ORDINANZA N. 18
ANNO 2021
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo
CORAGGIO;
Giudici: Giuliano
AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto
Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca
ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN
GIORGIO,
ha pronunciato la
seguente
ORDINANZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice
civile, promosso dal Tribunale ordinario di Bolzano nel procedimento
vertente tra la Procura della Repubblica del Tribunale ordinario di Bolzano e
D. G. e altro, con ordinanza
del 17 ottobre 2019, iscritta al n. 78 del registro ordinanze 2020 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale,
dell’anno 2020.
Visto l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di
consiglio del 13 gennaio 2021 il Giudice relatore Giuliano Amato;
deliberato nella camera
di consiglio del 14 gennaio 2021.
Ritenuto che, con
ordinanza del 17 ottobre 2019, il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice
civile che, nel disciplinare il cognome del figlio nato fuori dal matrimonio,
prevede che «Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da
entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre»;
che la disposizione è
censurata nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di
trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno;
che questa preclusione
si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 2 della
Costituzione, sotto il profilo della tutela dell’identità personale;
sarebbe, inoltre, violato l’art. 3 Cost.,
sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo, come già rilevato da questa
Corte nella sentenza
n. 286 del 2016; è denunciata, infine, la violazione dell’art. 117, primo
comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione
per la salvaguardia diritti dell’uomo e libertà fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007;
che il Tribunale di
Bolzano è chiamato a decidere in ordine al ricorso proposto dal pubblico
ministero, ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396
(Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato
civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), al
fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina, cui i
genitori, non uniti in matrimonio, hanno concordemente voluto attribuire il
solo cognome materno, confermando tale volontà anche nel corso del procedimento
dinanzi al giudice a quo;
che, tuttavia, questa
scelta dei genitori è preclusa dall’art. 262, primo comma, cod. civ. anche
all’esito della sentenza
di questa Corte n. 286 del 2016, che ha riconosciuto la possibilità di
aggiungere al patronimico il cognome della madre, mentre nel caso in esame la
volontà di entrambi i genitori è volta all’acquisizione del solo cognome
materno;
che, ad avviso del
giudice rimettente, la questione di legittimità costituzionale sarebbe
rilevante poiché, applicando l’art. 262, primo comma, cod. civ. con il solo
correttivo introdotto dalla sentenza richiamata, il ricorso del pubblico
ministero dovrebbe essere accolto e l’atto di nascita dovrebbe essere
rettificato; qualora, invece, fosse accolta la presente questione, sarebbe
consentita l’assunzione del solo cognome materno, come richiesto da entrambi i
genitori, con conseguente rigetto del ricorso;
che, ritenendo esclusa
la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, il giudice a
quo ravvisa la non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ. nella parte in cui tale disposizione
non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al
momento della nascita, il solo cognome materno;
che questa disciplina
sarebbe in contrasto sia con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela
dell’identità personale, sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo
dell’uguaglianza tra donna e uomo;
che il Tribunale
ritiene che l’acquisizione del cognome alla nascita avvenga unicamente sulla
base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori, anche in presenza
di una diversa volontà comune degli stessi; come riconosciuto dalla stessa sentenza di questa
Corte n. 286 del 2016, il sistema in vigore deriva da una concezione
patriarcale della famiglia e della potestà maritale, che non è più compatibile
con il principio costituzionale della parità tra uomo e donna;
che la disposizione
censurata sarebbe, altresì, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione agli artt. 8 e 14 CEDU; al riguardo, è richiamata la sentenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo del 7 gennaio 2014 (Cusan e Fazzo contro Italia), che
ha affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla
nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra la
violazione dell’art. 14 (Divieto di discriminazione), in combinato disposto con
l’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) CEDU, principi
che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 CDFUE, che pure verrebbero in
rilievo;
che è intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile e, comunque, infondata;
che ad avviso
dell’interveniente le questioni sarebbero inammissibili, poiché l’intervento
richiesto richiederebbe una operazione manipolativa esorbitante dai poteri di
questa Corte (sono richiamate le sentenze n. 61 del
2006 e le ordinanze
n. 586 e n.
176 del 1988);
che, nel merito, le
questioni sarebbero manifestamente infondate; nel caso in esame le censure del
giudice a quo sarebbero volte a rimettere ai genitori la scelta del cognome da
attribuire ai figli, in particolare attraverso l’indicazione del solo cognome
materno; tuttavia, la norma di sistema attributiva del cognome paterno al
figlio – ferma restando la possibilità di aggiungere il cognome materno – non
consente, proprio a tutela del diritto del figlio al nome, di far dipendere
l’attribuzione del cognome dalla scelta dei genitori.
Considerato che il
Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile che, nel dettare
la disciplina del cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, prevede che «Se
il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori
il figlio assume il cognome del padre»; la disposizione è censurata nella parte
in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio,
al momento della nascita, il solo cognome materno;
che questa preclusione
si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 2 della Costituzione,
sotto il profilo della tutela dell’identità personale; sarebbe, inoltre,
violato l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo,
come già rilevato da questa Corte nella sentenza n. 286 del
2016; è denunciata, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia
diritti dell’uomo e libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, che trovano
corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007;
che, in via
preliminare, non è fondata l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla
difesa dello Stato per il carattere manipolativo dell’intervento richiesto a
questa Corte;
che, infatti, il
petitum del rimettente è circoscritto al riconoscimento della possibilità,
attualmente preclusa dall’art. 262, primo comma, cod. civ., di trasmettere al
figlio, di comune accordo, alla nascita, il solo cognome materno; con ciò,
dunque, il giudice a quo chiede l’addizione di una specifica ipotesi
derogatoria, ritenuta costituzionalmente imposta, volta a riconoscere il
paritario rilievo dei genitori nella trasmissione del cognome al figlio;
che le questioni
sollevate dal giudice a quo, relative alla preclusione della facoltà di scelta
del solo cognome materno, sono strettamente connesse alla più ampia questione
che ha ad oggetto la generale disciplina dell’automatica attribuzione del
cognome paterno;
che la secolare
prevalenza del cognome paterno trova il suo riconoscimento normativo – oltre
che nella disposizione censurata – negli artt. 237 e 299 cod. civ.; nell’art.
72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello
stato civile); negli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396
(Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato
civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127);
che questa Corte è già
stata chiamata, in più occasioni, a valutare la legittimità costituzionale di
questa disciplina, in riferimento sia al principio di parità dei genitori, sia
al diritto all’identità personale dei figli, sia alla salvaguardia dell’unità
familiare;
che, sin da epoca
risalente, è stata evidenziata la possibilità di introdurre sistemi diversi di
determinazione del nome, egualmente idonei a salvaguardare l’unità della
famiglia, senza comprimere l’eguaglianza e l’autonomia dei genitori (ordinanze n. 586
e n. 176 del
1988);
che, in tempi più
recenti, è stato espressamente riconosciuto che «l’attuale sistema di
attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della
famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia
romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i
principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra
uomo e donna» (ordinanza
n. 61 del 2006);
che, da ultimo, ravvisando
il contrasto della regola del patronimico con gli artt. 2, 3, 29, secondo
comma, Cost., questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della
norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ.; 72, primo comma, del
r.d. n. 1238 del 1939; e 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui
non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al
momento della nascita, anche il cognome materno; la dichiarazione di
illegittimità costituzionale è stata estesa, in via consequenziale, ai sensi
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), all’art. 262, primo comma, cod.
civ., e all’art. 299, terzo comma, cod. civ. (sentenza n. 286 del
2016);
che in tale decisione –
pur essendo stata riaffermata la necessità di ristabilire il principio della
parità dei genitori – si è preso atto che, in via temporanea, «in attesa di un
indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la
materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità»,
“sopravvive” la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno,
destinata a operare in mancanza di accordo espresso dei genitori;
che, tuttavia, anche
dopo questa pronuncia, gli inviti ad una sollecita rimodulazione della
disciplina – in grado di coniugare il trattamento paritario delle posizioni
soggettive dei genitori con il diritto all’identità personale del figlio –
sinora non hanno avuto séguito;
che, pertanto, la
prevalenza del cognome paterno costituisce tuttora il presupposto delle
disposizioni, sopra richiamate, che declinano la regola del patronimico nelle
sue diverse esplicazioni, tra le quali rientra certamente la disposizione
censurata dell’art. 262, primo comma, cod. civ.;
che, di conseguenza,
anche laddove fosse riconosciuta la facoltà dei genitori di scegliere, di
comune accordo, la trasmissione del solo cognome materno, la regola che impone
l’acquisizione del solo cognome paterno dovrebbe essere ribadita in tutte le
fattispecie in cui tale accordo manchi o, comunque, non sia stato
legittimamente espresso; in questi casi, verosimilmente più frequenti, dovrebbe
dunque essere riconfermata la prevalenza del cognome paterno, la cui
incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata da tempo
riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 286 del
2016 e n. 61
del 2006);
che, in questo quadro,
neppure il consenso, su cui fa leva la limitata possibilità di deroga alla
generale disciplina del patronimico, potrebbe ritenersi espressione di un’effettiva
parità tra le parti, posto che una di esse non ha bisogno dell’accordo per far
prevalere il proprio cognome;
che, pertanto, nella
perdurante vigenza del sistema che fa prevalere il cognome paterno, lo stesso
meccanismo consensuale – che il rimettente vorrebbe estendere all’opzione del
solo cognome materno – non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità
tra i genitori;
che «il modo in cui
occasionalmente sono poste le questioni incidentali di legittimità
costituzionale non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del
sistema nel quale le norme denunciate sono inserite» (ordinanza n. 183 del
1996; nello stesso senso, sentenza n. 179 del
1976 e ordinanze
n. 230 del 1975 e n. 100 del 1970);
che, alla luce del
rapporto di presupposizione e di continenza tra la questione specifica dedotta
dal giudice a quo e quella nascente dai dubbi di legittimità costituzionale ora
indicati, la risoluzione della questione avente ad oggetto l’art. 262, primo
comma, cod. civ., nella parte in cui impone l’acquisizione del solo cognome
paterno, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire
le questioni sollevate dal giudice a quo (ex multis, sentenze n. 255 del
2014, n. 179
del 1976, n.
195 del 1972; nonché ordinanze n. 114
e n. 96 del 2014,
n. 42 del 2001;
n. 197 e n. 183 del 1996;
n. 297 e n. 225 del 1995;
n. 294 del 1993;
n. 378 del 1992,
n. 230 del 1975
e n. 100 del
1970);
che d’altra parte,
ancorché siano legittimamente prospettabili soluzioni normative differenziate,
l’esame di queste specifiche istanze di tutela costituzionale, attinenti a
diritti fondamentali, non può essere pretermesso, poiché «l’esigenza di
garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di
lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta
regolazione della materia» (sentenza n. 242 del
2019; nello stesso senso, sentenze n. 96 del
2015, n. 162
del 2014 e n.
113 del 2011);
che la non manifesta
infondatezza della questione pregiudiziale è rilevabile nel contrasto della
vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo
genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3
Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità
personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia;
che tutto ciò porta a
dubitare della legittimità costituzionale della disciplina dell’automatica
acquisizione del solo patronimico, che trova espressione nell’art. 262, primo
comma, cod. civ.;
che è stato osservato sin
da epoca risalente che la prevalenza attribuita al ramo paterno nella
trasmissione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di
salvaguardia dell’unità familiare, poiché «è proprio l’eguaglianza che
garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in
pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci
rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del
1970); nel caso in esame, ancora una volta, «[l]a perdurante violazione del
principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi […] contraddice, ora
come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata
quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei
coniugi» (sentenza
n. 286 del 2016);
che «la previsione
dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto
all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin
dalla nascita, anche con il cognome materno» (ancora sentenza n. 286 del
2016);
che, infine, il dubbio
di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, primo comma, cod. civ.,
attiene anche alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
agli artt. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (Divieto
di discriminazione) CEDU;
che, a questo riguardo,
la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 7 gennaio 2014,
Cusan e Fazzo contro Italia, ha ritenuto che la rigidità del sistema
italiano – che fa prevalere il cognome paterno e nega rilievo ad una diversa
volontà concordemente espressa dai genitori – costituisce una violazione del
diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando altresì una
discriminazione ingiustificata tra i genitori, in contrasto con gli art. 8 e 14
CEDU;
che, pertanto, questa
Corte non può esimersi, ai fini della definizione del presente giudizio, dal
risolvere pregiudizialmente le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui, in mancanza di
diverso accordo dei genitori, impone l’automatica acquisizione del cognome
paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, per contrasto con gli
artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e
14 CEDU.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) solleva, disponendone la trattazione innanzi a sé, questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella
parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone
l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di
entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n.
848;
2) sospende il presente giudizio fino alla definizione delle questioni
di legittimità costituzionale di cui sopra;
3) ordina che la cancelleria provveda agli adempimenti di legge.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio
2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO,
Presidente
Giuliano AMATO,
Redattore
Roberto MILANA,
Direttore della Cancelleria
Depositata in
Cancelleria l'11 febbraio 2021.