Sentenza n. 2 del 1986

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SENTENZA N. 2

 

ANNO 1986

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Livio PALADIN, Presidente

Avv. Oronzo REALE

Avv Albero MALAGUGINI

Prof. Antonio LAPERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL’ANDRO,Giudici

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 11, legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), in relazione agli artt. 18 e 35, legge 20 maggio 1970 n. 300, promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 30 novembre 1977 dal Pretore di Pesaro sul ricorso proposto da Mercatelli Domenico contro S.p.a. Central Gomme, iscritta al n. 147 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 149 dell'anno 1978;

 

2) ordinanza emessa il 25 marzo 1978 dal Pretore di Bassano del Grappa sul ricorso proposto da Mantovani Giovanni contro Ditta Piccoli Rino, iscritta al n. 295 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.250 dell'anno 1978;

 

3) ordinanza emessa il 21 giugno 1980 dal Pretore di Salò nel procedimento civile vertente tra Lecchi Emanuela e Soliani Oreste, iscritta al n. 592 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 298 dell'anno 1980;

 

4) ordinanza emessa il 12 febbraio 1981 dal Pretore di Firenze nel procedimento civile vertente tra Moran Gordon e Istituto Americano, iscritta al n. 340 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 241 dell'anno 1981;

 

5) ordinanza emessa il 28 maggio 1984 dal Pretore di Gualdo Tadino nel procedimento civile vertente tra Facchini Enzo e Ditta La-ca, iscritta al n. 1136 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50 bis dell'anno 1985.

 

Visto l'atto di costituzione dell'Istituto Americano nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 22 ottobre 1985 il Giudice relatore Francesco Greco;

 

uditi l'avv. Aldo Aranguren per l'Istituto Americano e l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

A) Mercatelli Domenico ha impugnato dinanzi al Pretore di Pesaro il licenziamento intimato gli dalla S.p.a. Centralgomme la quale, nel complesso, occupa più di trentacinque dipendenti, con una sola unità produttiva in Pesaro con meno di quindici dipendenti tra cui il Mercatelli.

 

Il Pretore adito, con ordinanza 30 novembre 1977 (R.O. n. 147/78) ha denunciato l'illegittimità costituzionale degli artt. 8 e 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604, rilevando la disparità di trattamento tra i lavoratori colpiti da licenziamenti ingiustificato, per i quali si applicano le surrichiamate norme, e i lavoratori, anch'essi ingiustificatamente licenziati, per i quali si applicano gli artt. 18 e 35 della legge n. 300/70, in punto di risarcimento danni, diversamente disciplinato dalle norme citate, a seconda dei requisiti dimensionali e strutturali dell'azienda del datore di lavoro.

 

Lo stesso Pretore, pur affermando di condividere l'interpretazione di questa Corte, per cui nella fattispecie sottoposta al suo giudizio sarebbe applicabile l'art. 8, legge n. 604 del 1966 e non gli artt. 18 e 35, legge n. 300/70, prospetta vari profili di disparità di trattamento. E cioé :

 

a) anzitutto perché il lavoratore, illegittimamente licenziato, ove siano applicabili le norme impugnate (artt. 8 e 11 legge n. 604/66) ha diritto al risarcimento del danno solo in mancanza di riassunzione anziché congiuntamente alla reintegrazione nel posto di lavoro, come previsto dall'art. 18 legge n. 300/70;

 

b) in ordine alla misura del risarcimento in quanto, mentre l'art. 18 citato prevede che il risarcimento sia dovuto nella misura minima di cinque mensilità di retribuzione, senza alcuna predeterminazione dell'ammontare massimo, l'art. 8, legge n. 604/66, pur prevedendo lo stesso limite minimo, stabilisce poi anche un massimo, pari a dodici mensilità, con l'effetto di impedire un adeguato ristoro del danno in caso di inattività prodottasi per lunghi periodi;

 

c) infine, perché le misure minime e massime, cosi fissate dal legislatore del 1966, sono correlate anche ad un ulteriore requisito dimensionale, in quanto si riducono della metà nel caso di datori di lavoro che occupino fino a sessanta dipendenti.

 

Secondo lo stesso Pretore remittente, la giustificazione del diverso trattamento addotta da questa Corte (sentt. n. 55 del 1974 e n. 189 del 1975) in punto di riassunzione, cioé la opportunità di non gravare di oneri eccessivi le imprese di modeste dimensioni, non può soccorrere in punto di risarcimento del danno in quanto, per questo profilo, assume rilievo prevalente se non esclusivo, anziché la potenzialità economica del danneggiante, l'entità del danno che é identico per il lavoratore licenziato qualunque siano la struttura e la dimensione dell'impresa da cui egli dipende.

 

Anche lo stesso criterio della potenzialità economica, ad avviso del Pretore, sarebbe inapplicabile e comunque intrinsecamente insufficiente, allorché si confrontino le posizioni dei dipendenti non di imprese diverse ma di un'unica impresa che impieghi più di trentacinque lavoratori, distribuiti in varie unità produttive, alcune con più ed altre con meno di quindici addetti; in tal caso, la rilevata disparità si produce in ragione della consistenza numerica dell'unità produttiva di appartenenza e nonostante l'identità del datore di lavoro, alla cui potenzialità economica deve aversi riguardo.

 

Sulla rilevanza della questione il Pretore ha osservato che nel giudizio a quo si doveva fare applicazione della meno favorevole disciplina della legge n. 604/66 proprio in violazione dell'art. 3 della Costituzione.

 

L'ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 149 dell'anno 1978.

 

B) Il Pretore di Bassano del Grappa, con l'ordinanza emessa il 25 marzo 1978 (R.O. n. 295/78) nel procedimento promosso da Mantovani Giovanni per l'impugnazione del licenziamento intimatogli da Piccoli Rino, ha sollevato l'eccezione di illegittimità costituzionale degli stessi artt. 8 e 11 della legge n. 604/66 nonché dell'art. 18 della legge n. 300/70, ritenendoli in contrasto con l'art. 3 Cost..

 

Preliminarmente ha rilevato che, alla stregua della vigente normativa, - secondo l'interpretazione fornitane in più occasioni dalla Corte costituzionale, ai fini dell'affermazione della sua legittimità (sentt. n. 81 e n. 131 del 1969, n. 55 del 1974 e nn. 152, 178 e 189 del 1975) - la disciplina della cosiddetta tutela reale del posto di lavoro (art. 18, legge n. 300 del 1970) riguarda i lavoratori appartenenti ad unità produttive con più di quindici dipendenti, facenti parte o meno di un complesso aziendale con oltre trentacinque lavoratori; la disciplina che prevede l'alternativa fra riassunzione e risarcimento (art. 8, legge n. 604/66) opera per le imprese con più di trentacinque dipendenti, limitatamente alle unità produttive con non più di quindici addetti, ed, infine, tutta l'area residua dei licenziamenti resta soggetta al disposto dell'art. 2118 cod. civ. che ammette il recesso ad nutum.

 

Ed ha, quindi, ritenuto che siffatto sistema importa un diverso trattamento economico dei lavoratori arbitrariamente licenziati, nel senso che quelli i quali prestano la loro opera presso un'impresa con più di trentacinque dipendenti o presso un'unità produttiva con più di quindici dipendenti, hanno diritto ad un risarcimento del danno pari almeno a cinque mensilità di retribuzione senza che da tale importo sia detraibile quanto essi, in attesa del provvedimento di reintegrazione, abbiano guadagnato impiegando altrimenti le loro energie lavorative mentre, quelli che hanno lavorato in imprese con meno di trentacinque dipendenti o presso unità produttive con meno di quindici hanno diritto ad un risarcimento che non potrà prescindere dalla compensatio lucri cum damno e sono per di più gravati dall'onere probatorio della sussistenza del danno, anche soltanto nei limiti di un ammontare non superiore alle cinque mensilità di retribuzione.

 

Ad avviso del Pretore, a tale disciplina consegue la creazione di un'area di privilegio o di disfavore per determinate categorie di lavoratori, in forza della sola circostanza della consistenza numerica del personale facente capo all'organizzazione di appartenenza, onde la violazione del principio di uguaglianza.

 

In punto di rilevanza della questione, il giudice a quo si limita ad una mera affermazione dell'evidenza della stessa.

 

L'ordinanza, regolarmente comunicata e notificata, é stata pubblicata con la Gazzetta Ufficiale n. 250 dell'anno 1978.

 

C) Con ordinanza emessa il 21 giugno 1980 (R.O. n. 592/80),

 

il Pretore di Salò - adito da Lecchi Emanuela in sede di impugnazione del licenziamento intimatole da Soliani Oreste - ha sollevato, in accoglimento dell'eccezione proposta dal convenuto, la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 35 della legge n. 300/70 nella parte in cui, in contrasto con l'art. 3 Cost., non opera alcuna distinzione, quanto al regime del licenziamento illegittimo, tra imprese articolate in più unità produttive ed imprese con struttura unitaria.

 

Il Pretore ha rilevato, in primo luogo, che l'esame della denunciata disposizione, da parte della Corte, non ha, in realtà, finora investito in modo specifico la problematica proposta con l'ordinanza da lui emessa, essendosi principalmente incentrato sul punto della parità di trattamento dei lavoratori, senza particolare riguardo alle varie posizioni dei datori di lavoro.

 

Valutando, invece, in quest'ottica specifica, il problema della legittimità costituzionale dell'art. 35, della legge n. 300/70, egli ha ritenuto di poter fondatamente dubitare della sua conformità al principio di uguaglianza poiché la mancanza della suddetta distinzione implica l'operatività del sistema di tutela reale del posto di lavoro, introdotto dall'art. 18 della stessa legge, riguardo a datori di lavoro le cui situazioni, viceversa, non sono assimilabili, proprio in considerazione di quelle esigenze di fiduciarietà, economicità e funzionalità produttiva ritenute rilevanti dalla Corte per affermare, sotto altro aspetto, la legittimità costituzionale della medesima norma.

 

Ad avviso del Pretore, sarebbe irrazionale, proprio in considerazione di tali esigenze, assoggettare al detto sistema l'impresa con un'unica unità produttiva avente più di quindici addetti, ma meno di trentacinque, per escluderne, invece, sia la piccola (con meno di quindici lavoratori) unità produttiva di una grande impresa (con più di trentacinque dipendenti) sia la impresa che impieghi più di quindici lavoratori complessivamente, ma meno di trentacinque, distribuendoli, tuttavia, a differenza della prima, in più unità produttive con meno di quindici addetti in diversi territori comunali.

 

Il Pretore a quo ha poi sollevato d'ufficio - sempre con riferimento all'art. 3 Cost. - la questione di illegittimità costituzionale dello stesso art. 35 nonché dell'art. 18 della legge n. 300/70 e degli artt. 8 e 11, legge n. 604/66, per la disparità di trattamento che dette norme creano, fra lavoratori illegittimamente licenziati, in ordine all'entità del risarcimento dei danni.

 

Le ragioni di tale censura sono sostanzialmente identiche a quelle che sorreggono lo stesso dubbio di incostituzionalità avanzato dal Pretore di Pesaro, con l'unica differenza, rispetto all'ordinanza pronunciata da quest'ultimo giudice e di cui si é sopra riferito, che qui gli artt. 18 e 35 della legge n. 300 del 1970 sono a loro volta investiti dalla pronuncia di illegittimità.

 

La rilevanza di entrambe le esposte questioni é motivata con la necessità di stabilire, pregiudizialmente all'esame della legittimità o meno dell'impugnato licenziamento, quale sia esattamente la normativa applicabile al rapporto di lavoro oggetto della controversia.

 

L'ordinanza, regolarmente comunicata e notificata, é stata pubblicata con la Gazzetta Ufficiale n. 298 del 1980.

 

D) Con ordinanza emessa il 12 febbraio 1981 (R.O. n. 340/81) nel procedimento promosso da Moran Gordon per impugnare il licenziamento intimatogli dall'Istituto Americano e richiedere la tutela di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970, il Pretore di Firenze, accertato che detto istituto aveva alle proprie dipendenze meno di sedici lavoratori, sicché nella fattispecie non sarebbe stata concepibile l'invocata tutela giusto il disposto dell'art. 35 della stessa legge né, a maggior ragione, quella di cui all'art. 8 della legge n. 604/66, il cui art. 11 prevede, per l'operatività della legge stessa, il più elevato limite numerico dei trentacinque dipendenti, ha sollevato, ritenendola per tali ragioni rilevante, la questione di incostituzionalità del primo e del secondo comma del citato art. 35 nonché del primo comma del parimenti citato art. 11 in quanto stabiliscono limiti dimensionali numerici al di sotto dei quali non opera il sistema della sindacabilità giurisdizionale del licenziamento, vigendo, invece, il regime del recesso ad nutum.

 

Il Pretore si é dato carico delle decisioni con le quali la Corte costituzionale ha già in passato affermato l'infondatezza di analoga questione, ma ha, nondimeno, ritenuto che, per effetto delle norme censurate, restino vulnerati gli artt. 3, 4 - primo comma, 35 - primo comma e 41 - secondo comma Cost., essendogli parse inappaganti le motivazioni addotte a sostegno di quell'affermazione.

 

Rilevato che l'art. 2118 cod. civ., da applicarsi nella fattispecie a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione (art. 41) e della legislazione protettiva, si é trasformato in causale, in quanto il recesso, a pena di nullità, deve essere suffragato da una causa congrua e quindi lecita (art. 41 Cost.) e che, tuttavia, detta teoria non é accolta dalla giurisprudenza anche della Corte costituzionale quando l'azienda ha un modesto numero di occupati, ha ritenuto che le norme sui licenziamenti (art. 11, legge 15 luglio 1966, n. 604, e art. 35, legge 20 maggio 1970, n. 300) contrariamente a quanto deciso dalla Corte costituzionale (sentt. n. 55/74; n. 152/75; n. 189/75) sono palesemente contrarie alla Costituzione, anzitutto perché deve essere garantito il diritto del cittadino al conseguimento di un'occupazione ed al mantenimento del posto di lavoro (art. 4 Cost.) con il divieto allo Stato di limitare in modo discriminatorio l'accesso al lavoro con l'obbligo dello stesso di creare le condizioni economiche, sociali e giuridiche tali da consentire l'impiego di tutti gli idonei al lavoro. Ha assunto che gli argomenti posti a giustificazione della diversità della situazione delle imprese più piccole (carattere fiduciario del rapporto di lavoro; esigenze di non gravarle di oneri eccessivi; opportunità di evitare situazioni di tensione sociale) possono essere rimeditati in conformità dell'evoluzione dei moduli organizzatori dell'impresa in collegamento con il progresso tecnologico e della non attualità del criterio meramente numerico; che proprio l'interpretazione seguita delle suddette norme non può giustificare la violazione dei richiamati precetti costituzionali (artt. 3 e 4 Cost.) in quanto lavoratori idonei ed immeritevoli del licenziamento possono essere licenziati a giudizio discrezionale ed insindacabile dell'impresa; che occorre tenere conto dello stato di soggezione del lavoratore, che gli impedisce il libero esercizio di diritti inerenti al rapporto di lavoro (sent. n. 63/66 in tema di prescrizione dei crediti dei lavoratori in costanza di rapporto di lavoro), ed assicurare la tutela della pari dignità sociale dei cittadini (art. 3, primo comma, Cost.) e l'esigenza che l'iniziativa economica privata non si ponga in contrasto con la stessa dignità umana; il che avverrebbe se il lavoratore fosse esposto al permanente timore di perdere incolpevolmente il posto di lavoro così da dovere rinunciare alla tutela dei propri diritti nei confronti del datore di lavoro, in una concezione paternalistica dell'impresa; che ruolo determinante hanno la sicurezza del posto di lavoro e la conseguente assoluta rigidità di tutela, incompatibili con la discrezionalità riconosciuta al datore di lavoro al quale venga rimesso il mantenimento dell'occupazione dei dipendenti, con la determinazione, da parte sua, del limite numerico di essi, dato peraltro fluttuante, sfuggente e facilmente elusivo, con il conseguente, dannoso frazionamento dell'impresa, al che, però, potrebbe ovviarsi con l'introduzione di limiti qualitativi, più aderenti alla realtà economica; che irrilevante é anche la considerazione del limite numerico in accordi confederali (18 ottobre 1965) siccome risultanti di rapporti di forza; che la stessa fiduciarietà dei rapporti, posta a base delle ricordate sentenze, non é appagante in quanto essa ugualmente dovrebbe portare ad evitare licenziamenti privi di causa giustificatrice quanto meno per l'aspetto risarcitorio; che egualmente non soddisfa il criterio di evitare pregiudizio alla funzionalità delle unità produttive più piccole per l'affermata possibilità del verificarsi di tensioni a causa della presenza del lavoratore reintegrato in base a sentenza, in quanto anch'esso attiene alla natura fiduciaria dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, attribuendo peraltro valore a reazioni emotive dell'imprenditore e non protegge la dignità del lavoratore colpito da licenziamento privo di giusta causa, la tutela del quale é prioritaria insieme con quella del diritto al lavoro, rispetto alla stessa garanzia della libertà organizzativa dell'impresa ed alla suscettibilità personale dell'imprenditore.

 

Il Pretore ha anche precisato che tutti gli argomenti addotti (esigenze di funzionalità dell'impresa, di fiduciarietà dei rapporti, di evitare tensioni sociali) non giustificano il recesso per discriminazione politica, sindacale, religiosa e di sesso, onde la necessità di motivare il licenziamento con riferimento a una causa giustificatrice adeguata.

 

Ha, poi, rilevato che l'eccessività degli oneri gravanti sulle piccole imprese - che, peraltro, non risulta essere specificata - é irrilevante in quanto rimarrebbero sempre giustificati i licenziamenti per colpa del dipendente o per ragioni organizzativi, per il buon funzionamento dell'impresa o per la organizzazione del lavoro; che, invece, si sarebbe dovuta considerare la specifica realtà aziendale ed il particolare tipo di organizzazione, connessi alla ridotta dimensione dell'impresa; che tra gli oneri eccessivi si potrebbero financo annoverare le invadenze dei giudici e le loro sentenze ritenute ingiuste; che nemmeno la necessità di superamento della crisi aziendale può giustificare la violazione di principi costituzionali e la libertà di licenziare; che di pesi intollerabili non si potrebbe parlare per le imprese di piccole dimensioni le quali intendessero sostituire un lavoratore ad un altro per motivi personali o per altri motivi comunque estranei alla previsione dell'art. 3, legge n. 604/66; che, infine, esigenze di contemperamento di opposti interessi (libertà di iniziativa economica e diritti dei lavoratori) potrebbero imporre all'imprenditore l'obbligo di risarcire in ogni caso i danni derivanti da licenziamento ingiusto.

 

Ai fini della rilevanza della questione, il Pretore a quo ha ritenuto che l'esame delle domande di reintegrazione e di risarcimento danni presuppone l'eliminazione degli ostacoli all'applicazione dell'art. 18, legge n. 300/70 e dell'art. 8, legge n. 604/66, costituiti dagli artt. 35 - primo e secondo comma - legge n. 300/70 ed 11 - primo comma - legge n. 604/66.

 

Nel giudizio si é costituito l'Istituto Americano contestando il fondamento dell'eccezione ed insistendo per il rigetto.

 

In particolare ha osservato che l'art. 4 Cost. é finalizzato non alla conservazione del posto di lavoro ma all'intervento del legislatore per garantire la possibilità o meno dell'impiego; che le argomentazioni, meramente sociologiche, del Pretore non servono alla definizione della causa la quale riguarda un piccolo istituto di insegnamento, di limitata consistenza economica, nella cui organizzazione prevale il contenuto fiduciario del rapporto di lavoro, onde la fondatezza dell'eccezione di inammissibilità della questione per irrilevanza; che, comunque, le considerazioni svolte si fondano sull'erroneo convincimento reso palese dal testo dell'ordinanza e motivato seguendo una tesi nettamente minoritaria in dottrina e in giurisprudenza, che l'entrata in vigore della legge fondamentale abbia determinato l'abrogazione dell'art. 2118 cod. civ. nella parte in cui consente il recesso ad nutum mentre, invece, la perdurante efficacia di tale norma é stata affermata dalla Corte costituzionale con argomenti che non sembrano superati dalle suddette considerazioni.

 

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 241 dell'anno 1981.

 

E) Con ordinanza del 28 maggio 1984 (R.O. n. 1136/84) il Pretore di Gualdo Tadino, adito in sede di impugnazione del licenziamento intimato, per motivi disciplinari, a Facchini Enzo dalla Ditta LA.CA., titolare di un'impresa con nove dipendenti, ha rilevato che il detto licenziamento doveva ricondursi nel novero di quelli ad nutum consentiti dall'art. 2118 cod. civ., non essendo applicabili, nella fattispecie, né l'art. 8 della legge n. 604 del 1966, né l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, data la consistenza numerica del personale impiegato ed ha, quindi, sollevato questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2118 cod. civ., 35 legge n. 300/70 e 11 legge n. 604/66 in quanto, legittimando il menzionato tipo di recesso per rapporti non tutelati alla stregua della ricordata disciplina, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 4 - primo comma, 35 - primo comma, 41 - secondo comma Cost..

 

L'ordinanza de qua denuncia, in sostanza, disparità di trattamento tra imprese di minima dimensione prive di tutela reale e imprese medie e grandi che invece l'hanno; e, quindi, la violazione dei precetti costituzionali richiamati, in quanto é consentito il licenziamento dei dipendenti senza giustificato motivo e si lascia al mero arbitrio del datore di lavoro o, comunque, alla sua "illuminatezza" ed alla sua "sensibilità" ogni valutazione circa la conservazione del rapporto.

 

Il Pretore a quo ha ritenuto, poi, la sussistenza della rilevanza, per gli evidenti riflessi che l'eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale delle predette norme avrebbe sul giudizio in corso.

 

L'ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 50 bis dell'anno 1985.

 

Nel giudizio si é costituito il Presidente del Consiglio a mezzo dell'Avvocatura dello Stato. Essa, premesso che identica questione é stata dichiarata infondata con le sentenze n. 81 del 1969 e n. 55 del 1974, ha rilevato che per un verso l'ordinanza non aggiunge argomenti nuovi a quelli già valutati dalla Corte costituzionale, con riferimento all'art. 3 Cost. e che, per altro verso, erroneamente é dedotta la violazione degli artt. 4, 35 e 41 Cost., posto che i principi desumibili da tali norme non sono incompatibili con una disciplina del recesso idonea a consentire la gestione corretta, anche sotto il profilo meramente economico, dell'impresa di modeste dimensioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - La Corte ritiene anzitutto che tutti e cinque i giudizi possono essere riuniti per essere decisi congiuntamente in quanto prospettano questioni sostanzialmente connesse.

 

2. - Prendendo in esame, in via preliminare, le ordinanze del Pretore di Bassano del Grappa (R.O. n. 295/78) e del Pretore di Salò (R.O. n. 592/80) osserva che la prima ordinanza é del tutto carente di motivazione sulla rilevanza della questione sottoposta al suo giudizio. Nella seconda ordinanza, sempre in punto di rilevanza, il Pretore ritiene che pregiudizialmente all'esame della legittimità o meno dell'impugnato licenziamento, sussista la necessità di stabilire quale sia esattamente la normativa applicabile al rapporto di lavoro oggetto della controversia.

 

In sostanza, quindi, il detto giudice rimette a questa Corte l'individuazione delle norme regolatrici della fattispecie per cui quelle denunciate risultano essere di applicazione incerta e meramente eventuale.

 

Invece, secondo il disposto dell'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, il requisito della rilevanza implica necessariamente che la sollevata questione di legittimità costituzionale abbia una incidenza attuale e non meramente eventuale.

 

La pregiudizialità della questione medesima, la quale é condizione essenziale ai fini del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si concreta solo allorché il dubbio, ai fini della definizione del giudizio pendente, investa una norma della cui applicazione il giudice dimostra di non poter prescindere (sent. n. 190/84).

 

Pertanto, le questioni sollevate con dette ordinanze vanno dichiarate inammissibili.

 

3. - Il Pretore di Pesaro (R.O. n. 147/78) denuncia la illegittimità costituzionale degli art. 8 e 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604 in relazione agli artt. 18 e 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300, per contrasto con l'art. 3 Cost. in quanto i lavoratori licenziati senza giusta causa o giustificato motivo, in punto di risarcimento danni conseguenti al licenziamento, hanno un trattamento diverso, e comunque peggiorativo, rispetto ai lavoratori che trovano tutela con gli artt. 18 e 35 legge n. 300/70, e ciò solo per la diversità dei requisiti dimensionali e strutturali dell'azienda del datore di lavoro (azienda con più di trentacinque dipendenti per l'ipotesi degli artt. 8 e 11 legge n. 604/66; unità produttiva con più di quindici dipendenti nell'ipotesi degli artt. 18 e 35, legge n. 300 del 1970).

 

Il Pretore a quo individua i vari profili della disparità di trattamento:

 

a) nella previsione del solo diritto al risarcimento dei danni nella prima fattispecie, anziché congiuntamente alla reintegrazione nel posto di lavoro come nella seconda;

 

b) nella previsione di un danno nella misura minima di cinque mensilità e nella misura massima di dodici mensilità nella prima ipotesi ed, invece, nella seconda, nell'identica misura minima, ma senza la predeterminazione della misura massima, onde nella prima ipotesi viene meno la possibilità di ottenere un adeguato ristoro del danno in caso di inattività protrattasi per lunghi periodi di tempo;

 

c) nella previsione, nella prima ipotesi, di una riduzione dell'entità dei danni alla metà, nell'ipotesi in cui il datore di lavoro occupi fino a sessanta dipendenti.

 

4. - Il Pretore di Firenze, invece (R.O. n. 340/81), denuncia la illegittimità costituzionale degli artt. 35 - primo e secondo comma legge n. 300/70, 8 e 11 - primo comma legge n. 604/66, in riferimento agli artt. 3, 4 - primo comma, 35 - primo comma, 41 - secondo comma Cost., in quanto stabiliscono limiti dimensionali numerici al di sotto dei quali non opera il sistema della sindacabilità giurisdizionale del licenziamento, vigendo, invece, il regime del recesso ad nutum previsto dall'art. 2118 cod. civ..

 

Dopo aver ricordato le precedenti decisioni di questa Corte, chiede che siano rimeditati gli argomenti posti a fondamento delle stesse e cioé il carattere fiduciario del rapporto di lavoro nelle imprese minori, le esigenze di non gravarle di oneri eccessivi, l'opportunità di evitare situazioni di tensione sociale; sostiene che le norme sui licenziamenti sono contrarie alla Costituzione (art. 4) in quanto non può limitarsi in modo discriminatorio l'accesso al lavoro, mentre lo stesso Stato ha l'obbligo di creare condizioni economiche, sociali e giuridiche tali da consentire l'impiego di tutti gli idonei al lavoro; che non possono essere licenziati a giudizio discrezionale ed insindacabile dell'imprenditore, lavoratori idonei e meritevoli; che occorre tenere conto dello stato di soggezione del lavoratore; assicurare la tutela della pari dignità sociale dei cittadini (art. 3 - primo comma Cost.) e l'esigenza che l'iniziativa economica privata non si ponga in contrasto con la stessa dignità umana; che ha ruolo determinante la sicurezza del posto di lavoro con la conseguente rigidità della tutela, incompatibili con la discrezionalità del datore di lavoro, al quale, quindi, non può essere rimesso il mantenimento dell'occupazione dei dipendenti, previa determinazione del limite numerico di essi ed il ricorso a limiti quantitativi anziché a limiti qualitativi, più aderenti alla realtà economica; che la stessa fiduciarietà del rapporto datore di lavoro - lavoratori non può fondare l'esonero del datore di lavoro, in caso di licenziamento ingiustificato, quanto meno dal risarcimento dei danni; ugualmente la finalità di evitare pregiudizi alla funzionalità delle unità produttive più piccole e l'affermata possibilità di verificarsi di tensioni per la presenza di lavoratori reintegrati in base a sentenza in quanto dovrebbe ricevere prevalente protezione la dignità del lavoratore e non dovrebbero trovare ingresso le reazioni emotive del datore di lavoro.

 

Il Pretore soggiunge che non ha rilevanza la finalità di non gravare le imprese di oneri eccessivi, peraltro non quantificati, dovendosi considerare la specifica realtà aziendale e il particolare tipo di organizzazione; che la crisi aziendale non può giustificare la violazione dei principi costituzionali e la libertà di licenziare; che non può parlarsi di pesi insopportabili per le imprese di piccole dimensioni che sostituiscano il lavoratore licenziato con un altro; che, in ogni caso, il datore di lavoro dovrebbe essere condannato al risarcimento dei danni a favore del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo.

 

5. - Il Pretore di Gualdo Tadino (R.O. n. 1136/84), in una fattispecie di licenziamento per motivo disciplinare ricondotta a quella di licenziamento senza giusta causa, sulla base delle dichiarazioni del datore di lavoro di non volere riassumere il lavoratore licenziato, anche se fosse stata accettata la insussistenza del motivo addotto, denuncia la illegittimità costituzionale degli artt. 2118 cod. civ., 35 legge n. 300/70, 11 legge n. 604/66 per la disparità di trattamento tra imprese di minima dimensione, prive di tutela reale, ed imprese medie e grandi che, invece, l'hanno.

 

Il riferimento é fatto agli artt. 3, 4 - primo comma, 35 primo comma e 41 - secondo comma Cost..

 

Sostiene il giudice a quo che, alla stregua dei richiamati precetti costituzionali, non é ammissibile il mantenimento, nell'ordinamento giuridico, del licenziamento senza giustificato motivo e rimesso, quindi, alla illuminatezza o alla sensibilità del datore di lavoro in quanto risulta conculcato il diritto al lavoro e la dignità del lavoratore per cui sarebbe anche opportuno una rimeditazione delle motivazioni delle precedenti sentenze della Corte.

 

6. - Le questioni non sono fondate.

 

In sostanza, i giudici a quibus, pur invocando una rimeditazione dei principi posti a fondamento delle motivazioni delle precedenti sentenze con le quali la Corte ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale delle norme denunciate (sent. n. 81 del 1961; n. 45 del 1965; n. 81 del 1969; n. 194 del 1970; n. 55 del 1974; n. 152 del 1975; n. 178 del 1975; n. 189 del 1975; ord. n. 256 del 1976), non aggiungono nuovi argomenti a quelli già esaminati e disattesi e si limitano solo ad invocare nuovi parametri costituzionali ed a criticare le motivazioni delle precedenti sentenze.

 

La Corte osserva che, secondo il sistema legislativo ancora oggi vigente e che essa ha più volte ritenuto costituzionalmente legittimo: a) i lavoratori appartenenti a sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo di una impresa industriale o commerciale (quelle agricole non vengono in discussione), che ivi occupa più di quindici dipendenti, o appartenenti ad imprese industriali e commerciali che, nell'ambito dello stesso comune, occupano più di quindici dipendenti, in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, hanno diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (ed. tutela reale) e al risarcimento dei danni subiti per il licenziamento di cui é stata accertata la inefficacia o l'invalidità, nella misura di un minimo di cinque mensilità di retribuzioni, determinata secondo i criteri di cui all'art. 2121 cod. civ.; nel caso di mancata ottemperanza alla sentenza da parte del datore di lavoro, alle retribuzioni dovutegli fino alla reintegrazione, ferma restando la possibilità della risoluzione del rapporto nel caso in cui il lavoratore non riprenda servizio entro trenta giorni dal ricevimento del relativo invito del datore di lavoro (artt. 18 e 35, legge n. 300/70);

 

b) i lavoratori appartenenti ad imprese o non imprese che occupano fino a trentacinque dipendenti, licenziati senza giusta causa o giustificato motivo hanno diritto alla riassunzione entro tre giorni dalla sentenza che accerta l'insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo oppure al risarcimento dei danni (cd. tutela obbligatoria) pari ad un minimo di cinque e ad un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione, avuto riguardo alla dimensione dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro ed al comportamento delle parti. La misura massima é ridotta ad otto mensilità se il prestatore di lavoro ha anzianità inferiore a trenta mesi; é maggiorata fino a quattordici mensilità se il prestatore di lavoro ha un'anzianità superiore ai venti anni; le misure massime e minime sono ridotte alla metà se il datore di lavoro occupa fino a sessanta dipendenti;

 

c) i lavoratori presso datori di lavoro che occupano meno di trentacinque dipendenti, in applicazione dell'art. 2118 cod. civ., possono essere licenziati ad nutum.

 

La Corte, nel ritenere infondata una analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 2118 cod. civ., ha già osservato (sent. n. 45/65) che il potere del datore di lavoro di recedere dal rapporto a tempo indeterminato non costituiva più un principio generale del nostro ordinamento; era stato ristretto nella sua sfera di efficacia sia da provvedimenti legislativi i quali, a tutela di particolari interessi dei lavoratori, avevano limitato e temporaneamente precluso il potere di recesso del datore di lavoro, sia soprattutto dagli accordi sindacali; che questi ultimi dimostravano che le condizioni socio-economiche del paese consentivano una nuova disciplina e che verso di essa l'evoluzione legislativa era sollecitata anche da raccomandazioni internazionali (cfr. 46 e 47 sessione della Conferenza internazionale del lavoro).

 

Ed, in effetti, la nuova disciplina sopravveniva con la legge 15 luglio 1966, n. 604 e poi con la legge 20 maggio 1970, n. 300.

 

E questa Corte (sent. n. 194/70), a proposito della denunciata illegittimità costituzionale delle norme di queste leggi, che dettano la disciplina dei licenziamenti, ha rilevato anzitutto che dall'art. 4 Cost. discendono principi che esprimono l'esigenza di un contenimento della libertà di recesso del datore di lavoro e l'ampliamento della tutela del lavoratore quanto alla conservazione del posto di lavoro; che, però, l'attuazione di questi principi resta affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario quanto alla scelta dei tempi e dei modi in rapporto alla situazione economica generale; ha avvertito, quindi, che, stanti la discrezionalità e la conseguente gradualità con cui il legislatore poteva applicare i principi costituzionali relativi alla garanzia della conservazione del posto di lavoro, l'art. 8, legge n. 604/66, era una iniziale attuazione di quei principi (legittimità in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.); laddove, poi, successivamente, gli artt. 18 e 35 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) avevano assicurato una più ampia tutela reale a quei lavoratori che dipendevano da determinate imprese industriali, commerciali o agricole o da parti di esse.

 

La Corte ha, poi, affermato che il legislatore, con le suddette norme, aveva voluto attuare, per i lavoratori delle suddette imprese, un regime più favorevole di quello stabilito dagli artt. 8 e 11, legge n. 604/66, con riguardo non più alla dimensione globale dell'impresa ma alla struttura organizzativa di essa nelle singole unità produttive e nell'ambito territoriale, richiedendo che l'impresa occupasse più di quindici o cinque dipendenti nella stessa unità produttiva, o almeno nello stesso comune (sent. n. 189/75).

 

La Corte ha affrontato e risolto anche il delicato problema del coordinamento degli artt. 8 e 11 della legge n. 604/66 e degli artt. 18 e 35 della legge n. 300/70 ad essi succeduti, ritenendo che (sent. n. 55/74) ai dipendenti dell'unità produttiva, che potrebbe essere unica ed esaurire la consistenza dell'impresa, o delle unità produttive da prendersi in considerazione ai sensi dei due commi dell'art. 35 si doveva applicare l'art. 18; la normativa dell'art. 8 della legge del 1966 rimaneva applicabile ai dipendenti estranei alla unità o alle unità produttive quando il numero complessivo dei dipendenti dell'impresa superava comunque il limite numerico di trentacinque stabilito dall'art. 11 della legge n. 604/66.

 

Infine, ha assunto che il regime di cui all'art. 2118 cod. civ. restava in vigore quando entrambi i limiti occupazionali, nei sensi sopra precisati, non trovavano realizzazione.

 

Per quanto riguarda i limiti numerici indicati e nell'art. 11, legge 604/66, e nell'art. 35, legge n. 300/70, questa Corte ha osservato che la componente numerica ha riflessi sul modo di essere e di operare del rapporto di lavoro organizzato; sfugge ad ogni censura di incostituzionalità ed é razionale la delimitazione di categorie di datori di lavoro secondo le forze di lavoro impiegate; é incensurabile il limite numerico di trentacinque dipendenti fissato dall'art. 11, legge n. 604/66, giacché arbitro della valutazione é stato il Parlamento il quale ha operato secondo autonome e motivate scelte, tenendo conto dei fattori di equilibrio economico-sociale che ne avevano consigliato, nel determinato momento, l'adozione nell'interesse generale (sent. n. 81/69).

 

I criteri adottati dal Parlamento nel 1966 erano stati rivisti anche in considerazione dell'evolversi delle esigenze organizzative collegate al progresso tecnologico ed alla svolta avutasi con l'ingresso del sindacato nelle fabbriche. E, quindi, con l'art. 35, legge n. 300/70, il legislatore aveva adottato un altro criterio che si sottraeva a censure sotto il profilo della razionalità perché si trattava, come si é detto, di valutazione discrezionale di politica legislativa avente riguardo ad equilibri economico-sociali che ne avevano consigliato l'adozione nell'interesse generale (sent. n. 55/74).

 

Il legislatore aveva usato la sua discrezionalità non solo nel distinguere le imprese agricole rispetto a quelle industriali e commerciali ma anche nel considerare l'impresa non nella sua interezza ma nelle unità produttive, distinte dalla sua complessa organizzazione imprenditoriale, le quali si erano delineate nell'ambito dell'impresa con carattere di autonomia così dal punto di vista economico-strutturale, come da quello finalistico e del risultato produttivo, nella più vasta area del mercato dei beni o dei servizi.

 

Tali unità erano da considerarsi autonomi centri di imputazione e di tutela, ossia autonomi gruppi di lavoro la cui consistenza e la cui identità assicuravano l'utile svolgimento dell'attività sindacale attraverso l'esclusione del potere di recesso ad nutum dell'imprenditore nei confronti dei componenti di essa così tutelati in via riflessa, per effetto della precipua tutela di un interesse collettivo.

 

Alla loro configurazione concreta non ostava la unitaria funzione dirigenziale esercitata dall'imprenditore; con la loro articolazione non era incompatibile la circostanza che nel quadro organizzativo dell'impresa fossero previsti uffici direzionali comuni che presiedevano al coordinamento produttivo e ad un armonico sviluppo dell'attività economica complessiva (sentt. n. 55/74 e n. 152/75).

 

Per quanto riguarda le conseguenziali differenze di tutela dei lavoratori, incardinati nelle diverse unità produttive, la Corte ha ravvisato il fondamento della disciplina differenziata, oltre che nel criterio della fiduciarietà del rapporto di lavoro e nell'opportunità di non gravare di oneri eccessivi le imprese di modeste dimensioni, anche e soprattutto nell'esigenza di salvaguardare la funzionalità delle unità produttive intese quali articolazioni di una più complessa organizzazione imprenditoriale, fornite di autonomia dai punti di vista economico-strutturale e funzionale, nonché del risultato produttivo ed in ispecie di quelle con un minor numero di dipendenti nelle quali la reintegrazione nel medesimo ambiente del dipendente licenziato avrebbe potuto determinare il verificarsi di una tensione nelle quotidiane relazioni umane e di lavoro (sentt. n. 55 del 1974; n. 152 e 189 del 1975).

 

Ha ritenuto anche giustificato il trattamento differenziato tra dipendenti da datori di lavoro non imprenditori e dipendenti da imprese, dal fatto che di fronte ad imprese caratterizzate dallo scopo di lucro e dal tipo di organizzazione rispondente alle esigenze della produzione di beni o di servizi, le diverse categorie di datori di lavoro non qualificabili professionalmente come imprenditori si distinguono nettamente per il difetto di forme organizzativi e di risorse finanziarie comparabili a quelle proprie delle attività imprenditoriali.

 

La profonda diversità di queste situazioni rispetto a quelle tipiche delle imprese industriali, commerciali ed agricole giustificava la diversità della disciplina anche per quanto atteneva alla garanzia di stabilità dei posti di lavoro dei loro dipendenti.

 

Ha ribadito che si trattava di valutazioni e di scelte discrezionali di politica legislativa e relative a condizioni economico-sociali che potrebbero anche mutare nel tempo e determinarne, quindi, la modificazione in quanto fondate su presupposti obiettivi e razionalmente ammissibili e anche sotto il profilo dei principi costituzionali di tutela del lavoro e dei lavoratori in quanto non poteva dirsi che confliggessero direttamente con gli artt. 4, 35 - primo comma, e 41 - secondo comma Cost. (sent. n. 189 del 1975).

 

La Corte ha anche esaminato (sent. n. 178/75) il profilo del risarcimento dei danni portato dall'art. 181 legge n. 300/70 statuendo che la predeterminazione di un risarcimento minimo spettante in caso di licenziamento invalido o inefficace costituiva una presunzione legale che, per essere configurata in misura realistica in rapporto ad ipotesi più frequenti, era esercizio legittimo di discrezionalità politica del legislatore.

 

L'art. 18 - secondo comma, innovando a quanto stabilito dall'art. 8, prevede che il datore di lavoro ha l'obbligo di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza fino a quella dell'effettiva reintegrazione.

 

Per il periodo antecedente, compreso il licenziamento ed il provvedimento di reintegrazione (sentt. n. 178/75

 e n. 256/76) la riconosciuta invalidità del licenziamento produce diversi effetti. Da un lato, il rapporto non si ritiene estinto (cosa, invece, che accade nell'ipotesi dell'art. 8 della legge n. 604 del 1966) ad ogni effetto (per es. per l'indennità di anzianità), dall'altro, é stata prevista la sanzione del risarcimento del danno nella misura minima (cinque mensilità) e si é lasciata al giudice del giudizio la determinazione del massimo, con possibilità che su esso incida quanto il lavoratore ha guadagnato impiegando altrimenti le proprie energie lavorative e che sia liquidato anche il maggior danno subito da provarsi dal lavoratore; che la stessa predeterminazione del danno minimo costituisce una presunzione legale configurata in rapporto alle ipotesi di maggior frequenza.

 

7. - I richiamati principi sono ormai condivisi dai giudici di merito ed anche dalla Corte di cassazione che di recente, a S.U., li ha confermati derimendo un contrasto che si era verificato nell'interno della Sezione Lavoro e delle stesse Sezioni Unite civili, così come ha ribadito la precedente decisione in punto di risarcimento danni da licenziamento illegittimo.

 

8. - La Corte ritiene di dover ribadire i suddetti principi anche in mancanza di deduzioni di argomenti nuovi da parte dei giudici remittenti.

 

Le ragioni che hanno determinato il legislatore a differenziare le imprese che impegnano meno di trentacinque lavoratori e lavoratori occupati da datori di lavoro non imprenditori, rispetto agli altri occupati in imprese di maggiori dimensioni (con più di trentacinque dipendenti) e cioé l'elemento fiduciario che permea il rapporto datore di lavoro-lavoratore, la necessità di non gravare di costi eccessivi le imprese minori, la necessità di ovviare tensioni nella fabbrica, conservano tutt'oggi la loro rilevanza e la loro validità per cui il trattamento differenziato trova adeguata giustificazione e non sono irrazionali le norme che lo prevedono, dettate dal legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità e della politica economico-sociale che attua.

 

Ora, l'assetto realizzato risulta giustificato essendo ancora attuale la crisi economica che colpisce le imprese ed il paese e non essendo ancora sopite le tensioni del mondo del lavoro e non essendo ancora risolti i numerosi problemi.

 

E, sempre per le esigenze di politica sociale e sindacale tutt'ora attuali e valide, non é irrazionale il diverso trattamento previsto per i lavoratori delle unità produttive con più di quindici dipendenti.

 

La più intensa tutela (la cd. tutela reale), assicurata a questi lavoratori continua a trovare adeguata giustificazione nella necessità di svolgimento dell'attività sindacale in fabbrica, introdotta dallo Statuto dei lavoratori.

 

Ed il diverso trattamento é altresì giustificato dalla mancanza di omogeneità tra la situazione di questi lavoratori e quella di lavoratori di altre imprese.

 

Per quanto, poi, riguarda più specificamente il risarcimento del danno conseguente al licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, trova adeguata e razionale giustificazione il diverso trattamento fatto ai lavoratori a seconda dell'appartenenza alle imprese o non imprese o alle unità produttive, per cui la dimensione aziendale assume diversa rilevanza, proprio nella differente tutela che il legislatore ha assicurato per le finalità di politica economica, sociale e sindacale, propostesi e realizzate. Nell'ipotesi di lavoratore appartenente ad impresa con meno di trentacinque dipendenti o non imprese, il risarcimento del danno é sanzione alternativa della riassunzione, e la conseguente cessazione del rapporto di lavoro (tutela obbligatoria).

 

Non é, quindi, nemmeno priva di ragionevolezza la determinazione del danno nel minimo e nel massimo riducibile a seconda della consistenza dell'azienda e dell'anzianità del lavoratore.

 

Invece, la tutela apprestata ai lavoratori licenziati senza giusta causa o giustificato motivo, appartenenti ad una unità produttiva con più di quindici dipendenti di imprese industriali o commerciali, più di cinque dipendenti per le imprese agricole, importa la reintegra nel posto di lavoro con conseguente continuazione del rapporto che si considera come non mai interrotto (é interrotta solo la continuazione della prestazione), e il risarcimento dei danni é ragionevolmente determinato solo nel minimo di cinque mensilità, qualunque sia la durata degli effetti del licenziamento ingiusto o ingiustificato, con la determinazione del massimo rimessa al giudice della controversia; mentre sussiste il diritto del lavoratore reintegrato a percepire la retribuzione per il periodo successivo, dall'ordine della reintegrazione alla ripresa dell'attività lavorativa e, per il periodo antecedente alla reintegrazione, il diritto dello stesso lavoratore di ottenere l'inclusione nel danno delle retribuzioni non pagate, dei contributi omessi e dovuti per la vigenza del rapporto assicurativo-previdenziale collegato al rapporto di lavoro vigente, ed ogni altro maggior danno da provarsi dallo stesso lavoratore; e mentre sussiste il diritto del datore di lavoro di ottenere, se ne dà la prova, la detrazione di quanto percepito dal lavoratore impiegando altrove o altrimenti le proprie energie lavorative, o di quanto dovuto dal lavoratore per concorso di colpa, nell'evitare la produzione del danno o il suo aggravarsi, sempre se provati dal datore di lavoro.

 

Nelle altre ipotesi, e cioé di imprese o non imprese con meno di trentacinque dipendenti o unità produttive con meno di quindici dipendenti, trova attuazione, in base all'art. 2118 cod. civ., il recesso ad nutum.

 

Resta auspicabile che il legislatore, per le suddette imprese, nell'attuazione di una politica sociale ed anche in adesione ai principi ed alle indicazioni internazionali, possa nel futuro introdurre la previsione di una giusta causa o di un giustificato motivo a base del licenziamento dal datore di lavoro intimato.

 

9. - Per quanto riguarda più specificamente gli altri parametri costituzionali invocati, questa Corte ritiene che l'operato riferimento non appare pertinente. Invero, l'art. 35 - primo comma, si limita a stabilire il criterio ispiratore di tutte le disposizioni comprese nel titolo III. Mentre, secondo l'art. 4, in base all'interpretazione più volte data da questa Corte, non é garantito a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di una occupazione, così come non é garantito il diritto alla conservazione del lavoro e, ove siano previsti i casi, i modi ed i tempi dei licenziamenti, la disciplina, per essere conforme alla Costituzione, deve rispettare l'esigenza di un trattamento eguale per situazioni eguali e, in relazione a queste, può essere diversificato solo in presenza di giustificate ragioni (il che é nella fattispecie).

 

L'art. 41 Cost. risulta solo richiamato, senza alcuna motivazione al riguardo.

 

Pertanto, le questioni di costituzionalità sollevate dai Pretori di Pesaro, Firenze e Gualdo Tadino, rispettivamente con ordinanze 30 novembre 1977 (R.O. n. 147/78), 12 febbraio 1981 (R.O. n. 340/81) e 28 maggio 1984 (R.O. n. 1136/84), in relazione agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., devono dichiararsi non fondate.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e degli artt. 18 e 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300, sollevate dai Pretori di Bassano del Grappa e di Salò con le ordinanze in epigrafe (R.O. n. 295/78 e n. 592/80) in relazione all'art. 3 Cost.;

 

b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 11, legge 15 luglio 1966, n. 604, sollevata dal Pretore di Pesaro in riferimento all'art. 3 Cost. (R.O. n. 147/78); degli artt. 11 - primo comma, legge 15 luglio 1966, n. 604, e 35 - primo e secondo comma, legge 20 maggio 1970, n. 300, sollevata dal Pretore di Firenze, in riferimento agli artt. 3, 4 - primo comma, 35 - primo comma, 41 - secondo comma Cost. (R.O. n. 340/81); degli artt. 2118 cod. civ., 35, legge 20 maggio 1970, n. 300. e 11, legge 15 luglio 1966, n. 604, sollevata dal Pretore di Gualdo Tadino in riferimento agli artt. 3, 4 - primo comma, 35 - primo comma e 41 - secondo comma Cost. (R.O. n. 1136/84).

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 gennaio 1986.

 

 

Livio PALADIN - Oronzo REALE - Albero MALAGUGINI - Antonio LAPERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL’ANDRO

 

Depositata in cancelleria il 14 gennaio 1986.