SENTENZA N. 286
ANNO 2016
Commenti
alla decisione di
I. Elena Malfatti, Illegittimità
dell’automatismo, nell’attribuzione del cognome paterno: la “cornice”
(giurisprudenziale europea) non fa il quadro, per
g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
II. Simone Scagliarini, Dubbie certezze e sicure incertezze in tema
di cognome dei figli, per
g. c. della Rivista AIC
III. Alessia
Fusco, «Chi
fuor li maggior tui?»: la nuova risposta del Giudice
delle leggi alla questione sull’attribuzione automatica del cognome paterno.
Riflessioni a margine di C. cost. sent.
n. 286 del 2016, per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ˮ
- Aldo CAROSI ˮ
- Marta CARTABIA ˮ
- Mario Rosario MORELLI ˮ
- Giancarlo CORAGGIO ˮ
- Giuliano AMATO ˮ
- Silvana SCIARRA ˮ
- Daria de PRETIS ˮ
- Nicolò ZANON ˮ
- Augusto Antonio BARBERA ˮ
- Giulio PROSPERETTI ˮ
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299
del codice
civile, 72, primo comma, del regio
decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34
del d.P.R.
3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione
dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della
L. 15 maggio 1997, n. 127), promosso dalla Corte di appello di Genova, nel
procedimento proposto da M.M. e M.G., con ordinanza
del 28 novembre 2013, iscritta al n. 31 del registro ordinanze 2014 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto
lʼatto di costituzione di M.M. e M.G., in proprio e nella qualità di
esercenti la potestà sul minore V., nonché l’atto di intervento
dell’Associazione Rete per la Parità;
udito
nell’udienza pubblica dell’8 novembre 2016 il Giudice relatore Giuliano
Amato;
uditi
gli avvocati Antonella Anselmo per l’Associazione Rete per la Parità e
Susanna Schivo per M.M. e M.G., in proprio e nella qualità di esercenti la
potestà sul minore V.
Ritenuto in
fatto
1.– Con ordinanza emessa il 28 novembre
2013, la Corte d’appello di Genova ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e
117, primo comma,
della Costituzione – questione di legittimità costituzionale della norma
desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del
regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34
del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2,
comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede
«l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza
di una diversa contraria volontà dei genitori».
2.– Il giudizio a quo ha per oggetto il reclamo avverso il provvedimento del
Tribunale ordinario di Genova che ha respinto il ricorso avverso il rigetto, da
parte dall’ufficiale dello stato civile, della richiesta di attribuire al
figlio dei ricorrenti il cognome materno, in aggiunta a quello paterno.
La Corte d’appello di Genova osserva
che, sebbene la norma sull’automatica attribuzione del cognome paterno, anche
in presenza di una diversa volontà dei genitori, non sia prevista da alcuna
specifica norma di legge, essa è desumibile dal sistema normativo, in quanto
presupposta dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ., nonché dall’art. 72, primo
comma, del r.d. n. 1238 del 1939, e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del
2000.
Il rimettente evidenzia che molti Stati
europei si sono già adeguati al vincolo posto dalle fonti convenzionali e, in
particolare, dall’art. 16, comma 1, lettera g),
della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei
confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e
resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132. Essa impegna gli Stati
contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare tale discriminazione
in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in
particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla
moglie, compresa la scelta del cognome».
Vengono, inoltre, richiamate le
raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998,
n. 1362, nonché la risoluzione 27 settembre 1978, n. 37, relative alla piena
realizzazione della uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome
dei figli, nonché alcune pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo,
che vanno nella direzione della eliminazione di ogni discriminazione basata sul
genere nella scelta del cognome (sentenze 16 febbraio 2005, Unal
Tekeli contro Turchia; 24 ottobre 1994, Stjerna
contro Finlandia; 24 gennaio 1994, Burghartz
contro Svizzera).
Viene, in particolare, richiamata la
sentenza di questa Corte in cui si afferma che «l’attuale sistema di
attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della
famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia
romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i
principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra
uomo e donna» (sentenza
n. 61 del 2006). In quella occasione, osserva il rimettente, la Corte
costituzionale ritenne che la questione esorbitasse dalle proprie prerogative,
in quanto l’intervento invocato avrebbe comportato un’operazione manipolativa
eccedente dai suoi poteri.
Il giudice a quo evidenzia, tuttavia, la necessità di una rivalutazione della
medesima questione, alla luce degli argomenti sviluppati dalla Corte di
cassazione nell’ordinanza n. 23934 del 22 settembre 2008, con la quale – ai
sensi dell’art. 374, secondo comma, del codice di procedura civile – veniva
disposta la trasmissione degli atti al Primo Presidente ai fini della
rimessione alle sezioni unite, per valutare la possibilità di
un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che regolano
l’attribuzione del cognome ai figli.
Il rimettente ritiene che la distonia
rispetto ai principi sanciti dall’art. 29 Cost., già rilevata nella sentenza n. 61 del
2006, imponga – alla luce dei due eventi normativi consistenti, da un lato,
nella modifica dell’art. 117 Cost. e, dall’altro, nella ratifica del trattato
di Lisbona – la riproposizione della questione relativa alla norma implicita
che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo,
in presenza di una diversa volontà dei genitori.
Tale disciplina si porrebbe in
contrasto, in primo luogo, con l’art. 2 Cost., per la violazione del diritto
all’identità personale, che trova il primo ed immediato riscontro proprio nel
nome e che, nell’ambito del consesso sociale, identifica le origini di ogni
persona. Da ciò discenderebbe il diritto del singolo individuo di vedersi
riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.
Viene, inoltre, denunciata la violazione
dell’art. 3 e dell’art. 29, secondo comma, Cost., sotto il profilo del diritto
di uguaglianza e pari dignità dei genitori nei confronti dei figli e dei
coniugi tra di loro. D’altra parte, ad avviso del rimettente, l’esigenza di
tutela dell’unità familiare non sarebbe idonea a giustificare l’obbligatoria
prevalenza del cognome paterno.
Viene, infine, denunciata la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., «come interpretato nelle sentenze n. 348
e n. 349 del
2007 della Corte costituzionale […], costituendo le norme di natura
convenzionale già citate parametri del giudizio di costituzionalità delle norme
interne».
3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si
sono costituite le parti reclamanti nel giudizio principale, chiedendo
l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal
giudice a quo.
3.1.– In punto di fatto, esse
evidenziano che il proprio figlio minore, nato in costanza di matrimonio, è
titolare di doppia cittadinanza e tuttavia – per effetto del rifiuto opposto
dall’ufficiale dello stato civile di procedere all’iscrizione del minore con il
cognome di entrambi i genitori – egli viene identificato diversamente nei due
Stati dei quali è cittadino: in Italia con il solo cognome del padre ed in
Brasile con il doppio cognome, paterno e materno.
Dopo avere illustrato l’evoluzione
normativa e giurisprudenziale successiva alla sentenza n. 61 del
2006, la difesa delle parti ricorrenti evidenzia che, nelle more del
presente giudizio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che
l’impossibilità per i genitori di far iscrivere il figlio “legittimo” nei
registri dello stato civile attribuendogli alla nascita il cognome della madre,
anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di
discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della
vita privata e familiare) della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848,
e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale
«dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi
italiane» (sentenza 7
gennaio 2014, Cusan e Fazzo
contro Italia).
Ad avviso delle parti reclamanti, tale
decisione, vertente su un caso sostanzialmente identico a quello all’esame di
questa Corte, rafforza gli argomenti a sostegno della fondatezza della
questione.
3.2.– Con riferimento alla denunciata
violazione dell’art. 2 Cost., la difesa delle parti private richiama i principi
affermati dalla giurisprudenza costituzionale sul diritto al nome come segno
distintivo dell’identità personale, anche in riferimento alla posizione del
figlio adottivo (sentenze
n. 268 del 2002; n. 120 del 2001;
n. 297 del 1996
e n. 13 del 1994).
Pur riconoscendo che permangono delle
differenze in materia di attribuzione del cognome tra la posizione del figlio
di una coppia non unita in matrimonio o adottato e la posizione del figlio di
una coppia coniugata, le parti ricorrenti ritengono che la rigidità della norma
che impone in ogni caso l’attribuzione del cognome paterno sacrifichi il
diritto all’identità del minore, che si vede negata la possibilità di
aggiungere il cognome materno, qualora tale scelta sia espressione di
un’esigenza connessa all’esercizio del diritto all’identità personale.
Ad avviso delle parti private, se il
diritto al nome e, più in particolare, al cognome, costituisce la
manifestazione esterna e “tangibile” del diritto all’identità personale,
l’attribuzione automatica al figlio di una coppia coniugata del solo cognome
paterno determina l’irrimediabile compromissione di tale diritto, precludendo
al singolo individuo di essere identificato attraverso il cognome che meglio
corrisponda alla propria identità personale.
3.3.– Con riferimento alla dedotta
violazione dell’art. 3, primo comma, e dell’art. 29, secondo comma, Cost.,
sotto il profilo dell’uguaglianza e pari dignità dei genitori e dei coniugi,
vengono richiamate le pronunce con le quali, sin dal 1960, la giurisprudenza
costituzionale ha affermato l’illegittimità di norme che prevedevano un
trattamento irragionevolmente differenziato dei coniugi (sentenze n. 33 del
1960; n. 126
e n. 127 del
1968; n. 147
del 1969; n.
128 del 1970; n.
87 del 1975; n.
477 del 1987; n.
254 del 2006; in tema di eguaglianza nei rapporti patrimoniali tra i
coniugi, vengono, inoltre, citate le sentenze n. 46 del 1966;
n. 133 del 1970;
n. 6 del 1980
e n. 116 del
1990).
3.4.– Quanto alla denunciata violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., la difesa delle parti private richiama i
principi affermati a livello internazionale, e recepiti dall’ordinamento
italiano, sulla protezione dei diritti del fanciullo e sulla parità di genere.
Vengono richiamati, in particolare, l’art. 24 del Patto internazionale sui
diritti civili e politici (adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso
esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881); l’art. 7 della Convenzione sui
diritti del fanciullo (fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa
esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176); l’art. 16, lettera g), della Convenzione sull’eliminazione
di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention on the Elimination of all forms of Discrimination
Against Women – CEDAW),
adottata il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite,
ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132.
Da tale quadro normativo emergerebbe la
non conformità ai principi sopra richiamati della norma che impone
l’attribuzione automatica ed esclusiva del solo cognome paterno. Essa sarebbe
lesiva sia dei principi che garantiscono la tutela del diritto al nome, sia di
quelli in tema di eguaglianza e di non discriminazione tra uomo e donna nella
trasmissione del cognome al figlio, sia esso legittimo o naturale.
La difesa delle parti reclamanti
evidenzia, in particolare, che sebbene la CEDU non contenga alcun riferimento
espresso al diritto al nome del singolo individuo, la Corte di Strasburgo, in
molteplici pronunce, ne ha ricondotto la tutela entro l’ambito applicativo del
diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 della CEDU. In
queste decisioni la Corte europea – pronunciandosi su casi analoghi a quello
successivamente deciso dalla citata sentenza nel caso Cusan e Fazzo – ha accertato
la violazione dell’art. 8 CEDU, in combinato disposto con l’art. 14, in ragione
della disparità di trattamento fondata sul genere.
3.5.– Le parti private deducono,
inoltre, che la pronuncia richiesta alla Corte non sarebbe tale da invadere la
sfera di discrezionalità del legislatore, trattandosi, viceversa, di un
intervento costituzionalmente imposto, limitato all’apposizione, alla norma
impugnata, delle “rime obbligate”. La Corte potrebbe, infatti, limitarsi a
dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme invocate, nella parte in
cui non consentono ai genitori di scegliere, di comune accordo, il cognome da
trasmettere ai figli.
D’altra parte, non sarebbe ravvisabile
alcun vuoto normativo derivante dall’invocato intervento caducatorio.
Al riguardo, sono richiamate le pronunce che affermano che, a fronte di «un vulnus costituzionale, non sanabile in
via interpretativa − tanto più se attinente a diritti fondamentali −
la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto
che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da
quanto la norma (o, meglio, la norma maggiormente pertinente alla fattispecie
in discussione) omette di prevedere. […] Spetterà, infatti, da un lato, ai
giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano
applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e,
dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo
più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita
regolamentazione» (sentenza n. 113 del
2011; nello stesso senso, sentenze n. 78 del
1992 e n. 59
del 1958).
4.– L’Associazione Rete per la Parità ha
depositato atto di intervento in cui ha chiesto l’accoglimento della questione
di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Genova.
In via preliminare, sono state
illustrate le ragioni dell’ammissibilità dell’intervento, sebbene
l’Associazione non rivesta la qualità di parte nel giudizio a quo.
Quanto al merito della questione,
l’Associazione ha esposto e ribadito i medesimi argomenti svolti dalla difesa
delle parti private a sostegno della rilevanza e della fondatezza della
questione.
5.− L’ordinanza di rimessione è stata
ritualmente notificata al Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha
omesso di intervenire in giudizio.
Considerato
in diritto
1.– Con ordinanza emessa il 28 novembre
2013, la Corte d’appello di Genova ha sollevato − in riferimento agli
artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione –
questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237,
262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939,
n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000,
n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento
dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997,
n. 127), nella parte in cui prevede «l’automatica attribuzione del cognome
paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei
genitori».
È denunciata, in primo luogo, la
violazione dell’art. 2 Cost., in quanto verrebbe compresso il diritto
all’identità personale, il quale comporta il diritto del singolo individuo di
vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.
Viene, inoltre, evidenziato il contrasto
con gli artt. 3 e 29, secondo comma, Cost., poiché sarebbe leso il diritto di
uguaglianza e pari dignità dei genitori nei confronti dei figli e dei coniugi
tra di loro.
Viene, infine, ravvisata la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 16, comma 1, lettera
g), della Convenzione sulla
eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, alle
raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998,
n. 1362, nonché alla risoluzione 27 settembre 1978, n. 37, relative alla piena
realizzazione dell’uguaglianza dei genitori nell’attribuzione del cognome dei
figli.
2.– Preliminarmente, va confermata
l’ordinanza dibattimentale, allegata alla presente sentenza, con la quale è
stato dichiarato inammissibile l’intervento dell’associazione Rete per la
Parità.
3.– La questione sollevata in
riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost. è fondata.
3.1.– È
denunciata l’illegittimità costituzionale della norma − desumibile
dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ. e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396
del 2000 – che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio
nato in costanza di matrimonio, in presenza di una diversa contraria volontà
dei genitori.
Va rilevato, preliminarmente, che tra le
disposizioni individuate dal rimettente compare, altresì, l’art. 72, primo
comma, del r.d. n. 1238 del 1939, il quale, tuttavia, è stato abrogato
dall’art. 110 del d.P.R. n. 396 del 2000. Dal tenore complessivo degli
argomenti sviluppati nell’ordinanza di rinvio si evince, peraltro, che tale
disposizione rientra nel fuoco delle censure del rimettente al solo fine di
esplicitare la norma − da essa presupposta – che prevede l’automatica
attribuzione del solo cognome paterno.
L’esistenza
della norma censurata e la sua
perdurante immanenza nel sistema,
desumibili dalle disposizioni che implicitamente la presuppongono, è stata già
riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, nelle precedenti occasioni in
cui ne è stata denunciata l’illegittimità (sentenze n. 61 del
2006 e n.
176 del 1988; ordinanze
n. 145 del 2007 e n. 586 del 1988).
In queste pronunce, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di tale norma,
in quanto presupposta dalle medesime disposizioni, regolatrici di fattispecie
diverse, individuate dall’odierno rimettente (artt. 237, 262 e 299 cod. civ.,
nonché artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000).
Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione
espressa, ancora una volta, non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e
forza imperativa della norma, in base alla quale il cognome del padre si
estende ipso iure al figlio.
Nello stesso senso si è espressa anche
la giurisprudenza di legittimità, sia precedente, sia successiva alle richiamate
pronunce di questa Corte, laddove ha riconosciuto che – da tali pur eterogenee
previsioni – si desume l’esistenza di una norma che, sebbene non prevista
testualmente nell’ambito di alcuna disposizione, è ugualmente presente nel
sistema e «certamente si configura come traduzione in regola dello Stato di
un’usanza consolidata nel tempo» (Cass., sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298; v.
anche Cass., sez. I, 22 settembre 2008, n. 23934).
Nel caso in esame, la norma
sull’automatica attribuzione del cognome paterno è oggetto di censura per la
sola parte in cui non consente ai genitori – i quali ne facciano concorde
richiesta al momento della nascita – di attribuire al figlio anche il cognome
materno.
3.2.– Così ricostruito l’oggetto della
presente questione, va rilevato che già in precedenti occasioni questa Corte ha
esaminato la disciplina della prevalenza del cognome paterno, al momento della
sua attribuzione al figlio, ma ha dichiarato inammissibili le relative
questioni, ritenendole riservate alla discrezionalità del legislatore,
nell’ambito di una rinnovata disciplina.
Tuttavia, già nell’ordinanza n. 176
del 1988, è stato espressamente riconosciuto che «sarebbe possibile, e
probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la
regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri
della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più
rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concilii
i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anziché avvalersi
dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro» (v. anche ordinanza n. 586
del 1988).
Diciotto anni dopo, con ancora maggiore
fermezza, nella sentenza
n. 61 del 2006, in considerazione dell’immutato quadro normativo, questa
Corte ha espressamente rilevato l’incompatibilità della norma in esame con i
valori costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Tale
sistema di attribuzione del cognome, infatti, è definito come il «retaggio di
una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici
nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non
più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale
dell’uguaglianza tra uomo e donna».
3.3.– A distanza di molti anni da queste
pronunce, un «criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi», non
è ancora stato introdotto.
Neppure il decreto legislativo 28
dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di
filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), con
cui il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della
disciplina dello status di figlio
legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio, ha scalfito la norma
oggi censurata.
Pur essendo stata modificata la
disciplina del cambiamento di cognome – con l’abrogazione degli artt. 84, 85,
86, 87 e 88 del d.P.R. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo
dell’art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento per la
revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma
dell’art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) – le modifiche non
hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome,
effettuata al momento della nascita.
Va, d’altro canto, rilevata un’intensa
attività preparatoria di interventi legislativi volti a disciplinare secondo
nuovi criteri la materia dell’attribuzione del cognome ai figli. Allo stato,
tuttavia, essi risultano ancora in
itinere.
Nella famiglia fondata sul matrimonio
rimane così tuttora preclusa la possibilità per la madre di attribuire al
figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il
figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della
madre.
3.4.– La Corte ritiene che siffatta
preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al
contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi,
che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.
3.4.1.– Quanto al primo profilo di
illegittimità, va rilevato che la distonia di tale norma rispetto alla garanzia
della piena realizzazione del diritto all’identità personale, avente copertura
costituzionale assoluta, ai sensi dell’art. 2 Cost., risulta avvalorata
nell’attuale quadro ordinamentale.
Il valore dell’identità della persona,
nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della
valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di
emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, portano ad
individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili
determinanti della sua identità personale, che si proietta nella sua
personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.
È proprio in tale prospettiva che questa
Corte aveva, da tempo, riconosciuto il diritto al mantenimento dell’originario
cognome del figlio, anche in caso di modificazioni del suo status derivanti da successivo riconoscimento o da adozione. Tale
originario cognome si qualifica, infatti, come autonomo segno distintivo della
sua identità personale (sentenza n. 297 del
1996), nonché «tratto essenziale della sua personalità» (sentenza n. 268 del
2002; nello stesso senso, sentenza n. 120 del
2001).
Il processo di valorizzazione del
diritto all’identità personale è culminato nella recente affermazione, da parte
di questa Corte, del diritto del figlio a conoscere le proprie origini e ad
accedere alla propria storia parentale, quale «elemento significativo nel
sistema costituzionale di tutela della persona» (sentenza n. 278 del
2013).
In questa stessa cornice si inserisce
anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha
ricondotto il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la
legge 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, nella sentenza Cusan
Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014,
successiva all’ordinanza di rimessione in esame, la Corte di Strasburgo ha
affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla
nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione
dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8
(diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da
una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero
essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La Corte
EDU ha, altresì, ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla
successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli
minorenni aggiungendo a quello paterno il cognome della madre.
La piena ed effettiva realizzazione del
diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato
riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le
figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale,
impone l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla
nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori.
Viceversa, la previsione
dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto
all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin
dalla nascita, anche con il cognome materno.
3.4.2.– Quanto al concorrente profilo di
illegittimità, che risiede nella violazione del principio di uguaglianza dei
coniugi, va rilevato che il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la
conseguente disparità di trattamento dei coniugi, non trovano alcuna
giustificazione né nell’art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia
dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.
Come già osservato da questa Corte sin
da epoca risalente, «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e,
viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», poiché l’unità «si
rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati
dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del
1970).
La perdurante violazione del principio
di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, realizzata attraverso la
mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo
cognome, contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità
familiare, individuata quale ratio
giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed
in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno.
Tale diversità di trattamento dei
coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una
superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non
è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della
loro pari dignità morale e giuridica.
4.– Con la presente decisione, questa
Corte è, peraltro, chiamata a risolvere la questione formulata dal rimettente e
riferita alla norma sull’attribuzione del cognome paterno nella sola parte in
cui, anche in presenza di una diversa e comune volontà dei coniugi, i figli
acquistano automaticamente il cognome del padre. L’accertamento della
illegittimità è, pertanto, limitato alla sola parte di essa in cui non consente
ai coniugi, di comune accordo, di
trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.
4.1– Rimane assorbita la censura
relativa all’art. 117, primo comma, Cost.
5.– Ai sensi dell’art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via
consequenziale, alla disposizione dell’art. 262, primo comma, cod. civ., la
quale contiene tuttora – con riferimento alla fattispecie del riconoscimento
del figlio naturale effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori – una
norma identica a quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla
presente sentenza.
Anche tale disposizione va, pertanto,
dichiarata illegittima, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune
accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome
materno.
5.1.– Per le medesime ragioni, la
dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 27 della
legge n. 87 del 1953, va estesa, infine, all’art. 299, terzo comma, cod. civ.,
per la parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da
entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento
dell’adozione.
6.– Va, infine, rilevato che, in assenza
dell’accordo dei genitori, residua la generale previsione dell’attribuzione del
cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo,
destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente
consoni al principio di parità.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1)
dichiara l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt.
237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio
1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre
2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione
dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della
L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di
comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il
cognome materno;
2)
dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma,
cod. civ., nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di
trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno;
3)
dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del
1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ.,
nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da
entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento
dell’adozione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 novembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Carmelinda MORANO, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 dicembre 2016.
Allegato: