del Senato della Repubblica) e oggettivo (ossia il tono
costituzionale del conflitto, che sarebbe «insito nella natura di diritto
fondamentale della tutela giurisdizionale», la cui lesione è lamentata dal
dipendente del Senato e che «ridonda non già in vizio di incostituzionalità, ma
in lesione o turbativa del potere giurisdizionale»).
Quanto alla forma di
decisione utilizzata per sollevare il conflitto da parte di un organo del
potere giudiziario, le sezioni unite ritengono che essa sia l’ordinanza, poiché
– essendo i suoi presupposti sorti nel corso del giudizio – presenterebbe i
caratteri dell’incidentalità (al riguardo viene in particolare valorizzato il
rinvio operato dall’art. 37, quinto comma, della legge 11 marzo del 1953, n.
87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale» all’art. 23, secondo comma, della medesima legge).
3.– Con ordinanza n. 137
del 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto, ai
sensi dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953, disponendo la notifica degli
atti anche alla Camera dei deputati.
4.– Il Senato della Repubblica,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto
depositato il 1° settembre 2015, si è costituito in giudizio, chiedendo che il
conflitto sia dichiarato inammissibile «e/o in subordine» infondato.
4.1.– Dopo aver
richiamato i termini della controversia oggetto del ricorso straordinario per
cassazione presentato dal proprio dipendente e la sentenza n. 120 del
2014 della Corte costituzionale, il Senato afferma che con il conflitto
sollevato dalle sezioni unite sarebbero riproposti «in buona sostanza […] i
dubbi di legittimità costituzionale precedentemente denunciati sollevando la
questione dichiarata inammissibile» con la stessa sentenza n. 120 del
2014, «opportunamente riformulati per censurare il carattere invasivo delle
norme regolamentari rispetto al potere giurisdizionale della Cassazione».
Secondo l’Avvocatura
generale dello Stato, il conflitto sarebbe pertanto inammissibile, in quanto
fondato su un’interpretazione errata della citata sentenza n. 120 del
2014, con specifico riferimento all’oggetto censurabile attraverso il
conflitto tra poteri.
Le sezioni unite,
infatti, rivendicando l’esercizio della propria funzione giurisdizionale,
avrebbero fatto improprio ricorso al conflitto di attribuzione fra poteri dello
Stato: non si potrebbe in tale sede porre in discussione il potere normativo
dell’organo costituzionale con cui sono istituiti gli organi di giustizia
interna, ma solo il suo esatto dimensionamento, il suo corretto esercizio, la
sua proporzionalità rispetto alle prerogative costituzionali di altri organi e
la sua rispondenza al criterio del nesso funzionale, che, peraltro, ad avviso
dell’Avvocatura, non potrebbe essere negato a fronte di mere controversie di
lavoro dei dipendenti.
La Corte di cassazione
contesterebbe, invece, radicalmente il sistema di autodichia, «senza che
risultino in alcun modo chiariti i termini specifici del “conflitto tra poteri”
sulla cui ammissibilità e fondatezza […] è chiamata ad esprimersi» la Corte
costituzionale. Quest’ultima, con la sentenza n. 120 del
2014 – nella ricostruzione dell’Avvocatura generale dello Stato – avrebbe,
invece, affermato che con il conflitto di attribuzione possono essere poste in
discussione solo le modalità concrete di scorretto esercizio dell’autodichia,
ma non le fonti normative istitutive di quel potere.
Poiché l’atto
introduttivo del conflitto «non esprime con correttezza l’oggetto del
contendere e non consente perciò di valutare in modo esatto la fondatezza del
conflitto proposto, che ripropone gli argomenti alla base della questione di
legittimità già decisa», il conflitto dovrebbe essere dichiarato inammissibile,
difettando di un requisito essenziale.
4.2.– Quanto al merito
del conflitto di attribuzione, il Senato della Repubblica si sofferma innanzitutto
sulla nozione di autonomia degli organi costituzionali, alla luce della
peculiare posizione che essi rivestono nell’ordinamento e delle funzioni loro
attribuite dalla Costituzione. Tale autonomia non solo comprenderebbe
«l’autonomia normativa e la potestà di autorganizzazione», ma si estenderebbe
anche «al momento applicativo delle fonti di autonomia», includerebbe «la
scelta delle misure idonee ad assicurarne l’osservanza» e comporterebbe «la
necessità di sottrarre a qualsiasi giurisdizione gli strumenti intesi a
garantirne il rispetto».
Ne conseguirebbe, in
questa prospettiva, la preclusione di qualsiasi sindacato sulle fonti di
autonomia dell’organo costituzionale, alla luce della stessa giurisprudenza
costituzionale, secondo la quale gli organi costituzionali, essendo «posti al
centro del sistema», non possono che vedersi riconosciuta una «indipendenza
guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere».
Alla luce del
«contributo della giurisprudenza costituzionale nella ricostruzione degli istituti
in cui si sostanzia l’autonomia degli organi costituzionali», tale autonomia
sarebbe assistita sia dalle prerogative espresse in Costituzione, sia da quelle
che non hanno simile riconoscimento formale, ma che «comunque sono consolidate
dal loro perpetuarsi per effetto di una “lunga tradizione” […], o discendono da
consuetudini […], o conseguono all’ampio margine di apprezzamento della
“peculiare autonomia normativa” […], o sono ricavabili dalla posizione di
autonomia e indipendenza dell’organo […], o desumibili dalle “antiche
tradizioni interpretative”».
Dopo aver sottolineato
che la Corte costituzionale avrebbe sempre riconosciuto e tutelato le
prerogative dell’organo costituzionale funzionali a garantire quella stessa
posizione di autonomia e indipendenza (sono citate le sentenze n. 1 del
2013 e n.
231 del 1975), che l’autonomia costituzionale dell’organo tende a coincidere
con le prerogative dei suoi componenti (sentenze n. 290 del
2007 e n.
154 del 2004) e che le guarentigie devono essere considerate nel loro
insieme, essendo funzionali a garantire l’autonomia dell’organo costituzionale
(sentenze n. 1
del 2013 e n.
154 del 1985), l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che, per la stessa
Corte, «parte integrante di questa peculiare dimensione di autonomia è
costituita dalle prerogative implicite dell’organo costituzionale».
Conseguentemente,
sebbene non vi sia un espresso riferimento in Costituzione, sarebbe opinione
condivisa quella che fa discendere dall’art. 64, primo comma, Cost. la
possibilità che la disciplina regolamentare preveda un procedimento di
composizione delle liti fra dipendenti e amministrazione di appartenenza (a
questo riguardo viene citata diffusamente la sentenza n. 66 del
1964), rispetto al fondamento dell’indipendenza delle Camere, che si
ritroverebbe nell’attività politica e che si estrinsecherebbe nel «potere di
auto-regolamento (c.d. autonomia)», comprensivo sia della potestà di autoamministrarsi, sia di quella di autogiudicarsi.
L’infondatezza del
conflitto emergerebbe da tali considerazioni di principio, oltre che dalla
circostanza che, trovando il sistema di autodichia la sua fonte negli artt. 64
e 66 Cost., nelle consuetudini costituzionali e nella
complessiva posizione dell’organo costituzionale e avendo tali fonti rango costituzionale,
il conflitto «avrebbe potuto trovare spazio solo qualora la fonte normativa
dell’autodichia si fosse collocata a livello di fonte primaria non
costituzionale».
4.3.– Quanto alla censura attinente
al divieto di istituzione di giudici speciali, sarebbe evidente, secondo
l’Avvocatura generale dello Stato, che tale limite opererebbe solo nei
confronti del legislatore ordinario. Sarebbe peraltro dubbio che gli organi
giurisdizionali interni possano qualificarsi come giudici speciali.
L’Avvocatura generale
dello Stato si sofferma, quindi, diffusamente sul divieto di istituire giudici
speciali e sui requisiti richiesti dalla Costituzione per il mantenimento di
quelli precostituzionali, richiamando la
giurisprudenza della Corte costituzionale, da cui emergerebbe che
l’indipendenza del giudice consiste nell’autonoma potestà decisionale, non
condizionata da interferenze dirette o indirette, che riguarda non solo
l’ordine giudiziario nel suo complesso, ma anche i singoli organi ordinari e speciali.
Tanto premesso,
l’Avvocatura generale approfondisce la composizione dei collegi giudicanti
istituiti e disciplinati dagli organi costituzionali. A tale fine, richiama la
sentenza della Corte EDU resa nel caso Savino e altri contro
Italia, che avrebbe dichiarato la piena compatibilità con la CEDU del
sistema di giustizia interna della Camera dei deputati, rilevando solo una
violazione dell’art. 6 della CEDU con riferimento alla competenza dell’organo
di appello.
D’altro canto, a
partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, in entrambe le Camere
sarebbero stati intrapresi processi di revisione delle norme interne che
delineano l’assetto del sistema di autodichia, così che quest’ultimo si
configurerebbe ora come un «autentico sistema giurisdizionale interno,
caratterizzato dalla presenza di giudici qualificati […] e di veri e propri
regolamenti di procedura», che presenterebbe «le garanzie e i caratteri propri
dell’attività giurisdizionale, rendendo così pieno ed effettivo il diritto di
difesa degli interessati e ingiustificata la censura sollevata».
Sottolinea, inoltre,
l’Avvocatura generale dello Stato che l’autodichia delle Camere affonderebbe le
sue radici nel periodo precostituzionale, secondo
quelle «risalenti tradizioni interpretative» riconosciute dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 120 del
2014. Di conseguenza, le norme dei regolamenti parlamentari non potrebbero
non superare lo scrutinio di costituzionalità, rispetto all’art. 102, secondo
comma, e alla VI disposizione transitoria e finale, Cost.
Ancora, secondo la
difesa del Senato, l’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione sulla
nozione di giudici speciali si porrebbe in contrasto con le tendenze del
diritto dell’Unione europea, teso a «un pluralismo giurisdizionale», con la
conseguenza che dovrebbe essere privilegiata un’interpretazione restrittiva
della stessa nozione di giudice speciale, «ravvisabile soltanto in relazione
agli organi giurisdizionali istituiti e disciplinati in forme apertamente
derogatorie rispetto al sistema».
4.4.– Rispetto ai profili oggettivi
del conflitto, l’Avvocatura generale dello Stato assume che il sistema dell’autodichia
sarebbe non solo compatibile con i principi costituzionali, ma «addirittura
costituzionalmente necessitato», in quanto garanzia principale dell’autonomia e
indipendenza del Parlamento. Non sarebbe, dunque, condivisibile la «tesi
riduttiva» della Corte di cassazione, secondo cui l’autonomia delle Camere
andrebbe garantita solo rispetto alle funzioni legislative o politiche, con
esclusione degli atti concernenti i dipendenti, sul presupposto che il
sindacato giurisdizionale esterno su di essi non comprometta tale autonomia.
Al contrario,
l’attività amministrativa degli organi parlamentari sarebbe sempre strumentale
all’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche e si configurerebbe quale
supporto indispensabile per il loro concreto svolgimento. L’intervento di
poteri esterni che incidessero su tale attività di supporto e, segnatamente,
sulle persone addette allo svolgimento di essa, inciderebbe, direttamente o
indirettamente, sul libero espletamento delle funzioni parlamentari. A questo
proposito, viene citata la sentenza n. 129 del
1981 della Corte costituzionale, che avrebbe affermato che l’autodichia
costituisce un ineliminabile strumento per tutelare l’autonomia normativa e
l’indipendenza del Parlamento, «posto che, se il “momento applicativo” delle
norme emanate dall’organo parlamentare fosse rimesso al giudizio […] di un
potere esterno, l’autonomia e l’indipendenza stesse sarebbero inevitabilmente
dimezzate».
Peraltro, pur essendo
precluso simile controllo giurisdizionale esterno, il sistema di autodichia
assicurerebbe tutte le garanzie di autonomia e indipendenza sia sul piano
soggettivo attinente alla composizione degli organi interni, sia su quello
oggettivo relativo al procedimento.
4.5.– L’Avvocatura
generale dello Stato afferma che in caso di accoglimento del conflitto si
determinerebbe un effetto paradossale. In particolare, la rimozione
dell’autodichia condurrebbe all’assoggettamento del personale dipendente del
Senato alla giurisdizione del giudice ordinario, con conseguente equiparazione
con il personale contrattualizzato delle amministrazioni di cui al decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Tale equiparazione sarebbe
«impropria alla luce della specialità dello statuto giuridico del personale del
Senato, in ragione della connessione delle funzioni da questo esercitate con le
attribuzioni costituzionali del Senato della Repubblica».
4.6.– Con riguardo alla censura
prospettata dalle sezioni unite in via subordinata, ossia quella relativa alla
invasione del potere giurisdizionale nella parte in cui è precluso il sindacato
di legittimità ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost. sulle decisioni
degli organi di autodichia, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che tale
soluzione si presenterebbe come «distonica» rispetto al quadro normativo e
giurisprudenziale.
Secondo l’Avvocatura
generale dello Stato, infatti, «la funzione assegnata alla Cassazione consente
di far convivere nel medesimo ordinamento generale i due principi […] della
giurisdizione unica e della giurisdizione plurima configurandola come arbitro
delle giurisdizioni non come soggetto dotato di funzione nomofilattica
generale». L’esclusione del ricorso per cassazione per violazione di legge e la
sua ammissibilità solo per motivi relativi alla giurisdizione, nei confronti
delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, costituirebbero
«il riconoscimento a livello costituzionale delle funzioni» di questi ultimi
«di difesa del diritto obiettivo nel proprio ordine di competenze e quindi
della funzione di nomofilachia con riferimento al plesso giurisdizionale cui
appartengono».
L’accoglimento del
conflitto con riguardo a questa specifica prospettazione potrebbe minare,
secondo il Senato, «l’equilibrio connaturato all’autodichia degli organi
costituzionali che istituisce una funzione giurisdizionale in limitati ambiti
presso di sé connotati dalla pertinenza all’effettività di un ordinamento
normativo speciale, proprio al fine di evitare ingerenze esterne».
4.7.– L’Avvocatura generale dello
Stato, conclusivamente, ritiene che non vi siano ragioni per accogliere il
conflitto, in quanto il Senato non avrebbe invaso alcuna competenza
espressamente attribuita dalla Costituzione alla Corte di cassazione. Non si
potrebbe individuare nemmeno alcun improprio esercizio delle attribuzioni delle
Camere, che determini effetti lesivi sul corretto esercizio della funzione nomofilattica
della Corte di cassazione. Solo a fronte di atti concretamente lesivi delle
prerogative della giurisdizione – che trovassero il loro fondamento sulle fonti
di autodichia – sarebbe stato possibile sollevare fondatamente un conflitto di
attribuzioni, secondo quanto delineato con la sentenza n. 120 del
2014 della Corte costituzionale.
5.– In data 29 marzo
2016, il Senato della Repubblica ha depositato una memoria, con cui insiste per
l’inammissibilità e, in subordine, per l’infondatezza del conflitto.
5.1.– L’Avvocatura
generale dello Stato, riprendendo le argomentazioni già svolte nell’atto di
costituzione in giudizio, ricorda, anzitutto, le differenze che caratterizzano
il giudizio di legittimità costituzionale e quello sui conflitti interorganici, per poi affermare che la Corte di
cassazione, con il presente conflitto, avrebbe riproposto le medesime censure
già sollevate in via incidentale e dichiarate inammissibili con la sentenza n. 120 del
2014 della Corte costituzionale. Tale profilo emergerebbe in particolare
dalla circostanza che gli argomenti addotti sono quasi interamente incentrati
sull’inviolabilità del diritto alla tutela giurisdizionale piena ed effettiva:
ciò dimostrerebbe l’intenzione della Corte di cassazione di garantire tutela al
dipendente ricorrente, piuttosto che rivendicare l’esercizio di un potere
menomato.
Sarebbe, dunque,
evidente come la Corte di cassazione, attraverso un’indebita commistione tra i
due tipi di giudizi – quello di legittimità e quello sui conflitti – mirerebbe
surrettiziamente a stimolare una pronuncia della Corte costituzionale in
relazione a profili che esulano dall’ambito oggettivo del giudizio sui
conflitti e che, del resto, sarebbero stati già vagliati in sede di giudizio di
legittimità costituzionale.
L’Avvocatura generale
dello Stato sottolinea, in definitiva, come l’impostazione delle sezioni unite
tenda a realizzare una «inammissibile interscambiabilità degli strumenti di
giustizia costituzionale», con la conseguenza che la Corte costituzionale
sarebbe – in relazione a un medesimo oggetto e, in questa ipotesi, ai
regolamenti parlamentari – incompetente in sede di giudizio incidentale e
competente in sede di giudizio per conflitto.
Ciò determinerebbe,
peraltro, ad avviso dell’Avvocatura generale, un «ulteriore paradosso», poiché
il titolare del diritto fondamentale alla giustizia non avrebbe titolo e modo
per far valere l’asserita incostituzionalità delle norme che tale diritto
negano o violano, mentre il giudice comune, che di quel diritto non è titolare,
potrebbe (indirettamente) ottenerne la tutela, assumendo che sia stata invasa
la sua sfera di attribuzioni.
5.2.– L’Avvocatura generale dello
Stato eccepisce, quindi, che l’ordinanza con cui è stato proposto il conflitto
sarebbe manifestamente illogica e contradditoria, a causa della formulazione,
da parte della Corte di cassazione, di un doppio petitum, il quale implicherebbe
due modi diversi di qualificare gli organi di giustizia domestica, con
differenti ordini di conseguenze. Secondo la prospettazione addotta in via
principale, gli organi di giustizia domestica avrebbero natura amministrativa
e, dopo il ricorso a tali rimedi interni, sarebbe possibile adire il giudice
comune; secondo la prospettazione addotta in via subordinata, gli stessi organi
sarebbero qualificati quali giudici speciali.
L’accoglimento del
primo ordine di censure condurrebbe a disattendere i principi definiti dalla
Corte EDU, nella citata sentenza
Savino e altri contro Italia, che ha qualificato gli organi di autodichia
come «Tribunale», ai sensi dell’art. 6 della CEDU, alla luce del «rispetto di
talune garanzie proprie della giurisdizione che sono state considerate
soddisfatte nel caso concreto». Inoltre, le garanzie e i caratteri propri
dell’attività giurisdizionale che caratterizzano il sistema di autodichia
dovrebbero impedire la configurazione di forme di giurisdizione condizionata,
la quale peraltro si tradurrebbe in una surrettizia duplicazione di giudizi.
Qualora venisse
accolta la prospettazione avanzata in via subordinata e, dunque, gli organi di
autodichia fossero qualificati come giudici speciali, verrebbe a mancare il
presupposto soggettivo del conflitto di attribuzione, poiché i due organi che
si confrontano in questo giudizio sarebbero riconducibili al medesimo potere
giurisdizionale, con ciò configurandosi un inammissibile conflitto intrapotere.
5.3.– Quanto al merito,
l’Avvocatura generale dello Stato ribadisce l’infondatezza del conflitto, con
il quale, censurando l’autodichia, sarebbe messa in discussione l’autonomia e
l’indipendenza riconosciuta dalla Costituzione agli organi espressione della
sovranità popolare. Se, infatti, si ammettesse l’intervento di un potere
esterno, sarebbe la stessa autonomia garantita alle Camere dall’art. 64 Cost. a risultarne irrimediabilmente pregiudicata.
Osserva ancora sul
punto l’Avvocatura generale dello Stato che il «sapiente ed equilibrato
bilanciamento» fra l’esigenza di garantire autonomia e indipendenza delle
Camere e il riconoscimento per il personale dipendente del diritto di accedere
a un «Tribunale» con garanzie analoghe a quelle della giurisdizione sarebbe del
tutto stravolto in caso di accoglimento delle censure prospettate dalle sezioni
unite, «col conseguente rischio che un potere (quello giudiziario) finirebbe
per invadere sfere di autonomia costituzionalmente riservate ad organi sovrani».
6.– È intervenuta nel
giudizio per conflitto di attribuzione la Camera dei deputati, rappresentata e
difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 1°
settembre 2015 e con successiva memoria depositata il 29 marzo 2016, chiedendo
che il conflitto sia dichiarato inammissibile, o in subordine infondato, con
argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle prospettate dal Senato
della Repubblica.
7.– È intervenuto nel giudizio, con
atto depositato l’8 settembre 2015, P. L., in qualità di dipendente del Senato
che ha proposto il ricorso straordinario per cassazione avverso la decisione
adottata in sede di appello dal Consiglio di garanzia del Senato, chiedendo
l’accoglimento delle conclusioni formulate dalla Corte di cassazione.
7.1.– Dopo aver dettagliatamente
ricostruito le vicende processuali che hanno dato origine al conflitto di
attribuzione promosso dalla Corte di cassazione nei confronti del Senato della
Repubblica, la difesa della parte privata argomenta in ordine all’ammissibilità
del suo atto di intervento. A tal fine, richiama alcune decisioni della Corte
costituzionale, per dimostrare che la sua esclusione dal giudizio
costituzionale «si tradurrebbe nella definitiva sottrazione delle garanzie del
contraddittorio, non essendovi altra sede nella quale […] possa far valere il
proprio interesse sostanziale» (vengono al riguardo citate le sentenze n. 386 del
2005 e n. 76
del 2001).
7.2.– Quanto al merito
del conflitto, la difesa della parte privata osserva che la sentenza n. 120 del
2014 della Corte costituzionale avrebbe posto «le premesse per il
superamento del principio di autodichia sui rapporti di lavoro dei dipendenti
delle Camere». La Corte costituzionale, infatti, pur confermando
l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari in sede di giudizio di
legittimità costituzionale, avrebbe affermato che essi sono sottoposti agli
ordinari canoni interpretativi, alla luce dei principi e delle disposizioni
costituzionali che ne definiscono la sfera di competenza.
Secondo la parte
interveniente, la Corte costituzionale avrebbe così affermato che la
legittimità dell’autodichia dipende dalla sua estensione e, quindi, dal
rispetto o dal superamento dei limiti costituzionali che delimitano la sfera di
competenza del potere dell’organo parlamentare di organizzarsi in modo
autonomo. Di conseguenza, «le disposizioni dei regolamenti parlamentari che
prevedono l’autodichia, in ordine a vicende e rapporti che “esulano dalla
capacità classificatoria del regolamento parlamentare”, pur costituendo “norme
non sindacabili” in sede di giudizio di legittimità costituzionale, nondimeno
rappresentano “fonti di atti lesivi di diritti costituzionalmente
inviolabili”».
In questa prospettiva,
dal punto di vista sostanziale non si tratterebbe più di stabilire se sia
costituzionalmente legittima la fonte che prevede l’autodichia, ma occorrerebbe
verificare se determinate vicende o rapporti rientrino nell’ambito
costituzionalmente riservato alla sfera di autonomia e autodichia degli organi
parlamentari, oppure si collochino al di fuori di quel confine, con conseguente
applicazione del comune regime di tutela costituzionale dei diritti.
Dal punto di vista
processuale, la «natura regolamentare parlamentare delle norme istitutive
dell’autodichia» non precluderebbe la possibilità di sollevare conflitto di
attribuzione, quando un potere si ritenga leso o menomato dall’attività
dell’altro, essendo tale tipo di giudizio la sede naturale in cui risolvere le
questioni attinenti alla delimitazione degli ambiti di competenza.
7.3.– Tanto premesso, la parte
interveniente ritiene che la decisione della Corte costituzionale rispetto al
conflitto sollevato dalla Corte di cassazione dipenda dalla ritenuta inerenza o
meno alle funzioni primarie delle Camere dei rapporti di lavoro dei suoi
dipendenti e dalla collocazione di essi all’interno dell’ambito di competenza
riservato ai regolamenti parlamentari.
La Corte
costituzionale, con la sentenza n. 120 del
2014, qualificando la questione come controversa, avrebbe comunque offerto
almeno due indicazioni nel senso che questi rapporti di lavoro si collocano al
di fuori dell’ambito di competenza dei regolamenti parlamentari e non risultano
connessi con le funzioni primarie del Parlamento, con la conseguenza che la
tutela giurisdizionale dei diritti dei dipendenti non potrebbe essere incisa
dall’autodichia. In particolare, la Corte costituzionale avrebbe fatto
riferimento a ciò che avviene in alcuni ordinamenti costituzionali vicini, che
non prevedono più l’autodichia sui rapporti di lavoro dei dipendenti e con i
terzi. Inoltre, la Corte costituzionale avrebbe richiamato l’immunità
parlamentare prevista dall’art. 68 Cost. e la necessità della sua stretta
interpretazione, che impone di accertare rigorosamente il nesso funzionale fra
l’opinione espressa e l’attività parlamentare, per contenere l’impedimento
all’accesso al giudice da parte di coloro che si ritengano danneggiati. Secondo
la parte interveniente, «un simile stretto nesso funzionale non è ravvisabile
con riferimento ai rapporti di lavoro dei dipendenti, le cui vicende non
ineriscono alle “funzioni primarie” delle Assemblee parlamentari, né sollevano
il rischio di comprometterne “lo statuto di garanzia”».
A questo ultimo
proposito, la difesa dell’interveniente sottolinea le specificità del caso
concreto, al fine di dimostrare l’assenza di ogni rischio di compromissione
dello statuto di garanzia delle Camere. Simile conclusione sarebbe confortata,
inoltre, dalla giurisprudenza della Corte EDU, in relazione al diritto al
giudice, laddove avrebbe affermato la necessità che lo Stato dimostri che
l’oggetto della controversia sia connesso all’esercizio dell’autorità statale,
non essendo sufficiente una semplice allegazione in merito alla partecipazione
dei dipendenti all’esercizio della pubblica amministrazione (è menzionata la sentenza della Corte EDU del
19 aprile 2007, Vilho Eskelinen
e altri contro Finlandia).
7.4.– Da ultimo, la difesa della
parte interveniente si sofferma in modo particolare sulla prospettazione
offerta in via subordinata dalla Corte di cassazione, ossia sulla ipotesi di
riconoscere contro le decisioni degli organi di autodichia il ricorso per cassazione
per violazione di legge. In questo modo, riconoscendo la «natura pienamente
giurisdizionale degli organi di autodichia» sarebbe possibile «assicurare la
piena conformità di questi giudici al modello costituzionale prefigurato
dall’art. 108, comma secondo, Cost.»: tale scelta, «una volta completato il
percorso di revisione e piena riconduzione dell’autodichia al modello dell’art.
108 Cost., potrebbe costituire un equilibrato bilanciamento tra le varie
istanze in gioco», anche considerando che l’autonomia e l’indipendenza delle
Camere non sarebbe incisa dal controllo limitato ai soli profili di legittimità
di cui all’art. 111 Cost. Inoltre, gli organi di autodichia quali organi
giurisdizionali e sottoposti al controllo della Corte di cassazione potrebbero
«assicurare una elevata specializzazione, in relazione ad un contenzioso che present[a] indubitabili elementi di specificità».
7.5.– La parte interveniente ha
depositato ulteriore memoria il 15 marzo 2016, con cui ha insistito per
l’accoglimento delle conclusioni della Corte di cassazione e ha specificamente
replicato agli argomenti spesi dall’Avvocatura generale dello Stato.
In particolare, quanto
alle eccezioni di inammissibilità, la difesa dell’interveniente osserva che con
il conflitto di attribuzione sollevato nei confronti del Senato della
Repubblica, le sezioni unite della Corte di cassazione non avrebbero chiesto
alla Corte costituzionale di valutare se l’autodichia «in quanto tale» menomi
la sfera riservata al potere giurisdizionale, bensì «se tale sfera venga lesa
dall’applicazione di siffatto istituto ad una controversia di lavoro in tema di
demansionamento del personale dipendente».
Nel merito, si osserva
che la giurisprudenza costituzionale relativa alle prerogative degli organi
costituzionali abbia progressivamente circoscritto e limitato le deroghe al
regime di giurisdizione comune, anziché affermare un assoluto principio di non
interferenza della magistratura sugli organi costituzionali. Coerentemente,
nella medesima giurisprudenza, sarebbe stato dato rilievo al «principio supremo
di tutela del diritto al giudice dei cittadini», che potrebbe risultare
compresso solo nel caso in cui vi fosse un preciso riferimento nella
Costituzione e fosse necessario realizzare un interesse pubblico di pari
rilievo costituzionale.
In secondo luogo, la
difesa della parte privata ribadisce le ragioni per le quali ritiene che
l’autonomia delle Camere non sarebbe compromessa dalla sottrazione delle sole
controversie di lavoro dall’ambito di estensione dell’autodichia.
Infine, la difesa
della parte interveniente osserva che la stessa Avvocatura generale dello
Stato, nel giudizio innanzi alla Cassazione, aveva qualificato gli organi di
autodichia delle Camere come giudici speciali. Una volta affermata tale natura,
non si potrebbero sottrarre le relative decisioni a «un sindacato di
legittimità che deve ritenersi costituzionalmente indefettibile».
La difesa della parte
privata conclude ribadendo di ritenere preferibile l’accoglimento del conflitto
con riguardo alla prospettazione offerta in via subordinata dalla Corte di
cassazione, poiché ciò consentirebbe al ricorrente di ottenere, in tempi brevi,
una pronuncia definitiva dopo un lungo iter
processuale.
8.– Il conflitto (reg.
confl. pot.
n. 2 del 2015) nei confronti del Presidente della Repubblica è proposto in
relazione alla deliberazione degli artt. 1 e seguenti del decreto presidenziale
24 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n.
89 e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34.
La Corte ricorrente
chiede che la Corte costituzionale, dopo aver riconosciuto l’ammissibilità del
conflitto, dichiari che non spettava al Presidente della Repubblica deliberare
tali disposizioni, in via principale nella parte in cui, in violazione degli artt. 3, primo comma,
24, primo comma, 102, secondo comma
(in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale), 108, primo comma, e 111, primo comma, Cost.,
«precludono l’accesso dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza
della Repubblica alla tutela giurisdizionale comune, in riferimento alle
controversie di lavoro insorte con lo stesso»; e in via subordinata nella parte
in cui, in violazione degli artt. 111, settimo comma,
e 3, primo comma,
Cost., «non consentono, contro le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali
da tali disposizioni previste, il ricorso in cassazione per violazione di legge
ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost.».
8.1.– La Corte di
cassazione premette di essere chiamata a giudicare in
ordine al ricorso proposto
da alcuni dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della
Repubblica, per
la cassazione della decisione del 17 aprile 2012, assunta dal Collegio
d’appello, di conferma della decisione del Collegio giudicante di primo grado,
il quale aveva respinto la richiesta dei ricorrenti di riconoscimento del
diritto alla corresponsione delle somme maturate a titolo di indennità
perequativa e di indennità di comando, non più corrisposte dal Segretariato
della Presidenza della Repubblica a partire dal loro inquadramento in ruolo.
8.2.– La Corte ricorrente ricorda, anzitutto, che, nel regime anteriore alla
disciplina regolamentare del contenzioso interno prevista dai decreti
presidenziali n. 81 e n. 89 del 1996, la giurisprudenza di legittimità aveva
negato la sussistenza di un’autodichia del Presidente della Repubblica nelle
controversie con i suoi dipendenti.
Tale indirizzo fu, però, in seguito superato dalla stessa Corte di
cassazione, a sezioni unite, con la sentenza, resa in sede di regolamento di giurisdizione,
del 17 marzo 2010, n. 6529. In tale pronuncia, essa prese atto che l’organo
costituzionale «si è dotato consapevolmente, sin dal 1996, di una struttura
decisionale articolata per la soluzione di tali conflitti ed ha visto, negli
ultimi anni, il giudice amministrativo dubitare […] della propria potestas judicandi sui
conflitti stessi». Quindi, ricordando la sentenza della Corte EDU resa nel caso Savino e altri contro
Italia, avrebbe riconosciuto il fondamento costituzionale indiretto del
potere del Presidente della Repubblica di riservare alla propria cognizione
interna le controversie in materia di impiego del personale ed avrebbe
affermato che tale potere è stato esercitato assicurando i principi di precostituzione, imparzialità e indipendenza dei collegi
previsti per la risoluzione delle controversie.
La Corte ricorrente ricorda, quindi, che la Corte costituzionale ha
successivamente pronunciato la sentenza n. 120 del
2014, con cui, pur dichiarandosi l’inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale e ribadendosi l’insindacabilità dei regolamenti
parlamentari, si sarebbe delineata la «direttrice di possibili sviluppi,
fornendo significativi elementi di novità», indicando la possibile
sindacabilità dei regolamenti parlamentari attraverso la via del conflitto di
attribuzione fra poteri dello Stato. Secondo la Cassazione, il conflitto di
attribuzione sarebbe dunque configurabile laddove, a fronte del superamento dei
limiti che gli artt. 64 e 72 Cost. pongono alla competenza normativa dei
regolamenti parlamentari, si determini una invasione o una turbativa di altro
potere dello Stato, quale quello giurisdizionale, che sarebbe «espressione
della garanzia generale alla tutela giurisdizionale, riconosciuta come diritto
fondamentale». Il rispetto dei diritti fondamentali costituirebbe un limite
alla competenza regolamentare delle Camere, il cui superamento costituirebbe
«un’invasione di campo, una violazione delle regole di competenza,
un’alterazione dell’equilibrio dei poteri dello Stato».
La Corte costituzionale, in definitiva, con la sentenza n. 120 del
2014 avrebbe reso possibile «il raffronto tra la normativa subregolamentare del Senato in tema di autodichia in
materia di controversie di lavoro del personale dipendente e la Costituzione»,
chiarendo che «lo strumento processuale di verifica è il conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato ex
art. 134 Cost.».
Ciò posto, ritiene la Corte di cassazione che le conclusioni raggiunte
dalla Corte costituzionale nella menzionata pronuncia rispetto all’autodichia
del Senato della Repubblica possano valere anche con riguardo all’autodichia
del Presidente della Repubblica in materia di controversie del personale, «pur
nella sua particolare connotazione».
8.3.– Premette ancora la ricorrente che, con il decreto presidenziale n.
81 del 1996, successivamente integrato dal decreto presidenziale n. 89 del
1996, e modificato dal decreto presidenziale n. 34 del 2008, emanati ai sensi
della legge 9 agosto 1948, n. 1077 (Determinazione dell’assegno e della
dotazione del Presidente della Repubblica e istituzione del Segretariato
generale della Presidenza della Repubblica), si sarebbe eliminato «il
precedente carattere eventuale dell’autodichia (di cui al decreto n. 31 del
1980)» e si sarebbe esclusa «implicitamente la possibilità di ricorso al
giudice amministrativo».
In particolare, per le controversie di lavoro del personale, con tali
decreti presidenziali sono stati istituiti, quale organo di primo grado, il
Collegio giudicante (nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su
proposta del Segretario Generale, e composto da un consigliere di Stato, da un
consigliere di Corte d’appello e da un consigliere della Corte dei conti) e,
quale organo di secondo e ultimo grado, il Collegio d’appello (nominato
anch’esso con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del
Segretario Generale e composto da un presidente di sezione del Consiglio di
Stato, da un consigliere della Corte di cassazione e da un consigliere della
Corte dei conti).
La Corte ricorrente richiama le caratteristiche della procedura seguita
di fronte a tali organi, che ricalcherebbe quella prevista per i ricorsi ai
giudici amministrativi. Sottolinea che,
alla luce della configurazione e della composizione degli organi in questione,
essi sono stati ritenuti idonei a soddisfare le condizioni di precostituzione, imparzialità e indipendenza richiesti
dalla CEDU, come interpretata dalla Corte EDU con la decisione resa nel caso Savino e altri contro
Italia, che risultano corrispondere ai principi espressi dagli artt. 25,
104, 107 e 108 Cost.
8.4.– Premettono ancora le sezioni unite che, sebbene i regolamenti
presidenziali non siano assimilabili ai regolamenti parlamentari, non potrebbe,
tuttavia, negarsi che anche i predetti decreti non abbiano forza di legge e
pertanto non possano essere oggetto di questioni di legittimità costituzionale
in via incidentale.
Nel contempo, sarebbe indubbio che gli stessi decreti non possano essere
sottratti al controllo di costituzionalità, quantomeno attraverso il conflitto
di attribuzione fra poteri dello Stato. Tale conflitto sarebbe configurabile
quando – come nel caso in esame – l’esercizio del potere normativo al di fuori
degli ambiti costituzionalmente riservati ad un potere si traduca in una
invasione o turbativa di altro potere dello Stato, e in particolare del potere
giurisdizionale, «che altro non è che espressione della garanzia generale alla
tutela giurisdizionale, riconosciuta come diritto fondamentale».
Spetterebbe così alla Corte costituzionale, in sede di conflitto di
attribuzione, definire il «confine tra i due distinti valori della autonomia
della Presidenza della Repubblica, da un lato, e la legalità-giurisdizione,
dall’altro».
8.5.– Tanto premesso, le sezioni unite della Corte di cassazione illustrano i
«profili di illegittimità costituzionale rilevabili nella fattispecie», sul
presupposto che l’invasione del potere giurisdizionale richieda l’indicazione
dei parametri costituzionali «versandosi comunque in una ipotesi di vizio di
illegittimità costituzionale in senso lato».
Esse ritengono che la menomazione o turbativa del potere giurisdizionale
sia di duplice portata: una, più generale, in riferimento agli artt. 3, primo
comma, 24, primo comma, 102, secondo comma (quest’ultimo in combinato disposto
con la VI disposizione transitoria e finale), 108, primo comma, e 111, primo
comma, Cost.; e una, più specifica, in riferimento
agli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost. Qualora, infatti, la
Corte costituzionale dichiarasse illegittima l’autodichia del Presidente della
Repubblica rispetto alle controversie instaurate dai suoi dipendenti, si riespanderebbe la giurisdizione comune, permettendo
l’accesso alla giustizia attualmente negato ai ricorrenti; qualora fosse,
invece, accolta la soluzione prospettata in via subordinata – sul presupposto
che gli organi di autodichia siano legittimamente configurabili quali giudici
speciali – sarebbe consentito, nei confronti delle decisioni degli organi di
autodichia, il ricorso straordinario per cassazione.
In merito alla richiesta formulata in via principale, la Corte di
cassazione ritiene che l’autodichia del Presidente della Repubblica sulle
controversie instaurate dai suoi dipendenti contrasti con il principio di
uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), unitamente al riconoscimento a tutti
della facoltà di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi
legittimi (art. 24, primo comma, Cost.), in quanto una determinata categoria di
soggetti sarebbe irragionevolmente esclusa dalla tutela giurisdizionale
(vengono in particolare citate le sentenze n. 238
e n. 120 del
2014). Secondo la Corte ricorrente, non sarebbe ipotizzabile che
l’autonomia del Presidente della Repubblica «possa bilanciare, fino a
comprimerlo del tutto, il diritto alla tutela giurisdizionale del personale
dipendente, nella misura in cui può ragionevolmente escludersi che alcun
rischio tale autonomia guarentigiata corra a causa di un’iniziativa giudiziaria
di suoi dipendenti».
Sarebbe violato, inoltre, l’art. 102, secondo comma, Cost.,
che esclude che possano essere istituiti giudici straordinari o giudici
speciali, unitamente alla VI disposizione transitoria e finale, che richiede
entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione la revisione degli
organi speciali di giurisdizione esistenti, con l’eccezione delle giurisdizioni
del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari. Il
Collegio giudicante e il Collegio d’appello della Presidenza della Repubblica
si configurerebbero, infatti, quali giudici speciali, istituiti dopo l’entrata
in vigore della Costituzione. Né – secondo la Corte ricorrente – si potrebbe ravvisare
«una continuità con un analogo apparato di autodichia (vera e propria) nel
sistema ordinamentale anteriore all’entrata in vigore della Costituzione (e
neppure in quello pre-repubblicano)».
Sarebbero altresì violati gli artt. 108, primo comma, e 111, primo
comma, Cost., che, rispettivamente, pongono una
riserva di legge con riguardo all’ordinamento giudiziario e al giusto processo,
pur se «i “giudici” istituiti con i citati decreti presidenziali soddisfano le
esigenze di precostituzione, imparzialità e
indipendenza, richieste dall’art. 6 p. 1, della Convenzione EDU e dagli artt.
108, secondo comma e 111, secondo comma, della Costituzione».
In subordine, sarebbe in ogni caso configurabile la violazione dell’art.
111, settimo comma, Cost., unitamente all’art. 3,
primo comma, Cost. Il ricorso straordinario per cassazione per violazione di
legge nei confronti di ogni sentenza costituirebbe, infatti, proiezione del
principio di uguaglianza, poiché assicurerebbe che la legge sia interpretata e
applicata allo stesso modo nei confronti di tutte le parti in giudizio. Una
deroga rispetto a tale garanzia dovrebbe essere prevista espressamente dalla
Costituzione.
8.6.– Le sezioni unite sottolineano di non poter superare i prospettati dubbi
di legittimità costituzionale attraverso un’interpretazione adeguatrice
della disciplina regolamentare censurata, il cui tenore testuale
inequivocabilmente esclude qualunque sindacato della giurisdizione ordinaria
sulle decisioni assunte dagli organi di autodichia, finanche nella forma del
sindacato di legittimità esercitato in generale dalla Corte di cassazione.
Nessuna interpretazione adeguatrice da parte
del giudice comune sarebbe, peraltro, possibile se si considera che a tale risultato
non è giunta neppure la Corte costituzionale in sede di sindacato incidentale.
Non resterebbe, dunque, che ricorrere al conflitto di attribuzione tra
poteri per accertare che i ricordati «dubbi di legittimità costituzionale», e
soprattutto l’asserita lesione del diritto alla tutela giurisdizionale dei
dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica,
«ridondano in menomazione o turbativa del potere giurisdizionale» della Corte
di cassazione, alla quale sarebbe impedito l’esercizio del sindacato di
legittimità domandato dai ricorrenti.
8.7.– La Corte ricorrente afferma, infine, che il conflitto sarebbe stato
proposto tempestivamente nonostante le disposizioni regolamentari asseritamente lesive delle proprie attribuzioni costituzionali
siano risalenti nel tempo, in quanto in tale giudizio non è previsto alcun
termine per adire la Corte costituzionale.
Nel caso in esame, sussisterebbe l’attualità dell’interesse a ricorrere,
poiché la Corte di cassazione è chiamata a decidere un ricorso proposto da
dipendenti della Presidenza della Repubblica.
La Corte ricorrente ritiene sussistenti anche i requisiti soggettivo
(ossia la natura di potere dello Stato della medesima Corte e del Presidente
della Repubblica) e oggettivo (ossia il tono costituzionale del conflitto, che
sarebbe insito nella natura di diritto fondamentale della tutela
giurisdizionale, la cui violazione ridonderebbe in lesione o turbativa del
potere giurisdizionale).
Da ultimo, le sezioni unite ritengono che il provvedimento per sollevare
conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato da parte di un organo del
potere giudiziario, nel caso in cui i relativi presupposti insorgano nel corso
del giudizio e, dunque, il conflitto abbia i caratteri dell’incidentalità, sia
l’ordinanza (a questo proposito vengono richiamati sia gli artt. 37, terzo
comma, della legge n. 87 del 1953 e 24 delle Norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale, che si riferiscono al “ricorso”, sia il
generale rinvio operato dall’art. 37, quinto comma, della stessa legge ai
precedenti artt. 23, 25 e 26).
9.– Con ordinanza n. 138
del 2015 la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto, ai
sensi dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953.
10.– Il Presidente
della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
con atto depositato il primo 1° settembre 2015, si è costituito in giudizio, chiedendo
che il conflitto sia dichiarato inammissibile e, in subordine, infondato.
10.1.– L’Avvocatura
generale dello Stato, dopo aver ripercorso la vicenda processuale nel cui
ambito è stato sollevato il conflitto di attribuzione da parte della Corte di cassazione,
sottolinea come il ricorso per conflitto riproponga sostanzialmente i medesimi
dubbi di legittimità costituzionale prospettati nei confronti del regolamento
del Senato della Repubblica, e dichiarati inammissibili con la sentenza n. 120 del
2014, «opportunamente riformulati per censurare il carattere invasivo delle
norme regolamentari rispetto al potere giurisdizionale della Corte di
Cassazione».
Quindi, dopo aver
ricordato i parametri costituzionali la cui violazione è lamentata dalle
sezioni unite della Corte di cassazione, l’Avvocatura generale dello Stato
osserva come non sia «casuale» che il doppio petitum prospettato con il
conflitto sollevato nei confronti del Presidente della Repubblica coincida con
quello sollevato nei confronti del Senato: tale corrispondenza – a suo avviso –
testimonierebbe «l’intento della Cassazione di utilizzare lo strumento del
conflitto di attribuzioni […] per verificare la “resistenza” del sistema di
autodichia degli organi costituzionali, a prescindere dalla diversità
intrinseca di tali sistemi e dalla loro distinta matrice costituzionale».
10.2.– In punto di
ammissibilità, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che il conflitto si
fondi su una interpretazione errata della sentenza n. 120 del
2014 della Corte costituzionale.
La Corte di
cassazione, rivendicando l’esercizio della sua funzione giurisdizionale asseritamente lesa dalle fonti di autonomia degli organi
costituzionali, lamenterebbe la violazione del diritto alla tutela
giurisdizionale dei dipendenti al fine di ottenere la riespansione
dell’ordinaria tutela giurisdizionale. Simile richiesta, però, esulerebbe
dall’ambito del conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Oggetto di
quest’ultimo, infatti, non potrebbe essere il potere normativo dell’organo
costituzionale, mediante il quale sono stati istituiti gli organi di giustizia
interna, bensì solo il suo esatto dimensionamento, il suo corretto esercizio,
la sua proporzionalità rispetto alle prerogative costituzionali di altri organi
e «la sua rispondenza al criterio del nesso funzionale», il quale non potrebbe
negarsi rispetto a controversie aventi a oggetto rapporti organici o di
servizio.
La Corte
costituzionale, nella sentenza n. 120 del
2014, avrebbe negato che le fonti di autonomia siano censurabili in sede di
conflitto, potendo invece esserlo specifici atti, che su quelle fonti di
autonomia si fondino, se lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili.
Il conflitto sarebbe
dunque inammissibile, poiché l’atto introduttivo non avrebbe correttamente
individuato «l’oggetto del contendere».
10.3.– Nel merito,
secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’autonomia degli organi
costituzionali discenderebbe dalla loro peculiare posizione e dalle funzioni
loro attribuite dalla Costituzione. Collocati al centro del sistema, essi
godrebbero di determinate guarentigie strettamente preordinate a garantire il
libero svolgimento delle funzioni costituzionali loro assegnate. Tale ampia
nozione di autonomia non comprenderebbe solo l’autonomia normativa e la potestà
di autorganizzazione, ma si estenderebbe al momento applicativo delle fonti di
autonomia, includerebbe la scelta delle misure idonee ad assicurarne
l’osservanza e comporterebbe la necessità di sottrarre a qualsiasi
giurisdizione il controllo sugli strumenti tesi a garantirne il rispetto.
Con specifico riguardo
al Presidente della Repubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ricorda che
la legge n. 1077 del 1948 prevede che nel Segretariato generale siano
inquadrati tutti gli uffici e i servizi necessari per l’esercizio delle
funzioni presidenziali, che esso rappresenti l’amministrazione della Presidenza
della Repubblica e che sovraintenda a tutti gli uffici e ai servizi della
stessa. Al Segretariato generale sarebbe, pertanto, riconosciuta una peculiare
posizione, direttamente strumentale all’espletamento delle funzioni che la
Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica.
Dalla prima ricordata
nozione di autonomia discenderebbe la competenza esclusiva dello stesso organo
costituzionale in ordine alla scelta delle misure idonee a garantire il
rispetto delle fonti interne di autonomia e «la conseguente necessità di
sottrarre a qualsiasi giurisdizione gli strumenti intesi a garantirne il
rispetto».
L’Avvocatura generale
dello Stato osserva, quindi, che, con l’entrata in vigore della Costituzione e
il riconoscimento dell’indipendenza della magistratura, l’autonomia dell’organo
costituzionale e le relative prerogative non avrebbero più lo scopo di
proteggere gli organi supremi dello Stato da «eventuali deviazioni dell’azione
giurisdizionale», ma sarebbero «funzionali a preservare la suprema politicità
degli organi e delle funzioni loro attribuite, in quanto immediato riflesso
della sovranità popolare». Da qui discenderebbero le particolari prerogative
degli organi costituzionali, tra i quali il Presidente della Repubblica.
L’ampia autonomia loro riconosciuta sarebbe «pertanto riconducibile
all’intrinseca politicità dei massimi organi rappresentativi, e alla
conseguente necessità di assicurarne il libero svolgimento delle funzioni».
L’Avvocatura generale
dello Stato richiama le decisioni della Corte costituzionale dalle quali si
ricaverebbe che l’autonomia degli organi costituzionali comprende sia le
prerogative espressamente previste in Costituzione, sia quelle che tale
riconoscimento formale non hanno, ma che «comunque sono consolidate dal loro
perpetuarsi per effetto di una “lunga tradizione” […], o discendono da
consuetudini […], o conseguono all’ampio margine di apprezzamento della
“peculiare autonomia normativa” […], o sono ricavabili dalla posizione di
autonomia e indipendenza dell’organo […], o desumibili dalle “antiche
tradizioni interpretative”» (sono menzionate le sentenze n. 120 del
2014, n. 154
del 1985, n.
78 del 1984, n.
129 del 1981 e n. 231 del 1975).
Con particolare
riferimento al Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale avrebbe
avvalorato un’ampia nozione di autonomia, che si fonderebbe su prerogative
implicite, a partire dalla consuetudine costituzionale ravvisata a fondamento
dell’esenzione dalla giurisdizione contabile. È poi richiamata la sentenza n. 1 del
2013, nella quale la Corte avrebbe affermato che non è necessario che la
garanzia di autonomia sia prevista in Costituzione, ben potendo la legge e i
regolamenti degli organi costituzionali «esprimere prerogative implicite alla
particolare struttura ed alle specifiche funzioni» dell’organo costituzionale.
L’Avvocatura generale
dello Stato – alla luce della nozione di autonomia a suo avviso ricavabile
dalla giurisprudenza costituzionale – ritiene che l’autodichia del Presidente
della Repubblica si traduca nella tutela delle complesse attribuzioni
costituzionali del Presidente delineate dalle norme costituzionali (è
diffusamente richiamata in proposito la sentenza n. 1 del
2013).
Essa afferma, quindi,
che, nell’esercizio dei suoi poteri, il Presidente della Repubblica dispone «di
un proprio corpo burocratico», costituito dal Segretariato generale della
Repubblica, e che quest’ultimo si pone in rapporto di derivazione organica
rispetto al Presidente, costituendo pertanto parte integrante dello stesso
organo presidenziale. L’autodichia rappresenterebbe, dunque, uno dei corollari
dell’autonomia del Presidente della Repubblica e garantirebbe, insieme
all’autonomia normativa, contabile e finanziaria, l’indipendenza di tale organo
costituzionale.
A sostegno di tale
nozione di autonomia, comprensiva di prerogative implicite dell’organo
costituzionale, si sarebbe espressa anche la Corte costituzionale (è ricordata,
in particolare, la sentenza n. 129 del
1981).
Da tale giurisprudenza
si ricaverebbe che – benché espressamente prevista solo dall’art. 66 Cost. – la
possibilità di disciplinare un procedimento di composizione delle liti con il
personale dipendente si fonderebbe sull’autonomia normativa delle Camere (art.
64, primo comma, Cost.).
«Analogamente»,
secondo l’Avvocatura generale dello Stato, anche l’autodichia del Presidente
della Repubblica avrebbe un fondamento consuetudinario: «la diretta
strumentalità del Segretariato rispetto alle funzioni del Presidente della
Repubblica sin dalla nascita della burocrazia dell’organo costituzionale […]
non ha mai fatto dubitare dell’esistenza di una residua forma di giustizia
ritenuta esercitabile dal Capo dello Stato».
L’autodichia
spetterebbe «in modo per dir così naturale» al Presidente della Repubblica, in
quanto organo costituzionale e come tale in posizione di assoluta indipendenza
e irresponsabilità e, quindi, al di fuori di ogni controllo e ingerenza
esterna. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la previsione di un
controllo giudiziario esterno sull’organizzazione amministrativa del
Segretariato generale si tradurrebbe nel condizionamento dell’esercizio delle
funzioni presidenziali, potendo incidere direttamente sui provvedimenti aventi
ad oggetto non solo i diritti patrimoniali
dei dipendenti, ma la stessa organizzazione degli uffici e la
flessibilità di tale organizzazione, in base alle esigenze di volta in volta
individuate dal Presidente della Repubblica.
10.4.– Con riferimento all’asserita
violazione del divieto di istituire giudici speciali previsto dall’art. 102
Cost., l’Avvocatura generale dello Stato osserva, in primo luogo, che gli
organi interni della Presidenza della Repubblica troverebbero «piena e diretta
legittimazione, sul piano costituzionale, nelle incomprimibili esigenze di
preservare l’autonomia e l’indipendenza della Presidenza e, con esse, il
principio della divisione dei poteri».
In secondo luogo, si
dovrebbe considerare – a suo avviso – che l’art. 102 Cost.,
nel vietare l’istituzione di giudici speciali, mirerebbe ad evitare che possano
trovare ingresso nell’ordinamento «organismi giurisdizionali troppo dipendenti
dall’Esecutivo». Gli organi di autodichia sarebbero invece funzionali ad
assicurare non solo l’autonomia e l’indipendenza dell’organo costituzionale, ma
anche il diritto di difesa degli interessati.
Dopo aver richiamato
la giurisprudenza costituzionale relativa alle giurisdizioni speciali precostituzionali e alle condizioni della loro
sopravvivenza, l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea, quindi, che
l’indipendenza del giudice, consistente nell’autonoma potestà decisionale, non
condizionata da interferenze dirette o indirette esterne, riguarderebbe
l’ordine giudiziario nel suo complesso e i singoli organi sia ordinari sia
speciali. A questo proposito, essa osserva che – quanto al profilo soggettivo –
la composizione dei collegi giudicanti della Presidenza della Repubblica
sarebbe pienamente conforme a quanto richiesto dalla Corte EDU nella decisione resa
nel caso Savino e altri
contro Italia,
Inoltre, secondo
l’Avvocatura dello Stato, «l’indagine imposta dalla VI disposizione transitoria
impone per la Presidenza della Repubblica di seguire le tracce della
consuetudine costituzionale che la fonda ed esse, nella situazione pre-costituzionale, si rinvengono nel generale principio di
giustizia ritenuta del sovrano».
Infine, la prospettiva
della Corte di cassazione contrasterebbe con le tendenze del diritto
dell’Unione europea, secondo il quale si dovrebbe privilegiare una
interpretazione restrittiva di giudice speciale, «ravvisabile soltanto in
relazione agli organi giurisdizionali istituiti e disciplinati in forme
apertamente derogatorie rispetto al sistema».
10.5.– Con riguardo ai
profili oggettivi del conflitto, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che,
sebbene i decreti presidenziali non siano censurabili nel giudizio di legittimità
costituzionale, bensì in sede di conflitto di attribuzione fra poteri, come
riconosciuto con la sentenza n. 120 del
2014 per i regolamenti parlamentari, e sebbene l’autodichia dello stesso
Presidente della Repubblica non abbia un fondamento costituzionale espresso,
nondimeno i decreti presidenziali che hanno previsto organi interni per la
decisione delle controversie di lavoro dei dipendenti di tale organo
costituzionale troverebbero un fondamento nelle prerogative implicite
dell’organo costituzionale.
Il sistema di
autodichia della Presidenza della Repubblica fornirebbe inoltre garanzie idonee
di precostituzione, imparzialità e indipendenza,
quali quelle previste dall’art. 6 CEDU, che corrisponderebbero peraltro – anche
secondo la Corte di cassazione – ai principi di cui agli artt. 25, 104, 107 e
108 Cost.
Richiamando la
giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto un «fondamento univoco di
taluni profili organizzativi degli organi costituzionali sulla base di comuni
profili funzionali, idonei a garantirne l’autonomia», potrebbe ritenersi
sussistente – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – una vera e
propria consuetudine su cui si fonderebbe l’autodichia del Presidente della
Repubblica. A questo proposito dovrebbero essere tenuti in considerazione:
«l’ampio lasso di tempo ormai intercorso dai primi decreti presidenziali […],
nell’ambito del quale si è dispiegata la ripetizione costante ed uniforme del
comportamento nel tempo degli attori istituzionali coinvolti (c.d. diuturnitas)»; «la conformità degli organi giudicanti e dei
procedimenti disciplinati dai richiamati decreti presidenziali ai parametri
costituzionali e ai parametri CEDU»; e gli argomenti utilizzati dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 129 del
1981 in merito alla consuetudine relativa all’autonomia contabile e all’esenzione
dal giudizio di conto per il Presidente della Repubblica.
10.6.– L’Avvocatura generale
evidenzia, quindi, l’«effetto paradossale» che deriverebbe dalla rimozione
dell’autodichia, ossia l’impropria equiparazione del personale della Presidenza
della Repubblica al personale contrattualizzato delle amministrazioni di cui al
d.lgs. n. 165 del 2001, alla luce della specialità dell’ordinamento del
personale della Presidenza della Repubblica.
10.7.– Secondo l’Avvocatura generale
dello Stato, la richiesta formulata in via subordinata dalla ricorrente – ossia
la possibilità che avverso le decisioni degli organi di autodichia sia
possibile esperire il ricorso straordinario innanzi alla Corte di cassazione –
apparirebbe «distonica» rispetto al quadro normativo e giurisprudenziale
vigente. Peraltro, il suo accoglimento minerebbe in modo irrimediabile
«l’equilibrio connaturato all’autodichia della Presidenza della Repubblica».
10.8.– L’Avvocatura generale dello
Stato, in data 29 marzo 2016, ha depositato, in difesa del Presidente della
Repubblica, ulteriore memoria, con cui insiste per la dichiarazione di
inammissibilità e, in subordine, di infondatezza del conflitto di attribuzione
fra poteri dello Stato.
In tale atto,
l’Avvocatura generale dello Stato insiste in modo particolare sulle eccezioni
di inammissibilità del conflitto. Essa richiama nuovamente le differenze che
caratterizzano i giudizi incidentali di legittimità costituzionale e quelli sui
conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato, al fine di dimostrare che la
Corte di cassazione avrebbe operato una indebita commistione fra le due
tipologie, e ribadisce che la formulazione di un doppio petitum da parte della ricorrente
implicherebbe due modi diversi di qualificare gli organi di autodichia, con
differenti ordini di conseguenze.
Nel merito,
l’Avvocatura generale dello Stato approfondisce gli argomenti già spesi
nell’atto di costituzione in giudizio, con particolare attenzione
all’individuazione del fondamento costituzionale dell’autodichia: l’autonomia
dell’organo costituzionale comprenderebbe, oltre alla potestà di produzione
normativa e di organizzazione amministrativa in relazione alle proprie
strutture interne, anche la potestà di dare applicazione alle disposizioni
regolamentari poste a presidio della sua posizione costituzionale.
Considerato
in diritto
1.– La Corte di cassazione, sezioni unite civili, con
ordinanza del 19 dicembre 2014 (iscritta al n. 1 del reg. confl.
pot. del 2015), ha sollevato conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica
in relazione all’approvazione, da parte del medesimo Senato, degli articoli da
72 a 84 del Titolo II (Contenzioso) del Testo unico delle norme regolamentari
dell’Amministrazione riguardanti il personale del Senato della Repubblica.
La ricorrente premette di essere stata investita della decisione sul
ricorso proposto, ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, da un dipendente
del Senato, per l’annullamento della decisione, resa il 29 settembre 2011, in
grado di appello, dal Consiglio di garanzia del Senato, nell’ambito di un
giudizio di ottemperanza relativo ad una controversia di lavoro.
Osserva la Corte di cassazione che le disposizioni regolamentari ricordate,
affidando ad organi interni a quel ramo del Parlamento la decisione delle
controversie con l’amministrazione del Senato, che attengano allo stato e alla
carriera giuridica ed economica dei dipendenti del Senato, precluderebbero
l’accesso di questi ultimi alla piena tutela giurisdizionale, così comprimendo
la sfera di attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria, in
violazione degli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma,
quest’ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale,
108, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost.
Evidenzia la ricorrente, in primo luogo, che la Costituzione prevede
testualmente una vera e propria autodichia solo all’art. 66 Cost.,
a mente del quale ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi
componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità.
Ritiene, conseguentemente, che le disposizioni regolamentari del Senato – le
quali, invece, riservano ad organi interni di quest’ultimo anche la decisione
delle controversie con i suoi dipendenti – si porrebbero in contrasto con il
principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), coniugato con il
riconoscimento a tutti del diritto fondamentale di agire in giudizio per la
tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma,
Cost.).
La ricorrente denuncia, inoltre, la violazione dell’art. 102, secondo
comma, Cost., il quale esclude che possano essere
istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Tale parametro – a suo
avviso – dovrebbe essere letto congiuntamente alla VI disposizione transitoria
e finale della Costituzione, ai sensi della quale, entro cinque anni
dall’entrata in vigore di quest’ultima, si sarebbe dovuto procedere alla
revisione degli organi speciali di giurisdizione all’epoca esistenti. Alla luce
di tale disciplina costituzionale, la Commissione contenziosa ed il Consiglio
di garanzia – previsti dalle fonti di autonomia del Senato quali giudici,
rispettivamente di primo e secondo grado, delle controversie instaurate dai
dipendenti nei confronti dell’amministrazione del Senato – si porrebbero,
rispetto alla giurisdizione ordinaria, come giudici speciali illegittimamente
istituiti dopo l’entrata in vigore della Costituzione.
Ove si individuasse un profilo di continuità rispetto all’autodichia
dell’ordinamento pre-repubblicano, il difetto di
revisione degli organi di autodichia del Senato determinerebbe anche la
violazione dell’art. 111 Cost., che afferma il principio del giusto processo
(primo comma) e la necessità che il contraddittorio si svolga davanti ad un
giudice terzo e imparziale (secondo comma), non potendo ritenersi rispettoso di
tali principi un processo che si svolga «dinanzi ad un giudice incardinato in
una delle parti».
Per la stessa ragione, non sarebbe soddisfatto neppure il principio dell’indipendenza
dei giudici speciali, prescritto dall’art. 108, secondo comma, Cost.
Secondo la ricorrente, la lesione dei ricordati principi – e, in
particolare, del diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale –
ridonderebbe «non già in un vizio di incostituzionalità, ma in lesione o
turbativa del potere giurisdizionale». La normativa “sub-regolamentare”
approvata dal Senato avrebbe perciò un carattere invasivo delle attribuzioni
del potere giudiziario.
Osserva, infine, la Corte di cassazione che «il carattere chiuso e
circoscritto del sistema di autodichia del Senato» precluderebbe la possibilità
del ricorso straordinario riconosciuto dal settimo comma dell’art. 111 Cost.
Qualora si ritenesse che gli organi di autodichia del Senato siano organi
speciali di giurisdizione, esistenti anche prima dell’entrata in vigore della
Costituzione repubblicana, e che il procedimento di revisione, prescritto dalla
VI disposizione transitoria e finale della Costituzione, abbia avuto corso,
così da soddisfare i canoni del giusto processo e quelli di terzietà,
imparzialità ed indipendenza del giudice, residuerebbe comunque, a tutto
concedere, la violazione degli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma,
Cost.
Chiede, pertanto, la ricorrente, in via subordinata, che in tale ipotesi il
ricorso sia accolto, nella parte in cui le menzionate disposizioni
regolamentari non consentono il ricorso in Cassazione per violazione di legge,
ai sensi dell’art. 111, settimo
comma, Cost., contro le decisioni pronunciate dagli
organi di autodichia.
2.– Con un ulteriore conflitto, sollevato con
ordinanza del 19 gennaio 2015 (iscritta al n. 2 del reg. confl.
pot. del 2015), la Corte di cassazione, sezioni unite
civili, chiede a questa Corte di dichiarare che non spettava al Presidente
della Repubblica approvare il decreto presidenziale 24 luglio 1996, n. 81,
integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89, e modificato dal
decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34, i quali istituiscono e
disciplinano, all’interno della Presidenza della Repubblica, gli organi
competenti a decidere sui ricorsi presentati dal personale del Segretariato
generale della medesima Presidenza della Repubblica.
La ricorrente riferisce di essere investita
della decisione sul ricorso proposto, ai sensi dell’art. 111, settimo comma,
Cost., da alcuni dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della
Repubblica, per la cassazione della decisione resa, il 17 aprile 2012, dal
Collegio d’appello della Presidenza della Repubblica, in un giudizio promosso
dai medesimi dipendenti al fine di ottenere il riconoscimento di somme maturate
a titolo di indennità perequativa e indennità di comando, nell’ambito del
rapporto di lavoro intercorso con il Segretariato generale.
La Corte di cassazione rileva come i
predetti decreti presidenziali – in violazione degli artt. 3, primo comma, 24,
primo comma, 102, secondo comma, quest’ultimo in combinato disposto con la VI
disposizione transitoria e finale della Costituzione, 108, primo comma, e 111,
primo comma, Cost. − precludano l’accesso dei dipendenti del Segretariato
generale della Presidenza della Repubblica alla tutela giurisdizionale comune
nelle controversie di lavoro e, dunque, determinino una «lesione o turbativa
del potere giurisdizionale».
Premette la ricorrente come la sussistenza
di un’autodichia «vera e propria» in tema di controversie instaurate dai
dipendenti della Presidenza della Repubblica con il medesimo organo
costituzionale sia stata negata, dalla giurisdizione ordinaria, sino alla
sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione 17 marzo 2010, n. 6529.
Quest’ultima avrebbe, invece, registrato la scelta del Presidente della
Repubblica di dotarsi, a partire dal 1996, di organi interni per la decisione
di tali controversie. In questa sentenza sarebbe stato evidenziato, da un lato,
come tale scelta abbia un fondamento costituzionale indiretto nella potestà di
autorganizzazione e nell’autonomia contabile dell’organo costituzionale e,
dall’altro, come gli organi così istituiti soddisfino i requisiti richiesti
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Savino e altri contro
Italia (sentenza del 28 aprile
2009).
In tale contesto – osserva la Corte di
cassazione – è successivamente intervenuta la sentenza n. 120 del
2014 di questa Corte, e i principi in essa affermati dovrebbero trovare
applicazione anche con riguardo all’autodichia del Presidente della Repubblica
in materia di controversie che attengano allo stato e alla carriera giuridica
ed economica del personale di tale organo costituzionale.
Ad avviso delle sezioni unite,
l’autodichia del Presidente della Repubblica si porrebbe in contrasto con il
principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) e con il diritto di agire
in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24,
primo comma, Cost.), poiché il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale
spettante a ciascun dipendente dell’organo non potrebbe risultare del tutto
sacrificato, pur se posto in bilanciamento con la garanzia costituzionale di
autonomia del Presidente della Repubblica.
La Corte di cassazione ravvisa inoltre,
nelle disposizioni impugnate, la violazione del divieto di istituzione di
giudici speciali, previsto dall’art. 102, secondo comma, Cost. e dalla VI disposizione transitoria e finale, ai sensi della
quale, entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, si sarebbe
dovuto procedere alla revisione degli organi speciali di giurisdizione
all’epoca esistenti. Assume infatti che il Collegio giudicante di primo grado
ed il Collegio d’appello, quali giudici delle controversie dei dipendenti del
Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, previsti dai ricordati
decreti presidenziali, si
porrebbero, rispetto alla giurisdizione ordinaria, appunto come giudici
speciali, illegittimamente istituiti dopo l’entrata in vigore della
Costituzione.
In via subordinata, la ricorrente osserva
che, ove si ritenesse legittima la configurazione degli organi di giustizia
interna della Presidenza della Repubblica come giudici speciali, rileverebbe
comunque la preclusione dell’accesso al sindacato di legittimità nella forma
del ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., e
dell’art. 360, quarto comma, del codice di procedura civile, con conseguente
ingiustificato trattamento differenziato (art. 3, primo comma, Cost.) dei
dipendenti della Presidenza della Repubblica rispetto agli altri dipendenti
pubblici. E chiede, dunque, che questa Corte, accogliendo il conflitto, affermi
la possibilità di esperire il ricorso straordinario per cassazione avverso le
decisioni in ultimo grado, o in grado unico, degli organi di giustizia interna
della Presidenza della Repubblica.
In conclusione, i dubbi relativi alla
compatibilità con la Costituzione delle disposizioni regolamentari in tema di
autodichia – e soprattutto la denunciata lesione del diritto alla
tutela giurisdizionale in capo ai dipendenti del Segretariato generale della
Presidenza della Repubblica – si risolverebbero, per la ricorrente, in una
invasione o turbativa del potere giurisdizionale della Corte di cassazione, la
quale non potrebbe svolgere il sindacato di legittimità domandatole dai
ricorrenti.
3.– I ricorsi per
conflitto di attribuzione, proposti dalla Corte di cassazione, sezioni unite
civili, rispettivamente nei confronti del Senato della Repubblica e del
Presidente della Repubblica, hanno entrambi ad oggetto gli atti normativi con
cui gli organi costituzionali in questione hanno disciplinato le controversie
con i propri dipendenti, prevedendo che la decisione di queste sia affidata ad
organi interni. Ed entrambi i ricorsi chiedono a questa Corte di pronunciarsi
sul fondamento e sull’esatta delimitazione dei poteri di autodichia dei due
organi costituzionali.
Poiché i termini dei
conflitti sono largamente coincidenti, devono essere riuniti e decisi con unica
sentenza (sentenza
n. 129 del 1981).
4.– In via preliminare, deve essere
dichiarato ammissibile l’intervento spiegato – nel giudizio iscritto al reg. confl. pot. n. 1 del 2015 – da P. L., parte ricorrente nel
giudizio instaurato innanzi alla Corte di cassazione.
Nei giudizi per conflitto di attribuzione non è, di norma, ammesso
l’intervento di soggetti diversi da quelli legittimati a promuovere il
conflitto o a resistervi. Tale regola, tuttavia, non opera quando la pronuncia
resa nel giudizio costituzionale potrebbe precludere la tutela giudiziaria
della situazione giuridica soggettiva vantata dall’interveniente (da ultimo, sentenze n. 52 del
2016, n. 144
del 2015, n.
222 e n. 221
del 2014). Tale è la situazione di P. L. nel giudizio in esame, poiché il
rigetto del ricorso impedirebbe all’interveniente di agire innanzi alla
giurisdizione ordinaria a tutela di un proprio diritto soggettivo: è quindi
necessario che P. L. sia ammesso a far valere le proprie ragioni davanti a
questa Corte.
5.– Va inoltre confermata, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953,
n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’ammissibilità dei conflitti sollevati dalla Corte di cassazione
– già dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con
le ordinanze n.
137 e n. 138
del 2015 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.
5.1.– Con riguardo al profilo soggettivo, deve essere ribadita la
legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte di un conflitto tra
poteri dello Stato, a fronte della costante giurisprudenza di questa Corte, che
tale legittimazione riconosce ai singoli organi giurisdizionali, in quanto
competenti, in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione, a
dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle proprie funzioni, la volontà
del potere cui appartengono (ex multis, con specifico riferimento alla legittimazione
della Corte di cassazione, sentenze n. 29
e n. 24 del 2014,
n. 320 del 2013
e n. 333 del
2011).
Né sussistono dubbi, in base alla costante giurisprudenza costituzionale,
in ordine alla qualificazione come poteri dello Stato del Senato della
Repubblica (ex multis,
ordinanza n. 139
del 2016) e del Presidente della Repubblica (ex multis, sentenza n. 1 del
2013).
5.2.– L’ammissibilità dei conflitti deve
essere confermata anche sotto il profilo oggettivo, in quanto entrambe le
ordinanze prospettano un conflitto «per la delimitazione della sfera di
attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali» (art. 37,
primo comma, della legge n. 87 del 1953).
Sul punto, l’Avvocatura generale dello
Stato eccepisce, in relazione ad entrambi i conflitti, che la prospettazione
della Corte di cassazione si fonderebbe su un’interpretazione errata della sentenza n. 120 del
2014 di questa Corte. Ad avviso dell’Avvocatura, attraverso lo strumento del
conflitto, non potrebbe essere posto in discussione il potere normativo
mediante il quale sono istituiti gli organi di giustizia interna, ma solo – per
il tramite dell’impugnazione di singoli «atti lesivi di diritti
costituzionalmente inviolabili» – il suo esatto dimensionamento, il suo
corretto esercizio, la sua proporzionalità «rispetto alle prerogative di altri
organi depositari dei valori del sistema (separazione dei poteri; tutela dei
diritti fondamentali)», nonché la «rispondenza al criterio del nesso
funzionale», rispetto all’autonomia delle Camere e del Presidente della
Repubblica, della decisione della singola controversia di lavoro assunta dagli
organi interni. In caso contrario, si realizzerebbe un’indebita commistione tra
i due tipi di giudizi, quello di legittimità costituzionale e quello sui
conflitti tra poteri, poiché sarebbe invocata una pronuncia relativa a profili,
peraltro già vagliati in sede di giudizio di legittimità costituzionale, che
esulano dall’ambito oggettivo di un conflitto.
L’eccezione non è fondata.
I singoli atti applicativi della fonte di
autonomia non sono che conseguenza della previsione contenuta in quella fonte,
che attribuisce ad organi interni la decisione sulle controversie di lavoro dei
dipendenti degli organi costituzionali in questione; e la ricorrente ritiene
lesiva della sua sfera di attribuzioni costituzionali la stessa approvazione di
quelle fonti. Pertanto, oggetto di entrambi i conflitti sono tali fonti di
autonomia, in quanto altererebbero, a danno delle attribuzioni della
giurisdizione di legittimità, nella prospettazione della ricorrente, l’ordine
costituzionale delle competenze.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
si tratta di fonti non sindacabili nel giudizio di legittimità costituzionale
in via incidentale (sentenze n. 120 del
2014 e n.
154 del 1985). Questa stessa giurisprudenza ha tuttavia riconosciuto che tali
fonti sono suscettibili di dar luogo a un conflitto tra poteri se ledono la
sfera di attribuzione di un altro organo costituzionale.
I conflitti in esame sono pertanto
ammissibili, perché la Corte di cassazione – sia pure sottolineando
particolarmente l’asserita lesione, da parte degli atti impugnati, di diritti
fondamentali delle parti private – lamenta che la fonte di autonomia avrebbe
illegittimamente sottratto alla Corte di cassazione quote di potere
giurisdizionale.
Devono essere rigettate anche le ulteriori eccezioni di inammissibilità
prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato nelle memorie depositate in
prossimità dell’udienza pubblica, relative all’asserita contraddittorietà dei petita contenuti
negli atti introduttivi. Infatti, tali asserite contraddittorietà involgono
profili di merito, da apprezzare unitamente a quest’ultimo.
6.– Va infine precisato, sempre in via preliminare,
che questa Corte, nel giudizio per conflitto tra poteri dello Stato, non è
chiamata a decidere singole questioni di legittimità costituzionale di atti
normativi, sollevate in relazione a specifici parametri costituzionali, bensì
ad assicurare l’ordine costituzionale delle competenze tra gli organi in
conflitto. Le censure mosse dalla ricorrente in relazione alla violazione di
diritti individuali, ovvero in ordine alla lesione di specifici parametri
costituzionali, devono essere valutate alla luce del tipo di giudizio
instaurato innanzi a questa Corte, preordinato, appunto, a verificare se
competa al Senato della Repubblica e al Presidente della Repubblica approvare
norme che attribuiscano ad organi interni la cognizione delle controversie
instaurate dai propri dipendenti, sottraendole alla giurisdizione e, dunque,
ledendone la sfera di attribuzione.
Pertanto, pur lamentando la ricorrente, in entrambi i ricorsi, la lesione
di plurimi parametri costituzionali e, anzitutto, dell’art. 24 Cost. –
essenzialmente nella prospettiva della spettanza, ai ricorrenti nei giudizi a quibus, del
diritto individuale di azione – ciò che conta, ai fini del presente giudizio
per conflitto, è che la medesima ricorrente abbia avuto cura di motivare la
ridondanza di tali asserite lesioni sulla propria sfera di attribuzioni
costituzionali: ed è sull’allegata violazione di tale sfera che questa Corte è
chiamata a pronunciarsi.
7. – Entrambi i ricorsi non sono fondati.
7.1.–
L’autodichia – che viene ora in rilievo come potestà degli organi costituzionali di
decidere attraverso organi interni le controversie che attengano allo stato e
alla carriera giuridica ed economica dei loro dipendenti, applicando la
disciplina normativa che gli stessi organi si sono dati in materia – costituisce manifestazione
tradizionale della sfera di autonomia riconosciuta agli organi costituzionali,
a quest’ultima strettamente legata nella concreta esperienza costituzionale.
Questa Corte deve tener conto della circostanza per cui l’autodichia è
stata ritenuta dagli organi costituzionali chiamati in giudizio – sulla base di
una risalente tradizione per le Camere, in virtù di più recenti orientamenti
per il Presidente della Repubblica – una delle condizioni per il dispiegarsi
della propria autonomia e, perciò, per il libero ed efficiente svolgimento
delle proprie funzioni. Alla luce di tale circostanza, è dunque qui in discussione
se le deroghe al diritto comune che l’autodichia implica – in particolare, la
sottrazione alla giurisdizione comune delle controversie tra gli organi in
questione e i loro dipendenti – violino l’ordine costituzionale delle
competenze.
7.2.– Come è noto, l’autonomia che la Costituzione riconosce agli organi
costituzionali – per quel che qui interessa, Camere e Presidente della Repubblica – si manifesta, innanzitutto, sul
piano normativo. La Costituzione ne ragiona espressamente solo in riferimento
alle Camere, conferendo a ciascuna di esse il potere di darsi un regolamento
(art. 64 Cost.). Questa Corte ha tuttavia già riconosciuto che anche i
regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica debbono considerarsi
sorretti da un implicito fondamento costituzionale, conferendo alla legge che
li prevede (legge 9 agosto 1948, n. 1077, recante «Determinazione dell’assegno
e della dotazione del Presidente della Repubblica e istituzione del
Segretariato generale della Presidenza della Repubblica») un carattere
meramente ricognitivo (sentenza n. 129 del
1981).
La giurisprudenza costituzionale ha inoltre avuto modo di definire i
contorni dell’autonomia normativa che la Costituzione così assegna tanto alle
Camere, quanto al Presidente della Repubblica. In relazione alle Camere, questa
Corte ha affermato che l’autonomia in parola non attiene alla sola disciplina
del procedimento legislativo, per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione,
ma riguarda anche l’organizzazione interna (sentenza n. 120 del
2014). In relazione al Presidente della Repubblica, essa ha evidenziato che
tale organo necessita di un proprio apparato organizzativo, non solo per
amministrare i beni rientranti nella dotazione presidenziale, ma anche per
consentire un libero ed efficiente esercizio delle proprie funzioni, garantendo
in tal modo la non dipendenza del Presidente rispetto ad altri poteri dello
Stato (sentenza
n. 129 del 1981).
Riferendosi ad entrambi gli organi, questa Corte ha in definitiva chiarito
che, attraverso la potestà normativa in parola, gli organi costituzionali in
questione sono messi nella condizione di provvedere alla «produzione di
apposite norme giuridiche, disciplinanti l’assetto ed il funzionamento dei loro
apparati serventi» (sentenza n. 129 del
1981).
Così, l’autonomia normativa logicamente investe anche gli aspetti
organizzativi, ricomprendendovi ciò che riguarda il funzionamento degli
apparati amministrativi “serventi”, che consentono agli organi costituzionali
di adempiere liberamente, e in modo efficiente, alle proprie funzioni
costituzionali.
Su questo stesso fondamento poggia la potestà, riconosciuta agli organi
costituzionali, di approvare norme relative al rapporto di lavoro con i propri
dipendenti: infatti, il buon esercizio delle alte funzioni costituzionali
attribuite agli organi in questione dipende in misura decisiva dalle modalità
con le quali è selezionato, normativamente disciplinato, organizzato e gestito
il personale.
D’altra parte, l’autonomia normativa qui in questione ha un fondamento che
ne rappresenta anche il confine: giacché, se è consentito agli organi
costituzionali disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, non
spetta invece loro, in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa,
né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare
agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne
coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie
relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle
amministrazioni degli organi costituzionali). Del resto, queste ultime
controversie, pur potendo avere ad oggetto rapporti non estranei all’esercizio
delle funzioni dell’organo costituzionale, non riguardano in principio
questioni puramente interne ad esso e non potrebbero perciò essere sottratte
alla giurisdizione comune.
7.3.– La giurisprudenza costituzionale ha già riconosciuto che l’autonomia degli
organi costituzionali «non si
esaurisce nella normazione, bensì comprende – coerentemente – il momento
applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta
adozione delle misure atte ad assicurarne l’osservanza» (sentenza n. 129 del
1981, e, nello stesso senso, anche sentenze n. 120 del
2014 e n.
379 del 1996). Tale momento applicativo, ossia proprio l’autodichia di cui
qui si discute, costituisce dunque uno svolgimento dell’autonomia normativa che
la Costituzione riconosce esplicitamente o implicitamente alle Camere e al
Presidente della Repubblica.
Tutto ciò vale necessariamente per ciò che
attiene alla diretta disciplina delle funzioni costituzionali primarie
attribuite agli organi di vertice del sistema: si pensi, ad esempio, alle
modalità di voto nelle Camere, soggette non solo all’esaustiva capacità qualificatoria del regolamento parlamentare, con esclusione
di qualunque potestà definitoria alternativa da parte del diritto comune, ma
anche sottratte a poteri d’accertamento e d’interpretazione “esterni”, in
particolare dell’autorità giudiziaria (sentenza n. 379 del
1996). Ma ciò vale anche per l’interpretazione e l’applicazione della
disciplina del rapporto di lavoro, in occasione di controversie che oppongano i
dipendenti all’organo costituzionale (nel nostro caso, le Camere e il
Presidente della Repubblica) presso il quale prestano servizio.
In altri termini, le Camere e il
Presidente della Repubblica hanno provveduto a disciplinare, attraverso le
fonti di autonomia, il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, poiché hanno
ritenuto tale scelta funzionale alla più completa garanzia della propria
autonomia. La conseguente riserva agli organi di autodichia
dell’interpretazione e dell’applicazione di tali fonti non comporta
un’alterazione dell’ordine costituzionale delle competenze e, in particolare,
una lesione delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria ricorrente:
costituisce, invece, il razionale completamento dell’autonomia organizzativa
degli organi costituzionali in questione, in relazione ai loro apparati
serventi, la cui disciplina e gestione viene in tal modo sottratta a qualunque
ingerenza esterna.
In questa direzione va dunque sciolta la
riserva esplicitamente formulata nella sentenza n. 120 del
2014 di questa Corte, che definiva «questione controversa» il confine e il
fondamento dell’autodichia: in tanto quest’ultima non è lesiva di attribuzioni
costituzionali altrui, in quanto (e solo in quanto) riguardi i rapporti di
lavoro dei dipendenti.
D’altra parte, ammettere che gli organi
costituzionali possano, in forza dell’autonomia loro riconosciuta, regolare da
sé i rapporti con il proprio personale, per poi consentire che siano gli organi
della giurisdizione comune ad interpretare ed applicare tale speciale
disciplina, significherebbe dimezzare quella stessa autonomia che si è inteso
garantire.
7.4.– Gli organi di autodichia sono dunque
chiamati a decidere sulle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti in
luogo dell’autorità giudiziaria “comune”.
Ciò significa, in primo luogo, che la
tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti non è assente, come
lamenta la ricorrente.
A fronte di situazioni nelle quali tale tutela
risultava effettivamente inesistente, questa Corte ha riconosciuto, e non può
che ribadire qui, che la “grande regola” del diritto al giudice e alla tutela
giurisdizionale effettiva dei propri diritti, in quanto scelta che appartiene
ai grandi principi di civiltà del tempo presente, non può conoscere eccezioni (sentenza n. 238 del
2014).
Nel caso in esame, tuttavia, la tutela
delle posizioni giuridiche dei dipendenti, nelle controversie che li oppongano
all’organo costituzionale, risulta assicurata per il tramite dell’istituzione
di organi interni e procedure di garanzia variamente conformate, in un contesto
che al tempo stesso consente che l’interpretazione e l’applicazione della specifica
normativa approvata in materia dagli organi costituzionali sia sottratta ad
ingerenze esterne.
La tutela dei dipendenti è quindi
assicurata non già attraverso un giudice speciale ex art. 102 Cost., ma mediante organi
interni non appartenenti all’organizzazione giudiziaria, in tanto giustificati
in quanto finalizzati alla migliore garanzia dell’autonomia dell’organo
costituzionale.
L’affidamento a collegi interni del
compito di interpretare e applicare le norme relative al rapporto di lavoro dei
dipendenti con gli organi costituzionali di cui si tratta, nonché la
sottrazione delle decisioni di tali collegi al controllo della giurisdizione
comune è, in definitiva, un riflesso dell’autonomia degli stessi organi
costituzionali.
Non essendo stati configurati gli organi
di autodichia quali giudici speciali, avverso le loro decisioni non sarebbe
neppure configurabile – come richiesto in via subordinata dalla ricorrente – il
ricorso ex art. 111, settimo comma,
Cost.
In secondo luogo, ma è quel che più conta ai fini del riconoscimento
dell’esistenza di una tutela effettiva, deve sottolinearsi la circostanza che
le fonti interne approvate dalle Camere e dal Presidente della Repubblica hanno
dato vita ad organi di autodichia i quali, benché “interni” ed estranei
all’organizzazione della giurisdizione, risultano costituiti secondo regole
volte a garantire la loro indipendenza ed imparzialità, come del resto, in
relazione alla funzione del giudicare, impongono i principi costituzionali
ricavabili dagli artt. 3, 24, 101 e 111 Cost. e come ha richiesto la Corte
europea dei diritti dell’uomo, in particolare nella sentenza 28 aprile 2009,
Savino e altri contro Italia. In
particolare, le fonti di autonomia delle Camere assicurano attualmente idonee
incompatibilità, volte ad impedire che il medesimo soggetto possa
contemporaneamente far parte dell’organo amministrativo che assume i
provvedimenti relativi al personale (Consiglio di Presidenza del Senato e Ufficio
di Presidenza della Camera) e degli organi di autodichia in primo e secondo
grado. Inoltre, pur prevedendo che i componenti di tali ultimi organi siano
scelti in larga parte fra i parlamentari, le medesime fonti richiedono che
costoro possiedano determinate competenze tecniche, sul corretto presupposto
che la loro qualificazione professionale possa favorire un esercizio
indipendente della funzione (sentenza n. 177 del
1973).
Per parte sua, il Presidente della Repubblica ha istituito organi di primo
e secondo grado, composti solo da magistrati, nominati con suo decreto, su
proposta del Segretario generale, previa designazione dei Presidenti dei
rispettivi organi giudiziari.
Né è da trascurare che, presso entrambi gli organi costituzionali, i
giudizi si svolgono, in primo e in secondo grado, secondo moduli procedimentali
di natura sostanzialmente giurisdizionale, idonei a garantire il diritto di
difesa e un effettivo contraddittorio.
Tutto ciò ulteriormente conferma che la deroga alla giurisdizione qui in
discussione, di cui costituisce riflesso la connessa limitazione del diritto al
giudice, non si risolve in un’assenza di tutela. Tale limitazione, infatti,
risulta compensata dall’esistenza di rimedi interni affidati ad organi che, pur
inseriti nell’ambito delle amministrazioni in causa, garantiscono, quanto a
modalità di nomina e competenze, che la decisione delle controversie in parola
sia assunta nel rispetto del principio d’imparzialità, e al tempo stesso
assicurano una competenza specializzata nella decisione di controversie che
presentano significativi elementi di specialità (specialità riconosciuta dalla
stessa parte privata intervenuta in giudizio a sostegno dell’accoglimento del conflitto).
Si può quindi affermare che gli organi di autodichia sono chiamati a
dirimere, in posizione super partes, controversie tra l’amministrazione dell’organo
costituzionale e i suoi dipendenti secondo moduli procedimentali di carattere
giurisdizionale, e dunque a svolgere funzioni obiettivamente giurisdizionali
per la decisione delle controversie in cui siano coinvolte le posizioni
giuridiche soggettive dei dipendenti. Non a caso, questa Corte ha già
riconosciuto che il carattere oggettivamente giurisdizionale dell’attività
degli organi di autodichia, posti in posizione d’indipendenza, li rende giudici
ai fini della loro legittimazione a sollevare questioni di legittimità
costituzionale delle norme di legge cui le fonti di autonomia effettuino rinvio
(sentenza n. 213
del 2017; in precedenza, per la qualificazione di situazioni analoghe, sentenze n. 376 del
2001 e n. 12
del 1971).
8.– Per tutto quanto affermato,
l’approvazione, da parte del Senato della Repubblica e del Presidente della
Repubblica, degli atti normativi impugnati non ha determinato una lesione della
sfera di attribuzioni della ricorrente Corte di cassazione, sezioni unite
civili. Vanno perciò rigettati i ricorsi per conflitto da questa proposti.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara che spettava al Senato della Repubblica e
al Presidente della Repubblica approvare gli atti impugnati con le ordinanze di
cui in epigrafe, nelle parti in cui riservano ad organi di autodichia la
decisione delle controversie di lavoro instaurate dai propri dipendenti.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 dicembre 2017.