Sentenza n. 231 del 1975
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SENTENZA N. 231

ANNO 1975

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO,

          Prof. Antonino DE STEFANO

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti, promossi con le ordinanze emesse il 18 aprile 1975 dal tribunale di Torino (II sezione penale) ed il 16 aprile 1975 dal tribunale di Milano (I sezione penale), rispettivamente iscritte ai nn. 15 e 16 del registro ricorsi 1975, per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito del rifiuto, opposto dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, di trasmettere documenti richiesti dai predetti tribunali.

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia;

udito nell'udienza pubblica dell'8 ottobre 1975 il Giudice relatore Vezio Crisafulli;

uditi gli avvocati Aldo Sandulli e Gian Domenico Pisapia, per la Commissione parlamentare, e gli avvocati Alberto Dall'Ora e Giovanni Bovio, per il tribunale di Milano.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa il 18 aprile 1975 nel corso di un procedimento penale a carico di Pantaleone Michele e Einaudi Giulio, il tribunale di Torino sollevava conflitto di attribuzione ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nei confronti del potere legislativo, assumendo che la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, istituita con legge 20 dicembre 1962, n. 1720 - dopo aver aderito solo in minima parte alle richieste, avanzate con precedenti ordinanze dallo stesso tribunale, di copie di documenti ritenuti necessari ai fini della indagine - ad una successiva richiesta, disposta con ordinanza 31 gennaio 1975, della predetta documentazione, ritenuta ormai non più segreta a seguito della pubblicazione della "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso al termine della V Legislatura", aveva ribadito il proprio rifiuto con una lettera in data 21 febbraio 1975.

2. - I fatti da cui ha tratto origine il procedimento penale risalgono al 1969 quando l'editore Giulio Einaudi pubblicava il libro di Michele Pantaleone "Antimafia occasione mancata" nel quale l'attore attribuisce a Bernardo Canzoneri, Gaspare Cusenza, Giovanni Gioia e Orazio Ruisi la commissione di vari reati.

A seguito delle querele sporte dalle persone sopra menzionate, nell'aprile e nel maggio 1969 il Procuratore della Repubblica di Torino citava a giudizio direttissimo il Pantaleone e l'Einaudi per rispondere dei reati di cui agli artt. 81, 110-595 del codice penale e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.

Nel corso del dibattimento ed in particolare nelle diverse udienze tenutesi nel 1973, la difesa degli imputati, cui si é generalmente associato il pubblico ministero, chiedeva l'acquisizione agli atti di documenti in possesso della Commissione antimafia ed il tribunale provvedeva emettendo le relative ordinanze.

Seguivano le risposte in gran parte negative della Commissione, cui peraltro il tribunale continuò a chiedere oltre la documentazione non ricevuta, anche altri atti che lo svolgimento del processo faceva, via via, apparire rilevanti ai fini dell'accertamento della verità.

Perdurando il diniego della Commissione, espresso definitivamente con la citata lettera del 21 febbraio 1975, alla udienza del 18 aprile 1975 la difesa degli imputati sollecitava il tribunale a sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Il pubblico ministero si associava alla richiesta e, in conformità, il tribunale emetteva la nota ordinanza del 18 aprile 1975.

3. - Con altra ordinanza, emessa il 16 aprile 1975 nel corso di un procedimento penale a carico di Villani Silvano, il tribunale di Milano sollevava analogo conflitto nei confronti della Commissione antimafia, denunciando la violazione degli artt. 24, 101 e seguenti della Costituzione.

Il Villani aveva pubblicato sul Corriere della Sera del 4 settembre 1971 un articolo intitolato "La voce della mafia al telefono", nel quale affermava essere Italo Jalongo un pregiudicato per truffa, un mafioso e come tale aver fatto diversi favori a personaggi importanti. Lo Jalongo sporse querela per diffamazione a mezzo stampa concedendo la più ampia facoltà di prova. Il 2 aprile 1973 il Villani veniva citato a giudizio direttissimo dal Procuratore della Repubblica di Milano sotto l'imputazione del reato di cui agli articoli 595-81 del codice penale e 13 della legge n. 47 del 1948, per le affermazioni contenute nell'articolo suddetto.

Dall'8 maggio 1973 si sono susseguite le udienze dibattimentali spesso rinviate a causa della pendenza delle trattative per la remissione della querela. All'udienza del 22 aprile 1974, avendo la difesa del Villani chiesto che venissero acquisiti atti in possesso della Commissione antimafia ed essendosi associato alla richiesta il pubblico ministero, il tribunale in pari data emetteva la relativa ordinanza. Pervenuta la comunicazione in data 6 dicembre 1974, con la quale la Commissione antimafia rifiutava gli atti richiesti, il tribunale, in data 12 febbraio 1974, emetteva nuova ordinanza di richiesta degli atti in questione, replicando nelle premesse alle argomentazioni della Commissione, e affermando, tra l'altro, che la prova liberatoria spetta all'imputato o per richiesta del querelante o a norma dell'art. 51 del codice penale in relazione agli artt. 21 e 24 della Costituzione.

Con successiva nota del 26 marzo 1975 la Commissionein risposta all'ordinanza 12 febbraio, ribadiva il rifiuto di esibire i documenti, insistendo sul corretto significato da attribuire alla "pubblicazione" disposta al termine della V legislatura.

All'udienza del 16 aprile la difesa del Villani chiedeva al tribunale di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale nei confronti dell'antimafia. Il pubblico ministero, dal canto suo, si associava alla richiesta "facendola propria", ed il tribunale emetteva la nota ordinanza 16 aprile 1975.

4. - Con ordinanze nn. 228 e 229 dell'8 luglio 1975 la Corte costituzionale, a norma dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, dichiarava l'ammissibilità dei ricorsi per conflitto di attribuzione proposti rispettivamente dal tribunale di Torino e dal tribunale di Milano, disponendo altresì che: a) la cancelleria della Corte desse immediata comunicazione al ricorrente della ordinanza; b) che a cura di ciascun ricorrente l'ordinanza e il ricorso venissero notificati alla Commissione antimafia in persona del suo Presidente entro il termine di trenta giorni dalla data di comunicazione di cui sopra.

A seguito della comunicazione e delle notificazioni prescritte, la Commissione antimafia si é costituita nei due conflitti con deduzioni dell'avv. Aldo Sandulli e dell'avv. Gian Domenico Pisapia depositate il 7 agosto 1975, cui hanno fatto seguito memorie aggiuntive depositate in data 25 settembre 1975.

A loro volta i tribunali di Torino e di Milano provvedevano al deposito dei ricorsi a norma dell'art. 26, terzo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale rispettivamente in data 20 agosto e 8 agosto 1975. Il tribunale di Milano depositava altresì memoria e successivamente conferiva mandato di rappresentarlo in udienza agli avvocati Giovanni Bovio e Alberto Dall'Ora.

Nella pubblica udienza i difensori delle parti hanno ribadito le rispettive tesi e conclusioni.

Considerato in diritto

1. - I giudizi per conflitto di attribuzione, promossi con le due ordinanze dei tribunali di Torino e di Milano nei confronti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della "mafia", a seguito del rifiuto da questa opposto di trasmettere ai tribunali medesimi, che ne avevano fatto formale richiesta, determinati atti e documenti in suo possesso, ritenuti dai giudici predetti necessari ai fini dell'accertamento della verità nei rispettivi processi, involgono sostanzialmente le stesse questioni e vanno perciò decisi con unica sentenza.

2. - La difesa della Commissione eccepisce pregiudizialmente l'inammissibilità dei conflitti, sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo. Deduce, infatti, per un verso, che né i tribunali ricorrenti né essa Commissione sarebbero legittimati - rispettivamente - a sollevare i conflitti in oggetto ed a resistervi, non essendo organi "competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono", come prescritto dall'art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e che mancherebbe altresì, per altro verso, la materia di conflitto e difetterebbe nei tribunali l'interesse a ricorrere, perché gli atti e documenti, cui si riferivano le loro richieste e i dinieghi della Commissione, o non sarebbero validamente utilizzabili come mezzi di prova nei processi in corso in sede dibattimentale o avrebbero potuto e potrebbero essere richiesti ai soggetti, pubbliche autorità e privati, che li avevano autonomamente formati e da cui provenivano.

Gli argomenti addotti, peraltro, non sono tali da indurre la Corte a mutare l'avviso già espresso in linea di prima delibazione nelle ordinanze nn. 228 e 229 del corrente anno, alla motivazione delle quali, con le ulteriori precisazioni che seguono, si fa quindi espresso rinvio.

3. - Più particolarmente, sotto il profilo soggettivo, riecheggiando una nota tesi dottrinale che, nell'interpretazione del primo comma dell'art. 37, tende a distinguere gli organi che possono entrare tra loro in conflitto da quelli legittimati al relativo giudizio (i quali ultimi sarebbero unicamente gli organi supremi dei poteri cui i primi appartengono), si assume che, nella specie, i conflitti avrebbero dovuto essere proposti dalla Corte di cassazione, anziché dai tribunali direttamente interessati, e nei confronti delle Camere, anziché della Commissione d'inchiesta. Senonché, a prescindere dalle difficoltà che all'accoglimento, in generale, di siffatta tesi, derivano dallo stesso testo dell'art. 37, dove parlandosi di "conflitto" si allude all'oggetto del giudizio, e non viceversa al giudizio sul conflitto, e dove pertanto il riferimento agli organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri va inteso come rivolto a designare gli organi confliggenti, e non soltanto quelli legittimati ad processum, é significativo rilevare che la difesa della Commissione esplicitamente ammette - da un lato - che alle Commissioni d'inchiesta deve riconoscersi (ed é positivamente riconosciuta) un'amplissima autonomia, tanto più quando, come nel caso in oggetto, siano istituite con legge e senza prefissione di termini, quindi destinati a durare oltre le singole legislature; ed altresì ammette - d'altro lato - che attualmente l'ordinamento non predispone (almeno, "espressamente") i congegni attraverso i quali l'organo giudiziario "minore" potrebbe sollecitare l'intervento della Corte di cassazione, la quale a sua volta (si aggiunge) non può essere considerata giuridicamente come "superiore" rispetto agli altri, senza dire delle perplessità (anch'esse accennate, ma non risolte, nelle deduzioni di costituzione della Commissione) che la struttura "composita" della stessa Corte di cassazione farebbe sorgere quando si volesse più precisamente stabilire in quale delle sue articolazioni (Primo Presidente, Sezioni Unite, ecc.) dovrebbe ritenersi concentrata la competenza a proporre conflitto.

Ma tutte queste ammissioni, riserve e perplessità finiscono per avvalorare indirettamente, anche sul terreno pratico, le conclusioni cui la Corte ebbe a pervenire nelle ordinanze numeri 228 e 229, evidenziando - da un lato - il carattere "diffuso" che tipicamente contrassegna il potere giudiziario, ciascuna componente del quale é idonea a porre in essere pronunce sulle quali la Corte di cassazione non sarebbe in grado di esercitare il proprio sindacato, se non nei casi previsti dai codici di rito e (con la sola eccezione di cui all'art. 41, primo comma, cod. proc. civ.) sempre dietro iniziativa di chi sia parte in giudizio; nonché - d'altro lato - l'indipendenza di cui godono, durante il corso del loro mandato, le Commissioni parlamentari d'inchiesta, anche nei confronti delle Camere, le quali, come non potrebbero procedere esse stesse, direttamente, ad inchieste ex art. 82 Cost., così nemmeno sono autorizzate ad interferire nelle deliberazioni adottate dalle Commissioni medesime per il più proficuo svolgimento dei loro lavori.

É da soggiungere che l'art. 37 della legge n. 87, nel definire i conflitti tra poteri la cui risoluzione spetta alla Corte costituzionale, non muove dal criterio della definitività degli atti che ne possono essere all'origine, ché anzi in tali conflitti (a differenza che in quelli tra Stato e Regioni o tra Regioni) un atto può addirittura mancare, essendo sufficiente a determinarli un mero comportamento, anche omissivo; ma designa gli organi legittimati a sollevarli ed a resistervi alla stregua della loro capacità ad impegnare l'intero potere. Né, in tale ordine di idee, ha riferimento agli organi che - in concreto - abbiano dichiarato definitivamente la volontà del potere, quanto invece agli organi a ciò "competenti", vale a dire che ne abbiano l'astratta possibilità.

Perde perciò consistenza il rilievo della difesa della Commissione, secondo cui, a norma dell'art. 200 cod. proc. pen., le ordinanze istruttorie dei tribunali ricorrenti, alle quali seguirono le risposte negative della Commissione, sarebbero state (e sarebbero), oltre che revocabili come ogni ordinanza, impugnabili unitamente alla sentenza di merito.

4. - É anche da disattendere l'eccezione di inammissibilità sotto il profilo oggettivo, per mancanza di materia di conflitto e carenza di interesse, che, peraltro, nella parte in cui accenna a distinguere tra le diverse specie di atti richiesti dai tribunali e rifiutati dalla Commissione, finisce per involgere questioni inerenti al merito della controversia, o comunque con questo strettamente connesse, sulle quali occorrerà soffermarsi in prosieguo.

 

Ferma restando tale riserva, può e deve essere ribadito che sussiste indubbiamente nei casi in esame materia di conflitto e interesse a sollevarlo, assumendosi dai tribunali ricorrenti che dal rifiuto illegittimamente opposto dalla Commissione risulterebbe menomata la sfera di attribuzioni ad essi garantita dalla Costituzione, per l'impedimento derivantene all'acquisizione delle prove ritenute necessarie per l'accertamento della verità.

Né può contestarsi che ogni valutazione sulla utilità e sulla valida utilizzabilità in giudizio dei mezzi di prova é di esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria procedente, sottraendosi pertanto a qualsiasi sindacato che non sia quello esplicabile dal giudice eventualmente adito in sede di gravame.

5. - Nel merito, la controversia concerne determinati atti e documenti dell'inchiesta antimafia, non inseriti negli Atti parlamentari (Documento n. XXIII-2, Septies, della V Legislatura) come allegati alla "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso al termine della V Legislatura", ivi pubblicata, ma specificatamente indicati nell'elenco, anch'esso allegato alla relazione predetta (n. 62), denominato "Indice analitico della documentazione esistente agli atti della Commissione". Ed il problema di fondo che si dibatte in entrambi i giudizi é, dunque, più precisamente, se la Commissione abbia l'obbligo giuridico di trasmettere all'autorità giudiziaria tali atti e documenti, potendo esimersene soltanto nei casi ed alle condizioni di cui all'art. 342 cod. proc. pen. (in relazione anche all'art. 352), ovvero se, in considerazione delle finalità di pubblico interesse cui é costituzionalmente preordinato il potere di inchiesta e delle prerogative di cui godono le Assemblee legislative ed i loro organi, nell'esercizio delle loro funzioni istituzionali (delle quali soltanto é questione nella specie e tra le quali certamente rientra la funzione ispettiva, esprimentesi tra l'altro attraverso le inchieste), sia da riconoscere alla Commissione predetta la facoltà di stabilire se e quali dei suoi atti e relativa documentazione debbano essere coperti da segreto, opponibile anche agli organi giudiziari.

La posizione "di assoluta indipendenza" del Parlamento, come di altri organi "ai vertici dello Stato", anche nei loro rapporti reciproci (sent. n. 143 del 1968), é stata più volte riaffermata da questa Corte (sent. n. 15 del 1969 e sent. numero 110 del 1970: quest'ultima, con particolare riferimento alle deroghe alla giurisdizione, ammissibili nei loro confronti pur se "sempre di stretta interpretazione"), che non ha mancato, in occasione del conflitto insorto tra la Commissione parlamentare inquirente per i giudizi di accusa e il giudice istruttore del tribunale di Roma, di sottolineare la necessità di contemperare "l'autonomia e l'indipendenza del potere giudiziario da ogni altro potere" con "l'indipendenza del potere politico rispetto ad ogni indebita ingerenza", anche da parte del potere giudiziario (sent. n. 13 del 1975).

Più analiticamente, l'indipendenza delle Camere (riflettentesi naturalmente sui loro organi) si articola, nella normativa direttamente dettata dal testo costituzionale, nell'autonomia organizzativa e normativa spettante a ciascuna di esse ("riserva di regolamento": art. 64, primo comma); nella loro esclusiva competenza alla convalida dei propri membri (art. 66); nella non responsabilità dei medesimi "per i voti dati e le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni" (art. 68, primo comma: immunità, sotto questo aspetto, assoluta, che, in omaggio al principio democratico rappresentativo, l'art. 122, ultimo comma, estende anche ai membri dei Consigli regionali), oltre che nella immunità, che può dirsi relativa, di cui al secondo comma del detto art. 68 (non proseguibilità dell'azione penale e divieto di arresto e perquisizione personale o domiciliare senza autorizzazione dell'Assemblea, fuori dei casi di flagrante delitto che comporti obbligatorietà di mandato di cattura).

Alle quali disposizioni, contenute nella Costituzione, si aggiungono poi, svolgendone ed applicandone i principi, quelle dei regolamenti parlamentari, tra cui sono specialmente da ricordare, ai fini che qui interessano, l'art. 62 del Regolamento della Camera e il corrispondente art. 69 del Regolamento del Senato, che attribuiscono ai rispettivi Presidenti l'esercizio dei poteri di polizia e la disposizione della forza pubblica nell'interno delle Assemblee: poiché da queste disposizioni, per lunga tradizione, si suole trarre la regola della cosi detta "immunità della sede" (valevole anche per gli altri supremi organi dello Stato) in forza della quale nessuna estranea autorità potrebbe far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al Parlamento ed ai suoi organi. Di guisa che, ove gli organi parlamentari non vi ottemperassero, sarebbe unicamente possibile provocare l'intervento di questa Corte, in sede di conflitto di attribuzione, cosi come precisamente é avvenuto nel caso in oggetto.

6. - Ma é soprattutto da rilevare che, fermo restando che il principio fondamentale in materia é quello della pubblicità degli atti parlamentari (art. 64, secondo comma, Cost.), é tuttavia rimesso alla valutazione delle Camere (e rientra nella autonomia costituzionale ad esse, come sopra accennato, garantita) di derogarvi in singoli casi, deliberando di riunirsi in seduta segreta (nella quale ipotesi, gli artt. 34, punto 3, Reg. Camera e 60, punto 4, Reg. Senato consentono che possano altresì stabilire di non farne stendere processo verbale). A sua volta, l'art. 72 Cost., nel terzo comma, demanda ai regolamenti parlamentari di determinare le forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni legislative: al che, codificando una prassi già formatasi sotto il vigore dei precedenti regolamenti, provvede ora l'art. 65 del Regolamento della Camera, disponendo che tale pubblicità sia assicurata "mediante resoconti pubblicati nel Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari", a cura del Segretario Generale. E del principio implicito in questa disposizione, espressamente dettata per le Commissioni legislative, ha fatto applicazione, nel caso in oggetto, la Commissione di inchiesta, cosi stabilendo nell'art. 1 del suo Regolamento interno del 31 luglio 1969 e nell'art. 1 del successivo Regolamento del 16 maggio 1973.

Sempre in tema di pubblicità, a parte per ora le disposizioni regolamentari che prevedono il segreto delle Commissioni "nell'interesse dello Stato" (art. 65, punto 3 , Reg. Camera, ed analogamente, seppure con formulazione più generica, parlando di "documenti, notizie o discussioni che interessano lo Stato", l'art 31, punto 3, Reg. Senato), sulle quali dovrà tornarsi subito appresso, mette conto rammentare in particolar modo quelle dettate per le indagini conoscitive esperite dalle Commissioni, cui viene data facoltà di decidere di non fare verbale né resoconto stenografico delle sedute a dette indagini dedicate (art. 144, punto 4, Reg. Camera, e art. 48, Reg. Senato): trattandosi evidentemente di un settore di attività parlamentare molto vicino a quello delle inchieste.

7. - Dal complesso dei principi e delle disposizioni richiamate nei precedenti nn. 5 e 6 si ricava, dunque, che le Commissioni parlamentari d'inchiesta, le quali, sostituendo necessariamente a norma dell'art. 82, primo comma, Cost. il plenum delle Camere, a buon diritto possono configurarsi come le stesse Camere nell'atto di procedere all'inchiesta, sono libere di organizzare i propri lavori, anche stabilendo - in tutto od in parte - il segreto delle attività da esse direttamente svolte e della documentazione risultante dalle indagini esperite: e ciò in funzione del conseguimento dei fini istituzionalmente ad esse propri, specificamente indicati, nel caso in oggetto, dall'art. 2 della legge 20 dicembre 1962, n. 1720, a termini del quale "La Commissione, esaminate la genesi e le caratteristiche del fenomeno della mafia, dovrà proporre le misure necessarie per reprimerne le manifestazioni ed eliminarne le cause".

Non vale in contrario l'argomento che l'ordinanza del tribunale di Milano vorrebbe trarre proprio dalle disposizioni dei regolamenti parlamentari, ricordate alla fine del punto precedente, relative al segreto "nell'interesse dello Stato", poiché tali disposizioni, che letteralmente non tanto consentono, quanto impongono, la segretezza di determinate sedute delle Commissioni, in realtà rimettono pur sempre all'apprezzamento politico delle stesse (sicuramente non sindacabile dall'Autorità giudiziaria) di verificare se e quando l'ipotesi prevista concretamente ricorra; e perciò, nella sostanza, lungi dall'intaccare i principi sopra enunciati, ne offrono indiretta conferma. Senza dire che la circostanza che, per particolari casi, sia prescritto un obbligo non basterebbe ad escludere, per ogni altro, una facoltà, che appare invece, secondo il già detto, insita nell'autonomia delle Camere e dei loro organi, e segnatamente delle Commissioni di inchiesta da esse istituite; per le quali ultime la segretezza, che può circondarne i lavori, é funzionalizzata al conseguimento dei fini alle medesime assegnati.

Ora, com'é riconosciuto, può ben dirsi, unanimemente dalla dottrina antica e recente, tali fini differiscono nettamente da quelli che caratterizzano le istruttorie delle autorità giudiziarie. Compito delle Commissioni parlamentari di inchiesta non é di "giudicare", ma solo di raccogliere notizie e dati necessari per l'esercizio delle funzioni delle Camere; esse non tendono a produrre, né le loro relazioni conclusive producono, alcuna modificazione giuridica (com'é invece proprio degli atti giurisdizionali), ma hanno semplicemente lo scopo di mettere a disposizione delle Assemblee tutti gli elementi utili affinché queste possano, con piena cognizione delle situazioni di fatto, deliberare la propria linea di condotta, sia promuovendo misure legislative, sia invitando il Governo a adottare, per quanto di sua competenza, i provvedimenti del caso. L'attività di inchiesta rientra, insomma, nella più lata nozione della funzione ispettiva delle Camere; muove da cause politiche ed ha finalità del pari politiche; né potrebbe rivolgersi ad accertare reati e connesse responsabilità di ordine penale, ché se così per avventura facesse, invaderebbe indebitamente la sfera di attribuzioni del potere giurisdizionale. E, ove nel corso delle indagini vengano a conoscenza di fatti che possano costituire reato, le Commissioni sono tenute a farne rapporto all'autorità giudiziaria, cosi come, nel caso in oggetto, la Commissione antimafia si é vincolata a fare con i propri regolamenti interni sopra citati, del 1969 e del 1973, e, stando a quanto affermato nella relazione, in pratica ha fatto.

Come sono diversi i fini, così differiscono o possono differire i mezzi di cui si valgono le Commissioni parlamentari d'inchiesta, rispetto a quelli tipici dell'autorità giudiziaria. Il secondo comma dell'art. 82 Cost. attribuisce, bensì, alle prime a gli stessi poteri", e prescrive a le stesse limitazioni", di quest'ultima, e ciò per consentire loro di superare, occorrendo, anche coercitivamente, gli ostacoli nei quali potrebbero scontrarsi nel loro operare. Ma le Commissioni restano libere di prescegliere modi di azione diversi, più duttili ed esenti da formalismi giuridici, facendo appello alla spontanea collaborazione dei cittadini e di pubblici funzionari, al contributo di studiosi, ricorrendo allo spoglio di giornali e riviste, e via dicendo. Come esattamente fu notato da una antica dottrina, le persone dalle Commissioni interrogate non depongono propriamente quali "testimoni", ma forniscono informazioni; e lo stesso é a dirsi delle relazioni varie che pubbliche autorità possono, su richiesta delle Commissioni, ad esse presentare con riferimento a determinate situazioni e circostanze ambientali, tra cui bene possono trovar posto anche stati d'animo e convincimenti diffusi, registrati per quel che sono, indipendentemente dalla loro fondatezza, da chi, per la sua particolare esperienza o per l'ufficio ricoperto, sia meglio in grado di averne diretta notizia.

Ma siffatti obiettivi e mezzi di azione, nella loro reciproca connessione, postulano logicamente che le Commissioni d'inchiesta abbiano il potere di opporre il segreto alle risultanze di volta in volta acquisite nel corso della loro indagine, libere rimanendo di derogarvi, quando non lo vietino altri principi, ogni qual volta non possano derivarne conseguenze tali da impedire o intralciare gravemente l'assolvimento del loro compito: specie per venire incontro a richieste provenienti da autorità giudiziarie, in uno spirito di doverosa collaborazione tra organi di poteri distinti e diversi, per fini di giustizia. In questo senso, il segreto delle Commissioni di inchiesta non corrisponde, a rigore, ai vari specifici tipi di segreto previsti dalle norme dei codici di diritto e procedura penale, ma può qualificarsi piuttosto, più genericamente, come un segreto funzionale, del quale spetta alle Commissioni medesime determinare la necessità ed i limiti. E non importa che, nella specie, la Commissione antimafia, nel suo ricordato regolamento interno del 1973, abbia ritenuto di affermare un "segreto istruttorio" e poi un "segreto di ufficio", ed a quest'ultimo abbia fatto riferimento nelle lettere di risposta ai tribunali ricorrenti, che stanno alle origini dei sollevati conflitti, adoperando anche circonlocuzioni e perifrasi non sempre necessarie, poiché quel che conta é la sostanza, e la sostanza é quella che emerge dalle considerazioni fin qui svolte.

Comunque, che la Commissione antimafia potesse opporre un segreto alle richieste delle autorità giudiziarie non viene contestato, se ben si guarda, dallo stesso tribunale di Torino, che, in un primo momento, nell'ordinanza 4 giugno 1973, dopo aver affermato in premessa che al Parlamento "unicamente spetta, nell'esercizio della discrezionalità politica, di stabilire e in quali limiti dare pubblicità agli atti" dell'inchiesta, invitava l'organo parlamentare al riesame "dell'opportunità di aderire alla richiesta" precedentemente avanzata, con riferimento alla documentazione "non pubblicata, pur se di essa vi é cenno nel testo delle relazioni". Mentre poi, nell'ordinanza-ricorso del 18 aprile 1975, il tribunale medesimo sollevava il conflitto, assumendo che con la intervenuta pubblicazione, nel 1972, della "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso, al termine della V Legislatura", sarebbe venuto meno il segreto per determinazione della stessa Commissione, per avere questa disposto di pubblicare tra gli allegati alla Relazione predetta l'indice analitico cui si é sopra accennato al punto 5.

Ma si tratta di un equivoco, nel quale d'altronde cade anche la difesa del tribunale di Milano, insistendo, sia pure in linea subordinata, su analoga tesi. Altro é, infatti, pubblicare una serie di documenti, quali appunto quelli di cui agli allegati da 1 a 61 uniti alla relazione presentata al termine della V Legislatura, altro pubblicare un indice di documenti tuttora detenuti dalla Commissione; altra cosa é esteriorizzare il contenuto di certi atti, altro limitarsi a renderne nota l'esistenza.

E poiché, come a suo luogo non si é mancato di rilevare, il contrasto tra Commissione e tribunali ricorrenti verte esclusivamente intorno a documenti inclusi nell'indice, rimangono ferme le conclusioni fin qui raggiunte, nel senso che la Commissione d'inchiesta disponeva e dispone, in funzione delle proprie finalità, del regime di pubblicità o di segretezza dei documenti in questione.

8. - Tali conclusioni, peraltro, come dovrebbe risultare implicito nel già detto, valgono limitatamente alla documentazione relativa ad accertamenti svolti o direttamente disposti dalla Commissione, oltre che alle discussioni che hanno avuto luogo nel corso delle sue sedute e alle valutazioni ed apprezzamenti in quella sede espressi, ma non divulgati attraverso le relazioni pubblicate, e sono logicamente estensibili ad esposti ed anonimi ad essa rivolti.

Le considerazioni che precedono quanto ai particolari metodi di indagine cui una Commissione d'inchiesta può ricorrere, alla natura confidenziale o comunque riservata che possono avere le informazioni ad essa fornite o da essa raccolte, delle quali non sempre la Commissione é in grado di accertare con sufficiente sicurezza la piena conformità al vero, giustificano, infatti, la eventuale segretezza dei risultati in tali forme acquisiti, e di questi soltanto, anche per non esporre quanti forniscono informazioni al rischio di conseguenze dannose. Ed é ovvio che anche la sola prospettiva di consimili rischi costituirebbe una remora non indifferente per gli interessati, minacciando di compromettere il conseguimento, non soltanto delle finalità della singola inchiesta, ma altresì, in prospettiva, di ogni possibile inchiesta futura, vanificando in definitiva il potere che l'art. 82 Cost. conferisce alle Camere.

9. - Entro l'ambito testé precisato, il limite che dal segreto funzionale delle Commissioni d'inchiesta (cui esse soltanto hanno facoltà di derogare) può derivare all'esercizio della funzione giurisdizionale al diritto di difesa delle parti, essenzialmente connaturato al suo vario esplicarsi, non può essere giudicato illegittimo.

A criteri analoghi si é ispirata la sentenza n. 13 del 1975, sopra citata, in tema di rapporti tra giurisdizione penale e potere politico; mentre, per quel che più particolarmente concerne il diritto di difesa garantito nell'art. 24 Cost., la Corte nella sua giurisprudenza, costantemente affermandone il carattere di diritto fondamentale, ha più volte avuto occasione di rilevare come non sia da escludere che esso abbia ad incontrare determinati limiti, necessari a contemperarne la tutela con quella pure spettante ad altri interessi costituzionalmente rilevanti; purché in ogni caso detti limiti "non siano di entità tale da comprometterne seriamente l'esercizio" (sent. n. 175 del 1970), o peggio da ridurlo ad un nome vano.

Il che non si verifica quando una Commissione d'inchiesta si attenga al criterio, nella specie adottato, come risulta dal resoconto della seduta del 16 novembre 1972, di indicare alle autorità che ad essa richiedono documenti coperti dal suo segreto "le fonti delle notizie raccolte... in modo che lé predette autorità siano poste in grado di svolgere in materia propri autonomi accertamenti".

Può aggiungersi, con specifico riguardo alla presente controversia, che non soltanto l'ampiezza delle relazioni già pubblicate e l'abbondanza della documentazione allegata, ma la stessa formulazione dell'indice, che costituisce, come accennato, un vero e proprio sommario, sono suscettibili di offrire ai tribunali ricorrenti una traccia tutt'altro che esigua per procedere essi stessi, ove lo ritengano, agli incombenti istruttori del caso, nei modi e nelle forme previste dal codice di rito.

10. - D'altro canto, non tutti i documenti nella specie richiesti dai tribunali ricorrenti e rifiutati dalla Commissione si riferiscono ad atti da questa formati o direttamente disposti ai propri fini e secondo i propri metodi di lavoro. Sono, infatti, tra essi ricompresi anche atti precostituiti da altre autorità o da enti pubblici, nell'esplicazione dei loro compiti istituzionali; come pure documenti privati e scritti anonimi.

Di questi ultimi, consistenti in un esposto rivolto alla Commissione da Michele Pantaleone nonché in lettere anonime aventi riguardo al medesimo, del pari indirizzate alla Commissione (doc. di cui al n. 846 dell'indice allegato alla relazione pubblicata nel 1972, nn. 2 e 3), si é già detto sopra, al punto 8 della motivazione, che debbono essere assimilati a quelli formati o disposti dalla Commissione, perché nessuna differenza sostanziale sussiste tra deposizioni o confidenze da questa raccolte ed esposti o lettere, anche se anonime, ad essa direttamente pervenuti. Non vi é, pertanto, obbligo di trasmetterli ai giudici richiedenti.

Tra gli altri atti che la Commissione semplicemente detiene, una considerazione a parte meritano quelli indicati ai nn. 787 e 788 dell'indice più volte citato, e precisamente i verbali di trascrizione delle intercettazioni telefoniche, nonché le trascrizioni dei relativi nastri magnetici, riferentisi all'apparecchio di Italo Jalongo, trasmessi dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Roma e dalla Questura di Roma.

Questi documenti, inerendo ad un procedimento penale in corso di istruttoria, erano e sono già a disposizione del potere giudiziario, complessivamente considerato, entro l'ambito del quale non mancano gli strumenti suscettibili di consentirne ai giudici che vi abbiano interesse l'acquisizione, né gli strumenti per dirimere eventuali contrasti tra l'una e l'altra autorità giudiziaria (art. 51 cod. proc. pen.). E non può ritenersi illegittimamente menomata la sfera di attribuzioni del potere giudiziario, per il fatto che la Commissione parlamentare, organo di un diverso potere, abbia rifiutato di consegnarli al tribunale di Milano, invitandolo per l'appunto a procurarseli presso l'altra autorità giudiziaria investita del processo cui originariamente pertengono.

Per tutto il resto, e sempre nell'ambito della specie di atti e documenti di cui ora si discorre, in ordine ai quali la Commissione non può invocare il proprio segreto funzionale (e non lo ha, in effetti, invocato), si tratta di accertare se e per quali tra essi i soggetti da cui originariamente provengono fossero alla stregua di specifiche norme di legge (della cui legittimità costituzionale non sorge questione nei presenti conflitti) tenuti ad un segreto opponibile anche all'autorità giudiziaria penale.

Ma l'ipotesi non ricorre nella specie. Ed infatti:

1) il prospetto dei voti preferenziali delle elezioni regionali 1963 nella Provincia di Palermo, trasmesso da quella Prefettura (doc. di cui al n. 69 dell'indice, richiesto dal tribunale di Torino) non può considerarsi comunque segreto e la Commissione pertanto ha l'obbligo di trasmetterlo al tribunale predetto;

2) considerazioni analoghe e identiche conclusioni valgono per gli atti della Commissione d'inchiesta del Consiglio della Regione Lazio sul caso Rimi ed i relativi resoconti stenografici (doc. di cui ai nn. 736 e 784 dell'indice, richiesti dal tribunale di Milano);

3) appartengono alla categoria di atti coperti da segreto d'ufficio o professionale, non opponibile peraltro all'autorità giudiziaria in sede penale:

- le copie delle deliberazioni della Cassa di Risparmio "Vittorio Emanuele" di Palermo, relative ai rapporti tra la Cassa medesima ed il Vassallo, e gli estratti conti delle varie operazioni (doc. di cui al n. 8, nn. 1 e 2, richiesti dal tribunale di Torino);

- la "documentazione varia" della Questura di Palermo, relativa alla proposta di assegnazione a soggiorno obbligato di Francesco Vassallo (doc. di cui al n. 627, richiesto dal tribunale di Torino);

- il fascicolo personale intestato al medesimo presso il Comando della Guardia di finanza di Palermo, riferentesi alle infrazioni valutarie accertate nei suoi confronti e comprendente altresì note informative, documentazione e corrispondenza varia (doc. di cui al n. 12, richiesto dal tribunale di Torino);

- l'altro fascicolo personale, intestato ad Italo Jalongo e trasmesso dalla Questura di Roma (doc. di cui al n. 790, richiesto dal tribunale di Milano).

In ordine ai quali tutti va pertanto affermato l'obbligo della Commissione parlamentare di trasmetterli ai tribunali richiedenti, restando pur sempre esclusi, in conformità dei principi sopra affermati ai punti 7 e 8 della motivazione, eventuali atti inseriti nei documenti ora elencati, ma formati dietro specifica richiesta della Commissione medesima e ad essa rivolti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara:

a) che la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia non ha l'obbligo di trasmettere ai tribunali di Torino e di Milano gli atti e documenti da essa formati o direttamente disposti, gli scritti e gli anonimi ad essa originariamente rivolti, atti tutti che la Commissione medesima abbia ritenuto di mantenere segreti ai fini dell'adempimento delle proprie funzioni; nonché gli atti già a disposizione di organi del potere giudiziario;

b) che ha l'obbligo di trasmettere ai tribunali predetti gli altri atti e documenti in suo possesso, che, a norma di legge, non siano coperti all'origine da segreto o siano coperti da segreto non opponibile all'autorità giudiziaria penale,

e in conseguenza:

annulla le note della Commissione n. 1250/D - 4369, in data 21 febbraio 1975, e n. 1294/D - 4399 in data 26 marzo 1975, in relazione anche alla precedente n. 1139/D - 4340 del 6 dicembre 1974, indirizzate rispettivamente al presidente della II sezione penale del tribunale di Torino e alla cancelleria della I sezione penale del tribunale di Milano, limitatamente al rifiuto di trasmettere gli atti e documenti di cui alla lettera b, indicati nel punto 10 della motivazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 1975.

Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

Depositata in cancelleria il 22 ottobre 1975.