Sentenza n. 183 del 2021

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SENTENZA N. 183

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui richiama il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), promosso dalla Corte d’appello di Bologna nel procedimento penale a carico di F. P., con ordinanza del 16 dicembre 2019, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 luglio 2021 il Giudice relatore Stefano Petitti;

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 16 dicembre 2019, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2021, la Corte d’appello di Bologna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui, richiamando il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), «prevede che il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori è ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile tale norma solo ai fatti commessi successivamente» all’entrata in vigore della legge medesima.

Considerate la «natura afflittiva o intrinsecamente punitiva» e la «rilevanza sostanziale» della disposizione censurata, in quanto incidente sulla «portata della pena», il rimettente sospetta che l’applicazione della stessa ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019 violi gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

1.1.– La Corte d’appello di Bologna riferisce di dover provvedere sull’istanza con la quale F. P. ha chiesto sospendersi l’ordine di carcerazione emesso nei suoi confronti il 23 settembre 2019 in esecuzione di una sentenza passata in giudicato il 26 luglio 2019 recante condanna inflittagli per il reato aggravato di cui agli artt. 572 e 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., avente ad oggetto maltrattamenti in danno della moglie commessi in presenza di minori «dal 2011 al mese di maggio 2017».

Sull’assunto che questo titolo di reato sia divenuto ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva solo con l’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019, quindi solo il 9 agosto 2019, il giudice a quo reputa che un’applicazione retroattiva della modifica normativa, seppur conforme al diritto vivente ispirato al principio tempus regit actum in materia esecutiva, oltre a rimettere la maggiore o minore severità del trattamento sanzionatorio al dato casuale del diverso tempo di attivazione dell’organo esecutivo, sia lesiva della garanzia sostanziale di irretroattività delle norme penali (viene richiamata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna).

1.2.– In ordine alla rilevanza delle questioni, il giudice a quo osserva che «l’assenza di una disciplina transitoria ha comportato l’emissione dell’ordine di esecuzione per la carcerazione e, in caso di dichiarata incostituzionalità, il P. otterrebbe l’immediata sospensione dell’ordine di esecuzione, aprendosi per lui il termine per proporre richiesta, da libero, di misure alternative alla detenzione».

D’altro canto, «[l]’esistenza di un diritto vivente così granitico in tema di applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva» renderebbe impraticabile un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili, sotto due convergenti profili, entrambi riferiti all’asserita erroneità della mancata sospensione dell’ordine di carcerazione, emendabile dal giudice dell’esecuzione con l’immediata declaratoria di inefficacia dell’ordine stesso.

2.1.– In primo luogo, il titolo di reato per cui è stata emessa la condanna di F. P., cioè maltrattamenti in famiglia aggravati dalla presenza di minore, non avrebbe avuto effetto ostativo al tempo della sospensione dell’ordine di esecuzione, effetto viceversa correlato al solo delitto di maltrattamenti in danno di minore.

2.2.– Inoltre, la sospensione dell’ordine di carcerazione avrebbe dovuto essere disposta in base alla disciplina vigente alla data del passaggio in giudicato della condanna, cioè al 26 luglio 2019, senza che potesse venire in rilievo la modifica normativa di cui alla legge n. 69 del 2019, entrata in vigore solo il 9 agosto 2019, essendo irrilevante che l’ordine stesso sia stato emesso posteriormente, ossia in data 23 settembre 2019, giacché «eventuali ritardi nell’esecuzione non possono avere alcuna incidenza sulla individuazione della normativa applicabile al caso concreto».

Considerato in diritto

1.– La Corte d’appello di Bologna (reg. ord. n. 9 del 2021) ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui, richiamando il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), «prevede che il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori è ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile tale norma solo ai fatti commessi successivamente» all’entrata in vigore della legge medesima.

Il rimettente prospetta la violazione degli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto l’applicazione del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva per maltrattamenti aggravati dalla presenza di minore commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019 – che ha reso questo titolo di reato ostativo alla sospensione – lederebbe la garanzia costituzionale e convenzionale di irretroattività delle norme penali ad effetti sostanziali, quelle incidenti cioè sulla portata effettiva della pena.

1.1.– Il giudice a quo riferisce di dover provvedere sull’istanza con la quale F. P. ha chiesto sospendersi l’ordine di carcerazione emesso nei suoi confronti il 23 settembre 2019 in esecuzione di una sentenza passata in giudicato il 26 luglio 2019 recante condanna inflittagli per il reato aggravato di cui agli artt. 572 e 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., avente ad oggetto maltrattamenti in danno della moglie commessi in presenza di minori «dal 2011 al mese di maggio 2017».

Le questioni sarebbero rilevanti poiché l’accoglimento delle stesse consentirebbe a F. P. di ottenere la sospensione dell’ordine di carcerazione e chiedere quindi, da libero, una misura alternativa alla detenzione; effetto che il rimettente dichiara non conseguibile altrimenti, attesa la sussistenza di «un diritto vivente così granitico in tema di applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva» da impedire ogni interpretazione adeguatrice della norma censurata.

2.– Intervenuto in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili, poiché la mancata sospensione dell’ordine di carcerazione di F. P. sarebbe frutto di errori interpretativi e applicativi, che il giudice dell’esecuzione potrebbe emendare da sé, senza alcuna necessità di sollevare incidente di costituzionalità.

Ad avviso dell’interveniente, sarebbe stato erroneo considerare ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione il reato di maltrattamenti in presenza di minori, giacché l’effetto ostativo andrebbe correlato ai soli maltrattamenti in danno di minori; inoltre, la sospensione dell’ordine di carcerazione avrebbe dovuto essere disposta in base alla disciplina vigente alla data del passaggio in giudicato della condanna, cioè al 26 luglio 2019, senza applicare la modifica normativa di cui alla legge n. 69 del 2019, entrata in vigore solo il 9 agosto 2019, non avendo alcuna rilevanza che l’ordine stesso sia stato emesso posteriormente, ossia in data 23 settembre 2019.

3.– Tali eccezioni di inammissibilità non sono fondate.

Il giudice a quo ha ritenuto che, malgrado il carattere ostativo del titolo di reato dei maltrattamenti familiari in presenza di minori sia sopravvenuto al fatto-reato commesso da F. P., e persino alla formazione del giudicato nei confronti dello stesso, tuttavia l’ordine di esecuzione della condanna non avrebbe potuto essere sospeso in ragione del principio tempus regit actum, la cui operatività in materia esecutiva era imposta dal diritto vivente.

3.1.– Questi argomenti sono tutt’altro che incoerenti rispetto al quadro interpretativo consolidato al momento dell’ordinanza di rimessione, effettivamente dominato dal principio tempus regit actum in materia esecutiva, fermo che l’actus di riferimento temporale avrebbe dovuto individuarsi, per l’appunto, nell’ordine di carcerazione della cui sospensione trattasi, elemento essenziale della fattispecie complessa destinata a culminare nell’eventuale concessione delle misure alternative (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019, n. 25212).

Tanto basta ad escludere l’eccepita inammissibilità delle questioni in scrutinio, atteso che il sindacato di questa Corte sul giudizio di rilevanza della questione incidentale ha carattere «esterno», si arresta cioè alla soglia della «non implausibilità» della motivazione dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 59, n. 32, n. 22 e n. 15 del 2021, n. 267 e n. 32 del 2020; ordinanze n. 117 del 2017 e n. 47 del 2016).

4.– Nel merito, le questioni non sono fondate, nei sensi di cui appresso.

5.– Con la sentenza n. 32 del 2020, questa Corte, ritenendo necessaria «una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena», ha affermato che la regola di diritto vivente secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato, soffre «un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato».

Ciò la sentenza medesima ha affermato anche per il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., non essendo decisiva in senso contrario la collocazione della disposizione nel codice di rito, atteso che quel divieto «produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto».

Enunciata a proposito dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), la medesima ratio non può che valere in ogni ipotesi nella quale il legislatore estenda il novero dei reati ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva senza una disciplina transitoria mirata ad escludere dall’inasprimento normativo i condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore.

5.1.– Al cospetto di un diritto vivente univocamente orientato all’indiscriminata applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva, questa Corte, nella sopra citata sentenza, ha ritenuto di non poter adottare una pronuncia interpretativa di rigetto, e ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale – per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost. – dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «in quanto interpretato» nel senso imposto da quel medesimo diritto vivente.

Modificando il quadro interpretativo del regime intertemporale delle novelle incidenti sulla disciplina dell’esecuzione della pena, tale declaratoria di illegittimità costituzionale ha restituito ai giudici comuni la possibilità – e quindi il dovere – di interpretare in senso costituzionalmente adeguato ogni sopravvenienza normativa che muti quella disciplina in peius.

5.2.– Per dette ragioni, con la sentenza n. 193 del 2020, questa Corte, chiamata a pronunciarsi su questioni analoghe alle odierne – sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, nei riguardi dell’art. 3-bis, comma 1, del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43, nella parte in cui, stabilendo l’esclusione della sospensione dell’ordine di esecuzione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, «non prevede una norma transitoria al fine di evitare l’applicazione retroattiva del divieto» –, ha dichiarato le questioni stesse non fondate «nei sensi di cui in motivazione».

Infatti, sulla premessa che tale norma, sancendo il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, nulla dispone circa i fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, la sentenza n. 193 del 2020 ha osservato che «nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020».

Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, del d.l. n. 7 del 2015, come convertito, sono state dichiarate non fondate, quindi, «potendo e dovendo la disposizione censurata essere interpretata in modo conforme a Costituzione», cioè nel senso che essa potrà trovare applicazione – con riferimento al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. – ai soli fatti di reato commessi successivamente alla sua entrata in vigore.

6.– A conclusioni analoghe deve pervenirsi per le questioni ora in scrutinio, una volta constatato che il reato di maltrattamenti familiari in presenza di minori è entrato a far parte del novero dei reati ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva solo per effetto della modifica introdotta dalla legge n. 69 del 2019, che non può peggiorare il regime esecutivo nei confronti di un condannato il quale – come F. P. – abbia commesso il reato medesimo prima dell’entrata in vigore di quella legge.

6.1.– La menzione dell’art. 572, secondo comma, cod. pen. nell’elenco dei titoli di reato per i quali l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. esclude la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva è stata introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 94.

A quel tempo, l’art. 572, secondo comma, cod. pen., a sua volta introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera d), della legge 1° ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), prevedeva un’aggravante ad effetto comune del reato di maltrattamenti, se commesso «in danno di persona minore degli anni quattordici».

6.2.– Su tale quadro normativo è intervenuto il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119.

L’art. 1, comma 1, del testo originario di tale decreto sostituiva il secondo comma dell’art. 572 cod. pen. riferendo l’aggravante – sempre ad effetto comune – al fatto commesso «in danno o in presenza di minore degli anni diciotto», quindi con un ampliamento concernente non soltanto l’età del minore, giacché venivano inclusi anche gli ultraquattordicenni, ma anche la condotta del maltrattante, estesa a comprendere i maltrattamenti (non in danno, ma) in presenza del minore, tipo di lesione indiretta, basata sulla percezione della violenza in ambito domestico, anche nota come “violenza assistita”.

In sede di conversione, tuttavia, l’art. 1 del d.l. n. 93 del 2013 è stato modificato nel senso che, tramite il comma 1-bis, è stato abrogato il secondo comma dell’art. 572 cod. pen. e, mediante il comma 1, il relativo contenuto è stato trasferito nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., prevedendo, tra le circostanze aggravanti comuni, l’«avere […] nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto […]».

6.3.– Da ultimo, l’art. 9, comma 1, della legge n. 69 del 2019 ha espunto il riferimento all’art. 572 cod. pen. dall’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen.

L’art. 9, comma 2, lettera b), della legge medesima ha tuttavia inserito nell’art. 572 cod. pen. un nuovo secondo comma, che ha recuperato l’aggravante, questa volta configurandola alla stregua di una circostanza ad effetto speciale, giacché vi si prevede che «[l]a pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore […]».

6.4.– Questo excursus evidenzia che, anteriormente alla modifica introdotta dalla legge n. 69 del 2019, l’art. 572, secondo comma, cod. pen. non ha mai contemplato la circostanza della presenza del minore quale aggravante del reato di maltrattamenti.

Esso è stato formalmente veicolo dell’aggravante della «presenza di minore degli anni diciotto» nell’arco temporale che va dall’entrata in vigore del d.l. n. 93 del 2013 (17 agosto 2013) sino all’entrata in vigore della legge di conversione (16 ottobre 2013), e tuttavia l’effetto caducatorio spiegato da quest’ultima – che, come si è visto, ha abrogato quel secondo comma tramite un emendamento modificativo del testo originario del decreto – impedisce che ciò possa avere un qualche rilievo (meno che mai in malam partem), giacché il decreto-legge convertito in legge con emendamenti implicanti mancata conversione in parte qua perde efficacia sin dall’inizio ex art. 77, terzo comma, Cost. (sentenze n. 367 del 2010 e n. 51 del 1985).

6.5.– La giurisprudenza di legittimità ha potuto quindi constatare che tra l’originaria forma aggravata ex art. 572, secondo comma, cod. pen. e quella inserita nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen. vi è continuità normativa soltanto per le condotte tenute in danno dei minori di anni quattordici, unico terreno comune ad entrambe, mentre non rientrano nell’originaria previsione di aggravamento, e non possono quindi ritenersi richiamate in forma “mobile” dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., le ulteriori ipotesi aggravate introdotte nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., ipotesi nuove, ispirate da maggior rigore punitivo, quindi soggette ai principi di tassatività e irretroattività (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 21 marzo 2019, n. 12653).

6.6.– Insussistente in rapporto all’aggravante ad effetto comune ex art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., l’effetto ostativo della “violenza assistita” è da intendersi quindi introdotto ex novo con l’aggravante ad effetto speciale di cui al secondo comma dell’art. 572 cod. pen., come inserito dalla legge n. 69 del 2019.

7.– In definitiva, le questioni vanno dichiarate non fondate, poiché, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, pur in conformità al diritto vivente al tempo dell’ordinanza di rimessione, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. può e deve essere oggi interpretato – in linea con la sopravvenuta sentenza di questa Corte n. 32 del 2020 – nel senso che il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva nei confronti del condannato per il delitto di maltrattamenti aggravato dalla presenza di minori non si applica alla condanna per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Stefano PETITTI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2021.