Sentenza n. 62 del 2013

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 62

ANNO 2013

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Franco                         GALLO                                            Presidente

-           Luigi                           MAZZELLA                                     Giudice

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             

-           Sabino                         CASSESE                                                

-           Giuseppe                     TESAURO                                               

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          

-           Paolo                           GROSSI                                                   

-           Giorgio                        LATTANZI                                              

-           Aldo                            CAROSI                                                   

-           Marta                           CARTABIA                                             

-           Sergio                          MATTARELLA                                       

-           Mario Rosario              MORELLI                                                

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 29, 40, 41, 50, comma 1, 53, comma 7, e 60 del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, promosso dalla Regione Veneto, con ricorso notificato il 5 giugno 2012, depositato in cancelleria l’11 giugno 2012 ed iscritto al n. 89 del registro ricorsi 2012.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

uditi nell’udienza pubblica del 26 febbraio 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi gli avvocati Bruno Barel e Daniela Palumbo per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato Vittorio Cesaroni per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 5 giugno 2012 e depositato il successivo 11 giugno la Regione Veneto ha impugnato, tra gli altri, gli articoli 29, 40, 41, 50, comma 1, 53, comma 7, e 60 del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, per violazione degli articoli 117, quarto comma, 118 e 120 della Costituzione, in relazione al principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni.

1.1.– In particolare, l’art. 29 del d.l. n. 5 del 2012, recante «Disposizioni a favore del settore bieticolo-saccarifero», al comma 1 dispone che i progetti di riconversione del comparto bieticolo-saccarifero approvati dall’apposito Comitato interministeriale «rivestono carattere di interesse nazionale anche ai fini della definizione e del perfezionamento dei processi autorizzativi e dell’effettiva entrata in esercizio» e, al comma 2, stabilisce che entro 30 giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge «il Comitato interministeriale di cui al comma 1 dispone le norme idonee nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a garantire l’esecutività dei progetti suddetti, nomina, nei casi di particolare necessità, ai sensi dell’art. 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, un commissario ad acta per l’attuazione degli accordi definiti in sede regionale con coordinamento del Comitato interministeriale».

La ricorrente precisa che il contesto normativo nel quale viene a collocarsi la disposizione impugnata è rappresentato dal decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 2 (Interventi urgenti per i settori dell’agricoltura, dell’agroindustria, della pesca, nonché in materia di fiscalità d’impresa), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006, n. 81.

L’art. 2 del decreto citato, al fine di fronteggiare la grave crisi del settore bieticolo-saccarifero, ha istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri un Comitato interministeriale, col compito (comma 2): a) di approvare entro 45 giorni «il piano per la razionalizzazione e la riconversione della produzione bieticola-saccarifera»; b) di coordinare «le misure comunitarie e nazionali previste per la riconversione industriale del settore e per le connesse problematiche sociali»; c) di formulare «direttive per l’approvazione dei progetti di riconversione».

La medesima disposizione statale ha previsto poi (comma 3) l’approvazione da parte del Ministro per le politiche agricole dei progetti di riconversione presentati per ciascuno degli impianti industriali ove sarebbe cessata la produzione di zucchero, ed ulteriori misure di sostegno, anche da parte dell’AGEA (commi da 4 a 5-bis, variamente modificati in sede di conversione e da leggi sopravvenute).

Le misure adottate erano coerenti con quelle decise a livello comunitario, per la ristrutturazione dell’industria comunitaria dello zucchero, mediante il regolamento CE n. 320/2006 del Consiglio, del 20 febbraio 2006 (relativo a un regime temporaneo per la ristrutturazione dell’industria dello zucchero nella Comunità europea e che modifica il regolamento CE n. 1290/2005 relativo al funzionamento della politica agricola comune).

La Regione Veneto ha dato attuazione a quanto previsto dal regolamento comunitario e dalle correlate disposizioni statali, relativamente allo stabilimento saccarifero presente nel territorio regionale di Porto Viro, con un accordo di riconversione approvato, con deliberazione di Giunta regionale n. 1234 dell’8 maggio 2007 (in B.U.R. n. 49 del 29 maggio 2007), accordo poi modificato con un "Accordo integrativo” approvato con deliberazione di Giunta regionale n. 983 del 21 aprile 2009 (in B.U.R. n. 37 del 5 maggio 2009).

La Regione evidenzia che la disposizione statale impugnata affida al Comitato interministeriale sia l’emanazione di non meglio precisate «norme idonee nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a garantire l’esecutività dei progetti suddetti», sia la «nomina, nei casi di particolare necessità, ai sensi dell’art. 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, di un commissario ad acta per l’attuazione degli accordi definiti in sede regionale con coordinamento del Comitato interministeriale».

La ricorrente lamenta che le nuove disposizioni statali, col riclassificare di interesse nazionale l’implementazione di tutti gli accordi regionali, in via generale e generica, sottopongono la connessa attività amministrativa regionale a vigilanza e controllo del Comitato ministeriale e consentono la nomina, da parte del medesimo Comitato, di commissari ad acta dotati anche di poteri sostitutivi.

Secondo la Regione, l’art. 29 del decreto-legge in oggetto andrebbe ascritto alla materia «agricoltura» e, pertanto, violerebbe la sfera di competenza legislativa e amministrativa esclusiva propria della Regione del Veneto, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.

La norma impugnata, inoltre, violerebbe anche l’art. 118 Cost. in quanto avocherebbe allo Stato, oltre ad un’attività normativa non meglio precisata, perfino l’attuazione in sede amministrativa degli accordi regionali finalizzati alla ristrutturazione dell’industria saccarifera nel quadro del regime temporaneo di aiuti istituito a livello dell’Unione.

In tal modo, infine, sarebbe leso anche il principio costituzionale di leale collaborazione, sotteso all’art. 120 Cost., perché con la disposizione in esame si disarticolerebbe quell’equilibrio nella cooperazione fra Stato e Regioni delineato dalla previgente normativa, fino a prefigurare una sorta di commissariamento delle Regioni perfino nella gestione operativa e dettagliata degli adempimenti amministrativi finalizzati all’implementazione di accordi con parti private.

Spetterebbe invece alla Regione, oltre alla conclusione degli Accordi di ristrutturazione nel quadro del Programma nazionale, anche – a maggior ragione – la loro attuazione, attraverso la disciplina e l’attivazione degli appropriati procedimenti amministrativi.

1.2.– La seconda delle norme impugnate è l’art. 40 del d.l. n. 5 del 2012 dal titolo «Soppressione del vincolo in materia di chiusura domenicale e festiva per le imprese di panificazione di natura produttiva» che abroga il secondo periodo dell’art. 11, comma 13, della legge 3 agosto 1999, n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142).

L’art. 11, comma 13, della legge n. 265 del 1999 dispone: «È abrogata la legge 13 luglio 1966, n. 611. All’attività di panificazione autorizzata ai sensi della legge 31 luglio 1956, n. 1002, si applicano gli articoli 11, comma 4, 12 e 13 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114».

La disposizione statale censurata va, dunque, ad abrogare quella proposizione normativa (secondo periodo) che assoggettava l’attività di panificazione ad alcune disposizioni del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59).

La finalità della novella, resa evidente fin dalla rubrica e perseguita mediante l’abrogazione del rinvio alle disposizioni che regolamentavano la chiusura domenicale e festiva, è costituita dalla liberalizzazione delle aperture dei panifici per la commercializzazione della propria produzione. Si intende estendere anche alle imprese artigiane di panificazione che curano la commercializzazione diretta di prodotti propri la cosiddetta liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali al dettaglio, già disposta con il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.

Secondo la ricorrente la norma impugnata violerebbe l’art. 117, quarto comma, Cost.

In particolare, la disposizione statale andrebbe a confliggere con la specifica disciplina dettata dalla Regione Veneto con la legge 21 settembre 2007, n. 29 (Disciplina dell’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande), art. 25, nell’esercizio della propria competenza legislativa esclusiva sia in materia di commercio che di artigianato.

In proposito la Regione Veneto rammenta di aver già impugnato l’art. 31 del decreto-legge n. 201 del 2011 e, coerentemente con quanto dedotto nel suddetto ricorso, a tutela delle proprie prerogative costituzionali e segnatamente della potestà legislativa regionale in materia di commercio e di artigianato, ritiene di dover censurare anche l’art. 40 del decreto-legge in oggetto, per violazione della competenza legislativa regionale residuale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.

Secondo la ricorrente sarebbe indubbio, secondo la giurisprudenza costituzionale, che la materia del commercio, cui la Regione ritiene appropriato ricondurre la disciplina delle aperture e degli orari ai fini della commercializzazione dei prodotti anche di propria produzione – analogamente comunque alla materia dell’artigianato – sia di competenza legislativa residuale regionale (sentenze n. 150 del 2011, n. 288 e n. 247 del 2010, n. 350 del 2008, n. 430, n. 165 e n. 64 del 2007, n. 1 del 2004; ordinanza n. 199 del 2006).

Rispetto alle prerogative regionali, la tutela della concorrenza rappresenterebbe un limite «interno», da intendere in modo che non possa determinare lo svuotamento della competenza esclusiva regionale nella materia del commercio. La legislazione regionale deve certamente conformarsi ai generali obiettivi di non discriminazione fra operatori economici, di apertura al mercato e di eliminazione di barriere e vincoli al libero esplicarsi dell’attività economica, ma allo stesso tempo non le può essere negato ogni margine di intervento per modellare la disciplina concreta in modo tale da salvaguardare altri valori che pure trovano fondamento nella Carta costituzionale e nell’insieme dell’ordinamento italiano.

La completa liberalizzazione delle aperture domenicali e festive non perseguirebbe affatto l’obiettivo di una più efficace tutela della concorrenza, dal momento che essa determinerebbe, al contrario, il rafforzamento nel mercato delle sole aziende che per le loro maggiori dimensioni sono in grado di cogliere tale opportunità, a discapito delle imprese minori le quali, non essendo in grado di garantire una apertura continuativa, risulterebbero penalizzate e giocoforza emarginate dal mercato.

La totale liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali finirebbe col produrre effetti opposti a quelli voluti, non sarebbe adeguata e proporzionata rispetto all’obiettivo e priverebbe di qualsiasi tutela altri interessi pubblici specifici pur meritevoli anch’essi di cura.

L’esigenza di un ragionevole contemperamento tra valori sarebbe ben presente nella giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 288 del 2010 e n. 64 del 2007).

La disposizione di legge censurata, così come formulata, nella sua assolutezza e inderogabilità, non troverebbe base giuridica legittimante né nel diritto dell’Unione, cui il tema sarebbe estraneo, né nell’art. 117, secondo comma, Cost., e violerebbe la competenza esclusiva regionale in materia di commercio attribuita dall’art. 117, quarto comma, Cost.

La Regione nel ricorso riporta, a sostegno delle sue argomentazioni, ampi stralci di giurisprudenza amministrativa nella quale si fa riferimento alla pluralità dei valori coinvolti nella disciplina dei giorni ed orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali e dove si afferma che le norme sugli orari e sulle giornate di apertura e chiusura degli esercizi commerciali devono essere lette anche alla luce del contemperamento operato dal legislatore tra tali plurimi interessi.

1.3.– La terza norma impugnata è l’art. 41 del d.l. n. 5 del 2012 che testualmente recita: «L’attività temporanea di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di sagre, fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o eventi locali straordinari, è avviata previa segnalazione certificata di inizio attività priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e non è soggetta al possesso dei requisiti previsti dall’art. 71 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59».

Secondo la ricorrente, la disciplina dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande, anche se relativa a situazioni temporanee e particolari, rientrerebbe nella materia del commercio, e, pertanto, l’intervento statale sarebbe lesivo della competenza legislativa residuale delle Regioni in tale materia ex art. 117, quarto comma, Cost.

La Regione Veneto precisa di aver già esercitato tale competenza, successivamente alla riforma costituzionale del 2001, con la legge regionale n. 29 del 2007, ponendo fra l’altro una regolamentazione specifica delle autorizzazioni temporanee in occasione di fiere, feste o altre riunioni straordinarie di persone, incidente sia sui requisiti che il richiedente deve soddisfare (art. 11, comma 3), che sulle modalità (art. 11, commi l e 4).

La ricorrente, infine, richiama un precedente analogo, costituito dalla sentenza n. 1 del 2004, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma statale (art. 52, comma 17, legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002»), che escludeva l’applicabilità della legge 11 giugno 1971, n. 426 (Disciplina del commercio), alle sagre, fiere e manifestazioni a carattere religioso, benefico o politico, per lesione della competenza riconosciuta alle regioni nella materia del commercio dall’art. 117, quarto comma, Cost.

1.4.– Anche l’art. 50, comma 1, del d.l. n. 5 del 2012 è oggetto di impugnazione da parte della regione Veneto. Tale disposizione rimette ad un decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, l’adozione di linee guida orientate al perseguimento degli obiettivi specificati dalla norma medesima al comma 1, lettere da a) ad e).

Secondo la ricorrente, benché le finalità perseguite dalla norma impugnata, in quanto afferenti alla «autonomia delle istituzioni scolastiche» e alla «ridefinizione degli organici» siano indubbiamente ascrivibili ad un ambito di competenza esclusiva statale quale è appunto quello rubricato «norme generali sull’istruzione» di cui all’art.117, secondo comma, lettera n), Cost., la disposizione in esame interferirebbe con le competenze regionali laddove si intreccia con il dimensionamento delle istituzioni scolastiche di spettanza regionale che, a propria volta, si correla necessariamente al diverso ambito di competenza residuale regionale dei «servizi sociali».

Per questi motivi la previsione di un mero parere in luogo della necessaria intesa, ai fini dell’emanazione del suddetto decreto, violerebbe l’art. 117, quarto comma, Cost., valutato in relazione al disposto del terzo comma e al principio di leale collaborazione, in quanto si porrebbe in contrasto con le prerogative regionali legislative esistenti in materia di dimensionamento scolastico e di servizi sociali, considerato che il mero parere non costituisce un adeguato modello di concertazione in tale ambito.

La Regione svolge un’ampia e approfondita ricostruzione sistematica del contesto normativo di riferimento osservando che, nell’alveo generico qualificato come «istruzione pubblica», esistono in realtà molteplici ambiti specifici, i cui contorni sono stati progressivamente delineati in forza di una notevolissima, intensa, attività della giurisprudenza costituzionale. In particolare – prosegue la Regione – sono state definite, sotto il profilo oggettivo, le linee di demarcazione della competenza insistente in materia e sono stati così individuati come ambiti di attribuzione regionale il dimensionamento della rete scolastica e la programmazione dell’offerta formativa. Nel ricorso si aggiunge che tale competenza deve necessariamente connettersi alla materia dei servizi sociali, particolarmente per quanto attiene alle scuole dell’infanzia, nonché alle misure di prevenzione e contrasto del disagio di particolari utenti del servizio scolastico.

Pertanto, il contenuto del decreto ministeriale, pur riguardando espressamente gli organici delle istituzioni scolastiche e l’autonomia delle medesime, di indiscussa competenza esclusiva statale, non potrebbe collocarsi, secondo la ricorrente, in una posizione giuridica sistematicamente avulsa e distante da quella relativa alla competenza regionale in materia di dimensionamento della rete scolastica di cui si è detto.

In tale prospettiva, la definizione degli organici delle istituzioni scolastiche sembrerebbe costituire il presupposto indefettibile affinché la Regione sia posta nelle condizioni effettive, e non meramente virtuali, di programmare l’apertura e la chiusura delle istituzioni scolastiche, nonché gli eventuali accorpamenti.

La ricorrente richiama, a tal proposito, la decisione n. 34 del 2005, con la quale si è precisato che il dimensionamento della rete delle istituzioni scolastiche è un ambito di spettanza regionale, nonché quelle n. 92 del 2011 e n. 200 del 2009.

La norma impugnata nel ridefinire un «organico dell’autonomia», assegnerebbe a tale locuzione la funzione di indicatore della sussistenza di quei requisiti essenziali del soggetto giuridico indispensabili per il conseguimento ed il correlativo riconoscimento di quella differenziazione amministrativa che trova la propria legittimazione nella capacità autosufficiente di funzionamento in una logica complessiva di gestione ottimale delle risorse.

La disposizione impugnata introdurrebbe, inoltre, un sistema di definizione riferito non più esclusivamente «alla singola istituzione scolastica» bensì alla «rete delle istituzioni», strutturata in base a criteri e parametri del dimensionamento scolastico.

In altri termini, lo Stato, nel disciplinare l’organico dell’autonomia, per un verso differenzierebbe tra «singola istituzione scolastica» (art. 50, comma 1, lettera b) e «rete delle istituzioni» (art. 50, comma 1, lettera c), assoggettando la seconda e non la prima ad un’intesa obbligatoria da raggiungere in Conferenza Unificata; per altro verso, disporrebbe che alla costituzione degli organici di entrambe (art. 50, comma 1, lettera e) si possa procedere, con il medesimo decreto, solo sentita la Conferenza Stato-Regioni, così interferendo con il dimensionamento della rete scolastica, e ledendo la potestà legislativa della Regione sussistente in detto ambito, seppure connessa alla potestà legislativa statale sul personale scolastico, con simultanea violazione del principio di leale cooperazione di cui all’art. 120 Cost.

Infatti, nelle more dell’emanazione di una compiuta legislazione regionale al riguardo, lo Stato – per la Regione – non può ridefinire gli organici per un periodo triennale, in assenza di un adeguato coinvolgimento delle Regioni che si troverebbero esautorate delle proprie competenze, potendo solo esprimere un mero parere con evidenti effetti compromissori e limitativi della propria potestà legislativa.

Nella specie, non sembrerebbe potersi negare – sempre ad avviso della ricorrente – che il dimensionamento scolastico produca un decisivo impatto sul sistema regionale delle reti scolastiche, come già strutturato in attuazione dell’esercizio della pluralità di funzioni conferite dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), nonché su una serie di funzioni regionali relative al governo del territorio, per quanto attiene all’edilizia scolastica, alla formazione professionale ed alla programmazione dell’offerta formativa.

La Regione riconosce la competenza statale a legiferare in materia di personale scolastico, docente e non docente, trattandosi, appunto, di personale direttamente ed immediatamente dipendente dal Ministero competente, così come la funzione concernente la ripartizione di detto personale, ma ritiene non possa negarsi che debba essere assicurato il pieno coinvolgimento regionale, attraverso lo strumento dell’intesa, proprio per l’interferenza che tale profilo presenta con quello della potestà legislativa regionale.

La ricorrente soggiunge che, anche considerando che l’obiettivo perseguito dallo Stato consiste nel progressivo dimensionamento della rete scolastica, programmato in una prospettiva di medio/lungo termine, non possono da questo essere adottati atti normativi che incidano sulle attribuzioni regionali sussistenti in ordine a tale profilo, soprattutto in relazione agli interventi finalizzati alla riduzione del disagio di particolari utenti, laddove tale particolare aspetto, pure presente nel contesto del dimensionamento della rete scolastica, appartiene però all’ambito della legislazione esclusiva regionale in materia di servizi sociali.

1.5.– La Regione Veneto impugna anche l’art. 53, comma 7, del d.l. n. 5 del 2012 recante «Modernizzazione del patrimonio immobiliare scolastico e riduzione dei consumi e miglioramento dell’efficienza degli usi finali di energia», nella parte in cui prevede l’adozione di un decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), finalizzato a determinare le norme tecniche-quadro, contenenti gli indici minimi e massimi di funzionalità urbanistica, edilizia, anche riferite alle tecnologie in materia di efficienza e risparmio energetico e produzione da fonti energetiche rinnovabili, nonché didattica, indispensabili a garantire indirizzi progettuali adeguati ed omogenei sul territorio nazionale.

Secondo la ricorrente, la norma violerebbe il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost. perché il decreto deve essere emanato senza il necessario coinvolgimento delle Regioni, ma solo con il parere in conferenza unificata, e non è prescritta la necessaria intesa.

Inoltre, non esistendo una materia relativa ai «lavori pubblici», la competenza legislativa si determinerebbe in relazione all’oggetto dei lavori, cioè alla tipologia dell’opera pubblica che può afferire a settori riconducibili a materie sia di competenza esclusiva statale, sia di competenza concorrente, sia di competenza residuale regionale.

La Regione richiama anche l’art. 3 della legge 11 gennaio 1996, n. 23 (Norme per l’edilizia scolastica), che individua, quali soggetti giuridici pubblici competenti alla realizzazione degli edifici scolastici, i Comuni e le Province, secondo un riparto ancorato alla destinazione dell’edificio nel quale la Regione è titolare anche di specifiche funzioni amministrative, riconducibili all’alveo dell’art. 118 Cost., di natura programmatoria dell’edilizia scolastica e consistenti nel potere di adottare piani annuali e triennali, predisposti ed approvati in conformità alle istanze provenienti dagli enti territoriali minori.

Pertanto la disposizione impugnata si configurerebbe certamente lesiva del principio di leale collaborazione, laddove la predisposizione di norme tecniche, anche in tale settore, interferirebbe tanto con attribuzioni regionali, quanto con funzioni amministrative esercitabili dalle Regioni, atteso che l’esercizio delle funzioni di cui si tratta è stato ripartito in vari livelli di governo.

Nel ricorso si afferma che l’art. 5 della legge n. 23 del 1996 prevede che le Regioni approvino specifiche norme tecniche per la progettazione esecutiva degli interventi, definendo, in particolare, indici diversificati in ragione della specificità dei centri storici e delle aree metropolitane e, per l’effetto, assegna inequivocabilmente alle Regioni funzioni non solamente pianificatorie ma anche di legislazione di dettaglio di natura concretamente «tecnica».

Per queste ragioni, ai fini dell’emanazione del decreto, il parere previsto dalla norma impugnata dovrebbe essere sostituito, secondo la Regione, con la più corretta ed adeguata previsione dell’intesa, da raggiungere in sede di Conferenza Unificata.

Viene dedotto che, anche qualora si reputasse ammissibile, in tale ambito, invocare, a fondamento dell’intervento normativo statale, prevalenti ragioni di sicurezza ed incolumità pubblica, in ogni caso non potrebbe non ritenersi violato il principio della leale collaborazione, di cui all’art. 120 Cost., che postula appunto il coinvolgimento regionale. Da ultimo, in riferimento all’esercizio delle funzioni di tipo amministrativo, viene rammentato che già con il d.lgs. n. 112 del 1998 lo Stato si era riservato la predisposizione di norme tecniche nazionali concernenti le costruzioni in zone sismiche, subordinando però l’esercizio concreto di tale funzione alla preventiva intesa in sede di Conferenza Unificata.

1.6.– Infine la Regione Veneto impugna l’art. 60, comma 1, del d.l. n. 5 del 2012 concernente la proroga del programma «carta acquisti» per violazione dell’art. 117, quarto comma, e dell’art. 120 Cost., in riferimento al principio di leale collaborazione.

In particolare, secondo la ricorrente, il comma 1 del citato art. 60 si porrebbe in contrasto con l’art.117, quarto comma, Cost., che riserva alla competenza legislativa residuale della Regione la materia dei servizi sociali e di assistenza, e con l’art. 119 Cost., che vieta allo Stato di prevedere finanziamenti a destinazione vincolata in ambiti di competenza regionale residuale o concorrente, mentre il comma 2 violerebbe il principio di leale collaborazione, nella parte in cui non prevede il necessario coinvolgimento delle regioni nell’emanazione del citato decreto.

La ricorrente rammenta che l’art. 81, comma 32, del d.l. n. 112 del 2008, cui la disposizione investita dal presente ricorso fa rinvio, ha istituito la carta acquisti, «in considerazione delle straordinarie tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il costo delle bollette energetiche, nonché il costo per la fornitura di gas da privati, al fine di soccorrere le fasce deboli di popolazione in stato di particolare bisogno».

Tale norma era stata impugnata da varie regioni, con ricorsi che questa Corte aveva giudicato infondati con la sentenza n. 10 del 2010. Secondo la Regione, le motivazioni della sentenza n. 10 del 2010, potrebbero essere utilmente applicate, con effetti diametralmente opposti, anche alla disposizione impugnata, in quanto nel percorso argomentativo seguito dalla Corte, la previsione e la diretta erogazione di una determinata provvidenza da parte dello Stato è stata ritenuta ammissibile solo «quando ciò sia reso imprescindibile da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa». Conseguentemente, la presenza di tali «peculiari situazioni» sembra costituire la condizione di legittimità costituzionale di un intervento diretto da parte dello Stato che investa una materia, come nel caso di specie, di competenza regionale.

In altri termini, ad avviso della Regione, se è sulla situazione eccezionale di crisi che si fonda la legittimità dell’art. 81 del d.l. n. 112 del 2008, non sembrerebbe che la medesima situazione di eccezionalità possa giustificare l’emanazione della norma oggetto del ricorso. Infatti, stante l’innegabile lasso di tempo intercorso, seppure in un contesto generale di non risolta crisi internazionale, tra la disposizione di cui all’art. 81, comma 32, del d.l. n. 112 del 2008 citato, istitutiva del Fondo e della carta acquisti, e quella di cui all’art. 60 del d.l. n. 5 del 2012, non viene ritenuta ammissibile la reiterazione di una misura che aveva trovato la propria legittimazione nell’eccezionalità temporalmente circoscritta.

Dal tenore letterale della disposizione risulterebbe poi, inequivocabilmente, che la pretesa sperimentazione, destinata a cessare decorsi dodici mesi, si pone in realtà in termini anticipatori di quella che è dichiaratamente destinata a divenire una misura strutturale, dovendosene valutare «la possibile generalizzazione come strumento di contrasto alla povertà assoluta».

Quanto al comma 2 dell’art. 60, sarebbe violato il principio di leale collaborazione, nella parte in cui la citata disposizione non prevede il coinvolgimento delle regioni nell’emanazione del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.

Anche a tale proposito, nel ricorso, si rinvia alla sentenza n. 10 del 2010, nella parte in cui, ponendo a fondamento dell’intervento – significativamente realizzato con decreto-legge e in corso d’anno – le straordinarie tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il costo delle bollette energetiche e della fornitura di gas da privati, induce a ritenere che, al di fuori degli interventi straordinariamente consentiti per circostanze eccezionali, l’attività istituzionale concertativa possa e debba essere correttamente ripresa.

2.– In data 13 luglio 2012 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato concludendo nel senso dell’inammissibilità o dell’infondatezza delle questioni sollevate dalla Regione Veneto.

2.1.– Con riferimento alla prima questione, l’Avvocatura dello Stato evidenzia che l’art. 29 del d.l. n. 5 del 2012 si colloca in un contesto di disposizioni volte a dare concreta attuazione ai regolamenti comunitari che hanno riformato il settore dello zucchero, al fine di renderlo adeguato agli impegni giuridici e politici assunti dall’Unione europea a livello internazionale. Si tratta, pertanto, di disposizioni coerenti con quanto previsto dall’art. 117, primo comma, Cost., che impone allo Stato e alle Regioni il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

In particolare, la norma impugnata, nel disporre che i progetti di riconversione del comparto bieticolo-saccarifero, realizzati ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.l. n. 2 del 2006, rivestono «carattere di interesse nazionale», anche ai fini della definizione e del perfezionamento dei processi autorizzativi e dell’effettiva entrata in esercizio, si porrebbe l’obiettivo di rendere esecutiva la riforma comunitaria nel settore in esame.

In ogni caso, non sussisterebbe alcuna violazione dei richiamati principi costituzionali, in quanto le «norme idonee nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a garantire l’esecutività dei progetti suddetti» verranno disposte dal citato Comitato interministeriale, nella cui composizione rientrano anche tre Presidenti di regione designati dalla Conferenza Stato-Regioni, nel rispetto proprio del principio di leale collaborazione.

2.2.– Per quanto riguarda l’art. 40 del d.l. n. 5 del 2012, secondo l’Avvocatura dello Stato la norma rientrerebbe nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza.

La difesa statale cita la giurisprudenza costituzionale con la quale si è ritenuto che, poiché la promozione della concorrenza ha portata generale o trasversale, può accadere che una misura che abbia una valenza pro-competitiva, vada, legittimamente, ad incidere su materie attribuite alla competenza legislativa residuale o concorrente delle Regioni.

Infatti, l’espressione tutela della concorrenza utilizzata dal legislatore costituzionale, coerentemente con quella operante nell’ordinamento comunitario, comprende, tra le altre fattispecie, gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (è citata la sentenza n. 430 del 2007).

Pertanto, per accertare se determinate disposizioni possano essere ricondotte alla materia «tutela della concorrenza», si deve verificare – continua il resistente – «se le norme adottate dallo Stato siano essenzialmente finalizzate a garantire la concorrenza fra i diversi soggetti del mercato (cfr. sent. n. 285/2005), allo scopo di accertarne la coerenza rispetto all’obiettivo di assicurare un mercato aperto e in libera concorrenza».

Tale verifica condurrebbe ad esito positivo in quanto l’intento perseguito con la soppressione del vincolo in materia di chiusura domenicale e festiva per le imprese di panificazione è proprio quello di «favorire l’apertura del mercato alla concorrenza» garantendo i mercati ed i soggetti che in essi operano e a tali norme dovrebbe essere riconosciuto quell’effetto di ampliare «l’area di libera scelta sia dei cittadini che delle imprese».

Secondo la difesa statale, dunque, sussisterebbero le condizioni per la qualificazione della norma nell’ambito della materia «tutela della concorrenza».

2.3.– In relazione alla censura relativa all’art. 41 del d.l. n. 5 del 2012 recante «semplificazioni in materia di alimenti e bevande», preliminarmente l’Avvocatura dello Stato evidenzia che la Regione Veneto fa riferimento alla stesura originaria dell’articolo nonostante che nel corso dell’iter legislativo di conversione la norma sia stata oggetto di rilevanti modifiche.

In particolare, la nuova formulazione prevede che «L’attività temporanea di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di sagre, fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o eventi locali straordinari, è avviata previa segnalazione certificata di inizio attività priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e non è soggetta al possesso dei requisiti previsti dal comma 6 dell’articolo 71 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59». Ne consegue, per la difesa dello Stato, che i requisiti non più richiesti, per l’esercizio dell’attività temporanea di somministrazione di alimenti e bevande, sono solo quelli di cui al citato art. 71, comma 6, ovvero i «requisiti professionali».

Ciò premesso, l’Avvocatura dello Stato ritiene che la disposizione in esame si inserisca nell’ambito degli interventi pro-concorrenziali di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. nel solco delle direttive di liberalizzazione intraprese dal Governo in attuazione anche della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno.

Inoltre, la stessa disposizione, nel semplificare gli adempimenti necessari per la somministrazione temporanea di alimenti e bevande, si collocherebbe in un quadro di norme volte a ridurre l’incidenza degli oneri amministrativi sul fatturato, anche al fine di favorire l’avvio dell’attività economica, a fronte della crescente crisi internazionale e dei costi della burocrazia sempre più gravosi per le imprese.

Si tratterebbe, dunque, di norme coerenti con il principio costituzionale di libertà dell’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., che legittima il legislatore nazionale a porre in essere gli interventi ritenuti più opportuni per il coordinamento dell’attività economica pubblica o privata a fini sociali e per favorire la crescita dell’economia nazionale.

2.4.– Con riferimento alla censura relativa all’art. 50 del d.l. n. 5 del 2012, la difesa statale evidenzia che, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, la norma in questione non inciderebbe sulle prerogative regionali, essendo finalizzata a consolidare e sviluppare l’autonomia delle istituzioni scolastiche, potenziandone l’autonomia gestionale secondo criteri di flessibilità e valorizzando la responsabilità e la professionalità del personale della scuola.

La difesa statale richiama la sentenza n. 147 del 2012, ove si è affermato che compete allo Stato definire i requisiti che connotano l’autonomia scolastica, per gli aspetti concernenti le modalità di regolamentazione e il grado di autonomia delle istituzioni rispetto alle amministrazioni, sia statale che regionale. Inoltre, la medesima sentenza, nel dichiarare la legittimità costituzionale di disposizioni volte a ridurre il numero dei dirigenti scolastici attraverso nuovi criteri per la loro assegnazione nella copertura dei posti di dirigenza, ha definito chiaramente il riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di organici delle istituzioni scolastiche. Infatti, le norme, come quella in esame, concernenti gli organici delle istituzioni scolastiche – costituiti da dipendenti pubblici statali e non regionali, come risulta sia dal loro reclutamento che dal loro complessivo status giuridico – rientrano nella competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. (ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali), assumendo un peso prevalente rispetto alla competenza concorrente prevista in materia di istruzione dal medesimo art. 117, terzo comma, Cost.

2.5.– Quanto al censurato art. 53, comma 7, il resistente afferma che esso sarebbe da collocare nell’ambito delle previsioni dirette a ridurre gli oneri per le imprese, migliorarne la competitività e semplificare gli adempimenti, assicurando anche la coerenza con gli standard comunitari. Si tratterebbe, dunque, di disposizioni coerenti con quanto previsto dall’art. 117. primo comma, Cost. che impone allo Stato e alle Regioni il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Peraltro, del tutto insussistente sarebbe la dedotta violazione del principio di leale collaborazione, dal momento che il decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca dovrà essere adottato previo parere della Conferenza unificata.

2.6.– L’ultima delle norme impugnate dalla Regione Veneto è l’art. 60 del d.l. n. 5 del 2012.

L’Avvocatura dello Stato ritiene che la nuova previsione legislativa non differisce nella sostanza da quanto stabilito con l’art. 81, comma 29 e seguenti, del d.l. n. 112 del 2008, quanto a contesto e finalità, e che non vi è alcun mutamento della natura dello strumento introdotto, ma solo un tentativo di collocarlo in un più vasto contesto di collaborazione interistituzionale con i comuni. Inoltre, rileva che la situazione di crisi finanziaria posta a base della normativa sulla social card purtroppo non è cessata e solo al termine della fase di sperimentazione, unitamente all’auspicata cessazione della situazione di emergenza, si potranno recuperare gli strumenti concertativi.

Conclude nel senso che l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., deve intendersi riferita alla fissazione dei livelli strutturali e qualitativi di prestazioni che, riguardando il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto. Si tratterebbe, quindi, di una competenza trasversale, idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore statale deve poter predisporre le misure necessarie per attribuire a tutti i destinatari sull’intero territorio nazionale il godimento di prestazioni garantite che costituiscono il contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle.

Siffatto parametro costituzionale consentirebbe, quindi, una restrizione dell’autonomia legislativa delle Regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione.

3.– In prossimità dell’udienza la Regione ha presentato una memoria con la quale ha ribadito le ragioni a sostegno della illegittimità costituzionale della norme impugnate.

Considerato in diritto

1.– La Regione Veneto ha sollevato, in via principale, questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto, tra gli altri, gli articoli 29, 40, 41, 50, comma 1, 53, comma 7, e 60 del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, in riferimento agli articoli 117, quarto comma, 118 e 120 della Costituzione, in relazione al principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni.

1.1.– Restano riservate ad altre decisioni le questioni sollevate col medesimo ricorso dalla Regione Veneto e riguardanti altre disposizioni.

1.2.– L’art. 29 è impugnato nella parte in cui prevede, con riferimento ai progetti di riconversione del comparto bieticolo-saccarifero, che «Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Comitato interministeriale di cui al comma 1 dispone le norme idonee nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a garantire l’esecutività dei progetti suddetti, nomina, nei casi di particolare necessità, ai sensi dell’articolo 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, un commissario ad acta per l’attuazione degli accordi definiti in sede regionale con coordinamento del Comitato interministeriale». Secondo la Regione Veneto, la citata disposizione viola gli artt. 117, quarto comma, e 120 Cost., in quanto la produzione saccarifera rientra nella materia agricoltura e spetta alle regioni la conclusione e l’attuazione degli accordi di ristrutturazione nel quadro del programma nazionale.

1.3.– La questione è fondata.

Al fine di fronteggiare la grave crisi del settore bieticolo-saccarifero è stato approvato dapprima il regolamento CE n. 320/2006 del Consiglio, del 20 febbraio 2006 (relativo a un regime temporaneo per la ristrutturazione dell’industria dello zucchero nella Comunità europea, che modifica il regolamento CE n. 1290/2005 relativo al funzionamento della politica agricola comune) e, successivamente, il decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 2 (Interventi urgenti per i settori dell’agricoltura, dell’agroindustria, della pesca, nonché in materia di fiscalità d’impresa), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006, n. 81. Con tali disposizioni si è intesa regolare la ristrutturazione dell’industria dello zucchero nella Comunità prevedendo misure di sostegno al settore e di riconversione delle attività relative alla coltivazione e alla produzione.

In particolare, il d.l. n. 2 del 2006 ha istituito un Comitato interministeriale composto dal Presidente del Consiglio dei ministri, dal Ministro delle politiche agricole e forestali, dal Ministro dell’economia e delle finanze, dal Ministro delle attività produttive, dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, dal Ministro per le politiche comunitarie e dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio nonché da tre Presidenti di regione designati dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano con il compito di: a) approvare il piano per la razionalizzazione e la riconversione della produzione bieticolo-saccarifera; b) coordinare le misure comunitarie e nazionali previste per la riconversione industriale del settore e per le connesse problematiche sociali; c) formulare direttive per l’approvazione dei progetti di riconversione.

Le imprese saccarifere, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del citato decreto-legge, dovevano presentare al Ministero delle politiche agricole e forestali un progetto di riconversione per ciascuno degli impianti industriali, ove era prevista la cessazione della produzione di zucchero. I progetti di riconversione, finalizzati anche alla salvaguardia dell’occupazione nel territorio oggetto dell’intervento, dovevano essere approvati dal Ministero delle politiche agricole e forestali.

Il comma 1 dell’art. 29 del d.l. n. 5 del 2012 prevede che i progetti di riconversione già approvati dal comitato interministeriale di cui sopra «rivestono carattere di interesse nazionale anche ai fini della definizione e del perfezionamento dei processi autorizzativi e dell’effettiva entrata in esercizio».

Il comma 2, oggetto di impugnazione, prevede, come già detto, che entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, il Comitato interministeriale di cui al comma 1 «dispone le norme idonee nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a garantire l’esecutività dei progetti suddetti, nomina, nei casi di particolare necessità, ai sensi dell’articolo 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, un commissario ad acta per l’attuazione degli accordi definiti in sede regionale con coordinamento del Comitato interministeriale».

Dalla lettura della norma non è agevole ricavare la natura dei compiti affidati al comitato interministeriale in base alla locuzione «dispone norme idonee nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a garantire l’esecutività dei suddetti progetti», cioè se si tratti di una potestà regolamentare o dell’attribuzione di funzioni amministrative.

L’art. 29 in esame deve essere ascritto alla materia agricoltura riservata alla competenza legislativa residuale delle Regioni: ne consegue che la norma viene a porsi in contrasto con l’art. 117 Cost. tanto se la si interpreti come attributiva di un potere regolamentare, quanto amministrativo.

Nel primo caso sarebbe pacificamente violato l’art. 117, sesto comma, Cost. trattandosi di una materia riservata alla competenza legislativa residuale delle regioni.

Nel secondo, invece, si dovrebbe ipotizzare una chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato per assicurare il perseguimento di interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento da parte del livello di governo inferiore.

In astratto, infatti, è ammissibile una deroga al normale riparto di competenze qualora «la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata» e «non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità» (sentenza n. 303 del 2003).

Tuttavia nei casi in cui vi sia uno spostamento di competenze amministrative a seguito di attrazione in sussidiarietà, questa Corte ha escluso che possa essere previsto un potere sostitutivo, dovendosi ritenere che la leale collaborazione, necessaria in tale evenienza, non possa essere sostituita puramente e semplicemente da un atto unilaterale dello Stato (sentenze n. 165 del 2011 e n. 383 del 2005).

L’art. 29, invece, prevede un potere di intervento sostitutivo dello Stato che si attiva mediante la predisposizione da parte del comitato interministeriale di norme idonee a dare esecutività ai progetti nel quadro delle competenze regionali e in casi di particolare necessità (non specificati) con il diretto intervento di un commissario ad acta.

Inoltre la norma introduce una forma di potere sostitutivo (per dare attuazione al diritto comunitario) che non risponde ai requisiti richiesti dall’art. 120 Cost. e dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).

2.– La seconda questione sollevata dalla Regione Veneto riguarda l’art. 40 del medesimo d.l. n. 5 del 2012, che sopprime il vincolo in materia di chiusura domenicale e festiva per le imprese di panificazione di natura produttiva. Tale disposizione violerebbe l’art. 117, quarto comma, Cost. in quanto la materia degli orari degli esercizi commerciali e delle giornate di apertura e di chiusura rientrerebbe nella competenza regionale residuale in materia di commercio.

2.1.– La questione è inammissibile.

L’art. 40 impugnato si limita ad abrogare il riferimento contenuto nell’art. 11, comma 13, della legge 3 agosto 1999, n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142), mediante il quale era stata estesa l’applicabilità degli artt. 11, comma 4, 12 e 13 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), anche all’attività di panificazione autorizzata ai sensi della legge 31 luglio 1956, n. 1002 (Nuove norme sulla pianificazione).

La Regione, pertanto, avrebbe dovuto motivare in relazione alla specifica categoria delle imprese di panificazione le quali non rientravano, se non a seguito del rinvio che viene abrogato, nel campo di applicazione della normativa di «liberalizzazione» del settore del commercio, mentre nel ricorso si fa riferimento esclusivamente alla norma di liberalizzazione statale di cui all’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248, come modificato dall’art. 31, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.

Una simile lacuna comporta l’inammissibilità della questione, dovendosi richiamare, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte, la quale richiede che la questione di legittimità costituzionale sia definita nei suoi precisi termini e adeguatamente motivata, al fine di rendere possibile l’inequivoca determinazione dell’oggetto del giudizio e la verifica della fondatezza dei dubbi di costituzionalità sollevati e della sussistenza in concreto dell’interesse a ricorrere (ex plurimis sentenze n. 120 del 2008, n. 64 del 2007 e n. 214 del 2006).

3.– La medesima violazione della competenza legislativa regionale in materia di commercio è invocata dalla ricorrente avverso l’art. 41 del d.l. n. 5 del 2012, nella parte in cui prevede che «L’attività temporanea di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di sagre, fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o eventi locali straordinari, è avviata previa segnalazione certificata di inizio attività priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e non è soggetta al possesso dei requisiti previsti dall’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59».

La Regione ha impugnato l’art. 41 nella versione del d.l. n. 5 del 2012 che escludeva il possesso di tutti i requisiti soggettivi previsti dall’art. 71 del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno), e non solo di quelli professionali previsti dal comma 6 cui fa esclusivo riferimento la norma nella versione contenuta nella legge di conversione.

In primo luogo, va rilevato che il ricorso è ammissibile, in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la Regione che ritenga lese le proprie competenze da norme contenute in un decreto-legge può sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale anche in relazione a questo atto, con effetto estensivo alla legge di conversione, ovvero può riservare l’impugnazione a dopo l’entrata in vigore di quest’ultima (tra le molte, sentenze n. 383 del 2005; n. 287 del 2004 e n. 272 del 2004)».

Inoltre, deve ritenersi sussistente e attuale l’interesse della Regione Veneto al ricorso, dato che la modifica intervenuta in sede di conversione non incide in alcun modo, e tantomeno in senso satisfattivo, sulla doglianza relativa alla lesione della competenza legislativa residuale delle Regioni nella materia del commercio.

3.1.– La questione non è fondata.

Le norme di semplificazione amministrativa sono state ricondotte da questa Corte alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, in quanto «anche l’attività amministrativa, […] può assurgere alla qualifica di "prestazione” (quindi, anche i procedimenti amministrativi in genere), della quale lo Stato è competente a fissare un "livello essenziale” a fronte di una specifica pretesa di individui, imprese, operatori economici ed, in generale, di soggetti privati» (sentenze n. 207 e n. 203 del 2012).

La determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, come già precisato più volte da questa Corte, non è una «materia» in senso stretto, quanto una competenza del legislatore statale «idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle» (sentenze n. 322 del 2009 e n. 282 del 2002).

Alla stregua di tali principi, deve riconoscersi che anche con la disciplina di semplificazione in esame il legislatore statale ha voluto dettare regole del procedimento amministrativo, valide in ogni contesto geografico della Repubblica, le quali, adeguandosi a canoni di proporzionalità e adeguatezza, si sovrappongono al normale riparto di competenze contenuto nel Titolo V della Parte II della Costituzione (sentenza n. 207 del 2012).

La disciplina in esame, infatti, è diretta ad impedire che le funzioni amministrative risultino inutilmente gravose per i soggetti amministrati ed è volta a semplificare le procedure in un’ottica di bilanciamento tra l’interesse generale e l’interesse particolare all’esplicazione dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande.

La normativa censurata prevede che gli interessati, in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale, possano svolgere temporaneamente l’attività di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di sagre, fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o eventi locali straordinari, mediante una mera segnalazione di inizio attività priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), e anche in assenza del possesso dei requisiti previsti dall’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010.

Si tratta di un atto che si colloca all’inizio della fase procedimentale, la quale è strutturata secondo un modello ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica (art. 41, primo comma, Cost.), tutelando il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della pubblica amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima (sentenza n. 203 del 2012).

4.– La Regione Veneto ha impugnato anche l’art. 50, comma 1, del d.l. n. 5 del 2012, nella parte in cui rimette ad un decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, l’adozione di linee guida orientate al perseguimento degli obiettivi specificati dalla norma medesima alle lettere da a) ad e), sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, in riferimento all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. Il conseguimento dell’intesa con la Conferenza unificata, come sarà successivamente specificato, è previsto solo con riferimento alla lettera c).

Secondo la ricorrente, la previsione di un mero parere in luogo della necessaria intesa ai fini dell’emanazione del decreto viola l’art. 117, quarto comma, Cost., valutato in relazione al disposto del terzo comma, in quanto si pone in contrasto con le prerogative regionali legislative esistenti in materia di dimensionamento scolastico e di servizi sociali, considerato che il mero parere non costituisce un adeguato modello di concertazione in tale ambito.

4.1.– La questione non è fondata.

L’art. 50 impugnato prevede che «Allo scopo di consolidare e sviluppare l’autonomia delle istituzioni scolastiche, potenziandone l’autonomia gestionale secondo criteri di flessibilità e valorizzando la responsabilità e la professionalità del personale della scuola, con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sono adottate, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nel rispetto dei principi e degli obiettivi di cui all’articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, linee guida per conseguire le seguenti finalità: a) potenziamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, anche attraverso l’eventuale ridefinizione, nel rispetto della vigente normativa contabile, degli aspetti connessi ai trasferimenti delle risorse alle medesime, previo avvio di apposito progetto sperimentale; b) definizione, per ciascuna istituzione scolastica, di un organico dell’autonomia, funzionale all’ordinaria attività didattica, educativa, amministrativa, tecnica e ausiliaria, alle esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, di integrazione e sostegno agli alunni con bisogni educativi speciali e di programmazione dei fabbisogni di personale scolastico, anche ai fini di una estensione del tempo scuola; c) costituzione, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la gestione ottimale delle risorse umane, strumentali e finanziarie; d) definizione di un organico di rete per le finalità di cui alla lettera c) nonché per l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali, la formazione permanente, la prevenzione dell’abbandono e il contrasto dell’insuccesso scolastico e formativo e dei fenomeni di bullismo, specialmente per le aree di massima corrispondenza tra povertà e dispersione scolastica; e) costituzione degli organici di cui alle lettere b) e d), nei limiti previsti dall’articolo 64 del citato decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, sulla base dei posti corrispondenti a fabbisogni con carattere di stabilità per almeno un triennio sulla singola scuola, sulle reti di scuole e sugli ambiti provinciali, anche per i posti di sostegno, fatte salve le esigenze che ne determinano la rimodulazione annuale».

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito la differenza esistente tra le norme generali sull’istruzione – riservate alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera n), Cost. – e i principi fondamentali della materia istruzione, che l’art. 117, terzo comma, Cost. riserva alla legislazione dello Stato in materia di competenza legislativa concorrente. Si è detto, a questo proposito, che rientrano tra le norme generali sull’istruzione «quelle disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione (interesse primario di rilievo costituzionale), nonché la libertà di istituire scuole e la parità tra le scuole statali e non statali». Sono, invece, espressione di principi fondamentali della materia dell’istruzione «quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che caratterizza le norme generali sull’istruzione, dall’altra, necessitano, per la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale» (sentenze n. 147 del 2012, n. 92 del 2011 e n. 200 del 2009).

Il censurato art. 50, comma 1, contiene disposizioni che devono essere senz’altro qualificate come «norme generali sull’istruzione», dal momento che, per evidenti ragioni di necessaria unità ed uniformità della disciplina in materia scolastica, sono preordinate ad introdurre una normativa operante sull’intero territorio nazionale avente ad oggetto «caratteristiche basilari» dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico del sistema scolastico.

D’altra parte, l’ascrivibilità alla materia «norme generali sull’istruzione» della norma in esame è condivisa anche dalla Regione ricorrente, la quale, tuttavia, ritiene che per l’intreccio con materie di sua competenza, quali il dimensionamento e i servizi sociali, sia necessario al fine di emanare il decreto un procedimento con partecipazione rafforzata mediante il meccanismo dell’intesa.

Una volta ricondotta la norma impugnata, anche sulla base del criterio di prevalenza, alla competenza esclusiva dello Stato nella materia «norme generali sull’istruzione», deve ritenersi ingiustificata – per ciò che riguarda le linee guida relative alle lettere a), b), d), e) – la richiesta della Regione di essere coinvolta con il meccanismo dell’intesa dovendosi ritenere sufficiente, come momento partecipativo, il parere della conferenza unificata.

Deve anche sottolinearsi, come si è già anticipato, che la lettera c) del comma 1 dell’art. 50 del d.l. n. 5 del 2012 prevede, ai fini delle linee guida relative alla costituzione della rete territoriale tra istituzioni scolastiche, l’intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), e successive modificazioni. Pertanto la norma impugnata già prevede il meccanismo dell’intesa allorché sussistano esigenze di partecipazione rafforzata delle Regioni, in quanto coinvolgenti anche il dimensionamento dell’offerta formativa, esigenze che non si rinvengono, invece, per la definizione dell’organico delle autonomie, per la definizione dell’organico di rete e per la costituzione dei rispettivi organici.

5.– La Regione censura l’art. 53, comma 7, del d.l. n. 5 del 2012, recante «Modernizzazione del patrimonio immobiliare scolastico e riduzione dei consumi e miglioramento dell’efficienza degli usi finali di energia», nella parte in cui prevede «al fine di adeguare la normativa tecnica vigente agli standard europei e alle più moderne concezioni di realizzazione e impiego degli edifici scolastici, perseguendo altresì, ove possibile, soluzioni protese al contenimento dei costi» l’adozione di un decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, da emanare sentita la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997, finalizzato a determinare «le norme tecniche-quadro, contenenti gli indici minimi e massimi di funzionalità urbanistica, edilizia, anche riferite alle tecnologie in materia di efficienza e risparmio energetico e produzione da fonti energetiche rinnovabili, nonché didattica, indispensabili a garantire indirizzi progettuali adeguati ed omogenei sul territorio nazionale».

Secondo la ricorrente, la disposizione violerebbe il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost. perché, nonostante si verta in materie attribuite alla competenza concorrente, come, sicuramente, «il governo del territorio», ai fini dell’emanazione del decreto non è prevista l’intesa con le Regioni, ma solo il parere della Conferenza unificata.

5.1.– La questione non è fondata.

La norma si colloca nell’ambito di un piano nazionale di edilizia scolastica previsto dal comma 1 dell’art. 53 citato. Tale piano, che deve essere adottato dal CIPE, su proposta del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997, ha ad oggetto la realizzazione di interventi di ammodernamento e recupero del patrimonio scolastico esistente, anche ai fini della messa in sicurezza degli edifici, e di costruzione e completamento di nuovi edifici scolastici, da realizzare, in un’ottica di razionalizzazione e contenimento delle spese correnti di funzionamento, nel rispetto dei criteri di efficienza energetica e di riduzione delle emissioni inquinanti.

Il comma 7 dell’art. 53 demanda ad un decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, da emanare sentita la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. 28 agosto n. 281 del 1997, l’adozione delle norme tecniche-quadro contenenti gli indici minimi e massimi di funzionalità urbanistica, edilizia, anche riferite alle tecnologie in materia di efficienza e risparmio energetico e produzione da fonti energetiche rinnovabili, nonché didattica, indispensabili a garantire indirizzi progettuali adeguati ed omogenei sul territorio nazionale.

Nella disciplina in esame si intersecano più materie, quali il «governo del territorio», «l’energia» e la «protezione civile», tutte rientranti nella competenza concorrente Stato-Regioni di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.

Questa Corte ha affermato che, nelle materie di competenza concorrente, allorché vengono attribuite funzioni amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura tecnica che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale improntate all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze, il coinvolgimento della conferenza Stato Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio (sentenze n. 265 del 2011, n. 254 del 2010, n. 182 del 2006, n. 336 e n. 285 del 2005). In tali casi la disciplina statale costituisce principio generale della materia (sentenze n. 254 del 2010 e n. 182 del 2006).

Deve, inoltre, sottolinearsi che l’art. 53, comma 1, prevede, ai fini dell’approvazione del piano di edilizia scolastica da parte del CIPE, il massimo coinvolgimento delle Regioni mediante il meccanismo dell’intesa. Gli interessi regionali, dunque, trovano adeguata tutela nella predisposizione del piano, mentre per l’individuazione delle «norme tecniche quadro», per i motivi sopra esposti, è sufficiente il parere della conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997.

6.– Infine, è impugnato l’art. 60, comma 1 e 2, del d.l. n. 5 del 2012, nella parte in cui, al comma 1, avvia la sperimentazione della «carta acquisti» istituita dall’art. 81, comma 32, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nei comuni con più di 250.000 abitanti e, al comma 2, prevede l’emanazione di un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, per la determinazione delle modalità esecutive della sperimentazione.

L’art. 60 del d.l. n. 5 del 2012, come si è detto, avvia una sperimentazione della carta acquisti istituita dall’art. 81, comma 32, del d.l. n. 112 del 2008 nei comuni con più di 250.000 abitanti, al fine di favorirne la diffusione tra le fasce di popolazione in condizione di maggiore bisogno, anche al fine di valutarne la possibile generalizzazione come strumento di contrasto alla povertà assoluta.

Tale sperimentazione viene attuata mediante un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, con il quale sono stabiliti: a) i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari per il tramite dei Comuni, con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell’Unione europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo; b) l’ammontare della disponibilità sulle singole carte acquisto, in funzione del nucleo familiare; c) le modalità con cui i comuni adottano la carta acquisti, anche attraverso l’integrazione o evoluzione del Sistema di gestione delle agevolazioni sulle tariffe energetiche (SGATE), come strumento all’interno del sistema integrato di interventi e servizi sociali di cui alla legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali); d) le caratteristiche del progetto personalizzato di presa in carico, volto al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale, anche attraverso il condizionamento del godimento del beneficio alla partecipazione al progetto; e) la decorrenza della sperimentazione, la cui durata non può superare i dodici mesi; f) i flussi informativi da parte dei Comuni sul cui territorio è attivata la sperimentazione, anche con riferimento ai soggetti individuati come gruppo di controllo ai fini della valutazione della sperimentazione stessa.

Per le risorse necessarie alla sperimentazione si provvede, nel limite massimo di 50 milioni di euro, attingendo al Fondo di cui all’art. 81, comma 29, del d.l. n. 112 del 2008, che viene corrispondentemente ridotto.

Secondo la ricorrente, il comma 1 si porrebbe in contrasto con l’art.117, quarto comma, Cost., che riserva alla competenza legislativa residuale della Regione la materia dei servizi sociali e di assistenza, e con l’art. 119 Cost., che vieta allo Stato di prevedere finanziamenti a destinazione vincolata in ambiti di competenza regionale residuale o concorrente, mentre il comma 2 violerebbe il principio di leale collaborazione, nella parte in cui non prevede il necessario coinvolgimento delle regioni nell’emanazione del citato decreto.

6.1.– La questione relativa al comma 1 dell’art. 60 del d.l. n. 5 del 2012 non è fondata.

Occorre premettere che la carta acquisti è stata istituita dall’art. 81, comma 32, del d.l. n. 112 del 2008, richiamato espressamente dalla norma impugnata e oggetto di una recente pronuncia di questa Corte (sentenza n. 10 del 2010).

In tale occasione si è ritenuto che: «una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana, qual è quella oggetto delle disposizioni impugnate, benché incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Il complesso di queste norme costituzionali permette, anzitutto, di ricondurre tra i "diritti sociali” di cui deve farsi carico il legislatore nazionale il diritto a conseguire le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno – in particolare, alimentare – e di affermare il dovere dello Stato di stabilirne le caratteristiche qualitative e quantitative, nel caso in cui la mancanza di una tale previsione possa pregiudicarlo. Inoltre, consente di ritenere che la finalità di garantire il nucleo irriducibile di questo diritto fondamentale legittima un intervento dello Stato che comprende anche la previsione della appropriata e pronta erogazione di una determinata provvidenza in favore dei singoli».

L’intervento dello Stato, dunque, è stato ritenuto ammissibile quando, oltre a rispondere ai principi di eguaglianza e solidarietà, presenti caratteri di straordinarietà, eccezionalità e urgenza come quelli conseguenti alla situazione di crisi internazionale economica e finanziaria che ha investito il nostro Paese.

La situazione di oggettiva gravità che ha determinato l’adozione dello strumento della carta acquisti e le finalità perseguite, ricollegabili direttamente ai principi fondamentali di cui agli artt. 2 e 3 Cost., sono valse a differenziare tale intervento dalle ipotesi, soltanto apparentemente omologhe, in cui il legislatore statale, in materie di competenza regionale, prevede finanziamenti vincolati, ovvero rimette alle Regioni l’istituzione di una determinata misura, pretendendo poi anche di fissare la relativa disciplina.

Si è dunque ricondotta la disciplina allora sottoposta al vaglio di questa Corte alla materia «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.).

La norma in questa sede impugnata presenta gli stessi aspetti di quella oggetto del precedente citato, sia in relazione alle finalità di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana, sia in relazione alla situazione di estrema gravità in ordine alla crisi economica che ha investito il nostro paese i cui effetti, purtroppo, si sono ulteriormente aggravati rispetto a quelli già riconosciuti dalla sentenza n. 10 del 2010 per gli anni 2008 e 2009.

In tale contesto deve riconoscersi il potere per il legislatore statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. di assicurare le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno, in particolare, alimentare. La finalità di garantire il nucleo irriducibile di questi diritti fondamentali «legittima un intervento dello Stato che comprende anche la previsione della appropriata e pronta erogazione di una determinata provvidenza in favore dei singoli» (sentenza n. 10 del 2010).

Un tale intervento da parte dello Stato deve, in altri termini, ritenersi ammissibile nel caso in cui esso risulti necessario allo scopo di assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana, soprattutto in presenza delle peculiari situazioni sopra accennate, deve potere essere garantito su tutto il territorio nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo, mediante una regolamentazione coerente e congrua rispetto a tale scopo (sentenze n. 166 del 2008 e n. 94 del 2007, in riferimento al caso della determinazione dei livelli minimali di fabbisogno abitativo, a tutela di categorie particolarmente svantaggiate e sentenza n. 10 del 2010).

6.2.– La questione relativa al comma 2 dell’art. 60 del d.l. sopra citato non è fondata.

La qualificazione della norma in esame come esercizio della competenza dello Stato nella materia della «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) – in quanto la situazione eccezionale di crisi economico-sociale ha ampliato i confini entro i quali lo Stato deve esercitare la suddetta competenza legislativa esclusiva – rende inconferente il richiamo della ricorrente al principio di leale collaborazione e comporta che spetta al legislatore statale sia l’esercizio del potere regolamentare (art. 117, sesto comma, Cost.), sia la fissazione della disciplina di dettaglio.

Tuttavia è necessario ribadire in questa sede che «una volta cessata la situazione congiunturale che ha imposto un intervento di politica sociale esteso alla diretta erogazione della provvidenza, dagli strumenti di coinvolgimento delle regioni e delle province autonome non si possa prescindere, avendo cura così di garantire anche la piena attuazione del principio di leale collaborazione, nell’osservanza del riparto delle competenze definito dalla Costituzione» (sentenza n. 10 del 2010).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce ogni decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto altre disposizioni del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, promosse dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe;

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 2, del suddetto decreto-legge n. 5 del 2012;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40 del decreto-legge n. 5 del 2012, promossa dalla Regione Veneto, in riferimento all’art. 117, quarto comma, della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 41, 50, comma 1, 53, comma 7, 60, commi 1 e 2, del decreto-legge n. 5 del 2012 promosse dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, Cost. e al principio di leale collaborazione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 marzo 2013.

F.to:

Franco GALLO, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 aprile 2013.