Sentenza n. 40 del 1964
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SENTENZA N. 40

ANNO 1964

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 7 della legge 12 giugno 1962, n. 567, contenente norme in materia di affitto di fondi rustici, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 24 ottobre 1963 dalla Sezione specializzata agraria del Tribunale di Cremona nel procedimento civile vertente tra Borlenghi Mario e Turrini Gitta Maria, Turrini Luisa e Soldi Antonietta ved. Turrini, iscritta al n. 203 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 312 del 30 novembre 1963;

2) ordinanza emessa il 28 novembre 1963 dalla Sezione specializzata agraria del Tribunale di Cremona nel procedimento civile vertente tra Ottolini Osvaldo e Marini Astra, iscritta al n. 207 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 336 del 28 dicembre 1963.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e gli atti di costituzione in giudizio di Borlenghi Mario e di Turrini Gitta Maria, Turrini Luisa e Soldi Antonietta ved. Turrini;

udita nell'udienza pubblica del 18 marzo 1964 la relazione del Giudice Aldo Sandulli;

uditi gli avvocati giovanni Bottinelli ed Egidio Tosato, per le signore Turrini e Soldi, l'avv. Antonio Putzolu, per Borlenghi Mario, e il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nella controversia civile nascente da un rapporto di affittanza agraria tra le proprietarie Turrini Gitta Maria, Turrini Luisa e Soldi Antonietta ved. Turrini e l'affittuario Borlenghi Mario, la Sezione specializzata agraria del Tribunale di Cremona, con ordinanza del 24 ottobre 1963 ha rimesso a questa Corte due questioni di legittimità costituzionale nei confronti della legge 12 giugno 1962, n. 567, recante "norme in materia di affitto di fondi rustici", sollevate dalla difesa delle proprietarie convenute, e ritenute rilevanti e non manifestamente infondate.

La prima investe l'art. 1. Si assume che, demandando alle Commissioni tecniche provinciali il potere - non definito attraverso la indicazione di alcun "criterio obbiettivo", segnatamente a garanzia del locatore - di determinare i limiti in cui deve essere contenuta la misura del canone annuale dei fondi rustici, tale articolo violerebbe il principio della riserva di legge enunciato nel terzo comma dell'art. 41 della Costituzione, in base al quale la compressione della libertà economica privata non può essere rimessa alla discrezionalità dell'autorità amministrativa.

La seconda investe l'art. 7. Si assume che, con l'obbligare il giudice a uniformarsi, nel determinare l'equo canone, ai limiti fissati vincolativamente dalla Commissione tecnica provinciale, detto articolo, in violazione dell'art. 101 della Costituzione, che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge, sottoporrebbe il potere di decisione giurisdizionale a un atto amministrativo.

L'ordinanza, notificata alle parti in causa il 2 novembre 1963 e al Presidente del Consiglio dei Ministri l'8 novembre 1963, é stata comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento il 5 novembre 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 novembre 1963, n. 312.

Si sono costituiti innanzi a questa Corte le parti del giudizio a quo (le signore Turrini con deduzioni e mandato depositati il 17 dicembre, il signor Borlenghi, con deduzioni e mandato depositati il 14 dicembre 1963), nonché il Presidente del Consiglio dei Ministri (con atto d'intervento dell'Avvocatura generale dello Stato depositato il 19 dicembre 1963).

2. - La difesa Turrini, premesso che le eccezioni di legittimità costituzionale di cui é causa investono necessariamente - data la stretta concatenazione delle disposizioni - anche gli artt. 2, 3, 5 e 6 della legge denunciata, e che la prima eccezione, nonostante il riferimento al solo terzo comma dell'art. 41 della Costituzione, riguarda, data la sua formulazione, l'intero testo di quest'ultimo articolo, sottolinea che - come risulta anche dalla giurisprudenza di questa Corte - l'articolo stesso enuncia il principio della riserva di legge non soltanto con riferimento ai programmi e ai controlli contemplati nel terzo comma, ma anche con riferimento ai limiti all'iniziativa economica privata ammessi dal secondo comma; e aggiunge che l'eventuale inosservanza della riserva da parte del legislatore non può considerarsi colmata o compensata "dalla eventuale esistenza di altre forme di garanzia, quali quelle derivanti dall'osservanza della prassi, di norme extragiuridiche o comunque non legislative, o quelle connesse alla struttura e alla composizione dell'organo al quale il potere discrezionale limitativo risulti affidato". Essa osserva che la discrezionalità concessa alla Commissione amministrativa non risulterebbe adeguatamente delimitata: a) né dal modo come l'art. 2 della legge regola la composizione della Commissione, costituita con l'aggiunta, alle rappresentanze paritetiche delle categorie controinteressate, del capo del locale ispettorato agrario e del Prefetto in veste di presidente: infatti, in tal modo composta, la Commissione sarebbe condizionata, nelle sue decisioni, dalla volontà dell'autorità politica, determinata da "valutazioni di opportunità politica" invece che da "autonomi accordi fra le categorie interessate"; b) né dai vari riferimenti contenuti nell'art. 3: infatti il criterio dell'equità, cui la disposizione fa rinvio, risulta esso stesso, per definizione, squisitamente e sommamente discrezionale; il precetto che la determinazione delle tabelle dei canoni debba avvenire "per zone agrarie omogenee, per qualità e classi di terreni e per tipi aziendali", pur quando voglia ritenersi che imponga alla commissione di effettuare una graduatoria, non impedisce poi ad essa "di decidere liberamente il livello del canone dal quale partire ed al quale arrivare"; la necessità di "tener conto dello stato di produttività dei fondi, della esistenza e delle condizioni dei fabbricati rurali, delle attrezzature aziendali, degli oneri a carico dei proprietari locatori, degli apporti dell'affittuario, dei costi e degli oneri gravanti sull'impresa", riguarderebbero "una serie di situazioni di fatto considerate dalla norma tutte sullo stesso piano, senza che in alcun modo ne sia discriminata l'incidenza ai fini della valutazione di equità"; gli scopi dichiarati di "assicurare una equa remunerazione per il lavoro dell'affittuario e della sua famiglia e la buona conduzione dei fondi" sarebbero "del tutto generici e vaghi", rimettendosi il legislatore, per tal via, ancora una volta a un criterio normativamente indefinito, quale l'equità. D'altro canto non potrebbe ravvisarsi un momento delimitativo del potere discrezionale delle commissioni provinciali, tale da soddisfare l'esigenza della riserva di legge, nelle direttive di competenza della Commissione centrale previste dall'art. 5, lett. a, della legge: ciò, da un lato, per la provenienza anche di tali direttive da un'autorità amministrativa e non da una legge, e dall'altro pel fatto che esse sono da considerare ispirate secondo criteri politici.

Con riferimento alla violazione, da parte dell'art. 7 della legge, dell'art. 101 della Costituzione, la difesa Turrini osserva che sostanzialmente la legge impugnata opererebbe il trasferimento del potere decisorio dal giudice a un'autorità amministrativa, alle cui determinazioni il primo sarebbe tenuto ad uniformarsi. Ciò si verificherebbe anzi "nella misura più ampia". Siccome "la determinazione della equità del canone Si esaurisce in una valutazione meramente di fatto", ove tali valutazioni risultino sottratte al giudice, la decisione di questo non può non perdere ogni suo autonomo significato". Né varrebbe obbiettare che l'art. 7 lascia al giudice un certo margine entro i limiti minimi e massimi stabiliti dalla Commissione provinciale: infatti la Commissione potrebbe usare il proprio potere discrezionale in modo che la differenza tra tali limiti risulti praticamente irrilevante. Per modo che la risoluzione della controversia da parte del giudice verrebbe a essere rimessa "a criteri estranei alla convinzione del giudice ed a soggetti non investiti di una funzione giurisdizionale".

3. - La difesa Borlenghi, richiamandosi alla sentenza di questa Corte n. 7 del 1962 osserva, con riferimento alla censura che investe l'art. 1 della legge impugnata, che, "se il legislatore può intervenire a correggere i rapporti contrattuali sperequati, può sin dall'inizio stabilire ch'essi o si formino dentro i limiti che impediscono la sperequazione, o vanno senz'altro ricondotti nei giusti termini", e aggiunge - ricordando anche la sentenza n. 103 del 1957 - che pretendere che per far ciò il legislatore "debba intervenire caso per caso e non possa ricorrere ad organi tecnici per determinare massimi e minimi" sarebbe "assurdo".

Con riferimento alla censura che investe l'art. 7 della legge impugnata essa nota che il principio, secondo cui i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, enunciato nell'art. 101 della Costituzione, non sta affatto a significare che i giudici non possano esser chiamati ad applicare regolamenti ed altri atti amministrativi.

4. - La difesa dello Stato a sua volta nota, con riferimento all'art. 1 della legge impugnata, che "non si può dire che l'intervento legislativo sia senza regole e senza garanzie e manchi di portata specificativa al punto da non far ritenere soddisfatta la garanzia della riserva di legge, secondo la giurisprudenza della Corte": gli artt. 2 e 3 della legge contengono specificazioni più che sufficienti, in ordine all'osservanza delle quali, poi, le commissioni sono soggette al sindacato giurisdizionale. Un'ulteriore decisiva garanzia é rappresentata "dalla stessa composizione delle commissioni nonché dai controlli previsti sull'operato delle stesse".

Circa l'art. 7 della legge impugnata la difesa dello Stato osserva che l'art. 101 della Costituzione, se enuncia la regola per cui ogni giudice é "interprete libero, fedele ed obbiettivo della legge", non vieta affatto al legislatore di deferire ad altre autorità una potestà normativa alla quale i giudici debbano uniformarsi, ed aggiunge che comunque i giudici possono sempre disapplicare, in base all'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, gli atti amministrativi illegittimi.

5. - In data 5 marzo 1964 la difesa Borlenghi e quella dello Stato hanno depositato memorie.

In replica alle deduzioni delle signore Turrini, la prima nota che, se può portare il proprio esame sulle norme non impugnate della legge impugnata al fine di rintracciare in esse quegli elementi specificativi delle norme impugnate dei quali viene lamentata la carenza, la Corte non potrebbe peraltro portare il proprio esame sulle norme non impugnate al fine di dichiararne l'illegittimità costituzionale. Del pari essa osserva che la violazione denunciata nei confronti dell'art. 1 della legge impugnata riguarderebbe soltanto il terzo comma dell'art. 41 della Costituzione, onde il raffronto di legittimità costituzionale dovrebbe esser limitato ai precetti costituzionali contenuti in quest'ultimo comma. Aggiunge poi che la regolamentazione normativa dei contratti di affitto di fondi rustici al fine di limitare l'entità dei canoni é materia che non attiene all'art. 41, bensì all'art. 42, secondo comma, della Costituzione, il quale rimette al potere pubblico di "determinare i limiti di godimento della proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale", in tal modo attribuendo ad essi anche la potestà già riconosciuta sussistente dalla sentenza di questa Corte n. 7 del 1962 - di imporre "condizioni restrittive per lo svolgimento dell'autonomia contrattuale". Nessun dubbio, del resto, secondo la difesa, potrebbe sussistere circa il carattere sufficientemente specificato dei poteri che la legge impugnata attribuisce alle Commissioni tecniche provinciali - poteri "di mera applicazione", in quanto strettamente vincolati all'osservanza dei numerosi criteri indicati nella legge e di norme tecniche: il principio della riserva di legge é tale da non poter essere applicato in modo identico nella molteplice varietà dei casi nei quali deve essere osservato; e nella specie, anche alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, esso risulterebbe pienamente osservato, data l'abbondanza dei limiti fissati al potere delle Commissioni tecniche provinciali e le garanzie inerenti alla composizione e al funzionamento di queste.

Riguardo alla pretesa violazione da parte dell'art. 7 della legge impugnata dell'art. 101 della Costituzione, la memoria si richiama alla sentenza n. 8 del 1962 di questa Corte, ribadendo il concetto che la potestà normativa amministrativa non implica una interferenza nell'esercizio del potere discrezionale del giudice.

6. - Considerazioni in gran parte analoghe sono svolte nella memoria in difesa dello Stato, nella quale vengono sviluppate le argomentazioni dell'atto di intervento. In particolare, con riferimento alla prima questione di legittimità costituzionale, e al rilievo dell'ordinanza di rimessione, secondo cui i criteri direttivi dettati dalla legge non sarebbero obbiettivi, quali avrebbero potuto essere delle misure percentuali della ripartizione del reddito agricolo fra i fattori della produzione, o, comunque, delle misure precise che stabilissero la incidenza rispettiva dei vari elementi di estimazione, l'Avvocatura dello Stato osserva che "la complessità dei diversi elementi di giudizio e l'indeterminabilità a priori della loro rispettiva incidenza nelle più varie e diverse situazioni é, in materia, tale da non consentire che venisse seguito altro sistema che quello di precisare tali elementi, facendo di essi altrettanti limiti al potere discrezionale delle Commissioni nell'esercizio del loro compito di estimazione".

7. - Con altra ordinanza in data 28 novembre 1963 la medesima Sezione specializzata del Tribunale di Cremona, nel giudizio pendente tra l'affittuario Ottolini Osvaldo, attore, e la proprietaria locatrice Marini Astra, ha proposto le stesse questioni di legittimità costituzionale, in termini assolutamente identici.

L'ordinanza, notificata alle parti in causa il 6 dicembre 1963 e al Presidente del Consiglio dei Ministri il 9 dicembre, é stata comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento il 5 dicembre, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre 1963, n. 336.

8. - Innanzi a questa Corte si é costituito il solo Presidente del Consiglio dei Ministri con atto di intervento depositato il 27 dicembre 1963, identico a quello presentato nel giudizio di cui già si é riferito.

La memoria dell'Avvocatura dello Stato depositata il 5 marzo 1964, di cui già si é detto, é comune a entrambi i giudizi, e chiede la riunione di essi.

9. - All'udienza le parti hanno insistito nei sensi soprariferiti.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due cause riguardano le stesse questioni di legittimità costituzionale, sollevate nei confronti, rispettivamente, dell'art. 1 e dell'art. 7 della legge 12 giugno 1962, n. 567, contenente norme in materia di affitto di fondi rustici. Perciò esse sono state trattate congiuntamente, vengono riunite, e sono decise con unica sentenza.

2. - La questione sollevata nei confronti dell'art. 1 (terzo comma) della legge investe l'osservanza del principio della riserva di legge, il quale sarebbe stato violato attraverso il deferimento alle Commissioni tecniche provinciali del potere di stabilire i limiti minimi e massimi entro cui deve esser contenuta la misura dei canoni annuali di affitto dei fondi rustici.

Nel riferire l'eccezione sollevata in proposito innanzi al Tribunale dalle parti convenute, deferita poi all'esame di questa Corte, entrambe le ordinanze di rimessione precisano che le parti stesse si erano richiamate, per indicare il precetto costituzionale contenente tale principio in ordine alla materia di cui é causa, al terzo comma dell'art. 41 della Costituzione, assumendo perciò la violazione di quest'ultimo. La difesa Borlenghi, la quale nulla aveva eccepito in proposito nelle deduzioni presentate al momento della costituzione in giudizio, rileva però nella memoria che la limitazione dei canoni di affitto dei fondi rustici é materia rientrante nel secondo comma dell'art. 42 della Costituzione: onde, prospettata con riferimento all'art. 41, la questione in esame sarebbe da dichiarare senz'altro infondata. A sua volta la difesa Turrini rappresenta l'esigenza di tener presente anche il secondo comma dell'art. 41 della Costituzione. L'ammissibilità di considerare anche tale comma appare riconosciuta pure dalla difesa dello Stato.

Osserva in proposito la Corte che dal contesto delle ordinanze appare chiaro che il vizio di costituzionalità che il Tribunale intese denunciare fu l'inosservanza di un principio costituzionale nettamente identificato: quello di una asserita riserva di legge in materia di limitazioni da imporre ai locatori in sede di affitto di fondi rustici. Orbene, nei casi in cui sia stato sicuramente identificato dal giudice a quo il principio costituzionale del quale si assuma la violazione, questa Corte ha considerato irrilevante l'indicazione di un articolo o di un comma diverso da quello in cui il principio é da ritenere effettivamente espresso (v., p. es. , la sentenza n. 6 del 1962 e l'ordinanza n. 149 del 1963).

Ciò tanto più ha da valere allorquando venga in questione una regola costituzionale comune a tutta una materia ordinata nella Carta fondamentale in sistema unitario, per quanto distribuita in più articoli, come é appunto il caso per la regola della riserva di legge nel campo delle private libertà nella materia economica, comprensive della libertà di iniziativa e di quella di disporre e godere della proprietà. Tali libertà sono infatti disciplinate negli artt. 41-44 della Costituzione secondo una chiara ispirazione unitaria, della quale la regola della riserva di legge, pur senza che si possa negare una certa sua varia modulazione, rappresenta sicuramente una costante.

É poi da tener presente che nel caso in esame é sicuramente fuori causa la riserva di cui al terzo comma dell'art. 41, dato che non si é in presenza di programmi o controlli imposti all'attività economica privata; e che le riserve di legge da osservare quando vengano in questione i limiti previsti per l'iniziativa economica privata dal secondo comma dell'art. 41, e quelli previsti per la proprietà privata dal secondo comma dell'art. 42 sono di identica portata, e sono entrambe di quelle che non precludono alla legge la possibilità di deferire, purché con adeguata specificazione, ad autorità amministrative, particolari poteri di incidenza nel campo dei diritti economici garantiti dai due menzionati articoli (cfr., con riferimento al secondo comma dell'art. 41, specialmente le sentenze nn. 103 del 1957, 4, 5, 54 del 1962, 46 del 1963). Donde lo scarso interesse di stabilire in quale delle anzidette disposizioni affondi le sue radici (o se le affondi in entrambe) la regola della riserva di legge - sicuramente esistente - cui fanno richiamo le ordinanze dalle quali trae origine il presente giudizio.

3. - Passando all'esame della questione relativa alla legittimità costituzionale del ricordato art. 1 la Corte, anche alla stregua della propria giurisprudenza, ritiene osservata, nella specie, la regola della riserva di legge.

Avendo di mira la realizzazione di una normativa differenziata, al fine di una sua opportuna aderenza alla varietà delle condizioni locali dell'agricoltura e dei rapporti a essa inerenti, così diversi in Italia da zona a zona, l'art. 1 della legge deferisce la determinazione dei limiti, entro i quali deve esser contenuta in ciascuna Provincia la misura dei canoni annuali di affitto dei fondi rustici, ad apposite Commissioni tecniche provinciali. Ma altre norme della medesima legge delimitano con sufficiente specificazione i poteri delle Commissioni.

L'art. 3 stabilisce che la determinazione della misura minima e massima dei canoni di affitto, nelle "tabelle" biennalmente compilate dalle Commissioni, deve perseguire l'obbiettivo "di assicurare una equa remunerazione per il lavoro dello affittuario e della sua famiglia e la buona conduzione dei fondi". Questa indicazione dei fini contiene una notevole delimitazione dei poteri delle Commissioni, in quanto, da un lato, una "equa remunerazione" del lavoro della famiglia colonica (concetto già risultante dall'art. 36 della Costituzione) comporta l'esigenza di proporzionare i canoni di affitto all'opera mediamente richiesta per la coltivazione (variabile a seconda delle situazioni agrarie e del mercato del lavoro); dall'altro, la necessità di incoraggiare la buona coltivazione dei fondi comporta (sempre in correlazione con la varietà delle situazioni) il contemperamento - in vista di una concordia di intenti suggerita dalla convenienza economica - degli interessi del locatore con quelli dell'affittuario. Dall'esigenza di assicurare un'"equa remunerazione" del lavoro delle persone mediamente impiegate nella coltivazione dei campi risulta, in sostanza, definito in modo sufficientemente puntuale un limite oltre il quale non é possibile andare nello stabilire i canoni massimi di affitto (che sono quelli di maggiore interesse nell'economia della legge, la quale si é proposto di tutelare in modo particolare l'attività effettivamente impegnata nella produzione agricola); mentre per i canoni minimi assume importanza l'esigenza che venga assicurata la "buona coltivazione" dei fondi, la quale é collegata, tra l'altro, al mantenimento dell'interesse economico dei locatori alla terra. Entro tali ragionevoli ma inderogabili limiti la legge ammette a spaziare l'autonomia delle parti e la equità del giudice.

Quanto precede dimostra l'inesattezza della affermazione, contenuta nelle ordinanze di rimessione, secondo la quale la determinazione delle "tabelle" non poggerrebbe su alcun "criterio obbiettivo"; e dimostra a un tempo l'impossibilità di configurare come criterio universalmente valido quello di stabilire "una misura percentuale della ripartizione del reddito agricolo fra i fattori della produzione".

A parte i limiti di cui si é detto, la legge contiene poi una precisazione piuttosto ampia dei vari elementi di fatto da tener presenti nella compilazione delle "tabelle". Infatti queste non debbono limitarsi a stabilire, alla stregua delle anzidette finalità, un unico canone minimo e un unico canone massimo validi per l'intero territorio della Provincia e per tutte le possibili situazioni, bensì una serie di canoni minimi e massimi; e a ciò debbono provvedere basandosi su molteplici fattori, indicati dalla legge, riflettenti essenzialmente la redditività dei fondi, i tipi aziendali, le spese e gli oneri gravanti sulle parti. Il ricordato art. 3 prescrive all'uopo che i massimi e minimi tabellari devono essere stabiliti "per zone agrarie omogenee, per qualità e classi di terreni e per tipi aziendali", tenendo conto "dello stato di produttività dei fondi, della esistenza e delle condizioni dei fabbricati rurali, delle attrezzature aziendali, degli oneri a carico dei proprietari locatori, degli apporti dell'affittuario, dei costi e degli oneri gravanti sull'impresa". Fattori, la cui incidenza sulla produzione é mediamente apprezzabile in base a valutazioni tecniche - almeno ai fini della determinazione dei limiti minimi e massimi di competenza delle Commissioni - con sufficiente adeguatezza. La redazione delle "tabelle" deve aver luogo dunque da parte delle Commissioni - le quali non senza ragione vengono definite dalla legge come "tecniche" - attenendosi essenzialmente alle regole tecniche dell'economia agraria; e lo stesso concetto di "equa remunerazione" delle braccia lavorative partecipanti alla coltivazione e tutt'altro che rimesso a una libera scelta delle Commissioni.

Né a diversa conclusione può giungersi - come vorrebbe la difesa Turrini - considerando la composizione delle Commissioni. É vero che esse sono presiedute dal Prefetto (o da un Vice-prefetto da lui delegato); ma occorre non dimenticare che ne fa parte, accanto alla rappresentanza paritetica (in parte anch'essa "tecnica") delle categorie controinteressate - messe così in condizione di far valere le rispettive ragioni -, il capo dell'ispettorato agrario provinciale (o un suo rappresentante), al quale anzi il Prefetto "può delegare la direzione tecnica dei lavori" (art. 2). Onde non ad imprimere carattere "politico" alle determinazioni delle Commissioni é da ritenere ordinata la attribuzione al Prefetto della funzione di presidente, bensì ad assicurare alle Commissioni una presidenza consapevole dei problemi generali della Provincia e abbastanza autorevole perché le determinazioni suggerite dalle regole tecniche vengano discusse - sempre sul piano tecnico - e accettate dalle categorie controinteressate in un'atmosfera serena e obbiettiva, e senza ingiustificate frizioni.

Del pari é da escludere nel modo più assoluto il carattere "politico" delle direttive che alle Commissioni provinciali può impartire la Commissione tecnica centrale prevista dall'art. 5, presieduta dal Ministro per l'agricoltura (o da un suo delegato) e composta da due esperti e da quattro rappresentanti per ciascuna delle due categorie economiche controinteressate. Anche tali direttive devono infatti necessariamente esser basate su criteri tecnici, così come le determinazioni che la Commissione centrale é competente ad adottare su ricorso dell'ispettorato agrario compartimentale contro l'operato delle Commissioni provinciali, o quelle che può adottare in sostituzione delle Commissioni provinciali in caso di mancata deliberazione da parte di queste nei termini di legge.

Del resto, qualora, anziché alle regole cui sono obbligate ad attenersi, tanto la Commissione centrale, quanto quelle provinciali, dovessero ispirarsi a criteri diversi, o dovessero altrimenti incorrere in deviazioni dalla legittimità, a parte il ricorso officioso spettante all'ispettorato agrario compartimentale di cui or ora si é detto, sono aperti agli interessati tutti i rimedi giuridici consentiti dalla Costituzione e dalle leggi nei confronti degli atti amministrativi illegittimi (artt. 24 e 113 della Costituzione).

Pertanto, non solo la determinazione dei canoni minimi e massimi non può ritenersi rimessa all'arbitrio e nemmeno alla discrezionalità delle Commissioni, bensì a valutazioni tecniche operate sulla base di indicazioni legislative sufficientemente specifiche; ma nei confronti di tale determinazione gli interessati godono di adeguate garanzie di giustizia. Onde a torto si assume la violazione del principio della riserva di legge.

4. - Del pari infondata é la questione proposta nei confronti dell'art. 7 della legge, del quale si assume il contrasto con l'art. 101 della Costituzione.

É vero che l'art. 7 impone alle decisioni delle competenti Sezioni specializzate dei Tribunali, ai fini della perequazione dei canoni di affitto pattuiti, l'osservanza delle "tabelle" approvate dalle Commissioni tecniche amministrative delle quali fin qui si é discusso. Sicché, se le Sezioni specializzate possono spaziare, nel giudizio di equità di loro competenza, entro i limiti minimi e massimi fissati dalle Commissioni, non possono tuttavia oltrepassarli. Ma tutto ciò non lede minimamente il principio - enunciato nell'art. 101 della Costituzione - secondo cui "i giudici sono soggetti soltanto alla legge".

Le "tabelle" in esame, nonostante il loro carattere temporaneo e localizzato e la specificazione del loro contenuto, sono dei veri e propri atti normativi, dettando regole obbligatorie di tipo generale e astratto. Esse contengono delle norme, alle quali per disposizione di legge i rapporti contrattuali tra locatore ed affittuario debbono necessariamente uniformarsi (art. 1, terzo comma). L'art. 7 stabilisce poi che, qualora (e solo se) il canone convenuto si trovi (all'inizio della locazione o nel corso di essa) a non esser contenuto entro i limiti tabellari, ciascuno dei contraenti ha la possibilità di rivolgersi alla Sezione specializzata del Tribunale, la quale dovrà ricondurre il canone ad equità, entro i margini fissati dalle norme tabellari. La potestà giurisdizionale ex art. 7 é collegata cioé dal legislatore non all'esistenza di una situazione comunque sperequata, bensì, puramente e semplicemente, all'esistenza, nel singolo rapporto, di una situazione giuridica difforme da quella - voluta dalla legge di osservanza dei limiti tabellari. Questi ultimi operano quindi nella dinamica della legge, a un tempo, come condizione dell'azione giudiziaria diretta a conseguire la perequazione del canone azione che, in tanto é data, in quanto quei limiti siano stati fissati dalla Commissione competente e non siano stati osservati dalle parti e come confine del potere perequatore dei patti contrattuali attribuito (in via eccezionale) al giudice. Essi si presentano insomma come regole del giudizio, alle quali la Sezione specializzata é tenuta a uniformarsi, non altrimenti da quanto ogni giudice é tenuto a fare, nei casi di propria competenza, nei confronti delle regole giuridiche attinenti ai rapporti sostanziali di cui di volta in volta deve giudicare.

Orbene, il fenomeno che la regola del giudizio sia contenuta in un atto non avente valore di legge é tutt'altro che raro nel nostro ordinamento, come risulta anche da quanto si é detto al capo precedente (v. p. es. , le sentenze di questa Corte n. 103 del 1957 e n. 8 del 1963); né contrasta con la riferita disposizione dello art. 101 della Costituzione.

Il fatto poi che l'esistenza dei limiti tabellari viene configurata dalla legge come condizione dell'azione giudiziaria di perequazione (eccezionale nel sistema) sta anche a dimostrare l'inesattezza dell'affermazione che la legge "sottrarrebbe al giudice" (come si esprime il Tribunale) la decisione della causa: all'opposto la legge in tanto attribuisce al giudice la nuova (e non preesistente) competenza di cui trattasi, in quanto esistono quelle "tabelle", che essa impone ai contraenti di rispettare e che il giudice é chiamato appunto a far rispettare.

Il principio dell'indipendenza del giudice, enunciato nel secondo comma dell'art. 101 della Costituzione non é dunque intaccato in alcun modo. Esso esprime l'esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l'indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun'altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto. Sarebbe perciò certamente illegittima una legge la quale condizionasse inderogabilmente la pronuncia del giudice a una scelta o anche soltanto ad un accertamento compiuto, pel caso singolo, in veste autoritativa da un organo non giurisdizionale (v. sentenza n. 70 del 1961). Ma con altrettanta sicurezza bisogna affermare che non ricadono nel campo dell'art. 101 della Costituzione le leggi che - come quella in esame - senza portar deroga al principio per cui il giudice non é tenuto ad applicare gli atti amministrativi illegittimi, assegnano al giudice civile, come regole del giudizio, norme di carattere generale (e perciò non adottate in vista di un singolo giudizio), emanate - sulla base di una legge - da autorità appartenenti alla pubblica Amministrazione.

5. - Concludendosi il presente giudizio con una dichiarazione di infondatezza delle questioni proposte, rimane assorbita la questione, ampiamente dibattuta tra le parti private, circa la possibilità che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 567 del 1962, impugnato con le ordinanze di rimessione, si trasmetta da esso ad altri articoli non impugnati.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i due giudizi promossi con le ordinanze indicate in epigrafe,

dichiara infondate le questioni di legittimità costituzionale, proposte con le anzidette ordinanze, degli artt. 1 e 7 della legge 12 giugno 1962, n. 567, contenente norme in materia di affitto di fondi rustici, in riferimento agli artt. 41, 42 e 101 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1964.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 1964.