Sentenza n. 101 del 1993

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SENTENZA N. 101

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 487, quinto comma, e 446, primo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 27 maggio 1992 dal Tribunale di Bolzano nel procedimento penale a carico di Mair Gregor, iscritta al n. 473 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Ritenuto in fatto

 

l. Il Tribunale di Bolzano, con ordinanza del 27 maggio 1992, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, degli artt. 487, quinto comma, e 446, primo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non consentono all'imputato dichiarato contumace, che abbia successivamente, prima della decisione, fornito la prova del suo legittimo impedimento, di chiedere il patteggiamento".

 

Il remittente osserva che l'art. 487, quinto comma, del codice di procedura penale, nell'ultima parte, prevede che se l'imputato dimostra che la prova del legittimo impedimento è pervenuta con ritardo senza sua colpa, è disposta la rinnovazione degli atti rilevanti ai fini della decisione; non prevede però che l'imputato sia riammesso nei termini e nelle condizioni di poter esercitare in pieno i suoi diritti di difesa.

 

L'art. 446, primo comma, del codice di procedura penale, a sua volta, pone come limite per la richiesta del patteggiamento le formalità di apertura del dibattimento e non tiene conto dell'eventualità che a queste formalità di apertura del dibattimento non sia presente l'imputato che, legittimamente impedito, non abbia potuto, non per sua colpa, fornire tempestiva prova di tale impedimento.

 

Le norme, ad avviso del remittente, contrastano con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.

 

Vi è infatti disparità di trattamento tra l'imputato legittimamente impedito che abbia potuto fornire la prova del suo impedimento e l'imputato che nelle stesse condizioni di legittimo impedimento non abbia potuto, non per sua colpa, fornire la stessa prova. La discriminazione consiste nel fatto che nel primo caso non sono compiute le formalità di apertura del dibattimento e l'imputato è nei termini e nelle condizioni di richiedere il patteggiamento; tale possibilità è invece preclusa nel secondo caso.

 

É indubbio, infine, che la richiesta di patteggiamento costituisce una forma di difesa, come dimostrano i vantaggi che il codice fa discendere dalla scelta di questo procedimento speciale.

 

2. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.

 

Osserva l'Avvocatura dello Stato che nel sistema tracciato dal nuovo codice di procedura penale la contumacia rappresenta una situazione del tutto residuale: a norma del primo comma dell'art. 487 persino la mera probabilità di una mancata conoscenza o di un impedimento a presenziare è sufficiente ad impedirne la dichiarazione.

 

Una volta però che non ricorrano le condizioni previste dal primo comma dell'art. 487, e debba quindi legittimamente presumersi che l'imputato, esercitando la facoltà riconosciutagli dalla legge, abbia scelto di non presentarsi, non si può correre il rischio che l'attività processuale compiuta possa essere in ogni momento vanificata dalla prova tardiva dell'impossibilità a comparire. Ed è proprio ciò - questa esigenza, cioè, di garantire il normale svolgimento del processo - che giustifica la "diversità di trattamento" fra l'imputato che fornisce la prova dell'impossibilità a comparire prima della pronuncia dell'ordinanza dichiarativa della contumacia e l'imputato che fornisce la stessa prova in un momento successivo.

 

Considerato in diritto

 

l. Il Tribunale di Bolzano ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 487, quinto comma, e 446, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consentono che l'imputato contumace, il quale, prima della decisione - essendo pervenuta la prova che l'assenza alla prima udienza fu dovuta alle cause indicate nell'art. 487, quarto comma - dimostri che la prova medesima è pervenuta con ritardo senza sua colpa, sia restituito nel termine per poter formulare la richiesta di applicazione di una pena di cui all'art. 444 del codice, termine fissato "alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado".

 

Tale mancata previsione violerebbe, ad avviso del remittente, da un lato, il diritto di difesa dell'imputato, in quanto la richiesta di patteggiamento costituisce una forma di difesa, e, dall'altro, il principio di eguaglianza, per irrazionale disparità di trattamento tra l'imputato che abbia potuto tempestivamente fornire la prova del suo legittimo impedimento a comparire e l'imputato che tale prova abbia fornito con ritardo ma incolpevolmente, in quanto solo nel primo caso è previsto il rinvio del dibattimento (e, quindi, in particolare, della dichiarazione di apertura del medesimo), con conseguente perdurante facoltà di formulare la richiesta in esame.

 

2. La questione non è fondata nei sensi di cui in motivazione.

 

Va premesso che questa Corte ha già avuto modo di affermare che la richiesta di applicazione di una pena da parte dell'imputato esprime una modalità di esercizio del diritto di difesa, in quanto "costituisce efficiente strumento di tale diritto la possibilità offerta all'imputato di avvalersi, con libera scelta, dell'istituto in esame e di acquisire così una pena minima sottraendosi al rischio di più gravi sanzioni" (sent. n.313 del 1990, ord. n. 116 del 1992).

 

D'altro canto, è stato più volte ritenuto, con riferimento sia al rito speciale ora in esame, sia al giudizio abbreviato, che l'interesse dell'imputato ad accedere a detti riti trova tutela solo in quanto la sua condotta consenta l'effettiva adozione di una sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento (con l'assunzione del relativo rischio da parte dell'imputato stesso) e contraendo le possibilità di appello, permetta di raggiungere quell'obiettivo di rapida definizione dei processi che il legislatore ha inteso persegui re; per cui, una volta che tale scopo non può più essere pienamente raggiunto, in quanto il dibattimento è già iniziato, non troverebbe più razionale giustificazione consentire ugualmente l'accesso ai riti medesimi e la concessione dei connessi benefici (cfr. sentt. nn. 277 e 593 del 1990, 316 del 1992; ordd. nn. 320, 355 e 420 del 1990, 5 e 213 del 1992). Sulla base di tali premesse sono state ritenute legittime - sia in riferimento all'art. 3 che all'art. 24 della Costituzione - le norme transitorie che limitano l'ammissibilità dei riti speciali in discussione ai soli procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del nuovo codice per i quali non siano state ancora compiute le formalità di apertura del dibattimento, nonchè quelle che non consentono l'accesso a tali riti in caso di nuove contestazioni ai sensi degli artt. 516 e 517 del codice di procedura penale.

 

Ma le anzidette considerazioni non possono ritenersi valide in ordine alla questione ora sotto posta all'esame della Corte, nella quale - rispetto alle precedenti - non vengono in rilievo nè la discrezionalità di cui in generale il legislatore gode nel dettare disposizioni di carattere transitorio, nè alcun profilo di inerzia dell'imputato e quindi di "addebitabilità" al medesimo delle conseguenze della mancata instaurazione del rito differenziato.

 

Invero, almeno nei casi in cui risulti che la inosservanza del termine per formulare - anche ovviamente a mezzo di procuratore speciale - la richiesta di applicazione di una pena sia stata determinata da un evento non evitabile dall'interessato, sarebbe molto difficile negare che la impossibilità di ottenere i relativi benefici concreti una ingiustificata compressione del diritto di difesa.

 

3. Tuttavia, va a questo punto rilevato che l'ordinamento appresta in tali ipotesi un adeguato strumento di tutela, costituito dall'istituto della "restituzione nel termine" di cui all'art. 175 del codice di procedura penale, il quale, in linea generale, stabilisce (al primo comma) che "il pubblico ministero, le parti private e i difensori sono restituiti nel termine stabilito a pena di decadenza, se provano di non averlo potuto osservare per caso fortuito o per forza maggiore".

 

Premesso che l'istituto nel suo complesso ha subito un ampliamento rispetto alla previgente disciplina di cui all'art. 183 bis del codice abrogato, non sembra che alla sua applicabilità al termine per la richiesta di "patteggiamento" si frappongano ostacoli interpretativi. Tale non può essere considerato, in particolare, il principio di tassatività dei termini perentori che il legislatore ha ritenuto di introdurre nel nuovo codice (art. 173, primo comma), ispirandosi - come è detto nella Relazione al progetto preliminare - alla analoga disposizione del codice di procedura civile (art. 152, secondo comma). Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione formatasi in ordine a quest'ultima norma, infatti, detto principio non impedisce di ritenere che un termine, per lo scopo che persegue e per la funzione che è destinato ad assolvere, debba, pur in assenza di un'espressa previsione in tal senso, essere rigorosamente osservato e quindi considerato di carattere perentorio: e nessuno dubita (ivi compreso ovviamente il giudice a quo) che quello in esame abbia tale natura, essendo coessenziale alla funzione di deflazione e di rapida definizione del processo tipica dell'istituto cui si riferisce.

 

D'altro canto, va osservato che l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, considerata anche la sua fondamentale natura di "patteggiamento sulla pena o sul merito" più che di "patteggiamento sul rito", non appare di per sè assolutamente incompatibile con la fase dibattimentale in cui eccezionalmente verrebbe ad inserirsi, conservando anche, in tal caso, sia pur parzialmente, la propria efficacia deflattiva.

 

Esso, tuttavia, deve subire un inevitabile adattamento, ricavabile dal sistema. Invero, tale evenienza certamente non può comportare alcuna sorta di annullamento dell'attività legittimamente compiuta: ciò in ossequio ad un generale principio di economia processuale che si rinviene in varie disposizioni del codice, come, ad esempio, nell'art.176, in tema proprio di effetti della restituzione nel termine, e nell'art.487, in materia di contumacia, i quali appunto prevedono soltanto la possibilità di "rinnovazione" di alcuni atti, il che certamente non implica invalidamento di quelli già compiuti.

 

Deve, pertanto, ritenersi, da un lato che nulla impedisce che il rito speciale in esame, nel la ipotesi di restituzione nel termine ai sensi dell'art. 175 del codice di procedura penale, trovi collocazione nel corso del dibattimento e, dall'altro, che in tal caso esso non possa non operare alla luce della istruzione dibattimentale svoltasi sino a quel momento, con la conseguenza che sia il consenso delle parti, sia il controllo del giudice (sulla qualificazione giuridica del fatto, sull'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, sulla congruità della pena) dovranno avvenire sulla base del complesso degli atti fino allora compiuti.

 

4. In conclusione, accertato che l'ordinamento processuale vigente offre, a determinate rigorose condizioni, un adeguato rimedio a situazioni nelle quali altrimenti il diritto di difesa subirebbe un ingiustificato sacrificio, la questione sollevata dal giudice a quo deve dichiararsi non fondata.

 

Spetta, ovviamente, al giudice medesimo accertare se nella fattispecie sottoposta al suo giudizio ricorrano gli estremi per l'applicabilità del richiamato istituto di cui all'art.175 del codice di procedura penale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 487, quinto comma, e 446, primo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt.3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Bolzano con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/03/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Mauro FERRI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 19/03/93.