Sentenza n. 219 del 2004

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SENTENZA N. 219

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Gustavo ZAGREBELSKY,Presidente

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

- Ugo DE SIERVO

- Romano VACCARELLA

- Paolo MADDALENA

- Alfio FINOCCHIARO

- Alfonso QUARANTA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale: dell’art. 5, commi 1 e 2, in relazione all’art. 1, della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti), promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, dal Tribunale di Firenze con ordinanze in data 10 luglio (2 ordinanze), 8 luglio (2 ordinanze), 10 luglio, 3 luglio e 15 luglio, dal Tribunale di Torino con ordinanza in data 7 luglio e dal Tribunale di Firenze con ordinanze in data 23 e 25 settembre e 9 ottobre 2003, rispettivamente iscritte al n. 747, al n. 775, al n. 785, al n. 839, al n. 917, al n. 918, al n. 921, al n. 922, al n. 1059, al n. 1195 e al n. 1196 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, n. 39, n. 40, n. 43, n. 45, n. 46 e n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2003 e n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2004; degli artt. 1, comma 1, e 5, commi 1, 2 e 3, della predetta legge 12 giugno 2003, n. 134, promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, dal Tribunale di Roma con ordinanze in data 14 luglio, 1° luglio (2 ordinanze) e 30 giugno 2003 (2 ordinanze), rispettivamente iscritte al n. 865, al n. 866, al n. 867, al n. 1060 e al n. 1061 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44 e n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2003; dell’art. 5, commi 1, 2 e 3, della predetta legge 12 giugno 2003, n. 134, promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, dal Tribunale di Torre Annunziata con ordinanza in data 17 luglio 2003, dal Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Gragnano, con ordinanza in data 15 luglio 2003 e dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pescara con ordinanze in data 1° agosto e 19 settembre 2003, rispettivamente iscritte al n. 784, al n. 872, al n. 904 e al n. 1016 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, n. 44, n. 45 e n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2004 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto in fatto

1. - Con dieci ordinanze di analogo tenore in data 3 luglio (r.o. n. 918 del 2003), 8 luglio (r.o. n. 785 e n. 839 del 2003), 10 luglio (r.o. n. 747, n. 775 e n. 917 del 2003), 15 luglio (r.o. n. 921 del 2003), 23 e 25 settembre (r.o. n. 1059 e n. 1195 del 2003) e 9 ottobre del 2003 (r.o. n. 1196 del 2003), il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1 e 2, in relazione all’art. 1, della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti), ritenendo che la disciplina transitoria prevista nell’art. 5 citato violi gli artt. 3 e 111 della Costituzione nella parte in cui consente la formulazione della richiesta di applicazione della pena «oltre il termine fissato dall’art. 446, comma 1, del codice di procedura penale», nonché nella parte in cui «impone, su richiesta dell’imputato, una sospensione di quarantacinque giorni, fissando il termine di decorrenza dalla prima udienza utile successiva alla data di pubblicazione della legge».

In tutti i giudizi a quibus il rimettente procede nei confronti di imputati che, nel corso di dibattimenti già iniziati, hanno chiesto, personalmente o a mezzo del difensore, la sospensione del processo a norma dell’art. 5 della legge n. 134 del 2003.

Nel merito, quanto alla disciplina che «consente di formulare la richiesta oltre il termine fissato dall’art. 446, comma 1, cod. proc. pen.», il rimettente osserva che, introducendo l’istituto del patteggiamento, il legislatore ha perseguito uno scopo deflativo: in cambio del risparmio «in termini di tempo, di risorse umane e finanziarie» rispetto al rito ordinario, l’imputato gode di un trattamento sanzionatorio più favorevole. La disposizione transitoria, consentendo che la richiesta di applicazione della pena sia presentata anche quando il dibattimento è in fase avanzata, senza alcun limite temporale, contrasterebbe perciò con gli artt. 3 e 111 Cost., in quanto frustrerebbe le finalità deflative dell’istituto e l’esigenza di rapida definizione del processo valorizzata dall’art. 111 Cost.

La disposizione censurata, nella parte in cui impone una sospensione di quarantacinque giorni a fronte della semplice richiesta dell’imputato, contrasterebbe inoltre con il principio della ragionevole durata del processo, che costituisce garanzia non solo per il singolo imputato, ma per tutte le altre parti processuali e per la collettività in generale.

Secondo il rimettente, difatti, se in un processo con più imputati uno solo chiede la sospensione, il giudice dovrebbe, se è possibile, separare ex art. 18, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. la posizione del richiedente e proseguire il giudizio nei confronti dei coimputati: in tal caso, se l’imputato non chiederà poi il rito alternativo, la separazione avrà prodotto soltanto un inutile dispendio di energie e di attività processuale; se l’interessato avanzerà invece richiesta di patteggiamento, l’applicazione della pena nei confronti del richiedente renderà il giudice incompatibile a giudicare i coimputati, mentre il rigetto della richiesta lo renderebbe comunque incompatibile a giudicare l’imputato. Il processo dovrebbe perciò in ogni caso iniziare ex novo innanzi ad altro giudice, con una dilatazione dei tempi processuali tanto più evidente quanto più ‘avanzato’ sia lo stato dell’istruzione dibattimentale.

L’applicazione della pena in corso di giudizio sacrificherebbe anche l’esercizio del diritto di azione della parte civile costituita. Nonostante l’attività processuale svolta, la parte civile potrebbe ottenere solo la condanna dell’imputato alle spese processuali, in violazione dei principi di ragionevolezza e di ragionevole durata del processo, sanciti dagli artt. 3 e 111 Cost.

Infine, anche la fissazione del termine per la proposizione della richiesta dell’imputato nella prima udienza utile successiva alla pubblicazione della legge, anziché a far data dall’entrata in vigore di questa, contrasterebbe con l’art. 3 Cost. e con il principio di ragionevole durata del processo. Secondo il rimettente, infatti, ogni imputato, proprio perché obbligatoriamente assistito da un difensore, è in grado di valutare l’opportunità di avvalersi della facoltà di chiedere la pena concordata fin dal momento in cui la legge è pubblicata. La costante assistenza della difesa tecnica avrebbe perciò dovuto consigliare di collocare l’opzione per il rito alternativo nella prima udienza utile successiva all’entrata in vigore della legge, nell’assoluto rispetto dell’art. 24 Cost. L’ulteriore spatium deliberandi accordato all’imputato dalla disposizione in esame sarebbe perciò istituto affatto ‘singolare’, lesivo senza alcuna necessità del principio della ragionevole durata del processo.

1.1. - E’ intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate.

Ad avviso dell’Avvocatura, la normativa sul così detto ‘patteggiamento allargato’ è frutto di una scelta del legislatore, effettuata a fini deflativi, del tutto ragionevole se si considera che la sentenza di patteggiamento non è di regola appellabile – salvo per il pubblico ministero in caso di dissenso – e che il termine di cui all’art. 446, comma 1, cod. proc. pen. può essere oltrepassato solo in via transitoria; inoltre la richiesta di applicazione della pena, ove sia stata già presentata e respinta in precedenza, deve necessariamente essere ‘nuova’, «non potendosi riproporre una richiesta analoga».

Anche l’art. 111 Cost. sarebbe richiamato impropriamente, non solo perché l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta «non sembra rientrare nei casi contemplati dall’art. 111 della Costituzione che, ove correttamente letto, riguarda la fase dibattimentale», ma anche perché durante la sospensione non decorrono i termini di prescrizione e di custodia cautelare.

2. - Con ordinanza del 7 luglio 2003 (r.o. n. 922 del 2003) il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134 del 2003, delimitandola alla parte in cui tali norme dettano una disciplina transitoria applicabile anche nei processi in corso di trattazione in dibattimento «per reati che sarebbero già stati prima patteggiabili ad una pena contenuta entro i due anni di reclusione ed in cui l’imputato non aveva presentato alcuna proposta in tal senso», e prevedono che il termine di sospensione di quarantacinque giorni decorre, in tali processi, dalla prima udienza utile, anziché dall’entrata in vigore della legge.

Il rimettente premette che durante la fase dell’istruzione dibattimentale il pubblico ministero ha formulato richiesta di applicazione della pena nella misura di un anno e sei mesi di reclusione e trecento euro di multa ex artt. 444, comma 1, cod. proc. pen. e 5, comma 1, della legge n. 134 del 2003, essendo già decorsi «i termini previsti dagli artt. 446, comma 1, e 555, comma 2, cod. proc. pen.». Conseguentemente il difensore dell’imputato, il quale, pur avendone l’opportunità, non aveva in precedenza avanzato alcuna richiesta di patteggiamento, ha chiesto la sospensione del dibattimento «per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l’opportunità» di aderire alla richiesta del pubblico ministero.

Il giudice a quo ritiene che la disciplina censurata violi il principio di ragionevolezza e il principio di ragionevole durata del processo, sulla base di argomentazioni del tutto sovrapponibili a quelle svolte dai Tribunali di Firenze e di Roma, sottolineando tuttavia i profili di illegittimità costituzionale discendenti dalla «generalizzata restituzione in termini per la proposizione (o riproposizione) della richiesta di patteggiamento anche per reati in precedenza patteggiabili con pena contenuta entro i due anni di reclusione ed anche nei casi in cui l’imputato non abbia mai manifestato in passato la volontà di accedere al patteggiamento e sia stato, di conseguenza, dichiarato aperto il dibattimento».

Secondo il rimettente, infatti, la possibilità di proporre istanza di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. in misura non superiore a due anni di reclusione, già prevista prima dell’entrata in vigore della legge n. 134 del 2003, non è stata minimamente incisa dalla nuova legge, che non ha introdotto un «nuovo» istituto (vale a dire una sorta di «terzo» rito alternativo), ma lo ha più semplicemente «ridisegnato […], ampliandone l’ambito di applicazione» e tracciando «un’inedita linea di demarcazione rappresentata dalla negoziazione di una pena detentiva non superiore ai due anni», in relazione alla quale sono rimasti inalterati sia «l’operatività dei benefici originariamente collegati alla scelta del rito», sia l’«accesso indiscriminato al patteggiamento, senza limitazioni cioè legate al tipo del reato o del suo autore».

Ciononostante, la disciplina transitoria non solo prevede una «indiscriminata rimessione in termini nei confronti di tutti gli imputati, per tutti i reati ed in relazione a tutti i processi in corso, a prescindere dalla fase processuale in cui si trovano e, dunque, anche in fase di discussione», ma impone che a semplice richiesta sia concessa una sospensione del dibattimento di ben quarantacinque giorni anche a favore di chi «non ha mai presentato nei termini di cui agli artt. 446, comma 1, e 555, comma 2, cod. proc. pen. la benché minima proposta di patteggiamento», dimostrando «nei fatti» di non nutrire alcun interesse per tale rito. Con ciò realizzando, nella sostanza, un ingiustificato allungamento dei tempi processuali, contrario alla ratio del rito alternativo e «opposto a quello dichiaratamente perseguito dal legislatore».

3. - Con due ordinanze di identico contenuto in data 30 giugno 2003 (r.o. n. 1060 e n. 1061 del 2003), il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 5, commi 1, 2 e 3, della legge n. 134 del 2003, in parte coincidenti con le precedenti.

Il rimettente, premesso che nel corso del dibattimento alcuni degli imputati hanno chiesto la sospensione del processo ai sensi dell’art. 5, comma 2, della legge n. 134 del 2003, rileva, quanto all’art. 5, comma 1, che l’istituto del patteggiamento ha finalità deflative e carattere «premiale»; che l’eliminazione del limite temporale di cui all’art. 446, comma 1, cod. proc. pen. e la conseguente facoltà delle parti di richiedere l’applicazione della pena nei processi penali nei quali il dibattimento è in corso, consentirebbe invece, del tutto irragionevolmente, di ridurre la pena anche nei casi in cui è stata compiuta una intensa attività istruttoria, senza alcun ‘risparmio’ per lo Stato.

La disciplina del comma 2 del medesimo art. 5 violerebbe inoltre l’art. 111 Cost. e, in particolare, il principio della ragionevole durata del processo, in quanto all’imputato è accordato un termine così ampio da non trovare alcuna plausibile giustificazione, tanto più se posto a confronto con le cadenze, estremamente ravvicinate, imposte per la celebrazione del dibattimento dall’art. 477 cod. proc. pen. o con il termine di quindici giorni  per la richiesta di patteggiamento a seguito di giudizio immediato.

Analogamente al Tribunale di Firenze, anche il Tribunale di Roma ritiene inoltre che, qualora la richiesta di sospensione sia presentata solo da alcuni imputati, la necessaria separazione delle posizioni degli altri potrebbe rivelarsi del tutto inutile ove alla sospensione non faccia poi seguito una effettiva richiesta di patteggiamento, ovvero, a seconda dei casi, renderebbe il giudice incompatibile a giudicare gli altri coimputati o il richiedente.

Del pari irragionevole sarebbe poi il decorso del termine di sospensione non già dall’entrata in vigore della legge, ma dalla prima udienza utile successiva alla sua data di pubblicazione, malgrado la sede dibattimentale in cui si colloca la richiesta sia garantita dalla partecipazione necessaria del difensore.

Anche il giudice a quo sottolinea, infine, che la richiesta di applicazione della pena, quando interviene nel corso del dibattimento, non consente alla parte civile di ottenere una sollecita decisione.

Quanto all’art. 1 della legge n. 134 del 2003, il rimettente ritiene che «con la norma in esame si sottrae al giudizio di cognizione piena una serie di reati di notevole gravità […] riducendo il sistema penale e processuale a un luogo di negoziazione che svilisce la funzione giurisdizionale», così determinando del tutto irragionevolmente un evidente contrasto con il principio del contraddittorio nella formazione della prova e con il principio secondo cui il processo deve essere celebrato pubblicamente, trasformando in principio generale l’eccezione prevista nell’art. 111, quinto comma, Cost.

3.1. - E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate, riproponendo argomentazioni analoghe a quelle prospettate nell’atto di intervento depositato in relazione all’ordinanza del Tribunale di Firenze n. 747 del registro ordinanze del 2003. In particolare, con riferimento alla asserita lesione della posizione della parte civile costituita, l’Avvocatura rileva che, anche prima della modifica dell’istituto, la presentazione di un’istanza di patteggiamento precludeva al giudice la decisione sulla domanda della parte civile.

4. - Analoghe questioni di legittimità costituzionale, concernenti l’art. 1, comma 1, e l’art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134 del 2003, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., sono state sollevate dal Tribunale di Roma con altre due ordinanze identiche in data 1° luglio 2003 (r.o. n. 866 e n. 867 del 2003).

Anche nei giudizi a quibus solo alcuni imputati hanno chiesto la sospensione del processo ai sensi dell’art. 5, comma 2, della legge n. 134 del 2003.

Nel merito, il rimettente, con particolare riferimento al nocumento recato alla parte civile dalla normativa censurata, sottolinea che la sentenza n. 443 del 1990, che ha ritenuto conforme a Costituzione l’esclusione della parte civile nel rito patteggiato, aveva preso in considerazione il sistema ‘ordinario’ di applicazione della pena e non già una normativa transitoria che, invece, consente l’applicazione della pena anche in corso di dibattimento, quando cioè la parte civile ha già compiutamente esercitato il suo diritto.

4.1. - E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, riportandosi integralmente all’atto di intervento già depositato in relazione all’ordinanza del Tribunale di Firenze iscritta al n. 747 del registro ordinanze del 2003.

5. - Con ordinanza in data 14 luglio 2003 (r.o. n. 865 del 2003) il Tribunale di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134 del 2003, in riferimento non solo agli artt. 3 e 111 Cost., ma anche all’art. 27 Cost.

Per quanto concerne gli artt. 3 e 111 Cost. il rimettente prospetta argomentazioni del tutto analoghe a quelle contenute nelle ordinanze iscritte al n. 866 e al n. 867 del r.o. del 2003, ma ritiene che la prevista riduzione ‘premiale’ fino a un terzo della pena, senza alcuna ‘contropartita’ o ‘rinuncia’ da parte dell’imputato – nei cui confronti potrebbe essere stato celebrato anche per intero il dibattimento – violi anche l’art. 27 Cost.

5.1. - E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, riportandosi integralmente all’atto di intervento già depositato in relazione all’ordinanza del Tribunale di Firenze n. 747 del registro ordinanze del 2003.

6. - Con due ordinanze di identico contenuto in data 1° agosto (r.o. n. 904 del 2003) e 19 settembre 2003 (r.o. n. 1016 del 2003) il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pescara ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1, 2 e 3, della legge n. 134 del 2003, nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere nei giudizi abbreviati in corso alla data di entrata in vigore della legge la sospensione del procedimento al fine di valutare l’opportunità di formulare richiesta di applicazione della pena concordata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., come modificato dalla stessa legge.

Il rimettente premette che in entrambi i procedimenti gli imputati, ammessi al rito abbreviato, avevano formulato, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge, richiesta di sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 5 della legge n. 134 del 2003.

Nel merito, richiamato il contenuto delle disposizioni censurate, il rimettente osserva come faccia in esse difetto qualsiasi richiamo ai giudizi abbreviati in corso al momento dell’entrata in vigore della legge e come il tenore letterale delle norme, là dove fanno riferimento ai «processi penali in corso di dibattimento» e non (genericamente) ai «giudizi in corso», sembri non consentire l’applicazione della disciplina transitoria nei confronti degli imputati che hanno «formulato richiesta di definizione del procedimento con il rito abbreviato», sebbene ciò contraddica le intenzioni deflative del legislatore.

Tale esclusione, non superabile neppure in via interpretativa, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., «in quanto crea una disparità di trattamento tra imputati che si trovino in dibattimento e quelli che abbiano già formulato istanza di rito abbreviato e per i quali sia comunque ancora in corso il giudizio», e violerebbe i principi del giusto processo.

6.1. - In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. Nel giudizio instaurato con l’ordinanza iscritta al n. 904 del 2003 l’Avvocatura si riporta all’atto di intervento depositato in relazione all’ordinanza del Tribunale di Firenze iscritta n. 747 del registro ordinanze del 2003; per quanto riguarda l’ordinanza iscritta al n. 1016 del registro ordinanze del 2003 l’Avvocatura con separato atto di intervento chiede che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

7. - Il Tribunale di Torre Annunziata, con ordinanza del 17 luglio 2003 (r.o. n. 784 del 2003), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134 del 2003, nella parte in cui non include i giudizi instaurati con citazione diretta tra i procedimenti in corso nei quali è possibile formulare richiesta di applicazione della pena concordata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., come modificato dalla stessa legge.

Il rimettente, investito del giudizio a seguito di citazione diretta ex art. 550 cod. proc. pen., premesso che l’imputato ha formulato richiesta di sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134 del 2003, rileva che la richiesta non può essere accolta in quanto l’art. 5, comma 1, prevede che la richiesta di applicazione della pena può essere formulata «anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali alla data di entrata in vigore della legge risulti decorso il termine previsto dall’articolo 446, comma 1, del codice di procedura penale». Ma tale termine si riferisce alla presentazione della richiesta di patteggiamento rispettivamente nel corso dell’udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato, e non anche al termine stabilito dall’art. 555, comma 2, cod. proc. pen. in relazione ai procedimenti a citazione diretta. L’applicazione della disciplina transitoria sarebbe perciò esclusa nei giudizi a citazione diretta in corso alla data di entrata in vigore della legge.

Ad avviso del rimettente tale preclusione non sarebbe superabile in via interpretativa,  stante il carattere eccezionale della disposizione censurata, che presenta i «connotati tipici della disposizione transitoria» ed è caratterizzata da contenuti di tale peculiarità rispetto sia alla precedente che alla nuova disciplina a regime da non poter essere estesa a situazioni diverse da quelle prese espressamente in considerazione.

Così interpretata, la norma si porrebbe però in contrasto in primo luogo con l’art. 3 Cost., «sia perché intrinsecamente contraddittoria, sia perché immotivatamente distonica rispetto a previsioni normative pregresse intervenute con analoga finalità deflativa, sia infine perché introduttiva di evidenti e non giustificate disparità di trattamento tra posizioni omogenee».

La scelta di restringere la facoltà di chiedere la sospensione del procedimento e l’applicazione della pena solo ad alcune categorie di procedimenti sarebbe priva di qualsiasi giustificazione, tanto più ove si consideri che le più ampie possibilità di accesso alle sanzioni sostitutive delle pene detentive previste dalla legge n. 134 del 2003 riguardano proprio i procedimenti a citazione diretta.

Il rimettente evidenzia inoltre che in precedenti occasioni (artt. 223 e 224 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, e art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, convertito, con modificazioni, nella legge 5 giugno 2000, n. 144) il legislatore, nell’introdurre una disciplina transitoria volta a regolare l’immediata applicabilità della nuova normativa, ha avuto riguardo non al ‘tipo’ di procedimento, bensì soltanto alla ‘fase’ del procedimento stesso.

L’attuale scelta operata dal legislatore non sarebbe peraltro assistita da alcuna giustificazione, ponendosi anzi in contrasto con «le finalità deflative che (parallelamente a quelle transitorie) mira a realizzare».

Infine, la norma censurata violerebbe anche l’art. 24 Cost. «dal momento che limita illegittimamente l’estensione del diritto di difesa», privando i soggetti tratti a giudizio con citazione diretta della possibilità di accedere al patteggiamento e di godere quindi di un trattamento sanzionatorio più mite, come consentito invece agli altri imputati.

7.1. - Con altra ordinanza del 15 luglio 2003 (r.o. n. 872 del 2003) il Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Gragnano, ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale in riferimento anche all’art. 111, secondo comma, Cost. Al riguardo il rimettente, richiamate le sentenze con le quali la Corte costituzionale ha affermato che, rispetto al dibattimento, la definizione del processo con riti alternativi consente comunque, in coerenza con il disposto dell’art. 111 Cost., un sensibile risparmio di tempo e risorse, ritiene che da tale affermazione possa ricavarsi il principio secondo cui «va valorizzato qualsiasi (legittimo) meccanismo di riduzione della durata dei processi».

La disposizione transitoria in esame, nella parte in cui non comprende anche i giudizi instaurati ai sensi dell’art. 550 cod. proc. pen., si porrebbe quindi in contrasto con il principio della durata ragionevole del processo perché, non rendendo possibile il ricorso al patteggiamento nelle situazioni indicate, ostacola la rapida definizione dei processi.

7.2. – In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, riportandosi all’atto di intervento depositato nel giudizio instaurato con l’ordinanza del Tribunale di Firenze iscritta n. 747 del registro ordinanze del 2003.

Considerato in diritto

1. - Le varie questioni sollevate dai rimettenti in relazione agli artt. 1 e 5 della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti), si riferiscono:

- alcune, alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, della legge citata all’art. 444 del codice di procedura penale, con particolare riferimento all’aumento da due a cinque anni del tetto di pena entro il quale opera l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti;

- altre, alla disciplina transitoria contenuta nei commi 1 e 2 dell’art. 5 della legge citata, anche in riferimento all’art. 1 della medesima legge, e in particolare alle previsioni che riconoscono alle parti la facoltà di presentare richiesta di applicazione della pena anche quando alla data di entrata in vigore della legge risultino decorsi i termini ordinari, e consentono all’imputato di chiedere la sospensione del dibattimento per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l’opportunità di chiedere il patteggiamento;

- le ultime, infine, alla disciplina transitoria contenuta nei commi 1, 2 e 3 dell’art. 5 della legge citata, nella parte in cui la disciplina stessa non si applica nel giudizio abbreviato e nel procedimento a citazione diretta.

Poiché tutte le questioni riguardano le modifiche apportate all’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti dalla legge n. 134 del 2003 e in particolare le disposizioni transitorie che regolano l’applicazione delle nuove norme ai processi in corso, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi, per la loro definizione con un’unica pronuncia.

2. - La disciplina contenuta nell’art. 1 della legge n. 134 del 2003 è censurata dal Tribunale di Roma (r.o. n. 865, n. 866, n. 867, n. 1060 e n. 1061 del 2003) in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, nella parte in cui, consentendo alle parti di chiedere al giudice l’applicazione di una pena detentiva che, tenuto conto delle circostanze e della diminuzione fino a un terzo, non supera cinque anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, e così sottraendo all’ordinario giudizio di cognizione una serie di reati di notevole gravità e «riducendo il sistema penale e processuale a un luogo di negoziazione che svilisce la funzione giurisdizionale», determina, del tutto irragionevolmente, un evidente contrasto con il principio della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti, trasformando in principio generale l’eccezione prevista dall’art. 111, quinto comma, Cost.

2.1. - La questione non è fondata.

2.2. - L’innalzamento da due a cinque anni della pena detentiva che può essere oggetto di patteggiamento a norma dell’art. 444 cod. proc. pen. costituisce certamente un notevole potenziamento di questa forma di ‘giustizia negoziata’. Per le pene detentive superiori a due anni,  il legislatore ha peraltro previsto una serie di limitazioni di carattere sia oggettivo che soggettivo, volte a restringere la sfera di operatività dell’istituto, ed ha escluso alcuni degli effetti premiali che continuano invece a connotare l’applicazione della pena non superiore a due anni.

Il comma 1-bis del nuovo testo dell’art. 444 cod. proc. pen., inserito dall’art. 1 della legge n. 134 del 2003, stabilisce infatti che, qualora la pena detentiva superi i due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, sono esclusi dal patteggiamento i procedimenti per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. - cioè per i delitti espressione di gravi forme di criminalità organizzata ovvero commessi con finalità di terrorismo - e i procedimenti nei confronti dei soggetti dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell’art. 99, quarto comma, del codice penale.

Quanto agli effetti premiali, a seguito delle modifiche introdotte nell’art. 445, commi 1 e 2, cod. proc. pen. dall’art. 2 della legge n. 134 del 2003, l’esenzione dal pagamento delle spese processuali, il divieto di applicare pene accessorie e misure di sicurezza (ad eccezione della confisca nei casi di cui all’art. 240 cod. pen.) e l’estinzione del reato nei termini rispettivamente previsti per i delitti e per le contravvenzioni operano solo nei casi in cui la pena detentiva non superi i due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria.

Rimangono inoltre fermi i meccanismi di ‘filtro’ e di controllo rispettivamente affidati al pubblico ministero, che continua ad essere chiamato ad esprimere il consenso in caso di richiesta presentata dall’imputato, e al giudice, deputato a verificare, a norma dell’art. 444, comma 2, cod. proc. pen., non solo la correttezza della qualificazione giuridica del fatto e dell’applicazione e della comparazione delle circostanze, ma anche la congruità della pena indicata dalle parti.

Proprio le cautele adottate dal legislatore nel prevedere le ipotesi di esclusione oggettiva e soggettiva in relazione alla gravità dei reati ed ai casi di pericolosità qualificata e la non operatività di importanti effetti premiali consentono di ritenere, alla luce della disciplina complessiva risultante dalle modifiche recate dalla legge n. 134 del 2003, che la scelta di ampliare l’ambito di operatività del patteggiamento, certamente rientrante nella sfera della discrezionalità del legislatore, non è stata esercitata in maniera manifestamente irragionevole.

Sotto questo profilo, risultano prive di fondamento anche le censure sollevate in riferimento all’art. 111 Cost., ma sostanzialmente incentrate sul rilievo che la deroga al principio del contraddittorio introdotta dalla nuova disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti esorbiti dai limiti della ragionevolezza; limiti che invece questa Corte, per quanto sopra esposto, ritiene siano stati rispettati.

3. - La disciplina transitoria, prevista dall’art. 5, commi 1, 2 e 3 (quest’ultimo richiamato solo nelle ordinanze n. 1060 e n. 1061 del 2003, peraltro senza alcuna motivazione), della legge n. 134 del 2003, è censurata in tutte le ordinanze dei Tribunali di Firenze, di Roma e di Torino (ad eccezione dell’ordinanza iscritta al n. 922 del registro ordinanze del 2003), nella parte in cui consente all’imputato o al suo difensore, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge, di formulare richiesta di applicazione della pena anche nei processi nei quali è già in corso il dibattimento; nonché nella parte in cui impone al giudice, su richiesta dell’imputato, di sospendere il dibattimento per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per consentire a quest’ultimo di valutare l’opportunità di formulare la richiesta di applicazione della pena, così assegnando all’imputato uno spatium deliberandi che decorre dalla prima udienza successiva all’entrata in vigore della legge anziché dalla data di entrata in vigore della legge stessa.

Ad avviso dei rimettenti le disposizioni censurate violerebbero:

- l’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza di una scelta legislativa che prevede la possibilità di presentare la richiesta di patteggiamento anche nei dibattimenti già in corso e quindi anche ove sia già stata compiuta una intensa attività istruttoria, così frustrando le finalità deflative dell’istituto e concedendo un trattamento di favore all’imputato senza alcun risparmio di risorse per lo Stato;

- l’art. 27 Cost., in quanto il ‘premio’ della riduzione della pena sino ad un terzo quando il dibattimento è stato celebrato pressoché per intero sarebbe ‘concesso’ all’imputato senza alcuna contropartita;

- gli artt. 111 e 3 Cost., per l’irragionevole ampiezza del termine non inferiore a quarantacinque giorni concesso all’imputato, per di più riferito alla prima udienza utile successiva alla data di pubblicazione della legge, cioè ad una sede, come quella dibattimentale, garantita dalla partecipazione necessaria del difensore.

Irragionevolezza, quest’ultima, tanto più evidente nei processi con pluralità di imputati in quanto, qualora la richiesta di sospensione sia presentata solo da alcuni, ove alla sospensione non faccia seguito un’effettiva richiesta di applicazione della pena, la separazione delle posizioni processuali degli altri imputati potrebbe rivelarsi del tutto inutile; ove invece la richiesta di patteggiamento venga effettivamente presentata da coloro che avevano chiesto la sospensione, il suo accoglimento renderebbe il giudice incompatibile a giudicare gli altri imputati, mentre il rigetto lo renderebbe incompatibile a giudicare gli imputati che hanno presentato la richiesta. Sicché il processo dovrebbe comunque e in ogni caso ricominciare ex novo per alcuni.

Infine, sempre con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, i rimettenti lamentano che la richiesta di applicazione della pena, ove intervenga nel corso del dibattimento, precluderebbe alla parte civile che «ha già esercitato il proprio diritto di azione» di ottenere una sollecita decisione.

Nell’ordinanza del Tribunale di Torino iscritta al n. 922 del registro ordinanze del 2003, la disciplina transitoria sopra descritta è censurata - in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost. e sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte nelle altre ordinanze dei Tribunali di Firenze e di Roma - in quanto consente di formulare la richiesta di applicazione della pena anche per reati che già prima della riforma sarebbero stati ‘patteggiabili’ e per i quali l’imputato non aveva presentato alcuna richiesta. In particolare, ad avviso del rimettente la legge n. 134 del 2003 non ha introdotto un nuovo istituto, ma ha semplicemente ampliato l’ambito di operatività del patteggiamento originario, lasciando inalterati, in relazione alle pene detentive non superiori a due anni, sia l’accesso indiscriminato al rito, senza limitazioni legate al tipo di reato o alla qualificazione soggettiva del suo autore, sia l’applicazione dei benefici premiali, rendendo così del tutto priva di ragionevolezza la indiscriminata remissione in termini e la sospensione del dibattimento per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni anche per chi in precedenza non aveva presentato alcuna richiesta di applicazione della pena.

3.1. - Le questioni non sono fondate.

3.2. - Premesso che, alla stregua del costante orientamento di questa Corte, il legislatore gode di ampia discrezionalità nel regolare nei processi in corso gli effetti temporali di nuovi istituti ovvero delle modificazioni introdotte in istituti già esistenti, e che le relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli, si sottraggono a censure di illegittimità costituzionale (v., da ultimo, sentenza n. 381 del 2001, nonché, con specifico riferimento al regime transitorio introdotto a seguito di modifiche concernenti i riti alternativi, ordinanze n. 222 del 2002, n. 432 e n. 220 del 2001), la possibilità di presentare richiesta di patteggiamento anche quando alla data di entrata in vigore della nuova disciplina risulti decorso il relativo termine non si pone in contraddizione né con le finalità deflative che ispirano questo rito alternativo, né con il principio della ragionevole durata del processo.

Anche nei casi in cui l’istruzione dibattimentale sia già in fase avanzata, il ricorso all’istituto del patteggiamento è infatti in grado di assicurare una notevole accelerazione rispetto alle cadenze del procedimento ordinario (per analoghe considerazioni svolte in riferimento alla nuova disciplina del giudizio abbreviato v. sentenza n. 115 del 2001), sia perché l’accordo tra le parti ne provoca l’immediata conclusione, sia per i consistenti limiti all’appellabilità della sentenza (v. sentenza n. 288 del 1997) stabiliti dall’art. 448, comma 2, cod. proc. pen.

Sotto questo profilo, a prescindere da qualsiasi considerazione sulla pertinenza del parametro evocato, è perciò priva di fondamento anche la censura sollevata in riferimento all’art. 27 Cost., posto che il vantaggio dell’imputato conseguente alla riduzione della pena è controbilanciato quantomeno dalla rinuncia all’appello.

Secondo i rimettenti il principio della ragionevole durata del processo sarebbe altresì violato dalla previsione che impone la sospensione del dibattimento per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni, allorché l’imputato ne faccia richiesta per valutare l’opportunità di chiedere il patteggiamento.

In effetti il termine, anche perché decorrente dalla prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge e collocato in una sede ove è comunque assicurata la partecipazione necessaria del difensore, è assai generoso. Peraltro, ove si tenga presente che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato costituisce una modalità di esercizio del diritto di difesa (v. ad esempio sentenza n. 101 del 1993 e ordinanza n. 560 del 2000) e che il principio della ragionevole durata del processo deve essere contemperato con la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti, a cominciare dal diritto di difesa (v., tra le tante, ordinanze n. 32, n. 204 e n. 399 del 2001, n. 458 e n. 519 del 2002, n. 251 del 2003), si deve escludere che lo spatium deliberandi accordato all’imputato dalla disciplina censurata sia di per sé, nonostante la sua inusitata ampiezza, frutto di una scelta affatto ingiustificata, tale da incidere significativamente sulla ragionevole durata del processo.

Sempre in relazione all’art. 111 Cost., prive di fondamento appaiono anche le specifiche censure relative alla irragionevole dilatazione dei tempi processuali nel caso in cui la richiesta di sospensione del processo prima, o quella di applicazione della pena poi, venga presentata solo da alcuni imputati.

Anche a prescindere dal loro carattere largamente ipotetico, le considerazioni dei rimettenti in ordine alle situazioni di incompatibilità che ne scaturirebbero non sono infatti coerenti con la giurisprudenza di questa Corte, che ha reiteratamente escluso che sia incompatibile rispetto alla funzione di giudizio il giudice che ha pronunciato sentenza di patteggiamento nei confronti dei coimputati (v. da ultimo ordinanze n. 218 del 2003 e n. 490 del 2002) o che possa dar luogo ad incompatibilità l’attività funzionale che si colloca all’interno della stessa fase di giudizio (v. da ultimo ordinanza n. 123 del 2004).

La ragionevole durata del processo è evocata anche con riferimento alla posizione della parte civile. Al riguardo, questa Corte ha già avuto occasione di affermare (sentenza n. 443 del 1990, nonché ordinanza n. 185 del 1994) che l’esclusione della parte civile dal rito alternativo del patteggiamento non incide sul diritto di difesa e sul diritto di agire in giudizio, in quanto non pregiudica l’esercizio dell’azione in sede civile e favorisce le esigenze di speditezza del processo penale.

Per quanto concerne, poi, la questione relativa alla applicabilità della disciplina transitoria anche ai reati già ‘patteggiabili’ prima della riforma, per i quali, secondo il Tribunale di Torino rimettente, l’imputato avrebbe potuto presentare richiesta nei termini stabiliti dall’art. 446, comma 1, e 555, comma 2, cod. proc. pen., si deve rilevare che la scelta legislativa appare giustificata, oltre che da evidenti finalità deflative, dalle modifiche contestualmente apportate dalla legge n. 134 del 2003 alla disciplina della sostituzione delle pene detentive brevi.

L’art. 4 di tale legge ha infatti raddoppiato i limiti massimi delle pene detentive sostituibili rispettivamente con la semidetenzione (due anni), con la libertà controllata (un anno) e con la pena pecuniaria (sei mesi), modificando altresì il regime delle condizioni soggettive di esclusione della sostituzione ed abolendo le esclusioni oggettive. Poiché, a norma dell’art. 5, comma 3, della medesima legge, tali disposizioni (della cui natura di norme sostanziali di favore non potrebbe comunque dubitarsi) si applicano ai procedimenti in corso, è evidente come anche in relazione alle pene patteggiabili non superiori a due anni di detenzione la riforma apra nuove prospettive all’imputato, che può ora avere interesse e convenienza a concordare l’applicazione di una pena sostitutiva in luogo di una pena che, alla stregua della precedente disciplina, sarebbe stata detentiva. Anche in queste situazioni, la discrezionalità del legislatore nel disciplinare gli effetti temporali della nuova disciplina non risulta perciò esercitata in maniera irragionevole e, comunque, non si pone in contraddizione con le finalità deflative dell’istituto.

4. - La disciplina transitoria prevista dall’art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134 del 2003 è censurata anche dal Tribunale di Torre Annunziata (r.o. n. 784 del 2003), dal Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Gragnano (r.o. n. 872 del 2003) e dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pescara (r.o. n. 904 e n. 1016 del 2003), sotto profili in un certo senso opposti rispetto alle questioni sino ad ora esaminate, posto che i rimettenti vorrebbero estenderne la sfera di operatività, lamentando che non sia applicabile, rispettivamente, ai procedimenti a citazione diretta ed al giudizio abbreviato.

In entrambe le ordinanze indicate il Tribunale di Torre Annunziata, rilevato che l’art. 5, comma 1, della legge citata richiama esclusivamente i termini previsti dall’art. 446, comma 1, cod. proc. pen. per proporre la richiesta di patteggiamento nell’udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato, senza menzionare il termine fissato dall’art. 555 cod. proc. pen. per i procedimenti a citazione diretta, ritiene che per tali procedimenti la disciplina transitoria non sia applicabile e solleva questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.

La non applicabilità della disciplina transitoria sarebbe non solo priva di giustificazione, ma in contrasto con la generalizzata rimessione in termini prevista dalla disposizione censurata; in particolare, avendo la legge n. 134 del 2003 ampliato anche per i procedimenti in corso la possibilità di accesso alle sanzioni sostitutive,  sarebbe del tutto irragionevole escludere l’applicazione della disciplina transitoria proprio per i procedimenti a citazione diretta, nei quali, tenuto conto delle pene edittali, le sanzioni sostitutive troverebbero una applicazione particolarmente estesa. Sarebbe inoltre irragionevole la disparità di trattamento tra imputati tratti a giudizio a seguito di udienza preliminare o giudizio immediato e mediante citazione diretta.

In riferimento all’art. 24 Cost., il diritto di difesa risulterebbe violato in quanto nei procedimenti a citazione diretta gli imputati sarebbero privati della possibilità di accedere in via transitoria al patteggiamento e di usufruire della conseguente riduzione della pena; in riferimento all’art. 111 Cost. (evocato solo nell’ordinanza iscritta al n. 872 del registro ordinanze del 2003), il principio della ragionevole durata del processo risulterebbe violato in quanto l’impossibilità di accedere al rito alternativo preclude un sensibile risparmio di tempo e di risorse.

Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pescara rileva che l’inciso «anche nei processi penali in corso di dibattimento», contenuto nell’art. 5, comma 1, della legge n. 134 del 2003, esclude che la disciplina transitoria possa trovare applicazione nei giudizi abbreviati, che vengono celebrati nell’udienza preliminare, e ritiene che, malgrado l’intenzione del legislatore di perseguire mediante la disciplina transitoria scopi deflativi, non sia possibile superare il tenore letterale della norma. La disciplina censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., in quanto determina una ingiustificata disparità di trattamento tra imputati nei cui confronti è in corso il dibattimento e imputati che abbiano già formulato richiesta di giudizio abbreviato, estromessi dalla possibilità di accedere in via transitoria alla nuova disciplina del patteggiamento, e viola i principi del giusto processo.

4.1. - Le questioni sono inammissibili.

4.2. - Sia pure sulla base di argomentazioni diverse, i rimettenti ritengono che la formulazione letterale dell’art. 5, comma 1, della legge n. 134 del 2003 precluda di applicare la disciplina transitoria rispettivamente nel procedimento a citazione diretta e nel giudizio abbreviato. 

I rimettenti riconoscono che tali conclusioni si pongono in contrasto con le finalità deflative che il legislatore intende perseguire con la disciplina transitoria, ma omettono di verificare se la formulazione dell’art. 5, comma 1, della legge n. 134 del 2003 consenta di adottare una diversa interpretazione, tale da superare i profili di irragionevolezza e di illogicità connessi alle interpretazioni letterali acriticamente assunte a presupposto delle questioni.

Il nucleo centrale della disciplina transitoria sta nel riconoscere all’imputato e al pubblico ministero, «nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della presente legge», la facoltà di «formulare la richiesta di cui all’art. 444 del codice di procedura penale, come modificato dalla presente legge, […] e ciò anche quando sia già stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice».

Tenendo conto della formulazione complessiva della disposizione, l’inciso che figura nella parte centrale del comma 1: «anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall’articolo 446, comma 1, del codice di procedura penale», parrebbe dunque non avere una portata limitativa ai processi nei quali sia in corso il dibattimento, bensì una funzione meramente esemplificativa, sottolineata dall’uso della congiunzione «anche», volta a chiarire che la generalissima portata della prima parte della disposizione censurata comporta che la nuova disciplina del patteggiamento si applica anche nei procedimenti nei quali è già in corso il dibattimento: proprio in quelle situazioni, cioè, in cui l’immediata operatività dell’istituto avrebbe potuto essere messa in discussione dall’essersi già verificato quel dispendio di tempo e di risorse processuali che il patteggiamento mira appunto ad evitare mediante l’eliminazione della fase dibattimentale.

Ove venga assunta questa ipotesi di lettura, non vi sarebbero ostacoli a ritenere che la disciplina transitoria di cui all’art. 5, comma 1, cod. proc. pen. sia applicabile ad ogni forma di giudizio, ivi compreso il rito abbreviato, e non solo ai giudizi nei quali venga celebrato il dibattimento.

D’altro canto, la funzione meramente chiarificatrice dell’inciso inserito nella parte centrale del comma 1 consentirebbe di ritenere che la disciplina transitoria opera «anche» nei procedimenti a citazione diretta, essendo evidente che il richiamo al decorso dei termini di cui all’art. 446, comma 1, cod. proc. pen., riferiti al dibattimento instaurato a seguito di udienza preliminare, di giudizio direttissimo o di giudizio immediato, non può di per sé comportare alcuna preclusione nei confronti del dibattimento instaurato a seguito di citazione diretta.

I rimettenti, avendo omesso di verificare la possibilità di seguire una interpretazione diversa da quella da essi acriticamente accolta sono venuti meno all’onere del giudice di esplorare eventuali interpretazioni conformi a Costituzione prima di sollevare questione di legittimità costituzionale. Tale omissione si traduce, alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte (v., da ultimo, ordinanze n. 279, n. 208 e n. 19 del 2003; n. 233 e n. 116 del 2002), in un difetto di motivazione, che comporta l’inammissibilità delle relative questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Roma, con le ordinanze in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1, 2 e 3, della predetta legge 12 giugno 2003, n. 134, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di di Roma, con le ordinanze in epigrafe;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1 e 2, in relazione all’art. 1, della predetta legge 12 giugno 2003, n. 134, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dai Tribunali di Firenze e di Torino, con le ordinanze in epigrafe;

4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1, 2 e 3, della predetta legge 12 giugno 2003, n. 134, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Torre Annunziata, dal Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Gragnano, e dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pescara, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 9 luglio 2004.