Sentenza n. 31 del 2009

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SENTENZA N. 31

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria          FLICK                        Presidente

- Francesco                        AMIRANTE                          Giudice

- Ugo                          DE SIERVO                        "

- Paolo                        MADDALENA                    "

- Alfio                         FINOCCHIARO                  "

- Alfonso                     QUARANTA                       "

- Franco                      GALLO                              "

- Luigi                         MAZZELLA                        "

- Gaetano                    SILVESTRI                         "

- Sabino                      CASSESE                           "

- Maria Rita                 SAULLE                             "

- Giuseppe                   TESAURO                          "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                   "

- Alessandro                CRISCUOLO                      "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 18 marzo 2004 (doc. n. IV-ter, n. 2), relativa alla insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Cesare Previti nei confronti del giornalista Davide Maria Sassoli, promosso con ricorso della Corte d’appello di Roma, notificato il 17 giugno 2008, depositato in cancelleria il 4 luglio 2008 ed iscritto al n. 1 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di merito.

Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica;

udito nell’udienza pubblica del 16 dicembre 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese;

udito l’avvocato Giovanni Pitruzzella per il Senato della Repubblica.

Ritenuto in fatto

1. - La Corte d’appello di Roma, con ricorso del 26 novembre 2007, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alla delibera adottata nella seduta del 18 marzo 2004, con la quale è stata dichiarata, ai sensi del primo comma dell’art. 68 della Costituzione, l’insindacabilità delle dichiarazioni del deputato Cesare Previti, rispetto alle quali pende un procedimento penale.

La Corte espone che il parlamentare è imputato del reato di diffamazione per avere rilasciato alla stampa, in data 16 giugno 1995, una dichiarazione, pubblicata dall’agenzia ANSA, lesiva della reputazione del giornalista David Maria Sassoli. In particolare, secondo quanto riferisce la Corte d’appello, che al riguardo riporta il testo contenuto nella sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Roma, l’imputato avrebbe dichiarato che Sassoli «era partecipe di uno stile giornalistico volutamente mistificatorio e specificatamente diretto ad annebbiare anche verità pacifiche e come giornalista capace di mistificare anche fatti notori per scarsa professionalità e per opportunità di disinformazione strumentalizzata ad impegno in campagne politiche».

In fatto, la Corte d’appello riferisce che, a seguito della delibera di insindacabilità del Senato della Repubblica del 18 marzo 2004, secondo cui «le dichiarazioni rese dal Previti non [sono] da ricondurre ad una polemica meramente personale bensì ad una manifestazione del pensiero di natura essenzialmente politica», il Tribunale di Roma in prime cure ha dichiarato, con sentenza del 4 novembre 2004, non doversi procedere nei confronti del parlamentare a norma dell’art. 129, comma 1, del codice di procedura penale.

Aggiunge, inoltre, che avverso tale sentenza avevano proposto appello, da un lato, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e, dall’altro, la parte civile, chiedendo entrambi che la Corte sollevasse conflitto di attribuzione ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, in particolare rilevando che le affermazioni diffamatorie del senatore erano connesse, non alla sua funzione di parlamentare, bensì alla sua personale vicenda nonché alle accuse di mendacio mossegli in relazione alla sua affermazione di non conoscere il giudice Dinacci.

La Corte d’appello ricorrente osserva, in punto di diritto, che non può dedursi dal contenuto delle espressioni in esame alcun nesso funzionale tra le medesime e l’attività funzionale svolta dal senatore, atteso che le prime si limitano ad esprimere una critica personale nei confronti della parte lesa in relazione ad un fatto del tutto indipendente dalla carica di senatore all’epoca ricoperta dal parlamentare. In particolare, riferisce che il parlamentare «aveva affermato a suo tempo di non conoscere personalmente il Magistrato dr. Dinacci in servizio presso il Ministero di Grazia e Giustizia: tale circostanza, secondo quanto appurato dal giornalista, era risultata non vera, talché quest’ultimo aveva posto in evidenza la inattendibilità della dichiarazione nel corso di un telegiornale andato in onda sulla rete 3 della televisione RAI: di qui la reazione verbale del prevenuto contestata al capo di imputazione».

La Corte d’appello ritiene che «appare evidente dunque, così ricostruiti i fatti, come, sia la conoscenza da parte dell’imputato del dr. Dinacci, sia il servizio giornalistico redatto in merito alla parte lesa, sia infine la reazione che si assume offensiva dell’imputato medesimo, non siano affatto funzionalmente connessi con l’ufficio di senatore».

Il Collegio ricorrente riporta la giurisprudenza costituzionale in tema di nesso funzionale secondo cui debbono ritenersi sindacabili, in linea di principio, tutte quelle dichiarazioni che fuoriescono dal campo applicativo delle dichiarazioni «divulgative all’esterno di attività parlamentari» e che non siano immediatamente collegabili con specifiche forme di esercizio di funzioni parlamentari, non essendo sufficiente una generica comunanza di argomento o di contesto politico (sentenze n. 140 del 2003 e n. 521 del 2002).

A parere della Corte d’appello, non può essere condivisa la tesi difensiva secondo la quale, a seguito dell’entrata in vigore della legge 20 giugno 2003, n.140, le decisioni della Camera di appartenenza circa la sussistenza delle guarentigie previste dall’art. 68 Cost., sarebbero sindacabili solo da un punto di vista formale e cioè unicamente nell’ipotesi in cui siano affette da vizi procedurali o motivazionali tali da risolversi in una menomazione delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria. Secondo la Corte, limitare alla mera inosservanza dei requisiti formali la sindacabilità della decisione del Parlamento significherebbe proporre un’interpretazione della legge in esame innovativa rispetto al testo costituzionale e, comunque, in contrasto con la giurisprudenza della Corte costituzionale che ha affermato che la legge in argomento esplicita, ma non amplia, il contenuto della tutela della insindacabilità delle opinioni espresse dai membri del Parlamento (sentenza n. 120 del 2004).

La Corte d’appello di Roma, infine, osserva di non ritenere ostative ad «una nuova proposizione del conflitto di attribuzione» le due precedenti pronunce di improcedibilità (sentenza n. 35 del 1999) e di inammissibilità (sentenza n. 30 del 2002) della Corte costituzionale, citate dalla difesa e relative ad altrettanti conflitti di attribuzione sollevati dal Tribunale di Roma, atteso che, in entrambi i casi, la Corte costituzionale non è entrata nel merito del conflitto «per ragioni puramente formali», che pertanto non precludono una nuova proposizione del conflitto da parte del giudice di appello.

2. - Con ordinanza n. 187 del 2008 è stato ritenuto ammissibile il conflitto.

3. - Si è costituito in giudizio il Senato della Repubblica, sostenendo che il ricorso è inammissibile e infondato.

In via preliminare, la difesa del Senato eccepisce «l’inammissibilità del conflitto per divieto di riproposizione dello stesso» atteso che il conflitto in esame è stato già oggetto di due distinte pronunce della Corte costituzionale. Osserva il Senato della Repubblica che, con una prima pronuncia, la Corte costituzionale rilevava la improcedibilità del conflitto per irrituale deposito degli atti (sentenza n. 35 del 1999) e che, con una seconda pronuncia, dichiarava l’inammissibilità del ricorso atteso che la delibera oggetto del conflitto non era stata adottata dalla Camera competente (Camera dei deputati al posto del Senato della Repubblica) a dichiarare l’insindacabilità a norma dell’art. 68 Cost. (sentenza n. 30 del 2002). Tanto richiamato, la difesa chiede che possa trovare ingresso anche nel processo costituzionale «l’istituto del ne bis in idem» e, a tal fine, rammenta la giurisprudenza costituzionale secondo cui la ratio del divieto della riproposizione del conflitto tra poteri sarebbe rintracciabile nell’esigenza costituzionale che il giudizio, una volta instaurato, sia concluso in termini certi non rimessi alle parti confliggenti (sentenza n. 116 del 2003) e sul presupposto della «non riproponibilità ad libitum di ricorsi già dichiarati improcedibili» (ordinanze n. 143 del 2005 e n. 153 del 2003). In conclusione, il Senato insiste perché il conflitto in esame sia dichiarato inammissibile.

Nel merito, la difesa del Senato richiama gli orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale in materia di verifica della correttezza delle delibere di insindacabilità delle Camere assunte a norma dell’art. 68, comma primo, Cost., che, a parere della stessa difesa, avrebbero determinato il giudice di primo grado nel processo penale originato dalle dichiarazioni del senatore a pronunciarsi per il non luogo a procedere a norma dell’art. 129 del codice di procedura penale; difatti, secondo la difesa del Senato, il Tribunale di Roma avrebbe ricondotto le dichiarazioni rese dal senatore Previti «nell’alveo delle esternazioni di matrice politica i cui profili di garanzia – a fronte della particolare qualificazione soggettiva dell’agente – sfuggono alla previsione di cui all’art. 21 Cost. per rientrare, invece, nei parametri di cui all’art. 68, comma primo, Cost.».

Osserva, inoltre, la difesa del Senato che la Corte d’appello rimettente non avrebbe «sufficientemente motivato in merito alla pretesa insussistenza del c.d. nesso funzionale, attestandosi sulla eventuale qualificazione delle relative dichiarazioni alla stregua della fattispecie [di reato di diffamazione a mezzo stampa]; il che tuttavia non rientra entro la cognizione della Corte costituzionale bensì, appunto, del solo giudice ordinario (penale) e non può costituire, dunque, il thema decidendum del presente giudizio». In conclusione, insiste per l’infondatezza del ricorso.

Considerato in diritto

1. - La Corte d’appello di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alla delibera del 18 marzo 2004, con la quale è stata dichiarata, ai sensi del primo comma dell’art. 68 della Costituzione, l’insindacabilità delle dichiarazioni del senatore Cesare Previti, rispetto alle quali pende un procedimento penale per il reato di diffamazione a mezzo stampa ai danni del giornalista David Maria Sassoli.

La Corte d’appello ricorrente sostiene che la delibera di insindacabilità adottata dal Senato della Repubblica costituisce una interferenza nelle attribuzioni della autorità giudiziaria, non sussistendo il nesso funzionale tra le dichiarazioni rese dal senatore e la sua attività di parlamentare.

2. - Preliminarmente, deve essere confermata l’ordinanza n. 187 del 2008, con la quale questa Corte ha dichiarato l’esistenza della materia di un conflitto, la cui soluzione spetta alla sua competenza, per la sussistenza dei requisiti soggettivo ed oggettivo, impregiudicata ogni ulteriore decisione, anche in punto di ammissibilità.

3. - Il ricorso è inammissibile.

3.1. - Questa Corte ha più volte ribadito che il ricorso con il quale l’autorità giudiziaria propone il conflitto di attribuzione ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, deve rispettare il principio di completezza ed autosufficienza. Tale principio impone all’autorità giudiziaria l’onere di indicare nel ricorso gli elementi che consentano alla Corte costituzionale di valutarne la fondatezza, raffrontando le dichiarazioni rese extra moenia dal parlamentare con il contenuto di atti tipici della sua funzione (sentenze n. 163 del 2008 e n. 271 del 2007). In particolare, l’atto introduttivo del giudizio deve riportare le espressioni ritenute offensive (sentenza n. 52 del 2007), il cui contenuto deve essere riferito «compiutamente» e in modo «esatto» e «obiettivo» (sentenza n. 383 del 2006).

Esaminato alla luce di tali principi, il ricorso con il quale la Corte d’appello di Roma ha promosso il presente conflitto non può ritenersi completo ed autosufficiente. Esso è, al contrario, lacunoso e impreciso.

Per un verso, l’autorità giudiziaria non ha allegato la delibera di insindacabilità del Senato all’atto introduttivo del conflitto, né, in quest’ultimo, ne ha riferito in modo esauriente i contenuti. Per altro verso, il ricorso della Corte d’appello non riporta, in modo esatto ed obiettivo, il testo delle dichiarazioni asseritamente diffamatorie rese dal parlamentare, ma riproduce le parole con le quali il Tribunale di Roma, nella sentenza di primo grado, ha riassunto il contenuto di tali dichiarazioni.

A causa di tali lacune e imprecisioni, l’atto introduttivo del giudizio non esprime con chiarezza l’oggetto del contendere e non consente perciò di valutare in modo esatto la fondatezza del conflitto proposto. Difettando pertanto di un requisito essenziale, a norma degli articoli 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevato, nei confronti del Senato della Repubblica, dalla Corte d’appello di Roma, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2009.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2009.