SENTENZA N. 59
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO
Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò
ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma,
secondo periodo, della legge
20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei
lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di
lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42,
lettera b), della legge
28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del
lavoro in una prospettiva di crescita), promosso dal Tribunale ordinario di
Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento instaurato da CFS Europe srl contro M. P., con ordinanza
del 7 febbraio 2020, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2020,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie
speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del
24 febbraio 2021 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
deliberato nella camera di consiglio del
24 febbraio 2021.
1.– Con ordinanza del 7 febbraio 2020, iscritta al n. 101 del registro
ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del
lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma,
41, primo comma,
24 e 111, secondo comma,
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18,
settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla
tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività
sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), «nella parte in cui
prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di
un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O.
[giustificato motivo oggettivo], “possa” e non “debba” applicare la tutela di
cui al 4° comma dell’art. 18 (reintegra)».
1.1.– Il rimettente espone di dover decidere sull’opposizione
di un datore di lavoro contro l’ordinanza che, a conclusione della fase
sommaria del cosiddetto “rito Fornero”, ha reintegrato un lavoratore,
licenziato «nel giro di alcuni mesi» due volte per giusta causa e una volta per
giustificato motivo oggettivo. L’opponente non ha impugnato le statuizioni
relative ai licenziamenti per giusta causa e si duole unicamente del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo e dei provvedimenti di
reintegrazione adottati a tale riguardo dal giudice della fase sommaria.
La società datrice di lavoro ha chiesto di respingere le domande del
lavoratore e di condannarlo alla restituzione delle somme incassate per effetto
dell’ordinanza provvisoriamente esecutiva, o di limitare l’accoglimento delle
domande «ai minimi indennitari». Il lavoratore, in via riconvenzionale, ha
chiesto l’esatta determinazione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione
che ha scelto di ottenere, dopo l’ordinanza conclusiva della fase sommaria.
In punto di rilevanza, il giudice a quo evidenzia che la disposizione
censurata «viene in diretta ed immediata applicazione nel caso di specie»,
concernente un’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento
del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Né la rilevanza delle questioni potrebbe essere esclusa per il sol fatto
che il lavoratore abbia optato per l’indennità sostitutiva della reintegrazione,
in quanto il giudice sarebbe comunque chiamato a decidere tra una tutela reintegratoria, pur sostituita dall’indennità, e una tutela
meramente indennitaria.
1.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente
osserva che la disposizione censurata, in quanto caratterizzata da un tenore
letterale inequivocabile, non si presta a una interpretazione adeguatrice.
Il diniego della reintegrazione, che la legge non subordina a criteri di
sorta, rappresenterebbe un nuovo licenziamento, intimato dal giudice sulla base
di una valutazione ampiamente discrezionale.
Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione lederebbe il
principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto,
per effetto di una «insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di
qualificare in un modo o nell’altro l’atto espulsivo», determinerebbe
un’arbitraria disparità di trattamento tra «situazioni del tutto identiche,
ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo dei quali si sia accertata in giudizio l’infondatezza
(addirittura la manifesta infondatezza per il G.M.O.)».
La disposizione censurata violerebbe anche l’art. 41 Cost., poiché attribuirebbe
al datore di lavoro «un potere di scelta di tipo squisitamente
imprenditoriale», che si tradurrebbe nell’intimazione di «un nuovo ed autonomo
atto espulsivo».
Il giudice a quo prospetta, inoltre, il contrasto con l’art. 24 Cost.,
che tutela il diritto di agire in giudizio. Il lavoratore «si troverebbe
esposto all’esercizio di una facoltà giudiziale totalmente discrezionale»,
senza avere alcuna facoltà di difendersi.
L’art. 24 Cost., in connessione con l’art. 3 Cost.,
sarebbe violato anche perché l’insindacabile qualificazione del datore di
lavoro condizionerebbe «le tutele del lavoratore».
Inoltre, il nuovo licenziamento, che il giudice intima allorché nega la
reintegrazione, sarebbe assoggettato a un trattamento «ingiustificatamente
differente e deteriore» rispetto agli altri licenziamenti determinati in
generale dal giustificato motivo oggettivo e, in particolare, da un motivo
legato agli stessi mutamenti organizzativi che precludono la tutela reintegratoria. Ad avviso del rimettente, non sarebbero
rispettate le procedure di garanzia previste dall’art. 7 della legge 15 luglio
1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e sarebbe ammessa la sola
impugnativa in sede di gravame, con conseguente «abolizione di un grado di
giudizio».
Sarebbe compromessa anche la terzietà del giudice (art. 111, secondo comma,
Cost.), costretto a vestire i panni dell’imprenditore
e a compiere «un’opzione di gestione dell’impresa».
2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha
chiesto di dichiarare inammissibile o comunque infondata la questione sollevata
dal Tribunale di Ravenna.
2.1.– La questione sarebbe inammissibile per un triplice
ordine di ragioni.
2.1.1.– Il rimettente, anzitutto, non avrebbe
dimostrato l’effettivo e concreto rapporto di strumentalità fra la risoluzione
della questione di legittimità costituzionale e la definizione del giudizio
principale e non avrebbe descritto in maniera adeguata la fattispecie concreta
sottoposta al suo esame.
2.1.2.– Il giudice a quo, in secondo luogo,
avrebbe trascurato di interpretare la disposizione censurata in senso conforme
alla Costituzione.
2.1.3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha
eccepito, infine, l’inammissibilità della questione per il carattere additivo o
manipolativo del petitum, in un contesto in cui non
si riscontrano «vincoli costituzionali positivi in merito al tipo di tutela da
accordare al lavoratore illegittimamente licenziato».
2.2.– Quanto al merito, la questione non sarebbe comunque
fondata.
2.2.1.– Le censure muoverebbero dall’assunto
dell’omogeneità tra la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo, da un
lato, e il giustificato motivo oggettivo, dall’altro.
Tale assunto, tuttavia, non sarebbe condivisibile. Se la giusta causa e il
giustificato motivo soggettivo si riconnettono alle condotte del lavoratore, il
giustificato motivo oggettivo investe la «sfera organizzativa del datore di
lavoro». L’eterogeneità delle fattispecie impedirebbe dunque di porle a
raffronto.
Le censure di violazione dell’art. 3 Cost. sarebbero infondate anche perché il giudice ben potrebbe
disattendere una qualificazione pretestuosa, che non rispecchi le reali ragioni
giustificatrici del licenziamento.
2.2.2.– L’Avvocatura non ravvisa alcun
contrasto con l’art. 41 Cost.
La disposizione censurata, nel richiedere una valutazione di compatibilità
della reintegrazione con le esigenze organizzative dell’impresa, sarebbe
coerente con le indicazioni del giudice a quo, che auspica una limitazione del
sindacato giurisdizionale sulle scelte imprenditoriali. Il richiamo
all’eccessiva onerosità della reintegrazione, unito al requisito della
manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, intenderebbe
scongiurare il rischio di «un’intromissione diretta ed incondizionata del
potere giurisdizionale nelle scelte organizzative dell’impresa».
2.2.3.– Sarebbero infondate, infine, anche le
censure di violazione della terzietà e dell’imparzialità del giudice (art. 111,
secondo comma, Cost.).
La disposizione censurata non attribuirebbe al giudice alcun potere di
licenziare ex novo il lavoratore, ma subordinerebbe il potere di ripristinare
il rapporto di lavoro preesistente a una valutazione ulteriore sulla
compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa. Lungi dallo
schierarsi dalla parte dell’imprenditore, il giudice si limiterebbe a
contemperare «le esigenze di tutela del lavoratore e quelle organizzative del
datore di lavoro».
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n.
101 del 2020), il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del
lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma,
secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività
sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui
prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto
posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa – e non
debba – disporre la reintegrazione del lavoratore.
1.1.– Il rimettente denuncia, anzitutto, il contrasto con
l’art. 3 della Costituzione, alla luce del «trattamento irragionevolmente
discriminatorio» che il legislatore avrebbe riservato a «situazioni identiche».
La reintegrazione, obbligatoria nel licenziamento per giusta causa nell’ipotesi
di insussistenza del fatto, sarebbe meramente facoltativa e sarebbe subordinata
a una valutazione in termini di non eccessiva onerosità nella fattispecie del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che peraltro presuppone una
insussistenza manifesta del fatto e una iniziativa del datore di lavoro «del
tutto pretestuosa».
Dall’insindacabile scelta del datore di lavoro di qualificare il
licenziamento come determinato da giusta causa o da giustificato motivo
oggettivo deriverebbe «una distinzione estremamente rilevante in punto della
tutela del lavoratore». Neppure le diversità che intercorrono tra la giusta
causa e il giustificato motivo oggettivo potrebbero spiegare tale distinzione,
poiché, nell’ipotesi di insussistenza del fatto, si configura in ogni caso un
recesso illegittimo, a prescindere dalle ragioni addotte, attinenti alla giusta
causa o al giustificato motivo oggettivo.
Il rimettente osserva che, nel caso di specie, non viene in rilievo il tema
della «mancanza di copertura costituzionale per la reintegra», ma l’arbitraria
disparità di trattamento tra situazioni identiche negli elementi costitutivi.
Una volta che abbia scelto di disporre la tutela reintegratoria
al ricorrere di determinati presupposti, il legislatore non potrebbe introdurre
«ingiustificati trattamenti differenziati tra situazioni identiche».
Il fatto che il lavoratore possa optare – come è avvenuto nel giudizio
principale e come spesso avviene nella pratica – per una indennità sostitutiva
della reintegrazione dimostrerebbe «l’irragionevolezza del sistema
complessivamente adottato». In questo caso, difatti, il richiamo all’eccessiva
onerosità non sarebbe pertinente. Anche da questo punto di vista, emergerebbe
l’inidoneità del criterio indicato a indirizzare la scelta del giudice.
1.2.– Il rimettente argomenta che il potere discrezionale del
giudice di disporre o negare la reintegrazione, «nell’assoluta mancanza di
criteri normativi in base ai quali orientare l’interprete», si configura come
un potere «essenzialmente assimilabile all’esercizio dell’attività di impresa».
Il legislatore sacrificherebbe la libertà dell’iniziativa economica privata,
tutelata dall’art. 41 Cost., e porrebbe «limiti proprio ai limiti all’iniziativa
economica privata», che la Carta fondamentale individua nel rispetto della
sicurezza, della libertà, della dignità umana.
Nel negare la tutela reintegratoria allorché
risulti eccessivamente onerosa, il giudice intimerebbe «un ulteriore e nuovo
licenziamento per giustificato motivo oggettivo» e compirebbe «scelte
organizzative riservate all’imprenditore».
1.3.– Il giudice a quo, inoltre, censura l’art. 18, settimo
comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, in quanto lesivo
dell’art. 24 Cost.
La disposizione in esame, nell’attribuire al giudice il potere di disporre
un nuovo licenziamento, pregiudicherebbe il diritto di difesa delle parti, che
non sarebbero poste nelle condizioni di interloquire sulla compatibilità della
reintegrazione con le esigenze organizzative aziendali, «nel mezzo di un
processo avente un altro oggetto».
L’art. 24 Cost., in connessione con l’art. 3 Cost.,
sarebbe violato sotto due ulteriori profili.
Il diritto di azione del lavoratore sarebbe «ingiustamente sacrificato e
ostacolato dalla scelta, operata dalla legge ordinaria, di fare dipendere le
tutele del lavoratore dalla mera insindacabile (nemmeno ex post) volontà qualificatoria datoriale».
Inoltre, il licenziamento, che il giudice intima allorché nega la tutela reintegratoria, riceverebbe un trattamento
«ingiustificatamente differente e deteriore […] rispetto ad ogni altro normale
licenziamento intimato dal datore di lavoro» e anche rispetto ai licenziamenti
per giustificato motivo oggettivo, intimati sulla base di quello stesso
mutamento organizzativo che ha precluso l’applicazione della tutela reintegratoria. Il licenziamento disposto ope iudicis, difatti, non sarebbe
rispettoso delle procedure di garanzia previste dall’art. 7 della legge 15
luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e potrebbe essere
impugnato solo in sede di gravame contro la decisione del giudice che l’ha
intimato, con la conseguente perdita di un grado di giudizio.
1.4.– Il giudice a quo denuncia, infine, il contrasto con
l’art. 111, secondo comma, Cost. e
con i princìpi del giusto processo.
La disposizione censurata imporrebbe al giudice di ricoprire il ruolo di
una parte in causa, e in particolare dell’imprenditore, senza neppure indicare
«i criteri ai quali il giudice dovrebbe attenersi». Sarebbe compromessa,
pertanto, la terzietà del giudice.
2.– Occorre esaminare, preliminarmente, le eccezioni di
inammissibilità formulate nell’atto di intervento.
2.1.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri,
intervenuto in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, la questione sarebbe inammissibile per carente motivazione in ordine al
requisito della rilevanza.
2.1.1.– Il rimettente non avrebbe dimostrato
la necessità di applicare la previsione censurata per decidere su una o più
domande formulate nel giudizio principale e non avrebbe offerto alcun
ragguaglio sull’incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento sugli
esiti della controversia. Il giudice a quo avrebbe omesso di far luce
sull’imprescindibile rapporto di strumentalità tra la soluzione del dubbio di
costituzionalità e la definizione del giudizio principale.
Anche la descrizione della fattispecie concreta sarebbe lacunosa.
Il giudice a quo non avrebbe svolto alcun rilievo in merito alla
illegittimità del licenziamento impugnato, alla manifesta insussistenza del
fatto addotto come giustificazione del licenziamento stesso, alla necessità di
applicare la disposizione che esclude il rimedio della reintegrazione e impone
di riconoscere una tutela meramente indennitaria.
2.1.2.– La motivazione in ordine alla
rilevanza non presenta i profili di inammissibilità eccepiti dalla difesa dello
Stato.
Questa Corte ha affermato che «[a]nche nella
prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77 del
2018, punto 8 del Considerato in diritto) e di una più efficace garanzia
della conformità della legislazione alla Carta fondamentale, il presupposto
della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in
causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 20 del
2018, punto 2 del Considerato in diritto)» (sentenza n. 174
del 2019, punto 2.1. del Considerato in diritto).
La rilevanza si configura come «necessità di applicare la disposizione
censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione e si riconnette
all’incidenza della pronuncia di questa Corte su qualsiasi tappa di tale
percorso» (sentenza
n. 254 del 2020, punto 4.2. del Considerato in
diritto). L’applicabilità della disposizione censurata è dunque sufficiente a
fondare la rilevanza della questione proposta (fra le molte, sentenza n. 174
del 2016, punto 2.1. del Considerato in diritto).
Nella vicenda oggi sottoposta al vaglio di questa Corte, il giudice a quo
ha descritto la fattispecie concreta in modo idoneo a suffragare il requisito
della rilevanza del dubbio di costituzionalità.
Il rimettente riferisce che il giudizio principale verte in via esclusiva
su una fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
L’opponente non ha coltivato le contestazioni relative ai due licenziamenti
intimati per giusta causa e annullati dal giudice della fase sommaria, con
conseguente reintegrazione del lavoratore.
Nella fase sommaria è stata accertata la manifesta insussistenza del fatto
dedotto dal datore di lavoro a sostegno del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo e – su questo tema controverso – si dispiegano le
argomentazioni delle parti nella fase a cognizione piena introdotta
dall’opposizione.
Il giudice a quo soggiunge che le parti non contestano la necessità di
applicare la previsione censurata, anche alla luce della data di assunzione del
ricorrente (2001) e delle dimensioni dell’impresa, che occupa circa cinquanta
dipendenti.
Secondo il rimettente, la rilevanza della questione di legittimità
costituzionale non è scalfita neppure dalla scelta del lavoratore di conseguire
l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
La valutazione del giudice a quo, avvalorata da una pluralità di argomenti,
non è implausibile e supera, pertanto, il controllo
“esterno” demandato a questa Corte in ordine al requisito della rilevanza (da
ultimo, sentenza
n. 32 del 2021, punto 2.1.1. del Considerato in
diritto).
Le contrapposte domande delle parti – quella del datore di lavoro, volta a
ottenere la restituzione dell’indennità corrisposta, e quella del lavoratore,
concernente l’esatta determinazione dell’importo dovuto – presuppongono la
valutazione della fondatezza della domanda di reintegrazione nell’àmbito del
giudizio incardinato con l’opposizione di cui all’art. 1, comma 51, della legge
28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del
lavoro in una prospettiva di crescita).
Ai fini della decisione della controversia, è dunque ineludibile
l’applicazione della disposizione censurata, che delinea i presupposti della
reintegrazione in un licenziamento per giustificato motivo oggettivo quale è
quello dedotto – per concorde ammissione delle parti – nel giudizio principale.
Tanto basta a radicare la rilevanza della questione.
2.2.– L’Avvocatura dello Stato imputa al rimettente di non avere
sperimentato una interpretazione adeguatrice della
previsione censurata.
2.2.1.– Il giudice a quo si sarebbe limitato
a enucleare il significato letterale dell’art. 18, settimo comma, secondo
periodo, dello statuto dei lavoratori, senza confrontarsi con
un’interpretazione sistematica mediante un «ragionevole e bilanciato potere
esegetico». La questione sarebbe, pertanto, inammissibile.
2.2.2.– Neppure tale eccezione è fondata.
Ai fini dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, è
necessario e sufficiente che il giudice a quo abbia esplorato la praticabilità
di una interpretazione adeguatrice e l’abbia
consapevolmente esclusa (da ultimo, sentenza n. 32 del
2021, punto 2.3.1. del Considerato in diritto),
alla luce di un accurato esame delle alternative che si profilano nel dibattito
ermeneutico (sentenza
n. 123 del 2020, punto 3.3.1. del Considerato in
diritto).
Se l’interpretazione prescelta dal rimettente sia la sola persuasiva, è
profilo che non attiene all’ammissibilità, ma al merito della questione di
legittimità costituzionale e – nello scrutinio del merito – dovrà essere
esaminato (sentenza
n. 95 del 2016, punto 2.2. del Considerato in
diritto).
Il rimettente muove dalla premessa che la disposizione censurata sia
contraddistinta da un significato letterale inequivocabile e che
l’interpretazione costituzionalmente orientata si risolva in «una
interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro
precetto normativo», in contrasto con il sindacato accentrato di
costituzionalità.
Il giudice a quo mostra di recepire l’interpretazione accreditata dalla
«giurisprudenza di legittimità maggioritaria», che riconosce il potere
discrezionale di negare la reintegrazione, «se la tutela reintegratoria
sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente
incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta
dall’impresa» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n.
10435).
Il Tribunale di Ravenna non reputa condivisibile il diverso indirizzo,
«numericamente minoritario», che configura come obbligatoria la reintegrazione
nelle ipotesi di manifesta insussistenza del fatto (Corte di cassazione,
sezione lavoro, sentenze 13 marzo 2019, n. 7167 e 14 luglio 2017, n. 17528) e
si traduce in «una interpretazione essenzialmente abrogativa di un testuale
elemento normativo».
All’esito di un circostanziato esame delle diverse interpretazioni
prospettate, il giudice ha escluso la sostenibilità di un’interpretazione adeguatrice e ha così ottemperato in maniera adeguata
all’onere di attribuire alla disposizione un significato conforme ai princìpi
costituzionali.
Anche da questa angolazione, pertanto, non si ravvisano ostacoli alla
disamina del merito.
2.3.– La questione sarebbe inammissibile, anche perché
formulata in modo da ottenere «una pronuncia additiva o manipolativa non
costituzionalmente obbligata» in un àmbito in cui il legislatore gode di
un’ampia discrezionalità.
2.3.1.– La scelta della tutela che spetta al
lavoratore illegittimamente licenziato sarebbe demandata all’apprezzamento
discrezionale del legislatore. Il riconoscimento della reintegrazione
rappresenterebbe «solamente una delle molteplici alternative prospettabili».
2.3.2.– Anche tale eccezione non è fondata.
Il rimettente sollecita in maniera puntuale, mediante l’indicazione di un chiaro
termine di raffronto, l’intervento correttivo di questa Corte, che dovrebbe
ripristinare, in ordine all’obbligatorietà della reintegrazione, un trattamento
omogeneo tra il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo
soggettivo, da un lato, e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
dall’altro. Anche nella seconda ipotesi la reintegrazione dovrebbe essere
obbligatoria, quando sia accertata l’insussistenza manifesta del fatto.
La molteplicità dei possibili rimedi contro i licenziamenti illegittimi e
l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate non escludono che le
difformità tra i regimi di tutela debbano essere sorrette da giustificazioni
razionali e non sottraggono le scelte adottate dal legislatore al sindacato di
questa Corte.
3.– Nel merito, la questione è fondata.
4.– I dubbi di costituzionalità si concentrano sull’art. 18,
settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, così come
modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nel
quadro di un ampio intervento riformatore sulle tutele contro i licenziamenti
illegittimi.
Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo più equo le tutele
dell’impiego» anche mediante l’adeguamento della disciplina dei licenziamenti
«alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e la previsione «di un
procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative
controversie» (art. 1, comma 1, lettera c, della legge citata).
All’originario modello, incentrato sulla tutela reintegratoria
per tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del licenziamento,
fanno riscontro quattro regimi, applicabili ai rapporti a tempo indeterminato
instaurati fino al 7 marzo 2015. A decorrere da questa data si dispiega la
disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni
in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che si caratterizza per una
diversa ratio e per un diverso regime di tutele.
Si deve ricordare che la tutela reintegratoria
piena, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, si applica nelle
ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di matrimonio o di
maternità o di paternità, retto da motivo illecito determinante o dichiarato
inefficace perché intimato in forma orale. Il giudice reintegra il lavoratore e
gli riconosce un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione
globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva
reintegrazione, con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per
effetto dello svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde
perceptum). L’importo minimo, invalicabile, è di
cinque mensilità.
Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione, può chiedere al datore
di lavoro un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto, senza rinunciare al risarcimento del danno patito nel periodo
tra l’estromissione e la richiesta dell’indennità sostitutiva, che già risolve
il rapporto di lavoro.
L’art. 18 dello statuto dei lavoratori, così come novellato nel 2012,
prevede, inoltre, una tutela reintegratoria attenuata
e una tutela indennitaria, declinata in forma piena e ridotta, e ne sancisce
l’applicazione ai datori di lavoro che occupino più di quindici dipendenti
(cinque, se si tratta di imprese agricole) nell’unità produttiva in cui ha
avuto luogo il licenziamento o nell’àmbito dello stesso Comune o che occupino
complessivamente, sia pure in diverse unità produttive, più di sessanta
dipendenti.
La tutela reintegratoria attenuata, invocata
nell’odierno giudizio, contempla la reintegrazione nel posto di lavoro, al pari
della tutela reintegratoria piena, ma limita a dodici
mensilità l’ammontare dell’indennità risarcitoria che il datore di lavoro è
obbligato a corrispondere dal giorno del licenziamento fino a quello
dell’effettiva reintegrazione. Da tale importo, peraltro, deve essere detratto
non solo quel che il lavoratore abbia guadagnato in virtù di altre occupazioni
(l’aliunde perceptum), ma
anche quel che avrebbe potuto guadagnare adoperandosi con l’ordinaria diligenza
nella ricerca di un’altra attività lavorativa (l’aliunde
percipiendum). Anche in questo caso il lavoratore ha
la facoltà – in concreto esercitata nel giudizio principale – di optare per
l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Tale tutela si applica ai licenziamenti disciplinari, per giusta causa o
giustificato motivo soggettivo, allorché il giudice riscontri l’insussistenza
del fatto contestato o la riconducibilità del fatto alle condotte punibili con
una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi
o dei codici disciplinari.
La tutela reintegratoria attenuata sanziona anche
i licenziamenti intimati senza giustificazione «per motivo oggettivo
consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore», o intimati in
violazione delle regole che, nell’àmbito del licenziamento per malattia,
disciplinano il periodo di comporto (art. 2110 del codice civile).
Nei licenziamenti economici, la tutela reintegratoria
attenuata può essere applicata nelle ipotesi di «manifesta insussistenza del
fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
5.– Quanto al licenziamento per giustificato motivo
oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, che
rappresenta il fulcro dell’odierna questione di legittimità costituzionale, il
nuovo regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970,
come modificato dalla legge n. 92 del 2012, prescrive di regola la
corresponsione di una indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici
e un massimo di ventiquattro mensilità.
Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo
di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza
del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del
recesso e dunque la sua natura pretestuosa (Corte di cassazione, sezione
lavoro, ordinanza 19 marzo 2020, n. 7471).
Tale requisito, che il rimettente non censura, si correla strettamente ai
presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
che è onere del datore di lavoro dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo
regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte
organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare
altrove il lavoratore (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11
novembre 2019, n. 29102). Perché possa operare il rimedio della reintegrazione,
è sufficiente che la manifesta insussistenza riguardi uno dei presupposti
appena indicati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre
2018, n. 32159).
Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio applicativo, si raccordano
tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro, che il
giudice è chiamato a valutare, senza sconfinare in un sindacato di congruità e
di opportunità. Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale
garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema
ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio.
6.– Il rimettente prende le mosse dall’assunto, avallato
anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione,
sezione lavoro, sentenza 3 febbraio 2020, n. 2366), che la reintegrazione non
sia obbligatoria, neppure quando l’insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento si connoti come manifesta.
Il dato testuale conferma una tale premessa ermeneutica. Nel contesto
dell’art. 18, settimo comma, dello statuto dei lavoratori, al perentorio
«applica» del primo periodo fa riscontro il «può applicare» del secondo periodo
e sottende, secondo il significato proprio delle parole, una facoltà
discrezionale del giudice.
L’elemento letterale è poi corroborato dalla ratio legis,
così come si ricava dall’esame dei lavori preparatori. L’attuale formulazione
scaturisce dalla mediazione tra opposte visioni, all’esito di un acceso
dibattito parlamentare. Le critiche alle “disarmonie” della previsione
censurata, emerse nel corso dell’approvazione del disegno di legge presentato
dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, non hanno condotto alla
reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a più riprese.
La giurisprudenza di legittimità, nel tentativo di scongiurare le
incertezze applicative che il testo della legge avrebbe ingenerato (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 luglio 2016, n. 14021), ha provato a
definire i criteri che presiedono alla valutazione discrezionale del giudice e
ha posto l’accento, in particolare, sui principi generali in tema di
risarcimento in forma specifica (art. 2058 cod. civ.), che precludono la restitutio in integrum quando si
riveli eccessivamente onerosa; norma applicabile anche alla responsabilità
contrattuale.
Nella ricostruzione della Corte di cassazione, che costituisce diritto
vivente, il richiamo alla disciplina del risarcimento del danno in forma
specifica offre «un parametro di riferimento per l’esercizio del potere
discrezionale del giudice», che impone di valutare se la reintegrazione sia «al
momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile
con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435).
Il giudice, pertanto, potrà pronunciare la reintegrazione del lavoratore
«subordinatamente all’ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non
eccessiva onerosità del rimedio» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza
31 gennaio 2019, n. 2930).
7.– La disposizione censurata, nel sancire una facoltà
discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta con l’art. 3 Cost., con riguardo ai profili e per i motivi di séguito
esposti.
8.– Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e
applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha
fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose
garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del
1965, punto 4 del Considerato in diritto).
L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente
o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del
1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di
recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto
alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194
del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto),
anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi
oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa. Si è
anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile
paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali (sentenza n. 46 del
2000, punto 5 del Considerato in diritto).
In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si affiancano
le fonti sovranazionali (art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con
annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con
la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE –,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007), «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata
compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254
del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del
lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli
compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di
ragionevolezza.
9.– La disposizione censurata entra in conflitto con tali
princìpi.
Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela, anzitutto,
una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del
2012 e vìola il principio di eguaglianza.
Per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha previsto la
reintegrazione del lavoratore, quando si accerti in giudizio l’insussistenza
del fatto posto a base del recesso del datore di lavoro. Per i licenziamenti
economici, l’insussistenza del fatto può condurre alla reintegrazione ove sia
manifesta. L’insussistenza del fatto, pur diversamente graduata, assurge dunque
a elemento qualificante per il riconoscimento del più incisivo fra i rimedi
posti a tutela del lavoratore.
Secondo la valutazione discrezionale del legislatore, l’insussistenza del
fatto – sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al
lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e
presenti carattere manifesto – rende possibile una risposta sanzionatoria
omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di
lavoro.
In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo
al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto
collega l’applicazione della tutela reintegratoria,
si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere
facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti
economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione
addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto
all’insussistenza pura e semplice del fatto.
Le peculiarità delle fattispecie di licenziamento, che evocano, nella
giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la violazione degli obblighi
contrattuali ad opera del lavoratore e, nel giustificato motivo oggettivo,
scelte tecniche e organizzative dell’imprenditore, non legittimano una
diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della
reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole
del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si
richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta.
L’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a
pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione
produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla
continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che
vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L’insussistenza del
fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di
licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria
giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato
sulla base degli artt. 4 e 35 Cost. (sentenza
n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).
Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a raffronto
dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella previsione di una
identica tutela reintegratoria, privano di una
ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente
facoltativo per i soli licenziamenti economici.
È sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento
giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva
onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono
sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di
questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore.
10.– Alla violazione del principio di eguaglianza e alla
disarmonia interna a un sistema di tutele, già caratterizzato da una pluralità
di distinzioni, si associa l’irragionevolezza intrinseca del criterio
distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di
trattamento.
Il rimettente scorge nella previsione censurata le caratteristiche di una
norma “in bianco” e stigmatizza l’irragionevolezza di una disciplina «del tutto
priva di criteri applicativi» idonei a orientare il potere discrezionale di
disporre o meno la reintegrazione.
10.1.– Anche questi rilievi, che sorreggono
l’argomentazione dell’ordinanza di rimessione, sono fondati.
Per i licenziamenti economici, il legislatore non solo presuppone una
evidenza conclamata del vizio, che non sempre è agevole distinguere rispetto a
una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la
reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo.
La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella
meramente indennitaria – è così rimessa a una valutazione del giudice
disancorata da precisi punti di riferimento.
Il richiamo alla eccessiva onerosità, che la giurisprudenza di legittimità
ha indicato nell’intento di conferire alla previsione un contenuto precettivo
meno evanescente, non pone rimedio all’indeterminatezza della fattispecie.
Tale nozione, funzionale a tracciare la linea di confine tra due forme di
tutela dalla comune matrice risarcitoria (risarcimento in forma specifica o per
equivalente), si colloca nel contesto di grandezze economiche comparabili.
Nella disciplina della reintegrazione, invece, che si è via via affinata come
autonoma tecnica di tutela rispetto al paradigma dell’art. 2058 cod. civ., essa finisce per rivelarsi inadeguata.
Nella ricostruzione operata dalla giurisprudenza, sopra richiamata, la
misura indennitaria di tutela compensativa non può dirsi “equivalente”, quale
invece è l’indennità sostitutiva della reintegrazione, prevista dal terzo comma
dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, ma ha invece un contenuto ridotto,
quale quello previsto dal quinto comma del medesimo articolo.
L’eccessiva onerosità, declinata come incompatibilità con la struttura
organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa, presuppone valutazioni
comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non
essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di
iniziativa economica privata. Né serve a individuare parametri sicuri per la
valutazione del giudice nel riconoscimento di due rimedi – la reintegrazione o
l’indennità – caratterizzati da uno statuto eterogeneo.
In un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalità del giudice riveste
un ruolo cruciale, come questa Corte ha riconosciuto di recente nel censurare
l’automatismo che governava la determinazione dell’indennità risarcitoria per i
licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194
del 2018) o formale (sentenza n. 150
del 2020), dapprima commisurata alla sola anzianità di servizio. Al giudice
è stato restituito un essenziale potere di valutazione delle particolarità del
caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili
dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi
collaudata.
Nella fattispecie sottoposta all’odierno scrutinio, la diversa tutela
applicabile – che ha implicazioni notevoli – discende invece da un criterio
giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio e, per altro
verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento.
Il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa che preclude
l’applicazione della tutela reintegratoria è
riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento
illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre,
può intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un
elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola
vicenda di licenziamento.
È, pertanto, manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a
fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile
dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano
sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria
o una meramente indennitaria.
Per costante giurisprudenza di questa Corte (fra le molte, sentenza n. 2 del
1986, punto 8 del Considerato in diritto), ben può il legislatore
delimitare l’àmbito applicativo della reintegrazione.
Nondimeno, un criterio distintivo, che fa leva su una mutevole valutazione
casistica e su un dato privo di ogni ancoraggio con l’illecito che si deve
sanzionare, non si fonda su elementi oggettivi o razionalmente giustificabili e
amplifica le incertezze del sistema.
11.– Inoltre, nel demandare a una valutazione giudiziale
sfornita di ogni criterio direttivo – perciò altamente controvertibile – la
scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela
indennitaria, la disciplina censurata contraddice la finalità di una equa
ridistribuzione delle «tutele dell’impiego», enunciata dall’art. 1, comma 1,
lettera c), della legge n. 92 del 2012. L’intento di circoscrivere entro
confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della
reintegrazione e di offrire parametri precisi alla discrezionalità del giudice
rischia di essere vanificato dalla necessità di procedere alla complessa
valutazione sulla compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa.
Anche da questo punto di vista, si ravvisa l’irragionevolezza censurata dal
Tribunale di Ravenna.
12.– Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità
costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300
del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92
del 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la
manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica
altresì» – la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18.
Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura prospettati dal
rimettente.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma,
secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale,
nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1,
comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in
materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita),
nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la
disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 24 febbraio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 1° aprile 2021.