Sentenza n. 45 del 1965
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SENTENZA N. 45

ANNO 1965

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la Seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 2118, primo comma, del Codice civile, promossi con sei ordinanze emesse il 28 febbraio 1964 dal Pretore di Scalea in altrettanti procedimenti civili vertenti tra Forestieri Rosina e Lomonaco Vittoria, Dito Francesco e Orlando Giuseppe, Caroprese Rinaldo e Mancuso Vincenzo e Salvatore, Biancardino Domenico e Barbarello Francesco, Rattacaso Biagio e Orlando Giuseppe, Lazzari Luigino e Migliaccio Emma, iscritte ai nn. 95, 96, 97, 98, 99 e 100 del Registro ordinanze 1964 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 157 del 27 giugno 1964.

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Dito Francesco e Lazzari Luigino;

udita nell'udienza pubblica del 7 aprile 1965 la relazione del Giudice Francesco Paolo Bonifacio;

udito l'avv. Carlo Smuraglia, per Dito Francesco e Lazzari Luigino.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di sei procedimenti civili promossi, a seguito di licenziamento, da altrettanti lavoratori contro i rispettivi datori di lavoro ed aventi ad oggetto la condanna dei convenuti al pagamento di indennità inerenti al rapporto di lavoro o conseguenti all'estinzione di questo, il Pretore di Scalea con ordinanze emesse il 28 febbraio 1964 ha sollevato di ufficio la questione di legittimità costituzionale del primo comma dell'art. 2118 del Codice civile, che disciplina il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Nelle ordinanze il Pretore ritiene che la norma denunziata sia in contrasto col principio fondamentale del diritto al lavoro sancito nel primo comma dell'art. 4 della Costituzione, la cui esatta portata deve essere intesa e precisata in riferimento all'intero sistema delle garanzie del lavoro e del lavoratore quale risulta configurato in varie norme della Costituzione, ed in particolare: 1) nella solenne enunciazione, contenuta nell'art. 1 comma primo, che consente di individuare il tipo di reggimento instaurato attraverso la collocazione del lavoro a fondamento dello stato repubblicano e determina il criterio regolatore del sistema dei rapporti dei cittadini fra loro e con lo Stato; 2) nella norma di cui all'art. 2, che vincola l'intero ordinamento alla tutela dei diritti sociali, senza della quale mancherebbe una effettiva garanzia della libertà e dell'indipendenza della persona; 3) nell'art. 3, comma secondo, che contiene una norma principio idonea a costituire la chiave di volta dell'interpretazione di tutte le altre norme relative al lavoro, all'impresa ed alla proprietà e segna una direttiva essenziale all'eliminazione di tutti gli ostacoli che si frappongono all'inserimento dei lavoratori nello Stato ed alla libera estrinsecazione della loro personalità, quali sono rappresentati dalla sperequazione fra le classi, dalle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, dalle concentrazioni oligarchiche del potere economico, 4) nelle norme degli artt. 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 43 e 46, che sono tutte espressioni del sistema di garanzia del lavoro, ed in particolare - fra queste - nell'art. 41 che, nel riconoscere la libertà dell'iniziativa economica, ne stabilisce i limiti nella rispondenza all'utilità sociale e nel divieto di lesione dei diritti naturali di altri soggetti, utenti o lavoratori.

Secondo le ordinanze di remissione, se é esatto che il diritto al lavoro non può essere configurato come un diritto soggettivo all'occupazione nei confronti dello Stato o degli imprenditori, ciò non esclude che per i rapporti di lavoro già costituiti si imponga un'adeguata protezione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, conformemente alla speciale posizione al primo conferita dalla Costituzione, che é orientata - come fu affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 29 del 1960 verso un'energica tutela degli interessi dei lavoratori. Visto in tale prospettiva, il diritto al lavoro va assunto quale misura e limite del potere di recesso dell'imprenditore e quale mezzo per ristabilire fra le parti del contratto di lavoro a tempo indeterminato quella parità che allo stato della legislazione é meramente formale.

Dopo aver osservato che la giurisprudenza ha costantemente esclusa ogni possibilità di sindacato sul recesso esercitato dal datore di lavoro e che la dottrina é profondamente divisa sugli effetti che la norma costituzionale spiega su quella contenuta nell'art. 2118 del Codice civile, il giudice a quo esprime l'avviso che l'art. 4 della Costituzione comporta sicuramente la rottura della regolamentazione del potere di recesso, quale questa fu concepita nell'ambito di un ordinamento che, dietro l'apparenza altisonante della Carta del lavoro, celava la realtà di un mondo di lavoratori respinto ai margini della società statuale. La nuova norma costituzionale consentirebbe, invece, di configurare il diritto del lavoratore alla conservazione del posto e, quindi, l'ammissibilità di un sindacato giurisdizionale sull'esercizio del potere di recesso: l'interpretazione dell'art. 4 della Costituzione data nella sentenza n. 3 del 1957 della Corte costituzionale non escluderebbe che in quella norma, oltre l'impegno del legislatore a creare le condizioni di lavoro per tutti i cittadini, debba essere ravvisato anche lo strumento di difesa di quanti abbiano già realizzato il diritto al lavoro.

Ricordato che gli accordi confederali - come ha constatato la Corte costituzionale nella sentenza n. 7 del 1958 - dimostrano che é andata sempre più affermandosi la tendenza delle fonti contrattuali collettive all'introduzione del principio che il licenziamento deve essere giustificato e non arbitrario, le ordinanze affermano che, in mancanza di una interpretazione evolutiva dell'art. 2118 del Codice civile, il problema della sopravvivenza dell'insindacabile ed indiscriminato potere di recesso attribuito all'imprenditore può essere risolto solo dalla Corte costituzionale.

Il giudice a quo, accertata la rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2118, primo comma, del Codice civile, in riferimento all'art. 4, primo comma, della Costituzione, e ritenutala non manifestamente infondata, ha conseguentemente sospeso i giudizi ed ha rimesso gli atti a questa Corte.

2. - Le ordinanze, pronunziate in pubblica udienza, sono state ritualmente notificate al Presidente del Consiglio dei Ministri, comunicate al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente del Senato della Repubblica e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, n. 157 del 27 giugno 1964.

3. - Nel presente giudizio non é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri. In data 9 luglio 1964 si sono costituiti i signori Francesco Dito e Luigino Lazzari, rappresentati e difesi dagli avvocati Aurelio Becca e Giuseppe Di Stefano. Nel relativo atto si sostiene che la garanzia costituzionale del diritto al lavoro, sancita fra i principi fondamentali della Costituzione, é del tutto incompatibile con la norma denunziata, sicché potrebbe anche ritenersi che il primo comma dell'art. 2118 del Codice civile sia stato abrogato dalla sopravvenuta norma costituzionale.

L'incompatibilità fra norma denunziata e Costituzione si evincerebbe altresì da tutte le garanzie di eguaglianza e di partecipazione dei lavoratori all'indirizzo politico, giacché l'effettivo esercizio dei diritti economici e politici non potrebbe non aver per presupposti la garanzia di un posto di lavoro e l'esclusione dell'arbitrio assoluto del datore di lavoro.

In data 26 marzo 1965 - fuori del termine massimo previsto dall'art. 10 delle Norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale - le parti costituite hanno depositato una memoria difensiva.

Nella pubblica udienza del 7 aprile 1965 la difesa ha ampiamente sviluppato la tesi della illegittimità costituzionale della norma impugnata.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le sei ordinanze del Pretore di Scalea, tutte di identico contenuto, propongono la stessa questione di legittimità costituzionale, e pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - Sebbene il giudice a quo faccia riferimento a numerose norme costituzionali relative al lavoro o che sulla disciplina del lavoro possano avere incidenza (artt. 1, 2, 3, 35-41, 43 e 46 della Costituzione), la motivazione dei provvedimenti di rimessione rende evidente che il richiamo a disposizioni diverse dall'art. 4 della Costituzione é operato solo in funzione dell'interpretazione di quest'ultimo.

L'oggetto del presente giudizio é da ritenere perciò circoscritto al raffronto fra l'art. 2118, primo comma, del Codice civile e l'art. 4, primo comma, della Costituzione, e di conseguenza la Corte non può portare il suo esame su altre questioni di legittimità della norma in riferimento a precetti costituzionali diversi da quello di cui le ordinanze assumono la violazione, ed in particolare sul problema - ampiamente trattato, specialmente nella discussione orale, dalle parti costituite - dei limiti che l'iniziativa privata incontra, ai sensi del secondo comma dell'art. 41 della Costituzione, nel suo estrinsecarsi attraverso l'autonomia contrattuale in materia di rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

3. - Nei descritti limiti e nei termini nei quali é stata proposta, la questione non appare fondata.

Il Pretore di Scalea esprime l'avviso che l'inammissibilità di ogni sindacato sull'esercizio del potere di recesso da parte del datore di lavoro - conseguente alla disciplina dettata dall'art. 2118 del Codice civile, così come questa é stata ed é interpretata dalla costante giurisprudenza - non é conciliabile con la pretesa del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, che nell'art. 4 della Costituzione trova la sua fonte: dal che discenderebbe l'illegittimità costituzionale della norma impugnata.

Ma la Corte ritiene che il denunziato contrasto non sussista.

Dal complessivo contesto del primo comma dell'art. 4 della Costituzione - già altre volte interpretato da questa Corte (cfr. sentenze n. 3 del 1957, n. 30 del 1958, n. 2 del 1960, n. 105 del 1963, ordinanza  n. 3 del 1961,) - si ricava che il diritto al lavoro, riconosciuto ad ogni cittadino, é da considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell'attività lavorativa. A questa situazione giuridica del cittadino - l'unica che trovi nella norma costituzionale in esame il suo inderogabile fondamento - fa riscontro, per quanto riguarda lo Stato, da una parte il divieto di creare o di lasciar sussistere nell'ordinamento norme che pongano o consentano di porre limiti discriminatori a tale libertà ovvero che direttamente o indirettamente la rinneghino, dall'altra l'obbligo - il cui adempimento é ritenuto dalla Costituzione essenziale all'effettiva realizzazione del descritto diritto - di indirizzare l'attività di tutti i pubblici poteri, e dello stesso legislatore, alla creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l'impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro.

Da siffatta interpretazione deriva che l'art. 4 della Costituzione, come non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di un'occupazione (il che é reso evidente dal ricordato indirizzo politico imposto allo Stato, giustificato dall'esistenza di una situazione economica insufficiente al lavoro per tutti, e perciò da modificare), così non garantisce il diritto alla conservazione del lavoro, che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario presupposto.

4. - Con ciò non si vuol dire che la disciplina dei licenziamenti si muova su un piano del tutto diverso da quello proprio dell'art. 4 della Costituzione.

Se, infatti, é vero che l'indirizzo politico di progressiva garanzia del diritto al lavoro, dettato nell'interesse di tutti i cittadini, non comporta la immediata e già operante stabilità di quelli di essi che siano già occupati, ciò non esclude, ma al contrario esige che il legislatore nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale adegui, sulla base delle valutazioni di sua competenza, la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie - particolarmente per quanto riguarda i principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa, immediatamente immessi nell'ordinamento giuridico con efficacia erga omnes, e dei quali, perciò, i pubblici poteri devono tener conto anche nell'interpretazione ed applicazione del diritto vigente - e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti.

Già in altra occasione (cfr. sentenza n. 7 del 1958) la Corte ha rilevato che il potere illimitato del datore di lavoro di recedere dal rapporto a tempo indeterminato non costituisce più un principio generale del nostro ordinamento. Aspetto particolare di una disciplina che, in quanto riguarda tutti i contratti di durata a tempo indeterminato, non concede la dovuta rilevanza alla peculiare natura del rapporto di lavoro ed alla posizione del lavoratore nell'impresa, l'art. 2118 del Codice civile é stato progressivamente ristretto nella sua sfera di efficacia sia da provvedimenti legislativi, i quali a tutela di particolari interessi dei lavoratori hanno limitato o temporaneamente precluso il potere di recesso del datore di lavoro (cfr. da ultimo legge 9 gennaio 1963, n. 7), sia, soprattutto, da anche recentissimi accordi sindacali. Questi ultimi dimostrano che le condizioni economico-sociali del Paese consentono una nuova disciplina, verso la quale l'evoluzione legislativa viene sollecitata anche da raccomandazioni internazionali (cfr. 46 e 47 sessione della Conferenza internazionale del lavoro).

5. - In questi limiti la Corte costituzionale giudica non fondata la questione di legittimità costituzionale proposta dal Pretore di Scalea.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riunisce i sei giudizi di cui in epigrafe;

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2118, primo comma, del Codice civile, in riferimento all'art. 4, primo comma, della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 1965.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 9 giugno 1965.