Ordinanza n. 182 del 2019

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ORDINANZA N. 182

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 13, promosso dalla Commissione tributaria di primo grado di Trento, nel procedimento vertente tra Sergio Divina e l’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Trento, con ordinanza del 4 dicembre 2014, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2019 il Giudice relatore Luca Antonini.

Ritenuto che con ordinanza del 4 dicembre 2014, iscritta al n. 19 del reg. ord. 2019, la Commissione tributaria di primo grado di Trento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 67 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 13, a norma del quale «[a] partire dall’anno di imposta 2007 le erogazioni in denaro effettuate a favore di partiti politici, esclusivamente tramite bonifico bancario o postale e tracciabili secondo la vigente normativa antiriciclaggio, devono comunque considerarsi detraibili ai sensi dell’articolo 15, comma 1-bis, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 [Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi]»;

che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio tributario promosso dal sig. Sergio Divina avverso un avviso di accertamento dell’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Trento;

che il rimettente premette, in punto di fatto, che l’avviso di accertamento impugnato concerne una maggiore imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) per l’anno di imposta 2008, accertata «per effetto del disconoscimento della natura di “erogazioni liberali” – e quindi della detraibilità dall’imposta nella misura del 19% ai sensi dell’art. 15, comma 1-bis, d.P.R. 22.12.1986, n. 917 […] – delle somme di denaro versate in quell’anno di imposta dal ricorrente» in favore del partito politico di appartenenza;

che, ancora in punto di fatto, il rimettente osserva che il contribuente, nel ricorso introduttivo, ha sollevato varie questioni pregiudiziali di merito, tra cui la contestazione dell’«assunto dell’Ufficio, secondo cui si sarebbe costituito un rapporto sinallagmatico» con il partito politico e, in ordine gradato rispetto a tali difese, l’affermazione per cui «la detraibilità dall’imposta, nella misura del 19%, delle somme […] versate dal ricorrente in favore del partito politico […] nel 2008, prescinde dalla natura di atto di liberalità delle erogazioni» per effetto del comma 4-bis dell’art. 11 del d.l. n. 149 del 2014;

che dall’ordinanza di rimessione risulta che l’Agenzia delle entrate ha replicato deducendo, in particolare quanto alla detraibilità dall’IRPEF dell’erogazione effettuata dal contribuente: a) che «di solito, oltre all’atto di donazione, il candidato ed il partito […] stipulavano un accordo in cui si affermava espressamente che il versamento delle somme del candidato al partito avveniva in correlazione con “le obbligazioni assunte”» dal partito stesso; b) che ciò «esclude in radice lo spirito di liberalità (inteso come mera e spontanea elargizione fine a se stessa) e la detraibilità ai sensi dell’art. 15 co. 1bis d.lgs. [d.P.R.] 917/1986»; c) che in difetto del carattere di liberalità dell’erogazione non può trovare applicazione neanche l’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, sia in ragione della rubrica dell’articolo «Detrazioni per le erogazioni liberali in denaro in favore di partiti politici», sia perché, diversamente interpretando, si ammetterebbe «una sorta di sanatoria rispetto alle erogazioni non connotate da spirito di liberalità»;

che il giudice tributario rimettente, non condividendo l’assunto dell’Agenzia delle entrate, muove dal diverso presupposto interpretativo che il citato art. 11 comma 4-bis del d.l. n. 149 del 2013 non richiede il requisito della liberalità, con ciò «ponendosi in evidente rapporto di specialità con l’art. 15, comma 1 bis d.P.R. 917/1986 [che dispone la detraibilità delle sole erogazioni liberali in denaro effettuate a favore di partiti e movimenti politici]», poiché, diversamente, «la norma si presenterebbe del tutto superflua, limitandosi a ribadire il contenuto precettivo dell’art. 15 co. 1bis d.P.R. 1986/917 […] in evidente contrasto con la volontà del legislatore, il quale – come si evince chiaramente dalla manca[t]a apposizione al sostantivo “erogazioni” dell’aggettivo “liberali”, sia dalla locuzione “devono comunque considerarsi detraibili” – invece ha inteso estendere la sfera di applicazione (in origine limitata alle “erogazioni liberali”) dell’art. 15 co. 1bis d.P.R. 917/1986»;

che a detta del giudice a quo tale interpretazione non muta considerando la rubrica del menzionato art. 11 (Detrazioni per le erogazioni liberali in denaro in favore di partiti politici), in quanto priva di uno specifico valore ermeneutico soprattutto trattandosi di novella in sede di conversione di un decreto legge;

che proprio in forza della suddetta interpretazione il rimettente solleva d’ufficio questioni di legittimità costituzionale del citato art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, inserito dalla legge di conversione n. 13 del 2014, «nella parte in cui – in violazione dell’art. 3 co. 1 e dell’art. 67 Cost. – consente ai membri del Parlamento, a partire dall’anno di imposta 2007, di detrarre dall’imposta lorda sui redditi un importo pari al 19 per cento per le erogazioni in denaro anche se non liberali effettuate in favore di partiti e movimenti politici per importi compresi tra 100.000 e 200 milioni di lire (ossia tra 51,65 e 103.291,38 euro)»;

che in punto di rilevanza – motivate le ragioni dell’infondatezza delle questioni pregiudiziali prospettate dal ricorrente nel giudizio principale e premessa l’incontestata stipula di «un contratto di donazione mediante il quale [il contribuente] ha assunto […] l’obbligo di donare» al partito politico una somma di denaro complessiva da versarsi in rate mensili nel periodo corrispondente alla durata dell’eventuale mandato parlamentare nel caso di elezione – il rimettente, a confutazione della natura liberale di tale atto, richiama la disciplina del codice civile sul fondamento e la validità della donazione (artt. 769, 771 e 772 del codice civile), per concludere che, nella specie, dette erogazioni in denaro «non possono essere considerate “erogazioni liberali” secondo l’accezione ex art. 15 co 1bis d.P.R. 917/1986»;

che, sulla scorta della predetta interpretazione dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, il giudice a quo ritiene che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla soluzione delle suddette questioni di legittimità costituzionale «in quanto, applicando la norma oggetto dello scrutinio richiesto, meriterebbe accoglimento il ricorso proposto» dal contribuente avverso l’avviso di accertamento;

che in punto di non manifesta infondatezza il rimettente argomenta preliminarmente dall’art. 67 Cost. affermando che «il divieto di mandato imperativo persegue la finalità di garantire l’assoluta indipendenza dei membri del Parlamento da influenza, da qualunque parte provenga (quindi anche dai partiti politici di appartenenza che costituiscono una sorta di organo intermedio, previsto dall’art. 49 Cost., tra popolo e rappresentanti)»;

che, ad avviso del rimettente, l’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, consentendo la detraibilità dall’imposta sui redditi di una quota delle erogazioni in denaro a favore dei partiti politici «anche se effettuati da membri dal Parlamento e senza la necessaria presenza dello spirito di liberalità (come, invece, richiesto dalla norma generale ex art. 15 co. 1bis d.P.R. 917/1986), presuppone ed, anzi, favorisce l’instaurazione di rapporti giuridici di credito tra i partiti politici ed i membri del Parlamento»;

che proprio «l’esistenza a carico del parlamentare di debiti di natura giuridica nei confronti di un partito politico, con la conseguente responsabilità patrimoniale di natura personale e l’assoggettamento a possibili azioni di esecuzione forzata, introduce nelle relazioni tra parlamentare e partito politico fattori potenzialmente distorsivi in quanto estranei al rapporto rappresentativo», in violazione del divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 Cost.;

che, a detta del rimettente, l’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013 si pone, «altresì, in contrasto» con il principio di eguaglianza sancito al primo comma dell’art. 3 Cost., «laddove consente indiscriminatamente a chiunque di detrarre dall’imposta sui redditi una quota delle erogazioni a favore di partiti politici effettuate senza spirito di liberalità e quindi in esecuzione di obblighi giuridici, omettendo di considerare la peculiare situazione in cui versano, per effetto del divieto di mandato imperativo, i membri del Parlamento»;

che, a quanto deduce il rimettente, l’evidente rapporto di antinomia con l’art. 67 Cost., «che, nel caso in esame, funge da tertium comparationis», configura «la possibilità di una manipolazione “a rime obbligate” della norma impugnata»;

che, secondo il giudice a quo, la lesione dell’art. 3, primo comma, Cost., sarebbe avvalorata sotto un ulteriore profilo, poiché l’introduzione della disposizione in sede di conversione del decreto legge e la coincidenza tra l’efficacia retroattiva della norma e il tempo a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per l’esercizio del potere di accertamento «fa dubitare persino degli effettivi caratteri di generalità ed astrattezza della norma impugnata»;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che le questioni vengano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate;

che, in via preliminare, secondo l’Avvocatura dello Stato le considerazioni sviluppate nell’ordinanza di rimessione sono volte a mettere in discussione non tanto il trattamento fiscale delle elargizioni in esame, quanto la stessa prassi, utilizzata in passato da alcuni partiti politici, di finanziarsi stipulando contratti del tipo di quello dedotto dal contribuente nel giudizio principale;

che, ancora ad avviso dell’Avvocatura, la censura in relazione all’art. 67 Cost. è da considerarsi inammissibile in quanto «si colloca in una sfera del tutto estranea all’ambito della norma ora scrutinata, la quale si limita a disciplinare solo il trattamento fiscale del fenomeno che il rimettente è andato censurando, concernendo effetti che costituiscono, sul piano logico, un “posterius” rispetto alla contestata “donazione” […], sicché – se pure fosse espunta dall’ordinamento la norma ora in esame che prevede il beneficio fiscale della detrazione – non potrebbe essere raggiunto il risultato, auspicato dal giudice rimettente, di assicurare un pieno rispetto dell’art. 67 Cost. nella misura in cui non vi fosse nell’ordinamento una disposizione normativa volta a vietare tout court simili “donazioni” dei parlamentari o candidati al Parlamento in favore dei partiti politici»;

che, sotto un profilo più generale, l’Avvocatura, dando conto dell’evoluzione normativa che ha condotto all’abrogazione dell’art. 15, comma 1-bis, del d.P.R. n. 917 del 1986 a fronte dell’autonoma previsione dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, ritiene che l’attuale disciplina, anche fiscale, delle contribuzioni volontarie ai partiti politici debba essere valutata in relazione al complesso della riforma trovando così il suo «non irragionevole fondamento […] in un’ottica di trasparenza» e che «il riscontro dell’eventuale violazione del parametro di cui all’art. 3 della Cost. deve essere effettuato in relazione al suddetto specifico contesto»;

che, pertanto, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, le questioni di costituzionalità formulate «con riferimento al principio di ragionevolezza» debbono ritenersi manifestamente infondate poiché si tratterebbe di uno scrutinio che direttamente investe il merito delle scelte del legislatore, possibile – per costante giurisprudenza – solo qualora l’opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza (è citata la sentenza n. 313 del 1995);

che, infine, l’Avvocatura dello Stato – ricordato che questa Corte, con l’ordinanza n. 244 del 2017 ha già dichiarato manifestamente inammissibili questioni, in parte non dissimili, relative al citato art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, osservando che «il giudice a quo avrebbe dovuto dare conto dell’esistenza, quantomeno, del secondo periodo del comma 4-bis e fornire adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali la disciplina in esso contenuta sarebbe da ritenere, in ipotesi, inapplicabile nel caso di specie» – ritiene che, sia pure per ragioni e in relazione a circostanze diverse, anche nel caso in esame si palesa una carenza di indagine che depone nel senso dell’inammissibilità delle questioni.

Considerato che con ordinanza del 4 dicembre 2014, iscritta al n. 19 del reg. ord. 2019, la Commissione tributaria di primo grado di Trento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 67 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), inserito dalla legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 13, a norma del quale «[a] partire dall’anno di imposta 2007 le erogazioni in denaro effettuate a favore di partiti politici, esclusivamente tramite bonifico bancario o postale e tracciabili secondo la vigente normativa antiriciclaggio, devono comunque considerarsi detraibili ai sensi dell’articolo 15, comma 1-bis, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 [Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi]»;

che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio tributario promosso avverso un avviso di accertamento concernente – secondo quanto dedotto dal rimettente – una maggiore imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) per l’anno di imposta 2008, accertata «per effetto del disconoscimento della natura di “erogazioni liberali” – e quindi della detraibilità dall’imposta nella misura del 19% ai sensi dell’art. 15, comma 1-bis, d.P.R. 22.12.1986, n. 917 […] – delle somme di denaro versate in quell’anno di imposta dal ricorrente» in favore del partito politico di appartenenza;

che in punto di rilevanza il rimettente, dopo aver adeguatamente motivato le ragioni dell’infondatezza delle questioni pregiudiziali sollevate dal contribuente, esclude lo spirito di liberalità dell’incontestata stipula del «contratto di donazione» tra il contribuente-candidato e il partito di appartenenza;

che, pertanto, il rimettente, disattesa la diversa interpretazione prospettata dall’Agenzia delle entrate, muove dal presupposto interpretativo che il citato art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013 non richiede il requisito della liberalità;

che sulla scorta della predetta interpretazione dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, il giudice a quo conclude che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dall’applicazione della norma censurata;

che proprio in forza di questa interpretazione il rimettente solleva d’ufficio questioni di legittimità costituzionale del citato art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, inserito dalla legge di conversione n. 13 del 2014, «nella parte in cui – in violazione dell’art. 3 co. 1 e dell’art. 67 Cost. – consente ai membri del Parlamento, a partire dall’anno di imposta 2007, di detrarre dall’imposta lorda sui redditi un importo pari al 19 per cento per le erogazioni in denaro anche se non liberali effettuate in favore di partiti e movimenti politici per importi compresi tra 100.000 e 200 milioni di lire (ossia tra 51,65 e 103.291,38 euro)»;

che, ad avviso del rimettente, l’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, consentendo la detraibilità dall’imposta sui redditi di una quota delle erogazioni in denaro a favore dei partiti politici «anche se effettuati da membri dal Parlamento e senza la necessaria presenza dello spirito di liberalità (come, invece, richiesto dalla norma generale ex art. 15 co. 1bis d.P.R. 917/1986), presuppone ed, anzi, favorisce l’instaurazione di rapporti giuridici di credito tra i partiti politici ed i membri del Parlamento»;

che, a detta del rimettente, l’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013 si pone, «altresì, in contrasto» con il principio di eguaglianza sancito al primo comma dell’art. 3 Cost., «laddove consente indiscriminatamente a chiunque di detrarre dall’imposta sui redditi una quota delle erogazioni a favore di partiti politici effettuate senza spirito di liberalità e quindi in esecuzione di obblighi giuridici, omettendo di considerare la peculiare situazione in cui versano, per effetto del divieto di mandato imperativo, i membri del Parlamento»;

che, nella prospettiva del rimettente, l’evidente rapporto di antinomia con l’art. 67 Cost. «che, nel caso in esame, funge da tertium comparationis», configura «la possibilità di una manipolazione “a rime obbligate” della norma impugnata»;

che, secondo il giudice a quo, la lesione dell’art. 3, primo comma, Cost., sarebbe avvalorata sotto un ulteriore profilo, poiché l’introduzione della disposizione in sede di conversione del decreto legge e la coincidenza tra l’efficacia retroattiva della norma e il tempo a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per l’esercizio del potere di accertamento «fa dubitare persino degli effettivi caratteri di generalità ed astrattezza della norma impugnata»;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che le questioni vengano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate;

che, ad avviso dell’Avvocatura generale, «[l]’effettiva portata della disposizione contenuta nell’art. 11 co. 4 bis deve essere valutata in relazione al contesto complessivo della legge di riforma» volta all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici;

che, in questa prospettiva, l’Avvocatura ha inoltre ricordato che questa Corte con l’ordinanza n. 244 del 2017 ha già dichiarato la manifesta inammissibilità di questioni, in parte non dissimili, relative al citato art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, osservando che «il giudice a quo avrebbe dovuto dare conto dell’esistenza, quantomeno, del secondo periodo del comma 4-bis e fornire adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali la disciplina in esso contenuta sarebbe da ritenere, in ipotesi, inapplicabile nel caso di specie»;

che l’Avvocatura dello Stato ritiene che, «sia pure per ragioni e in relazione a circostanze diverse da quelle esaminate nella richiamata ord. 244/2017, anche nel caso in esame si palesa una carenza di indagine» che depone nel senso dell’inammissibilità delle questioni;

che, in effetti, successivamente all’ordinanza di rimessione, l’art. 1, comma 141, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», ha aggiunto un secondo periodo al comma 4-bis del citato art. 11, ai sensi del quale «[l]e medesime erogazioni continuano a considerarsi detraibili ai sensi del citato articolo 15, comma 1-bis, ovvero ai sensi del presente articolo, anche quando i relativi versamenti sono effettuati, anche in forma di donazione, dai candidati e dagli eletti alle cariche pubbliche in conformità a previsioni regolamentari o statutarie deliberate dai partiti o movimenti politici beneficiari delle erogazioni medesime»;

che tale disposizione ha chiaramente efficacia retroattiva riferendosi alle «medesime erogazioni» di cui al primo periodo dello stesso comma 4-bis, ovverossia quelle in denaro, tracciabili, a favore dei partiti politici «[a] partire dall’anno di imposta 2007»;

che tale efficacia retroattiva trova conferma nella circostanza che il legislatore, nella formulazione del cennato secondo periodo, ha operato un rinvio all’abrogato (a decorrere dal 1° gennaio 2014) art. 15, comma 1-bis, del t.u. imposte reddito per il passato, e «ai sensi del presente articolo» [id est: art. 11, comma 2, del d.l. n. 149 del 2013] a regime;

che il sopravvenuto secondo periodo del comma 4-bis dell’art. 11 del d.l. n. 149 del 2013, nel disporre che «continuano a considerarsi detraibili» i versamenti in denaro, tracciabili, effettuati «anche in forma di donazione, dai candidati e dagli eletti alle cariche pubbliche, in conformità a previsioni regolamentari o statutarie deliberate dai partiti politici beneficiari delle erogazioni medesime», ha arricchito il quadro normativo rilevante;

che nell’ordinanza di rimessione il giudice a quo definisce «incontestato» che il ricorrente nel giudizio principale – candidato – ha stipulato con il partito di riferimento un «contratto di donazione», pur confutandone la natura di erogazione liberale;

che in forza della retroattività dello ius superveniens, si impone il riesame della perdurante rilevanza delle questioni da parte del rimettente, al quale compete valutare se la fattispecie “donazione interessata” dedotta nel giudizio a quo possa accedere al regime di detraibilità;

che tale conclusione appare del tutto coerente con quanto stabilito dall’ordinanza n. 244 del 2017, che – con riferimento ad una questione relativa all’anno di imposta 2007 – ha ritenuto determinante che il vaglio del rimettente si estendesse al menzionato secondo periodo del comma 4-bis dell’art. 11 del d.l. n. 149 del 2013;

che va disposta, pertanto, la restituzione degli atti al rimettente per una nuova valutazione della rilevanza delle questioni sollevate, alla luce del mutato quadro normativo (ex plurimis, ordinanze n. 154 del 2018, n. 266 del 2015, n. 253 del 2014, n. 316 del 2012, n. 458 del 2006).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 67, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti alla Commissione tributaria di primo grado di Trento, sezione quarta.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 giugno 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2019.