Sentenza n. 54 del 1964
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SENTENZA N. 54

ANNO 1964

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 45 e 68 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, promosso con ordinanza emessa il 15 giugno 1963 dal Pretore di Avola nel procedimento penale a carico di Forte Sebastiano, iscritta al n. 186 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 281 del 26 ottobre 1963.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 13 maggio 1964 la relazione del Giudice Aldo Sandulli;

udito il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Con ordinanza pronunciata nell'udienza del 15 giugno 1963 nel procedimento penale a carico di Forte Sebastiano, imputato, tra l'altro, del reato di cui agli artt. 45 e 68 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, per avere eseguito opere preordinate alla ricerca di cose d'interesse archeologico senza la prescritta concessione, il Pretore di Avola, su istanza del difensore dell'imputato, ha rimesso a questa Corte la questione di legittimità costituzionale degli anzidetti articoli per quanto riguarda la loro compatibilità col precetto dell'art. 27 della Costituzione, secondo cui "la responsabilità penale é personale", e col principio della riserva di legge risultante dall'art. 41 della Costituzione in ordine all'incidenza della pubblica Amministrazione nel campo dell'iniziativa economica privata.

Il fondamento della incompatibilità con l'art. 27 della Costituzione viene individuato nel fatto che il reato risultante dalle impugnate disposizioni sussisterebbe o meno "a seconda che l'oggetto rinvenuto sia o non sia di pregio artistico, o di interesse paleontologico, preistorico, ecc.": in tal modo la responsabilità penale sarebbe fatta "dipendere da non bene precisate caratteristiche" della cosa ritrovata, il cui "interesse archeologico" sarebbe collegato a un altrui "soggettivo e non precisato giudizio".

Il fondamento della incompatibilità con la regola della riserva di legge risultante dall'art. 41 della Costituzione viene individuato nel fatto che l'art. 45 impugnato, da un lato non fissando i criteri e i requisiti in base ai quali possono essere effettuate le concessioni di ricerca archeologica, e dall'altro lasciando al Ministro la possibilità di imporre in ordine alla ricerca prescrizioni delle quali non viene in alcun modo specificato il contenuto, abbandonerebbe alla discrezionalità ministeriale illimitati poteri. Con riferimento al secondo di tali profili, osserva, tra l'altro, l'ordinanza che "una discrezionalità così lata può astrattamente rendere possibile un trattamento diverso in situazioni identiche, venendo a violare il principio della libertà della iniziativa economica privata".

L'ordinanza, emessa presente l'imputato, é stata notificata il 1 agosto 1963 al Presidente del Consiglio dei Ministri e inviata in data 29 luglio 1963 ai Presidenti dei due rami del Parlamento, ed é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26 ottobre 1963.

Innanzi a questa Corte si é costituito soltanto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dal vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, con atto d'intervento depositato il 22 agosto 1963.

In esso si osserva che le cose d'interesse artistico, storico, ecc., ritrovate nel sottosuolo sono, per legge, di proprietà dello Stato. Ciò spiega se per la ricerca di esse sia necessario un atto di concessione. Perciò l'art. 68 della legge impugnata, nel punire l'attività specificamente ordinata alla ricerca di tali cose senza averne ottenuto concessione - configurando tale attività come reato di pericolo, in nessun modo collegato col fatto dell'impossessamento delle cose ritrovate (che viene invece previsto e punito dall'art. 67) - é volto alla repressione penale di una "intenzionale iniziativa" contra legem e non di un fatto "non personale" del reo. In conseguenza le disposizioni impugnate sono fuori del campo di operatività del precetto dell'art. 27 della Costituzione.

L'appartenenza allo Stato delle cose di cui trattasi e la loro natura di beni indisponibili - aggiunge l'Avvocatura - rendono poi "inescogitabile", rispetto ad esse, una libertà di iniziativa economica, e inappropriato il richiamo all'art. 41 della Costituzione. D'altronde gli artt. 100-102 e 103 e seguenti del regolamento 30 gennaio 1913, n. 363, contengono una disciplina sufficientemente dettagliata del rilascio delle concessioni di ricerca.

Queste argomentazioni sono state ribadite in una memoria depositata il 30 aprile 1964, nella quale si sottolinea che né l'esistenza della cosa ricercata, né il riconoscimento in essa di una certa qualità da parte dell'Amministrazione rientrano nell'elemento oggettivo del reato de quo, il quale risiede invece unicamente nella violazione da parte del reo della "riserva" allo Stato e ai concessionari di una attività "squisitamente amministrativa", quale é quella della ricerca archeologica, inerente a beni di proprietà pubblica e perciò facente capo a un "servizio pubblico".

All'udienza di trattazione della causa l'avvocato dello Stato ha insistito nelle tesi e nelle conclusioni riferite.

 

Considerato in diritto

 

1. - La vigente legislazione riserva allo Stato (in Sicilia alla Regione: art. 33 dello Statuto siciliano) la proprietà delle cose d'interesse archeologico non venute ancora alla luce (artt. 44, 46, 47 e 49 della legge 1 giugno 1939, n. 1089) e configura tali cose come appartenenti al "patrimonio indisponibile" (art. 826, secondo comma, del Codice civile), salva la possibilità per l'Amministrazione di disporne, successivamente alla ricognizione e alla individuazione della loro entità, la cessione a terzi (tra l'altro, i citati articoli autorizzano l'Amministrazione a lasciare ai ritrovatori una parte degli oggetti). In relazione a ciò la legge dispone che, fuori dell'Amministrazione, nessuno - neanche il proprietario del fondo - possa effettuare ricerca delle cose anzidette, senza un atto amministrativo - di volta in volta di concessione o di autorizzazione - che a ciò lo legittimi (artt. 45 e 47 della legge citata), e che chiunque scopra fortuitamente simili cose é tenuto a non asportarle, ad assicurarne la conservazione e a farne immediata denuncia all'autorità amministrativa (art. 48). In tal modo l'ordinamento, avendo di mira la conservazione del patrimonio culturale della nazione, intende preservare le cose in questione dai pericoli di una ricerca incoordinata, incontrollata e incauta, e da ogni azione depredatoria.

Al fine di assicurare una più piena osservanza degli anzidetti precetti, gli artt. 67 e 68 della legge citata li sanzionano penalmente. Tra l'altro il secondo di tali articoli punisce con l'ammenda il fatto di chi si dedichi alla ricerca archeologica su fondi propri o altrui senza averne ottenuto, rispettivamente, autorizzazione o concessione da parte dell'autorità amministrativa.

Il reato, così configurato (per la sussistenza del quale non riveste alcuna importanza il fatto che nella zona della ricerca esistano effettivamente degli oggetti vetusti, che l'esistenza ne sia nota all'agente, e che essi effettivamente posseggano interesse archeologico), presuppone dunque nell'agente la volontà di svolgere quell'attività che va sotto il nome di ricerca archeologica, che la legge interdice ai soggetti non legittimati dal necessario provvedimento amministrativo. Il fatto punito é perciò sicuramente un fatto proprio del soggetto cui la sanzione penale viene comminata.

Ciò é sufficiente - in piena coerenza con i precedenti di questa Corte in materia (sentenze nn. 3 del 1956, 39 del 1959, 67 e 79 del 1963) - a far escludere che esso sia in contrasto col precetto contenuto nel primo comma dell'art. 27 della Costituzione, secondo cui "la responsabilità penale é personale".

2. - Del pari é da escludere che la disposizione dell'art. 45 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, che prevede la potestà discrezionale di accordare la concessione amministrativa di ricerca archeologica su fondi altrui, e quella che consente all'Amministrazione (senza fissare alcuna specificazione delimitativa del relativo potere) di imporre in tale occasione le prescrizioni che ritenga opportune, violino la regola della riserva di legge da osservare - come più volte questa Corte ha affermato (sentenze nn. 103 del 1957, 4 e 5 del 1962) - ai sensi dell'art. 41 della Costituzione in ogni caso di limitazione dell'iniziativa economica privata per ragioni di utilità sociale.

Con la sentenza n. 12 del 1963, in riferimento alla disciplina normativa della concessione amministrativa di certi beni patrimoniali indisponibili, questa Corte ha affermato che l'art. 41, mentre riguarda "le garanzie necessarie a preservare la libertà di scelta e di svolgimento delle attività economiche proprie dei privati da interventi che la restringano in modo arbitrario", non accorda alcuna particolare protezione ai privati concessionari, che "vengono ad essere abilitati all'esercizio di attività altrimenti loro precluse, ed a godere così di un ampliamento della loro sfera giuridica, pur nei limiti e secondo le condizioni ritenute dal concedente necessarie alla salvaguardia degli interessi pubblici legati all'utilizzazione del bene".

Ora, tali concetti trovano applicazione anche nel caso in esame, nel quale, se é vero che non si é in presenza della concessione di beni pubblici, tuttavia la concessione amministrativa ha la funzione di accordare a soggetti altrimenti non legittimati la possibilità di ricercare e portare alla luce oggetti appartenenti alla categoria dei beni pubblici. Attività in relazione alla quale, come non potrebbe esser considerata illegittima una disciplina che precludesse qualsiasi iniziativa privata, così - a maggior ragione - non può esser considerata illegittima una disciplina che, nell'ammettere l'iniziativa privata con l'assenso dell'autorità amministrativa, conferisca a questa poteri latamente discrezionali (e quindi, comunque, strettamente correlati al fine da perseguire) in ordine al rilascio della concessione e alla determinazione delle modalità del suo esercizio.

Né, una volta ammesso ciò, é il caso di pensare - secondo un profilo adombrato nell'ordinanza di rimessione - a una illegittimità derivante alla disposizione impugnata dal fatto che il potere ampiamente discrezionale accordato all'Amministrazione sarebbe "astrattamente" in grado di "rendere possibile un trattamento diverso in situazioni identiche". Se é vero che l'impiego di ogni potere discrezionale può essere distorto, e che uno dei più frequenti modi di distorsione é appunto quello noto sotto il nome di disparità di trattamento, ciò non può valere, di per sé solo, a far escludere la possibilità che la legge conferisca all'autorità amministrativa - lì dove non vi si opponga una riserva di legge o alcun altro precetto costituzionale - poteri latamente discrezionali. Contro l'eventuale impiego della discrezionalità per realizzare una disparità di trattamento sarà possibile, del resto, far valere le garanzie di legalità concesse dall'ordinamento: risolvendosi ciò in un vizio di legittimità dell'atto della pubblica Amministrazione (tenuta ad osservare i precetti costituzionali di imparzialità e di eguaglianza), sono ammessi infatti in simili casi il sindacato e la repressione nelle competenti sedi amministrative e giurisdizionali.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale, proposte con l'ordinanza indicata in epigrafe, degli artt. 45 e 68 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, sulla tutela delle cose d'interesse artistico e storico, in riferimento agli artt. 27 e 41 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 1964.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 23 giugno 1964.