Sentenza n. 3 del 1957
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SENTENZA N. 3

ANNO 1957

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Avv. Enrico DE NICOLA, Presidente

Dott. Gaetano AZZARITI

Prof. Tomaso PERASSI

Prof. Gaspare AMBROSINI

Prof. Ernesto BATTAGLINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco PANTALEO GABRIELLI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Mario BRACCI

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA,

ha pronunziato la seguente  

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 52 del D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, promosso con l'ordinanza 17 febbraio 1956 della Corte di appello di Venezia nel procedimento su ricorso proposto da Pascolo Etelredo, rappresentato e difeso nel presente giudizio dagli avvocati Antonio Sorrentino e Luigi Biamonti, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 91 del 14 aprile 1956 ed iscritta al n. 76 del Reg. ord. 1956.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 10 ottobre 1956 la relazione del Giudice Francesco Pantaleo Gabrieli;

uditi l'avv. Antonio Sorrentino per Pascolo Etelredo ed il sostituto avvocato generale dello Stato Dario Foligno per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

La questione di legittimità costituzionale, oggetto del presente giudizio, é stata sollevata nel corso del procedimento promosso dal ragioniere Etelredo Pascolo con l'impugnazione, presso il Tribunale di Venezia, della delibera 30 luglio 1954 della Commissione straordinaria per la prima formazione dell'albo e dell'elenco dei dottori commercialisti, istituito presso la Corte di appello di Venezia, ai sensi dell'art. 50 del D. P. 27 ottobre 1953, n. 1067. Tale deliberazione rigettava la domanda con la quale il Pascolo chiedeva l'iscrizione nell'albo dei dottori commercialisti, ai sensi dell'art. 52 del citato D. P. n. 1067, perché sfornito del certificato di previa cancellazione del medesimo dall'albo dei ragionieri. Il Pascolo era già iscritto, a norma dell'art. 6 R.D. 28 marzo 1929, n. 588, e nell'albo degli esercenti in economia e commercio e nell'albo dei ragionieri.

Nel menzionato procedimento, la difesa del Pascolo ha dedotto la incostituzionalità della norma contenuta nel citato art. 52: perché eccedente i limiti della delega conferita al Governo con la legge 28 dicembre 1952, n. 3060 (artt. 76 e 77 della Costituzione): perché contrastante con le norme degli artt. 3 e 4 della Costituzione stessa. L'eccezione, respinta dal Tribunale (sent. 23 novembre - 12 dicembre 1955), veniva riproposta nel successivo giudizio davanti alla Corte di appello di Venezia; la quale, dissentendo dai primi giudici, riteneva che la questione d'illegittimità costituzionale non appariva manifestamente infondata, ed ordinava la trasmissione degli atti a questa Corte (ordinanza 17 febbraio 1956).

Detta ordinanza era regolarmente notificata il 12 marzo 1956, comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

La difesa del Pascolo, con le deduzioni depositate in cancelleria all'atto della costituzione in giudizio, chiede che la Corte dichiari la illegittimità costituzionale della ripetuta norma dell'art. 52 e di quelle altre disposizioni la cui illegittimità, a giudizio della Corte, debba derivare come conseguenza della adottanda decisione.

A sostegno di tale richiesta la difesa del Pascolo assume: che la norma dell'art. 52 del D. P. 27 ottobre 1953, n. 1067, stabilendo che i ragionieri iscritti nell'albo degli esercenti in economia e commercio (art. 6 del R.D. 28 marzo 1929, n. 588) sono iscritti a loro domanda nell'albo o nell'elenco di cui nel detto decreto, "previa cancellazione dall'albo dei ragionieri", ha superato i limiti posti dalla legge delegante (legge 28 dicembre 1952, n. 3060) e quindi é costituzionalmente illegittima, ai sensi del primo comma dell'art. 77 della Costituzione.

Invero i principi e i criteri direttivi enunciati dalla legge, sono i seguenti:

a) la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva;

b) la costituzione degli organi professionali deve ispirarsi a principi democratici;

c) la iscrizione negli albi non deve in alcun caso consentirsi agli impiegati dello Stato e delle altre pubbliche amministrazioni, ai quali, secondo gli ordinamenti loro applicabili, sia vietato l'esercizio della libera professione;

d) i procedimenti relativi alla iscrizione e alla cancellazione dall'albo, e quelli in materia disciplinare, devono essere regolati in maniera da assicurare la tutela dei diritti degli interessati e la difesa degli incolpati.

In detti principi non sarebbe compresa la facoltà di sopprimere il trattamento stabilito dal precedente ordinamento della professione di ragioniere, e cioè la possibilità per i ragionieri aventi determinati requisiti (quelli indicati dal cennato art. 6 del R.D. 28 marzo 1929, n. 588) di essere iscritti nell'albo degli esercenti in economia e commercio senza rinunziare, ma mantenendo l'iscrizione nell'albo dei ragionieri.

La difesa del Pascolo pone in rilievo, che il ripetuto art. 52, consentendo soltanto ai dottori commercialisti, se in possesso del diploma di ragioniere, l'esercizio anche di tale professione, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 4 della Costituzione, in quanto avrebbe creato disparità di trattamento tra persone ammesse ad esercitare la medesima professione di dottore in economia e commercio: cioè ragionieri aventi i requisiti indicati dall'art. 6 del R.D. 28 marzo 1929, n. 588, e dottori commercialisti.

L'art. 52 non avrebbe soppresso la parificazione tra antichi ragionieri e commercialisti, ai fini della iscrizione nell'albo dei commercialisti. Diversamente, mentre a un dottore commercialista, in possesso anche del diploma di ragioniere, sarebbe consentito l'esercizio di entrambe le professioni con la iscrizione nei due albi, ciò verrebbe inibito ai soli antichi ragionieri, già iscritti e nell'albo dei commercialisti e in quello dei ragionieri; venendosi così a creare, per gli esclusi, un motivo di incompatibilità per l'esercizio della professione di ragioniere: discriminazione in contrasto con i principi enunciati negli artt. 3 e 4 della Costituzione.

Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso, come per legge (artt. 20 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87), dall'Avvocatura generale dello Stato. La difesa con le deduzioni depositate in cancelleria all'atto dell'intervento, sostiene che la delega venne conferita al Governo per procedere alla "revisione" (il titolo della legge usa anzi addirittura il termine "riforma") dell'ordinamento allora vigente. Al Governo, cioè, era stata data facoltà di procedere ad una revisione o riforma del vecchio ordinamento del quale non era necessario ricalcare pedissequamente le direttive e la disciplina, potendosi far luogo ad innovazioni, che non contrastassero con i criteri stabiliti dalla legge delega. Tale contrasto non si sarebbe verificato con la modifica contenuta nell'art. 52 del D. P. 27 ottobre 1953, n. 1067. Inoltre la difesa pone in evidenza, che il divieto della contemporanea iscrizione nei due albi non costituisce violazione di alcun principio di eguaglianza. Contro tale divieto, posto per coloro che, in via transitoria, avevano potuto fruire della doppia iscrizione sotto l'impero del R.D. 28 marzo 1929, n. 588, non può invocarsi la più ampia facoltà concessa ai dottori commercialisti. Trattasi di due categorie professionali ben distinte (art. 6 ult. comma del R.D. citato), e il legislatore non ha violato, né la dignità sociale dei ragionieri esclusi, né i criteri di eguaglianza, se ha voluto consentire ai dottori di ottenere la doppia iscrizione negata invece ai ragionieri, ammessi, in virtù di norma transitoria, ad un albo professionalmente superiore. A prescindere che, in pratica, le funzioni spettanti ai dottori commercialisti assorbono le funzioni proprie dei ragionieri (art. 1 D. P. 27 ottobre 1953, n. 1067, e art. 1 D. P. 27 ottobre 1953, n. 1068).

 

Considerato in diritto

 

La difesa del Pascolo ha impugnato di illegittimità costituzionale la norma contenuta nell'art. 52 del D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, sull'ordinamento della professione di dottore commercialista, perché in contrasto con le disposizioni degli artt. 3 primo comma e 4 primo comma della Costituzione. La proposta eccezione é infondata.

Dispone l'art. 52: "Sono iscritti a loro domanda nell'albo o nell'elenco, ai sensi dell'art. 50, previa cancellazione dall'albo dei ragionieri, i ragionieri iscritti nell'albo degli esercenti in economia e commercio: tale iscrizione non dà diritto al titolo di dottore commercialista". In sostanza la norma delegata mentre consente ad un dottore commercialista, in possesso anche del diploma di ragioniere, di iscriversi e nell'albo degli esercenti in economia e commercio e nell'albo dei ragionieri, inibisce agli antichi ragionieri, già iscritti in entrambi detti albi (art. 6 R.D. 28 marzo 1929, n. 588), di iscriversi nell'albo degli esercenti in economia e commercio, senza "previa cancellazione" dall'albo dei ragionieri. Tale divieto della contemporanea iscrizione nei due albi non viola la "dignità sociale" degli esclusi. Invero il principio enunciato nel comma primo dell'art. 3 della Costituzione sta a significare, che devesi riconoscere ad ogni cittadino uguale dignità pur nella varietà delle occupazioni o professioni, anche se collegate a differenti condizioni sociali; perché ogni attività lecita é manifestazione della persona umana, indipendentemente dal fine cui tende e dalle modalità con cui si compie. Ora il divieto ai vecchi ragionieri di poter mantenere la iscrizione nei due albi professionali non ha violato la loro dignità sociale; che anzi il legislatore ha messo costoro in condizione di potersi iscrivere ad un albo professionale per cui é prescritto un titolo accademico superiore, quale é quello degli esercenti in economia e commercio rispetto a quello dei ragionieri.

Né detto divieto é in contrasto con l'altro principio della "eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge", enunciato nello stesso art. 3 della Costituzione.

Questo principio non va inteso nel senso, che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale. Ma lo stesso principio deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione. La valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore, salva l'osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma del citato art. 3.

Pertanto la norma impugnata non viola il dedotto principio della "eguaglianza dei cittadini davanti alla legge", perché non disconosce ai vecchi ragionieri la posizione giuridica corrispondente alla loro capacità e all'attività che svolgono. Essi sia rimanendo nell'albo dei ragionieri, sia iscrivendosi nell'albo degli esercenti in economia e commercio possono svolgere la loro professione, entro la sfera che la legge stabilisce, rispettivamente, per i ragionieri e per gli esercenti in economia e commercio.

Infine non sussiste la violazione dell'art. 4, primo comma, della Costituzione, che "riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro". Trattasi di un'affermazione sul piano costituzionale della importanza sociale del lavoro che, senza creare rapporti giuridici perfetti, costituisce un invito al legislatore a che sia favorito il massimo impiego delle attività libere nei rapporti economici. Ciò posto non si può invocare nella specie il su enunciato principio, perché il ragioniere Pascolo, con la iscrizione in uno degli albi prescritti dalla legge, può pienamente svolgere l'attività corrispondente alla sua professione.

Ma la questione di legittimità costituzionale si pone sotto altro profilo in quanto si assume, che il menzionato art. 52 avrebbe ecceduto i limiti della delega conferita al Governo con la legge 28 dicembre 1952, n. 3060. Viene così sottoposta all'esame della Corre la questione, se, ed entro quali limiti, sia consentito il sindacato di legittimità costituzionale sulla legge delegata.

Occorre anzitutto stabilire, se la legge delegata possa essere denunciata a questa Corte per vizio d'incostituzionalità. L'art. 134 della Costituzione stabilisce la competenza della Corte costituzionale a giudicare "sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge". Questa garanzia della costituzionalità delle leggi si riannoda al principio generale di carattere costituzionale, che il potere - dovere di fare le leggi spetta soltanto al Parlamento nelle forme prescritte. Dal sistema sul processo formativo delle leggi, accolto dalla Carta costituzionale, risulta che la funzione legislativa é esercitata dalle due Camere collettivamente con una procedura bene definita (ex artt. 70, 71, 1 comma, 72, 73, 74). Può inoltre essere esercitata, in via eccezionale, dal Governo con modalità legislativamente stabilite (artt. 76, 77).

La legge delegata é una delle due forme eccezionali con cui si esercita il potere normativo del Governo. Il relativo procedimento consta di due momenti: nella prima fase il Parlamento con una norma di delegazione prescrive i requisiti e determina la sfera entro cui deve essere contenuto l'esercizio della funzione legislativa delegata (art. 76); successivamente, in virtù di tale delega, il potere esecutivo emana i "decreti che hanno forza di legge ordinaria" (art. 77, comma 1 ). Queste fasi si inseriscono nello stesso iter, e ricollegando la norma delegata alla disposizione dell'art. 76, attraverso la legge di delegazione, pongono il processo formativo della legge delegata, come una eccezione al principio dell'art. 70. La norma dell'art. 76 non rimane estranea alla disciplina del rapporto tra organo delegante e organo delegato, ma é un elemento del rapporto di delegazione in quanto, sia il precetto costituzionale dell'art. 76, sia la norma delegante costituiscono la fonte da cui trae legittimazione costituzionale la legge delegata.

La inscindibilità dei cennati momenti formativi dell'atto avente forza di legge si evince anche dalla disposizione dell'art. 77, comma 1, secondo cui si nega al Governo il potere normativo, se non sia intervenuta la delegazione delle Camere: l'art. 76, fissando i limiti del potere normativo delegato, contiene una preclusione di attività legislativa, e la legge delegata, ove incorra in un eccesso di delega, costituisce il mezzo con cui il precetto dell'art. 76 rimane violato. La incostituzionalità dell'eccesso di delega, traducendosi in una usurpazione del potere legislativo da parte del Governo, é una conferma del principio, che soltanto il Parlamento può fare le leggi.

Né per sottrarre le leggi delegate al controllo costituzionale si dica che, nella specie, mancherebbe il presupposto per la esistenza della controversia di legittimità costituzionale; cioè un contrasto diretto tra norma ordinaria e precetto costituzionale, in quanto soltanto tale contrasto potrebbe dar luogo ad un accertamento di conformità o di divergenza costituzionale. Giacché se di regola il rapporto di costituzionalità sorge tra un precetto costituzionale e una legge ordinaria, non é da escludere che, in piena aderenza al sistema, possa egualmente verificarsi una violazione di un precetto costituzionale, come per le leggi delegate, qualora nello esercizio del potere normativo eccezionalmente attribuito al Governo non siano osservati i limiti prescritti. Anche in siffatta ipotesi si verifica un caso di mancanza di potere normativo delegato, che non può sfuggire al sindacato di questa Corte.

La tesi opposta, che considera la legge delegante e la legge delegata, come leggi ordinarie, porterebbe a negare la competenza di questa Corte a conoscere di eventuali contrasti tra le due norme, attribuendone l'esame al giudice ordinario.

Non può inoltre sostenersi che, considerando la norma delegata come provvedimento di esecuzione della legge delegante, le eventuali esorbitanze debbano essere conosciute dal giudice ordinario, al pari degli eccessi dei regolamenti esecutivi; perché, non trovandosi la legge delegata sullo stesso piano costituzionale del regolamento esecutivo, non si può relativamente ai vizi dell'atto avente forza di legge ordinaria negare la particolare più efficace tutela disposta dalla Costituzione.

Sarebbe in contrasto col principio organizzativo posto a base della formazione delle leggi, negare per le leggi delegate, aventi anche esse carattere generale e che pur possono essere mancanti di elementi essenziali, sia la tutela costituzionale predisposta per le leggi del potere legislativo, sia la possibilità di una decisione con efficacia erga omnes (art. 136 Costituzione).

Pertanto non é a dubitare, che la violazione delle norme strumentali per il processo formativo della legge nelle sue varie specie (artt. 70, 76, 77 Costituzione), al pari delle norme di carattere sostanziale contenute nella Costituzione, siano suscettibili di sindacato costituzionale; e che nelle "questioni di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge" (artt. 1 legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1; 23 comma 3 e 27 legge 11 marzo 1953, n. 87) vanno comprese le questioni di legittimità costituzionale relative alle leggi delegate.

Consegue che il sindacato é devoluto sempre alla competenza della Corte costituzionale, ai sensi degli artt. 1 cit. legge costituzionale n. 1, 23 cit. legge 1953, n. 87; soltanto le decisioni della Corte costituzionale possono assicurare, con la certezza del diritto, la piena tutela del diritto del cittadino alla costituzionalità delle leggi.

Affermata la sindacabilità costituzionale della legge delegata, occorre precisare i rapporti tra legge delegante e legge delegata.

La legge delegante va considerata con riferimento all' art. 76 della Costituzione, per accertare se sia stato rispettato il precetto che ne legittima il processo formativo. L'art. 76 indica i limiti entro cui può essere conferito al Governo l'esercizio della funzione legislativa.

Per quanto la legge delegante sia a carattere normativo generale, ma sempre vincolante per l'organo delegato, essa si pone in funzione di limite per lo sviluppo dell'ulteriore attività legislativa del Governo. I limiti dei principi e criteri direttivi, del tempo entro il quale può essere emanata la legge delegata, di oggetti definiti, servono da un lato a circoscrivere il campo della delegazione sì da evitare che la delega venga esercitata in modo divergente dalle finalità che la determinarono; devono dall'altro consentire al potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche della legislazione precedente, che nella legge delegata deve trovare una nuova regolamentazione.

Se la legge delegante non contiene, anche in parte, i cennati requisiti, sorge il contrasto tra norma dell'art. 76 e norma delegante, denunciabile al sindacato della Corte costituzionale, s'intende dopo l'emanazione della legge delegata.

Del pari si verifica un'ipotesi d'incostituzionalità, quando la legge delegata viola direttamente una qualsiasi norma della Costituzione. Nel caso in esame l'art. 52 precitato non é in contrasto, come si é dimostrato, con gli articoli 3 e 4 della Costituzione.

La legittimità costituzionale della legge delegata va poi esaminata in relazione alla norma dell'art. 77, comma 1, della Costituzione, secondo la quale "il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria".

La delegazione é accompagnata, come si é detto, da limiti che si riflettono sulla legge delegata, la cui legittimità costituzionale é subordinata alla conformità della norma delegata alla norma delegante.

E le controversie di legittimità costituzionale hanno appunto per oggetto l'accertamento della conformità o divergenza della legge o dell'atto avente forza di legge da un precetto costituzionale.

Il giudizio sulla conformità o divergenza porta a considerare l'eccesso di delega, come figura comprensiva della mancanza, anche parziale, di delegazione, nonché l'uso del potere normativo da parte del Governo oltre il termine fissato, ovvero in contrasto con i predeterminati criteri direttivi o per uno scopo estraneo a quello per cui la funzione legislativa fu delegata.

Lo stesso giudizio ricorre anche quando, fuori dei casi su indicati, trattasi di coordinare la legge delegata a quella delegante, ricercandone i caratteri sistematici che le collegano e che valgano a ricondurre, nei giusti limiti della norma delegante, il contenuto della legge delegata.

In questa ipotesi non sorge una normale questione d'interpretazione devoluta al giudice ordinario, bensì, venendo in contestazione il profilo costituzionale della norma impugnata, si pone sempre una questione di legittimità costituzionale.

La valutazione, poi, circa la conformità o divergenza deve necessariamente risultare da un processo di confronto tra le due norme; il quale peraltro va contenuto alla indagine sulla sussistenza dei requisiti, che condizionano la legittimità costituzionale della norma delegata; una più approfondita interpretazione, investendo il merito, ossia l'opportunità della norma, esorbiterebbe dalle finalità istituzionali di questa Corte.

Applicando i su menzionati principi alla specie in esame, é a ritenere che il Governo non sia incorso nel denunciato eccesso di delega col vietare ai vecchi ragionieri, già iscritti e nell'albo dei ragionieri e nell'albo degli esercenti in economia e commercio, e sforniti del titolo di dottore commercialista, di iscriversi nel secondo albo senza previa cancellazione dall'albo dei ragionieri (art. 52 legge delegata approvata con D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067). Invero la legge delegante 28 dicembre 1952, n. 3060, dopo avere precisato l'oggetto della delega nella "revisione degli ordinamenti delle professioni di professionista in economia e commercio e di ragioniere", ha segnato al potere normativo delegato i seguenti limiti: divieto di attribuzioni di attività in via esclusiva; costituzione degli organi professionali ispirata a principi democratici; esclusione dagli albi dei pubblici impiegati cui sia vietato l'esercizio della libera professione; tutela dei diritti degli interessati e difesa degli incolpati in materia disciplinare.

Il Governo, investito del cennato potere, ha emanato l'ordinamento della professione di dottore commercialista, riguardante lo stesso oggetto della delega; e poiché la nuova legge si ricollegava a precedenti ordinamenti da modificare, completare e coordinare, ha tenuto conto, come doveva, delle disposizioni già vigenti e, in modo particolare, degli artt. 5 e 6 del R.D. 28 marzo 1929, n. 588, relativi al regolamento per l'esercizio della professione in materia di economia e commercio.

Infine il divieto impugnato di illegittimità costituzionale non contrasta con i criteri direttivi contenuti, nell'atto di delegazione, giacché l'opzione accordata ai vecchi ragionieri di iscriversi nell'albo degli esercenti in economia e commercio, previa cancellazione dall'albo dei ragionieri, risponde da un lato alla rigorosa specificazione cui si informano i nuovi albi, rientra dall'altro nella facoltà data al Governo di procedere ad una revisione (o riforma) del precedente ordinamento, che doveva essere rinnovato per adeguarlo alle sopravvenute esigenze dell'attività professionale che disciplina.

Pertanto la legge delegata si é mantenuta nei limiti indicati nell'atto di delegazione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione proposta con l'ordinanza della Corte di appello di Venezia, in data 24 febbraio 1956, sulla legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 52 del D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, che disciplina l'ordinamento della professione di dottore commercialista, in riferimento alle norme degli articoli 3, comma 1, e 4, comma 1, della Costituzione nonché alla legge delega 28 dicembre 1952, n. 3060.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 1957.

 

Enrico DE NICOLA - Gaetano AZZARITI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI -Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELLI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Mario BRACCI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA

 

Depositata in cancelleria il 26 gennaio 1957.