Sentenza n. 207 del 2021

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SENTENZA N. 207

ANNO 2021

Commenti alla decisione di

1. Federico Girelli, Giudizio di costituzionalità e dimensione “individuale” della rappresentanza politica, per g.c. di Nomos - Le attalità nel diritto

2. Simone Frega, L’accordo di “donazione futura” dell’aspirante candidato con il partito per le elezioni politiche e la successiva richiesta di detrazione fiscale per l’erogazione effettuata (alcuni spunti di riflessione sulla sentenza n. 207 del 2021), negli Studi 2022/II di questa Rivista

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 13, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 141, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», promosso dalla Commissione tributaria di primo grado di Trento, nel procedimento vertente tra S. D. e l’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Trento, con ordinanza dell’11 settembre 2020, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 ottobre 2021 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

deliberato nella camera di consiglio del 7 ottobre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– La Commissione tributaria di primo grado di Trento, con ordinanza dell’11 settembre 2020 (r.o. n. 21 del 2021), solleva, in riferimento all’art. 67 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 13, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 141, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)».

2.– Innanzi alla Commissione tributaria rimettente pende un giudizio introdotto da S. D. avverso un avviso di accertamento dell’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Trento.

Il rimettente espone, in fatto, che l’atto impugnato concerne una maggiore imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) per l’anno di imposta 2008, accertata per effetto del disconoscimento della natura di “erogazioni liberali” «e quindi della detraibilità dall’imposta nella misura del 19% ai sensi dell’art. 15 co. 1bis d.P.R. 22.12.1986, n. 917 […] delle somme di denaro versate in quell’anno di imposta dal ricorrente» in favore di un partito politico, per un importo complessivo di euro 45.379,00.

Ancora in punto di fatto, il rimettente osserva che il contribuente, nel ricorso introduttivo, ha sollevato varie questioni pregiudiziali, eccependo la nullità dell’avviso impugnato, stante la mancata allegazione della segnalazione della Direzione centrale dell’Agenzia delle entrate e dell’accertamento compiuto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Forlì (con conseguente difetto di motivazione) nonché per violazione delle norme sulle modalità di compimento delle attività (accesso, ispezione e verifica) che hanno condotto al suddetto accertamento e che avrebbero richiesto la redazione di un processo verbale di chiusura delle indagini, nella specie omesso.

Il ricorrente nel giudizio principale nega l’assunto dell’Ufficio, secondo cui si sarebbe costituito un «rapporto sinallagmatico» tra il partito politico ed il ricorrente, in forza del quale, «a fronte della disponibilità del partito di offrire al ricorrente la possibilità di essere candidato alle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008», quest’ultimo avrebbe assunto l’obbligo – con contratto di donazione stipulato in data 7 marzo 2008, presso la sede del partito politico – di corrispondere allo stesso partito, in caso di elezione, la somma complessiva di euro 145.000,00, da versare in rate mensili consecutive costanti, con la pattuizione che i versamenti sarebbero cessati solo in caso di morte del donante.

In subordine, riferisce sempre il rimettente, S. D. avrebbe comunque sostenuto che la detraibilità dall’imposta, nella misura del 19 per cento delle somme, per complessivi euro 45.379,00, versate dal ricorrente in favore del partito politico nel 2008, «prescinde dalla natura di atto di liberalità delle erogazioni» per effetto del comma 4-bis dell’art. 11 del d.l. n. 149 del 2013, come convertito.

Dall’ordinanza di rimessione, ancora, si apprende che, costituendosi in giudizio, l’Agenzia delle entrate avrebbe chiesto il rigetto delle eccezioni di nullità dell’avviso e, nel merito, avrebbe dedotto, in particolare quanto alla detraibilità dall’IRPEF dell’erogazione effettuata dal contribuente: a) che solitamente, oltre all’atto di donazione, il candidato ed il partito stipulavano un accordo in cui si affermava espressamente che il versamento delle somme del candidato al partito avveniva in correlazione con le obbligazioni assunte da quest’ultimo; b) che ciò avrebbe escluso «in radice lo spirito di liberalità (inteso come mera e spontanea elargizione fine a se stessa) e la detraibilità ai sensi dell’art. 15 co. 1bis d.lgs. 917/1986»; c) che in difetto del carattere di liberalità dell’erogazione non avrebbe potuto trovare applicazione l’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, come convertito, sia in ragione della rubrica dell’articolo «Detrazioni per le erogazioni liberali in denaro in favore di partiti politici», sia perché, accedendo a diversa interpretazione, si ammetterebbe «una sorta di sanatoria rispetto alle erogazioni non connotate da spirito di liberalità» (con conseguente violazione dei principi di eguaglianza, capacità contributiva e certezza del diritto).

3.– Ciò premesso, la Commissione tributaria rimettente solleva d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, come convertito e successivamente modificato, a norma del quale «[a] partire dall’anno di imposta 2007 le erogazioni in denaro effettuate a favore di partiti politici, esclusivamente tramite bonifico bancario o postale e tracciabili secondo la vigente normativa antiriciclaggio, devono comunque considerarsi detraibili ai sensi dell’articolo 15, comma 1-bis, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 [Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi]. Le medesime erogazioni continuano a considerarsi detraibili ai sensi del citato articolo 15, comma 1-bis, ovvero ai sensi del presente articolo, anche quando i relativi versamenti sono effettuati, anche in forma di donazione, dai candidati e dagli eletti alle cariche pubbliche in conformità a previsioni regolamentari o statutarie deliberate dai partiti o movimenti politici beneficiari delle erogazioni medesime».

Secondo il rimettente, nella parte in cui consente ai membri del Parlamento di detrarre dall’imposta lorda sui redditi un importo pari al 19 per cento delle erogazioni in denaro effettuate in favore di partiti e movimenti politici per importi compresi tra 51,65 e 103.291,38 euro, anche quando tali erogazioni siano prive di carattere realmente e pienamente liberale, la disposizione violerebbe l’art. 67 Cost.

3.1.– In punto di rilevanza, una volta rigettate le eccezioni preliminari di nullità sollevate dal contribuente – in accoglimento delle difese spiegate dall’amministrazione finanziaria – il giudice rimettente evidenzia come il giudizio a quo non possa essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata, in quanto, proprio applicando la disposizione censurata, il ricorso proposto da S. D. dovrebbe essere accolto.

Il rimettente condivide la tesi dell’amministrazione finanziaria, che disconosce la natura di “erogazioni liberali” dei versamenti in denaro effettuati dal ricorrente, nel 2008, in favore del partito politico e durante lo svolgimento del suo mandato parlamentare. Rileva, infatti, come sia incontestata la stipula di «un contratto di donazione mediante il quale [il contribuente] ha assunto […] l’obbligo di donare al partito politico […] una somma di denaro per complessivi € 145.000,00, da versarsi in rate mensili consecutive» nel periodo corrispondente alla durata del mandato parlamentare, in caso di avvenuta elezione.

Richiamando la disciplina sulla donazione (artt. 769, 771 e 772 del codice civile), il rimettente esclude la natura liberale di tale atto e, dunque, l’applicabilità dell’art. 15, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito: TUIR), il quale, nella versione applicabile ratione temporis, ammetteva la detrazione di erogazioni liberali per importi compresi tra centomila lire e duecento milioni di lire.

In primo luogo, osserva il giudice a quo, l’art. 771, primo comma, cod. civ. prevede la nullità della donazione avente ad oggetto beni futuri, quali appunto dovrebbero considerarsi, «con verosimile plausibilità», le somme da versare in rate mensili costanti nell’arco di cinque anni (e quindi non presenti nel patrimonio del donante all’epoca della stipulazione del contratto).

Inoltre, a parere del rimettente, sebbene l’art. 772 cod. civ. consenta la donazione di “prestazioni periodiche”, tale disposizione potrebbe riguardare «solamente le prestazioni alimentari e di soccorso».

Infine, e decisivamente, per il rimettente – che cita, a supporto, giurisprudenza di legittimità – lo spirito di liberalità, che «costituisce un elemento essenziale della causa del contratto di donazione», ai sensi dell’art. 769 cod. civ., «consiste nella coscienza (da parte del donante) di compiere (in favore del donatario) un’attribuzione patrimoniale nullo iure cogente, vale a dire nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costrett[o]»: ciò che mancherebbe nel caso di specie.

L’elargizione verso il partito politico avrebbe trovato fondamento, piuttosto, «nelle relazioni scaturenti dall’adesione del D. ai programmi ed agli obiettivi» del partito, nonché nella condizione del primo di candidato designato per le imminenti elezioni politiche del 13-14 aprile 2008 e, quindi, di (possibile) futuro parlamentare in rappresentanza del partito medesimo. Da ciò, il giudice a quo desume che il contratto stipulato «era diretto a realizzare uno scopo diametralmente opposto a quello, essenziale alla causa della donazione, dell’attribuzione di un vantaggio patrimoniale per spirito di liberalità».

A parere del giudice a quo, pur dovendosi ritenere che i versamenti di cui si tratta non siano stati effettuati per spirito di liberalità, la disposizione oggetto di scrutinio, «ponendosi in evidente rapporto di specialità» con l’art. 15, comma 1-bis, del TUIR, lungi dal richiedere l’accertamento della natura liberale delle erogazioni, consentirebbe in ogni caso, a partire dall’anno di imposta 2007, la detraibilità dei versamenti in denaro eseguiti dai candidati e dagli eletti alle cariche pubbliche in conformità a previsioni regolamentari o statutarie deliberate dai partiti o movimenti politici beneficiari delle erogazioni medesime.

Il rimettente non condivide, dunque, quanto rilevato dall’Agenzia delle entrate, secondo cui anche la disposizione censurata richiederebbe «il carattere di liberalità dell’erogazione (in favore del partito politico)». Se così fosse, argomenta il giudice a quo, «la norma si presenterebbe del tutto superflua, limitandosi a ribadire il contenuto precettivo» del citato art. 15, comma 1-bis, in evidente contrasto con la volontà del legislatore, il quale invece – come si evincerebbe «chiaramente sia dalla manca[ta] apposizione al sostantivo “erogazioni” dell’aggettivo “liberali”, sia dalla locuzione “devono comunque considerarsi detraibili”» e «dalla precisazione “anche in forma di donazione” contenuta nel secondo periodo della stessa norma» – avrebbe inteso estendere la sfera di applicazione (in origine limitata alle “erogazioni liberali”) dell’art. 15, comma 1-bis, del TUIR.

3.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ricorda che l’art. 67 Cost. – secondo cui «[o]gni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» – persegue, secondo la giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 125 del 1977 e n. 14 del 1964) – la finalità di «garantire l’assoluta indipendenza dei membri del Parlamento» da qualsiasi influenza, pur se proveniente dai partiti politici di appartenenza, suscettibile «di compromettere l’esercizio della funzione equilibratrice, di composizione e sintesi degli interessi sezionali nel modo che meglio si adegui all’interesse generale».

La disposizione censurata, consentendo la detraibilità dall’imposta sui redditi delle erogazioni eseguite anche in assenza dello spirito di liberalità, presupporrebbe, o comunque favorirebbe, «mediante l’attribuzione di vantaggi di natura fiscale, l’instaurazione di rapporti giuridici di credito tra i partiti politici e i membri del Parlamento», come, in effetti, sarebbe accaduto nella vicenda oggetto del giudizio a quo.

Tale conseguenza, tuttavia, sarebbe «fonte di possibili condizionamenti dell’indipendenza del parlamentare nell’espletamento delle sue funzioni», in violazione proprio del divieto di mandato imperativo di cui al parametro costituzionale evocato: la creazione a carico del parlamentare «di debiti di natura giuridica nei confronti di un partito politico», con i corollari della responsabilità patrimoniale di natura personale e dell’assoggettabilità a possibili azioni esecutive, introdurrebbe nelle relazioni tra parlamentare e partito politico «fattori potenzialmente distorsivi in quanto estranei al rapporto rappresentativo».

Inoltre, il vincolo al pagamento mensile di una somma predeterminata, protratto per l’intera durata della legislatura, indurrebbe il parlamentare «ad una fedeltà forzata verso il partito politico creditore, dissuadendolo dal compiere scelte diverse nel corso dell’espletamento del suo mandato»: in caso contrario, infatti, il parlamentare si troverebbe nella situazione – definita «paradossale» – di dover sostenere finanziariamente un partito politico dal quale si è dissociato.

4.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.

4.1.– L’interveniente eccepisce, in primo luogo, il difetto di rilevanza della questione sollevata.

Le argomentazioni sviluppate dall’ordinanza di rimessione sarebbero volte a mettere in discussione non tanto il trattamento fiscale delle elargizioni di cui si discute (e di cui si occupa la disposizione censurata), quanto «la stessa prassi, utilizzata in passato da alcuni partiti politici, di finanziarsi stipulando contratti (di “donazione”)», analoghi a quello oggetto del giudizio a quo.

Sarebbe questa pratica – a parere dell’interveniente – il reale oggetto della critica avanzata dal rimettente, che la riterrebbe pericolosa per la «“forzata fedeltà” ingenerata tra il parlamentare e il partito politico per effetto di tali “donazioni”», appunto in contrasto con il divieto di mandato imperativo di cui all’evocato parametro costituzionale.

La norma oggetto del dubbio di legittimità costituzionale, invece, si limiterebbe a disciplinare «solo il trattamento fiscale del fenomeno che il rimettente è andato censurando, concernendo effetti che costituiscono, sul piano logico e giuridico, un “posterius” rispetto alla contestata “donazione”».

Il lamentato vulnus all’invocato art. 67 Cost., in altre parole, non sarebbe provocato dal trattamento fiscale della elargizione, ma dalla “donazione” in sé stessa considerata, unica (e reale) fonte del “vincolo” ritenuto vietato dall’art. 67 Cost., sicché – se pure fosse espunta dall’ordinamento la norma ora in esame che prevede il beneficio fiscale della detrazione – non potrebbe essere raggiunto il risultato, auspicato dal giudice rimettente, di assicurare un pieno rispetto dell’art. 67 Cost.: a parere dell’interveniente, «a prescindere dal trattamento fiscale di tali elargizioni, queste continuerebbero ad essere praticate in assenza di una disposizione normativa volta a vietare tout court simili “donazioni” dei parlamentari o candidati al Parlamento in favore dei partiti politici».

4.2.– Nel merito, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene non fondata la questione sollevata.

Ricorda, a tal fine, che la disposizione censurata è stata inserita nell’ambito di un provvedimento (il d.l. n. 149 del 2013, come convertito) finalizzato alla abolizione del finanziamento pubblico diretto ai partiti politici e alla sua sostituzione con agevolazioni fiscali per la contribuzione volontaria dei cittadini.

La disposizione troverebbe «il suo non irragionevole fondamento all’interno di un sistema normativo volto a disciplinare, in un’ottica di trasparenza, le contribuzioni volontarie ai partiti politici».

Con specifico riferimento al periodo temporale immediatamente antecedente alla riforma (2007-2013), il legislatore avrebbe ritenuto, non irragionevolmente, di intervenire con una norma di carattere transitorio e di natura derogatoria rispetto all’art. 15, comma 1-bis, del TUIR, peraltro limitatamente alle elargizioni eseguite negli anni dal 2007 al 2013. Ciò che non sarebbe «di per sé violativo dell’art. 67 Cost., tenuto conto altresì che l’art. 15 co. 1 bis era stato già comunque abrogato e superato da una nuova disciplina (posta dall’art. 11 D.L. 149/2013)».

Considerato in diritto

1.– La Commissione tributaria di primo grado di Trento dubita della legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 13, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 141, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», ritenendo tale disposizione lesiva dell’art. 67 della Costituzione.

Il giudizio a quo ha per oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate contesta una maggiore imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) per l’anno 2008, disconoscendo la natura di “erogazioni liberali” delle somme versate dal ricorrente, eletto al Parlamento nazionale, in favore del partito politico di appartenenza. Secondo l’amministrazione finanziaria, infatti, a sostegno delle suddette erogazioni mancherebbe un reale spirito di liberalità, con conseguente inapplicabilità dell’art. 15, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito: TUIR), all’epoca vigente, che riconosceva il beneficio della detraibilità dall’imposta, nella misura del 19 per cento, solo per le donazioni e per importi compresi tra centomila lire e duecento milioni di lire.

Il rimettente condivide la tesi dell’amministrazione finanziaria.

Nel caso di specie, si sarebbe in realtà costituito «un rapporto sinallagmatico», in forza del quale, «a fronte della disponibilità del partito di offrire al ricorrente la possibilità di essere candidato alle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008», quest’ultimo avrebbe assunto l’obbligo, con contratto (solo apparentemente) di donazione stipulato in data 7 marzo 2008, presso la sede del partito politico, di corrispondere a quest’ultimo, in caso di elezione, una determinata somma complessiva, da versare in rate mensili consecutive costanti, con la pattuizione che i versamenti sarebbero cessati solo in caso di morte del donante.

La natura liberale delle erogazioni in parola non sarebbe sostenibile sotto alcun profilo.

In primo luogo – osserva il giudice a quo – l’art. 771, primo comma, del codice civile prevede la nullità della donazione avente ad oggetto beni futuri, quali appunto dovrebbero considerarsi, «con verosimile plausibilità», le somme da versare in rate mensili costanti nell’arco di cinque anni (e quindi non presenti nel patrimonio del donante all’epoca della stipulazione del contratto).

Inoltre, sebbene l’art. 772 cod. civ. consenta la donazione di prestazioni periodiche, tale disposizione potrebbe riguardare «solamente le prestazioni alimentari e di soccorso».

Infine, e decisivamente, in virtù del sinallagma prima ricordato, mancherebbe lo spirito di liberalità, che «costituisce un elemento essenziale della causa del contratto di donazione», ai sensi dell’art. 769 cod. civ.

Tuttavia, il tenore della disposizione censurata non lascerebbe dubbi sulla voluntas legis.

Ponendosi «in evidente rapporto di specialità» con l’art. 15, comma 1-bis, del TUIR, la disposizione non richiederebbe affatto l’accertamento della natura liberale delle erogazioni, consentendo piuttosto, a partire dall’anno di imposta 2007, la detrazione di qualunque versamento in denaro eseguito dai candidati e dagli eletti alle cariche pubbliche in conformità a previsioni regolamentari o statutarie deliberate dai partiti o movimenti politici beneficiari delle erogazioni medesime.

In conclusione, poiché la disposizione censurata si applica proprio ad elargizioni non aventi carattere liberale, il ricorso dovrebbe essere accolto, salvo che risulti fondata la questione di legittimità costituzionale: ciò che renderebbe evidente la rilevanza di quest’ultima.

In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente argomenta il contrasto della disposizione in esame con l’art. 67 Cost., secondo cui «[o]gni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Consentendo la detraibilità dall’imposta sui redditi delle erogazioni eseguite da candidati e da eletti alle cariche pubbliche, anche in assenza dello spirito di liberalità, essa sarebbe infatti «fonte di possibili condizionamenti dell’indipendenza del parlamentare nell’espletamento delle sue funzioni».

Ad introdurre nelle relazioni tra parlamentare e partito politico «fattori potenzialmente distorsivi in quanto estranei al rapporto rappresentativo», in violazione appunto dell’art. 67 Cost., sarebbe, in particolare, la creazione a carico del parlamentare «di debiti di natura giuridica nei confronti di un partito politico», con i corollari della responsabilità patrimoniale di natura personale e dell’assoggettabilità a possibili azioni esecutive.

2.– Il d.l. n. 149 del 2013, come convertito, che contiene la disposizione censurata, costituisce una tappa di rilievo nel percorso normativo che ha gradualmente condotto all’abolizione del finanziamento pubblico diretto dei partiti.

Il decreto-legge in parola segna infatti il passaggio ad un sistema di finanziamento esclusivamente privato, di cui vengono ridisegnati i contorni, con la previsione di una transizione progressiva dal precedente al nuovo ordinamento, basato soltanto su due meccanismi, peraltro già sperimentati in passato.

Viene ribadita, infatti, la possibilità di destinare a un partito politico una quota (oggi pari al due per mille) dell’IRPEF (art. 12), secondo quanto già originariamente previsto dalla legge 2 gennaio 1997, n. 2 (Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici).

Inoltre, ed è quel che più rileva in questa sede, l’art. 14, comma 5, del d.l. n. 149 del 2013, come convertito, abroga l’art. 15, comma 1-bis, del TUIR, «[a] decorrere dal 1° gennaio 2014», ma, dalla stessa data, l’art. 11 del medesimo decreto conferma il regime fiscale agevolato di cui può beneficiare il contribuente che effettui erogazioni liberali in denaro a partiti politici, purché questi ultimi rispettino alcuni requisiti, tra cui l’iscrizione in apposito registro (a sua volta subordinata a determinate condizioni).

È riconosciuta, infatti, la possibilità di detrarre, ai fini dell’imposta sul reddito, una somma pari al 26 per cento per importi compresi fra trenta e trentamila euro annui (art. 11, commi 1 e 2), purché l’elargizione sia effettuata con modalità di versamento, specificamente indicate (art. 11, comma 7), che ne garantiscano la tracciabilità.

In tale contesto trova dunque collocazione la disposizione censurata, ossia il comma 4-bis dell’art. 11, aggiunto al d.l. n. 149 del 2013 dalla legge di conversione.

Nella sua versione iniziale, il comma constava di un’unica proposizione, a tenore della quale «[a] partire dall’anno di imposta 2007 le erogazioni in denaro effettuate a favore di partiti politici, esclusivamente tramite bonifico bancario o postale e tracciabili secondo la vigente normativa antiriciclaggio, devono comunque considerarsi detraibili ai sensi dell’articolo 15, comma 1-bis, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917».

Come si ricava da alcuni indici testuali – quali la scomparsa dell’aggettivo «liberali» a qualificare le erogazioni in denaro di cui si tratta e l’impiego dell’avverbio «comunque» a specificare la detraibilità di esse – la disposizione intende ammettere all’agevolazione fiscale anche le erogazioni in denaro non caratterizzate dallo spirito di liberalità, da chiunque effettuate, purché nei modi previsti dalla disposizione del TUIR richiamata (ossia tramite i sistemi tracciabili da essa contemplati).

Indizio rivelatore della suddetta intentio legis, del resto, è la dichiarata portata retroattiva (in tal senso, già l’ordinanza di questa Corte n. 182 del 2019) dell’intervento legislativo («[a] partire dall’anno di imposta 2007»), il quale non avrebbe avuto alcuna utilità ove riferito a forme di contribuzione – appunto quelle sostenute dallo spirito di liberalità – già ammesse a detrazione sin dalla ricordata legge n. 2 del 1997, con previsione “rinnovata”, a partire dal 1° gennaio 2014, dal comma 1 del medesimo art. 11 del d.l. n. 149 del 2013, come convertito.

Tale interpretazione costituisce il presupposto interpretativo dal quale correttamente muove il giudice a quo ed è confermata dalla modifica operata dall’art. 1, comma 141, della legge n. 190 del 2014.

Quest’ultimo intervento legislativo (la cui sopravvenienza ha indotto questa Corte a una pronuncia di restituzione degli atti a fronte di una questione di legittimità costituzionale simile, ma non identica, a quella ora in esame: ordinanza n. 182 del 2019) aggiunge alla disposizione in esame un secondo periodo, a norma del quale «[l]e medesime erogazioni continuano a considerarsi detraibili ai sensi del citato articolo 15, comma 1-bis, ovvero ai sensi del presente articolo, anche quando i relativi versamenti sono effettuati, anche in forma di donazione, dai candidati e dagli eletti alle cariche pubbliche in conformità a previsioni regolamentari o statutarie deliberate dai partiti o movimenti politici beneficiari delle erogazioni medesime».

L’oggetto della modifica è costituito dalle erogazioni in denaro – come detto, non liberali – effettuate a partire dall’anno di imposta 2007 («[l]e medesime erogazioni» di cui al primo periodo), ma da parte di candidati ed eletti alle cariche pubbliche: questi ultimi possono detrarre «anche» i versamenti effettuati «in forma di donazione», purché in conformità a previsioni regolamentari o statutarie del partito beneficiario.

In sostanza, la disposizione prende in considerazione elargizioni in denaro che, se pure effettuate «in forma di donazione» dal candidato o eletto, non corrispondono al modello legale tipico di tale contratto, perché carenti dello spirito di liberalità che deve caratterizzarlo. L’obbiettivo è quello di estendere a tali erogazioni il beneficio della detraibilità, in quanto siano eseguite in conformità a previsioni regolamentari o statutarie del partito beneficiario.

Del resto, se si considera che, rispettivamente per il periodo dal 2007 al 2013 e per quello successivo al 1° gennaio 2014, le donazioni da chiunque effettuate erano già ammesse a detrazione in forza degli artt. 15, comma 1-bis, del TUIR e 11, commi 1 e 2, del d.l. n. 149 del 2013, come convertito, ne risulta confermata l’interpretazione accolta dal giudice rimettente, secondo cui la disposizione censurata si riferisce a versamenti operati senza spirito di liberalità, anche se, eventualmente, in esecuzione di negozi che della donazione presentano la sola forma esteriore.

In definitiva, il comma 4-bis dell’art. 11 del d.l. n. 149 del 2013, come convertito, introduce una disciplina retroattiva, dal 2007 e fino al 2013, a beneficio di chiunque abbia effettuato versamenti non liberali ai partiti e movimenti politici; al ricorrere di alcune condizioni la disciplina si estende, sempre retroattivamente, alle elargizioni operate da candidati o eletti, e continua a valere, per questi ultimi, anche per il periodo successivo (cioè dal 2014 in poi); per chiunque, invece, a partire dal 2014 la detraibilità riguarda, nuovamente, le sole erogazioni (realmente) liberali.

3.– Ciò posto, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione, poiché l’intervento richiesto a questa Corte sarebbe inidoneo a raggiungere il risultato auspicato dal giudice rimettente.

Secondo l’interveniente, in particolare, le censure del giudice a quo avrebbero ad oggetto non già, o non tanto, il trattamento fiscale delle elargizioni di cui si discute, bensì «la stessa prassi, utilizzata in passato da alcuni partiti politici, di finanziarsi stipulando contratti (di “donazione”)», analoghi a quello oggetto del giudizio principale.

Sarebbe questa «prassi» – a parere dell’Avvocatura – a determinare l’asserita tensione con la garanzia costituzionale del libero mandato parlamentare, per la «“forzata fedeltà”» che essa potrebbe ingenerare tra il parlamentare e il partito politico.

La disposizione oggetto del dubbio di legittimità costituzionale, invece, si limiterebbe a disciplinare «solo il trattamento fiscale» del negozio, sicché, quand’anche fosse eliminato il regime di detraibilità dei versamenti conseguenti, nulla impedirebbe di continuare ad operare le elargizioni di cui si tratta, reale causa della lesione dell’art. 67 Cost. prospettata dal rimettente.

L’eccezione non è fondata.

Non è di certo la detraibilità fiscale del versamento a orientare decisivamente un aspirante membro del Parlamento alla stipula di un contratto con cui si obbliga a effettuare elargizioni in favore del partito che si accinge a candidarlo alle elezioni politiche, e il giudice rimettente si mostra ben consapevole di ciò. Nondimeno, sottolinea non irragionevolmente come il regime fiscale agevolato delle elargizioni possa favorire la stipula del negozio ad effetti obbligatori, ponendosi, quantomeno, come “concausa” dell’asserito condizionamento lesivo dell’art. 67 Cost.

Non è, del resto, manifesta l’esistenza di altre disposizioni di legge sulle quali avrebbero potuto indirizzarsi le specifiche censure del rimettente, mentre sicuramente la disposizione oggetto del presente giudizio conduce ad emersione, nell’ordinamento, le “prassi” cui allude l’Avvocatura generale.

Infine, risulta decisivo il carattere non implausibile della motivazione offerta, tanto sulla rilevanza, quanto sulla non manifesta infondatezza (con riferimento all’unico parametro evocato, l’art. 67 Cost.): tale motivazione supera il controllo “esterno” di ammissibilità demandato a questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 183, n. 181, n. 59, n. 32, n. 22 e n. 15 del 2021).

4.– Nel merito, la questione non è fondata.

4.1.– Come è noto, l’art. 67 Cost. spiega i propri effetti non solo sul rapporto fra elettori ed eletti, ma anche sulla relazione tra il singolo parlamentare e il partito e il gruppo parlamentare di appartenenza.

Come in tutti quelli di derivazione liberale, anche nel nostro ordinamento costituzionale – che pure, all’art. 49 Cost., sottolinea il ruolo essenziale dei partiti per la determinazione della politica nazionale – la garanzia del libero mandato non consente l’instaurazione, in capo ai singoli parlamentari, di vincoli – da qualunque fonte derivino: legislativa, statutaria, negoziale – idonei a incidere giuridicamente sullo status del parlamentare e sulle modalità di svolgimento del mandato elettivo.

Può certamente accadere (e di regola accade) che, in riferimento all’esercizio del mandato, vengano di fatto stipulati accordi, impartite istruzioni o fatti valere vincoli di fedeltà, generalmente disciplinati da regole di matrice privatistica, attinenti alla normazione interna agli stessi partiti o gruppi parlamentari di riferimento.

Tuttavia, proprio in forza di quanto disposto dall’art. 67 Cost., tali accordi, istruzioni e vincoli non sono assistiti da alcuna garanzia giuridica, poiché la loro osservanza è rimessa alla coscienza del singolo parlamentare.

Con la sentenza n. 14 del 1964 questa Corte ha già affermato che «[i]l divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito».

Il significato della disposizione costituzionale non risiede, perciò, nel vietare, o nel rendere giuridicamente sanzionabile, l’adesione spontanea del parlamentare alle direttive del suo partito o del suo gruppo. La funzione di garanzia dell’art. 67 Cost. si rivela, invece, nei casi in cui gli accordi tra parlamentare e partito pretendano di tradursi in vincoli con effetto diretto sullo status del parlamentare o sulla libertà di esercizio del mandato.

4.2.– Non ricorrono simili evenienze nel caso portato all’attenzione di questa Corte.

In disparte ogni valutazione – rimessa al giudice eventualmente investito dello scrutinio sulla pretesa creditoria – circa la validità dei contratti in concreto conclusi tra candidati e partiti all’ombra della detraibilità fiscale delle elargizioni effettuate dai primi ai secondi, il tenore dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, come convertito, non consente di evincere alcuna indebita incidenza sullo status del parlamentare, né alcun condizionamento sulle modalità di esercizio del mandato, in lesione del parametro costituzionale invocato.

Del resto, stando almeno alla descrizione che l’ordinanza di rimessione opera del negozio stipulato, l’obbligazione assunta dal parlamentare eletto prescinde dal comportamento (fedele o infedele) da questi tenuto rispetto alle istruzioni del partito di riferimento.

Frutto di una (in questa sede non esplicitamente censurata) discrezionalità legislativa in materia di agevolazioni fiscali (sentenze n. 177 e n. 153 del 2017, n. 111 del 2016, n. 279 del 2014 e n. 275 del 2005; con particolare riferimento al regime della deducibilità o detraibilità degli oneri, sentenze n. 285 del 2004, n. 143 e n. 134 del 1982; ordinanze n. 370 del 1999 e n. 52 del 1988), il contenuto direttamente ascrivibile alla disposizione in esame consiste unicamente in una scelta per la parificazione alle donazioni, ai fini della detraibilità, di erogazioni effettuate da candidati e da eletti in favore del partito di riferimento, allo scopo di incentivare le forme dirette di finanziamento della politica, in un contesto segnato dalla eliminazione di ogni contribuzione pubblica ad essa.

A stare a quanto effettivamente stabilito nella disposizione censurata, non si determinano perciò effetti di sorta, né sullo status del parlamentare, né sulle modalità di esercizio del mandato, che può e deve continuare ad essere svolto liberamente, in conformità o meno agli indirizzi del partito o gruppo di riferimento.

In definitiva, non convince la conclusione del rimettente, per il quale a violare il parametro evocato sarebbe la previsione legislativa della detraibilità delle elargizioni operate in esecuzione del contratto.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 13, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 141, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», sollevata, in riferimento all’art. 67 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Trento, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2021.