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ANDREA LONGO

 

ALCUNE RIFLESSIONI SUI RAPPORTI TRA L’INTERPRETAZIONE CONFORME A DIRITTO COMUNITARIO E L’UTILIZZO DEL CANONE DI EQUILIBRIO FINANZIARIO DA PARTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

 

1. Percorrendo la ragnatela - 2. Alcune linee evolutive dell’interpretazione conforme a diritto comunitario - 3. Interpretazione conforme a diritto comunitario e Corte costituzionale - 4. Il principio di equilibrio finanziario nella giurisprudenza dei giudici di Palazzo della Consulta.

 

1. Percorrendo la ragnatela

 

Le riflessioni che seguono nascono da un’unica domanda: se e come la Corte costituzionale italiana, nei propri giudizi, utilizzi il metodo dell’interpretazione conforme a diritto comunitario nell’applicare il principio dell’equilibrio finanziario.

Un quesito che già nella sua formulazione appare piuttosto articolato; soprattutto considerando i numerosi piani di studio che si intersecano in questa problematica, tra relazioni politico-ordinamentali, problemi tassonomici, percorsi argomentativi, esiti pratico-giurisprudenziali. Così un tema come quello in esame che, ictu oculi, parrebbe essere quantitativamente piuttosto circoscritto e possedere un carattere marcatamente empirico-giurisprudenziale, si pone, in realtà, al crocevia di percorsi afferenti all’ermeneutica, alla categorizzazione dogmatica, alla teoria generale. Un vero e proprio ginepraio di incertezze; una ragnatela che non può essere toccata in alcuna sua parte, senza che ne tremi l’intera superficie. E proprio come in una ragnatela, da un unico centro problematico si dipanano, in tutte le direzioni, numerose linee tematiche che vanno percorse con estrema cautela, prestando la massima attenzione all’ossimoro rappresentato dalla loro “delicata forza”.

La complessità del tema pretenderebbe almeno due piani di riflessione uno descrittivo ed uno valutativo.

Sul piano descrittivo possiamo distinguere almeno tre linee tematiche che è necessario approfondire, tre domande alle quali è necessario rispondere:

a)       come si caratterizzi, quale elemento dogmatico, l’interpretazione conforme al diritto comunitario;

b)      se e come la Corte costituzionale utilizzi (o forse possa, debba utilizzare), in generale, il metodo dell’interpretazione conforme a diritto comunitario;

c)       se e come la Corte costituzionale utilizzi tale metodo nei giudizi che coinvolgono l’equilibrio finanziario.

Sul piano valutativo emerge una difficoltà ulteriore, un elemento oscuro che può rendere maggiormente problematica un’analisi effettivamente lucida: esiste una sorta di sovraccarico politico-ideale che, per singolare coincidenza, grava su entrambi i poli di questa indagine. Tanto il meccanismo di interpretazione conforme (inteso nelle sue molteplici accezioni) tanto il principio di equilibrio finanziario sono avvertiti da parte (consistente e autorevole) della dottrina come (l’espressione risulta forte perché vuole essere sintetica) elementi di potenziale perversione dei meccanismi democratici e dell’ordinamento costituzionale.

E questo pur nella palese diversità della rispettiva struttura: l’interpretazione conforme (nelle sue molteplici accezioni), infatti, possiede natura procedurale e opera in sede giurisdizionale, mentre l’equilibrio finanziario è un principio squisitamente sostanziale di politica legislativa. Tuttavia è indiscutibile che, proprio in forza di tale diversità, tali principi possiedano anche una evidente potenziale complementarietà: sul piano teorico è di tutta evidenza che i principi teorici si facciano valere tramite mezzi procedurali e sul piano della pratica ordinamentale (rectius interordinamentale) è piuttosto noto che l’integrazione europea si è svolta tramite un circuito di Corti che ha spesso anticipato e spesso sostituito l’azione dei Parlamenti nazionali.

Così interfacciando tutti questi elementi e leggendoli nell’ottica critica sopra accennata, si potrebbe pensare che, negli ambiti nei quali questi due principi si trovano ad operare congiuntamente, avvenga una sorta di cortocircuito, un’azione sinergica nella quale l’interpretazione conforme concorra a dare maggiore forza ai limiti che il vincolo di bilancio pone all’azione legislativa, fino a estromettere il Parlamento da un circuito decisionale fatto di burocrati e giudici; un ulteriore passo di un percorso volto a sterilizzare la politica nella tecnica e nell’economia.

Ma questa visione che, rispettosamente, definirei “apocalittica”, è davvero accurata? Si può davvero affermare che, nelle argomentazioni della Corte costituzionale, l’interpretazione conforme a diritto comunitario abbia spinto a valorizzare il principio di equilibrio finanziario  fino a livelli sconosciuti allo spirito della Carta fondamentale[1]?

Certo è indiscutibile l’esistenza di un nesso causale tra l’integrazione europea e la valorizzazione di istanze economiciste all’interno del nostro ordinamento; tuttavia, per evitare di cadere in una declinazione del classico post hoc propter hoc, è bene interrogarsi sulla portata e sul senso, addirittura sulla struttura  di questa relazione causale; se essa cioè si veicoli propriamente nelle forme della cogenza giudiziaria oppure ridondi in esse semplicemente come eco di istanze politiche; ossia se gli obblighi comunitari, in tema di bilancio, siano assunti dalla Consulta come termine immediatamente vincolante oppure – e questa, lo diciamo subito è la nostra tesi – come argomento meramente persuasivo[2].

La risposta a questa domanda incide, ad avviso di chi scrive, anche su un’altra questione: quella sulla natura del principio di equilibrio finanziario, sulla sua collocazione nella assiologia costituzionale; se esso sia cioè un elemento in certo modo “infiltrato” dall’esterno nel nostro ordinamento, una sorta di principio cadetto, potenzialmente conflittuale con lo spirito personalista e pluralista della nostra Carta fondamentale oppure sia un valore costituzionale pleno iure, segno addirittura di una coscienza giuridica, pragmatica e, persino, etica  maggiormente consapevole. Tuttavia questo secondo problema appare troppo complesso per essere trattato in questo contesto; lasceremo perciò da parte, almeno in questa sede, la trattazione del profilo valutativo dell’indagine, concentrandoci prevalentemente su quello descrittivo.

Per amore di chiarezza riassumiamo quanto detto in alcune esplicite domande la cui risposta costituirà l’obiettivo della nostra analisi: Esiste una relazione tra il vincolo di interpretazione conforme a diritto comunitario e il canone, utilizzato dalla Corte costituzionale, dell’equilibrio finanziario? O meglio: l’apprezzamento che tale canone ha subito progressivamente nella giurisprudenza costituzionale possiede o meno una relazione diretta con il vincolo comunitario di interpretazione conforme?

                       

2. Alcune linee evolutive dell’interpretazione conforme a diritto comunitario

 

La species dell’interpretazione conforme a diritto comunitario[3], rispetto ad altri tipi ermeneutici appartenenti al medesimo genus[4] (interpretazione conforme a Costituzione e a CEDU) assume un peculiare tasso di specificità determinato dalle caratteristiche proprie del multisistema comunitario.

Il primo elemento discretivo è lo scopo cui è rivolto tale mezzo ermeneutico, originariamente inteso come strumento di tutela diretta dei cittadini europei, progressivamente elaborato per superare i limiti della dottrina dell’effetto utile; principio questo secondo il quale – nella giurisprudenza più risalente della CGE – veniva riconosciuta efficacia alle direttive non attuate soltanto in senso verticale, vale a dire a favore dei cittadini nei confronti dello Stato membro, mentre se ne negava la piena efficacia orizzontale nei rapporti interprivati. Ovviamente la morfologia di tale sistema lasciava aperti notevoli spazi nei quali i singoli avrebbero potuto subire un danno dalla mancata (o inesatta) attuazione di una direttiva comunitaria.  

La soluzione a tale dilemma è stata nel tempo sviluppata, in via pretoria, dalla CGE imponendo ai giudici nazionali – in termini via via sempre più ampi e pregnanti –  l’obbligo di interpretare il diritto interno alla luce del diritto comunitario. Seguendo l’evoluzione della giurisprudenza comunitaria si nota chiaramente come il principio dell’interpretazione conforme a diritto comunitario si sia andato progressivamente apprezzando, estendendo da un lato il proprio ambito di applicazione e, dall’altro, il proprio coefficiente di cogenza, ponendosi come un strumento di integrazione tanto efficiente da divenire addirittura una scelta da privilegiare[5].

 Se volessimo rappresentare visivamente le linee di forza di tale evoluzione, potremmo tracciare due direttrici, una verticale ed una orizzontale: la prima rappresenterebbe i soggetti in capo ai quali, nel tempo, si è accentrata questa funzione e si dispiegherebbe secondo un movimento dal basso verso l’alto; la seconda direttrice potrebbe, invece, rappresentare il profilo oggettivo (quello delle norme utilizzate) e si muoverebbe nel senso di una progressiva espansione orizzontale. Questa rappresentazione bidimensionale (talmente inaccurata da  essere addirittura semiseria) vuole mostrare, in estrema sintesi, il progressivo svilupparsi di due processi complementari: l’apicalizzazione della funzione di interpretazione conforme nelle mani della Corte di Giustizia (fino alla creazione di una sorta di “nomofilachia europea”) e l’allargamento della normativa ritenuta utilizzabile sotto l’egida di tale funzione, sia in relazione alle norme oggetto sia in relazione al parametro invocabile[6]. 

Esaminiamo la questione in maggior dettaglio partendo proprio dal profilo oggettivo. Innanzitutto bisogna notare come, in un primo momento (ad esempio nella sentenza Von Colson del 1984), la Corte di giustizia abbia ritenuto che oggetto dell’interpretazione conforme dovesse essere unicamente la legge nazionale espressamente adottata per l’attuazione della direttiva comunitaria.

In seguito questo orientamento è andato decisamente mutando nel senso di una progressiva espansione. Sul punto l’ovvio riferimento è la nota sentenza Marleasing[7] nella quale la Corte di Giustizia ha affermato: “l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l’obbligo, loro imposto dall’art. 5 del Trattato, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 189, terzo comma, del Trattato”.

 Sulla stessa linea, nella sentenza  Carbonari  del 1997,  la Corte di Lussemburgo ebbe modo di affermare come spettasse al giudice dello Stato membro “valutare in quale misura l’insieme delle disposizioni nazionali” potesse “essere interpretato, fin dalla loro entrata in vigore, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, al fine di conseguire il risultato da essa voluto”. In maniera ancora più esplicita nella sentenza Pfeiffer venne detto che “Se è vero che il principio di interpretazione conforme del diritto nazionale … riguarda in primo luogo le norme interne introdotte per recepire la direttiva in questione, esso non si limita, tuttavia all’esegesi di tali norme, bensì esige che il giudice nazionale prenda in considerazione tutto il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato in modo tale da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva”.

 È di evidenza lapalissiana quanto la sentenza appena riportata abbia esteso l’ambito delle norme individuabili quale oggetto di interpretazione conforme; tuttavia questa decisione si spinse anche ad allargare il possibile parametro di riferimento: la Corte, infatti, giunse ad affermare che “l’esigenza di un’interpretazione del diritto comunitario è inerente” non alla singola direttiva ma “al sistema del Trattato”.

Gli ultimi due punti di diritto appena riportati ci fanno  notare quanto l’atto di interpretare il diritto interno conformemente a quello comunitario divenga operazione indiscutibilmente vasta: un giudizio di congruità che  non deve porsi tra due norme e nemmeno tra due sottogruppi istituzionali, ma addirittura tra “tutto il diritto nazionale” e “l’intero sistema del Trattato”; un confronto questo che, a rigore, sarebbe talmente complesso da invocare, per il suo corretto svolgimento,  l’Hercules di dworkiniana memoria.

Entrambe queste linee di tendenza sono, recentemente, state confermate dalla nota sentenza Pupino, nella quale come oggetto si è fatto riferimento “alle norme dell’ordinamento nazionale nel suo complesso” e come parametro  è stata individuata una decisione quadro[8]. Tra parentesi anche l’ambito materiale di quest’ultima decisione è piuttosto nuovo per il meccanismo dell’interpretazione conforme: esso, infatti, avendo ad oggetto il mandato d’arresto europeo, attiene a quello che al tempo della pronuncia era il c.d. Terzo pilastro[9], vale a dire la collaborazione degli stati membri in tema di sicurezza. Circostanza questa che ha sollevato accese discussioni in dottrina, in merito al potenziale coefficiente lesivo per le libertà individuali di un simile orientamento[10].

Passando ora a discutere del profilo soggettivo (il primo di cui si parlava), la dottrina ha già notato come, per diversi motivi,  il vincolo all’interpretazione conforme si sia progressivamente trasformato da criterio nazionale che muove “dal basso”, a criterio comunitario, imposto “dall’alto”.

Qui dobbiamo far riferimento all’origine dell’istituto, che, in certo modo, è più risalente dello stesso ordinamento comunitario ed affonda le proprie radici nella presunzione di conformità del diritto interno al diritto internazionale e, dunque, nella prassi di interpretare il primo in maniera compatibile al secondo. Così anche prima che la Corte di giustizia sancisse espressamente l’obbligo delle autorità  competenti di interpretare il proprio diritto conformemente al diritto comunitario, molti Stati membri autonomamente avevano avuto modo declinare questa prassi di diritto internazionale in relazione al diritto comunitario[11].

Ed anche nelle prime decisioni della Corte di giustizia, negli anni ’70 (le sentenze Haaga, Bonsignore, Mazzalai, Sagulo), si percepiva che la necessità di un’applicazione del diritto interno conforme al diritto comunitario fosse un’esigenza avvertita dal giudice nazionale e che, in virtù del rinvio pregiudiziale, si inscriveva in un modello di collaborazione tra Corti. Diversamente nelle decisioni posteriori (come Von Colson e Marleasing) la Corte di giustizia, sempre di più, venne a trasformare il meccanismo dell’interpretazione conforme in un proprio dictat[12].

Il punto di svolta, l’esplicitazione di tale posizione, è rintracciabile, ancora, nella decisione Marleasing, quando il giudice comunitario affermò che “nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva,  il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima” (C-106/89, Marleasing, in Racc., 1990, I-4135). È bene sottolineare che questo movimento non si può ridurre ad una mera apicalizzazione soggettiva del principio – nel senso che la sua “titolarità” semplicemente si sposta dai giudici nazionali a quello comunitario – ma implica una vera e propria  permutazione, una trasformazione tipologica: da scelta autonoma, improntata, come detto, ad un modello di collaborazione tra corti, a vero e proprio vincolo di natura giuridica, una metanorma sull’interpretazione imposta dalla Corte di giustizia ai giudici dei paesi membri.

La pregnanza e la pervasività di tale processo di apicalizzazione risulta ancor più evidente considerando che se in linea di principio la Corte di giustizia persegue una rigida separazione competenziale, avendo espressamente dichiarato che non è suo compito interpretare la normativa interna e che non è compito del giudice interno interpretare la normativa comunitaria[13], tuttavia in concreto essa è andata ben oltre, sviluppando una attitudine a prendere indirettamente posizione sulla interpretazione della disposizione interna conforme al diritto comunitario ed alla eventuale necessità di una sua disapplicazione per contrasto insanabile con esso. Così ammette la stessa Corte di giustizia nella pronuncia 18 giugno 1991, Piageme, C-369/89, al punto 7: “secondo giurisprudenza costante, benché non spetti alla Corte, nell’ambito dell’art. 177 del Trattato, pronunciarsi sulla compatibilità di una normativa nazionale con il diritto comunitario, essa è però competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi d’interpretazione del diritto comunitario che possano consentirgli di valutare tale compatibilità ai fini della soluzione della causa della quale è investito”[14].

Il breve e sommario esame fin qui condotto pare mostrare che la declinazione comunitaria dell’interpretazione conforme possieda delle caratteristiche fortemente peculiari rispetto ad altri tipi di interpretazione conforme, accentuandone alcune caratteristiche e attenuandone altre. Sembra prevalere infatti l’elemento di una rigida traslazione di senso dall’alto verso il basso, ossia dalla giurisprudenza della CGE verso quella dei giudici comuni e similmente pare ridursi il tasso di conciliatività delle decisioni che dovrebbe nascere da un egalitario confronto tra corti. In questo ambito, almeno, il cosiddetto dialogo tra le Corti pare essersi evoluto nel senso della prevalenza di un parlante sull’altro.

 

 

3. Interpretazione conforme a diritto comunitario e Corte costituzionale

 

Come  detto, l’interpretazione conforme a diritto comunitario nasce come potere-dovere del giudice comune; dobbiamo ora interrogarci sul “se” e sul “come” tale strumento appartenga anche alla disponibilità (e agli oneri) della Corte costituzionale: per rispondere a tali domande è necessario distinguere a seconda del tipo di giudizio e del tipo di norma comunitaria.

Per ciò che attiene il giudizio in via incidentale dobbiamo distinguere due gruppi di ipotesi.

Un primo gruppo riguarda il diritto comunitario immediatamente applicabile nella triplice declinazione di regolamenti, direttive self-executing e principi generali dell’Unione; in linea di principio tali casi si dovrebbero porre in maniera eccentrica rispetto all’ortodossia dell’interpretazione conforme che nasce per assicurare l’effetto utile del diritto non immediatamente applicabile; tuttavia l’ipotesi di porre in essere l’interpretazione conforme da parte dei giudici comuni in luogo della disapplicazione non è puramente teorica visto che, come sottolineato anche dalla dottrina, laddove “il rimedio ermeneutico consente di risolvere il contrasto con la norma comunitaria direttamente efficace, esso va preferito rispetto alla più drastica scelta della disapplicazione, alla quale, peraltro, il più delle volte deve seguire una modifica o un’abrogazione della norma nazionale disapplicata”[15]; in tal caso siamo di fronte ad una sorta di interpretazione conforme per così dire impropria che non supplisce alla mancanza di un effetto diretto attraverso la produzione di un effetto utile ma risponde più che altro a ragioni di economica ordinamentale. Tale possibilità rimane però, in concreto, preclusa alla Consulta la quale rimane fuori dal circuito di ablazione/conformazione che si esaurisce all’interno dell’operato del giudice comune; dunque, non esistendo la possibilità (fin dalla sent. 170/84) di sollevare la questione di costituzionalità in relazione al diritto UE immediatamente applicabile non esiste, conseguentemente, la possibilità per il giudice delle leggi di esercitare (o suggerire) un’interpretazione conforme.

Un secondo gruppo di ipotesi riguarda il diritto comunitario non direttamente applicabile. In questi casi lo stato del sistema determina effettivamente al possibilità che la Corte possa svolgere un’attività di interpretazione conforme in quanto per giurisprudenza costante il giudice che non ravvisa la possibilità di interpretare conformemente a diritto comunitario una disposizione interna deve sollevare la questione di costituzionalità; a quel punto la Consulta dichiarerà incostituzionale la disposizione, per contrasto con gli artt. 11 e 117 della Costituzione, utilizzando il diritto comunitario come norma interposta. Tuttavia, si apre anche la possibilità teorica, per la Consulta, di suggerire, essa stessa, al giudice comune una interpretazione conforme a diritto comunitario, rigettando così la questione e arrivando a vestire un ruolo, per così dire, di supplenza interpretativa. Tale possibilità deriva, dunque, dallo spezzarsi dell’unità soggettiva di disporre tra ablazione e conformazione che determina una attrazione verso la Consulta della potestà ablativa e una duplicazione della potestà interpretativa, condivisa tra il giudice comune e quello delle leggi.

Tali conclusioni sembrano confortate da alcune recenti decisioni del giudice delle leggi: ad esempio nella sentenza n. 28 del 2010, è stato dichiarata, a seguito di un ricorso in via incidentale, l’incostituzionalità di una norma penale di favore contrastante con una direttiva comunitaria. La peculiarità di questa sentenza deriva dal contesto normativo sul quale essa si è trovata ad operare; ciò che, infatti, ha innescato il giudizio della Corte è stata proprio l’impossibilità di percorrere da parte del giudice a quo la consueta alternativa tra disapplicazione e conformazione ermeneutica: posto infatti che  “interpretazione conforme proposta” dalla parte privata non è stata ritenuta ammissibile “in quanto contraddice ciò che chiaramente emerge dal testo della disposizione censurata” e avendo di fronte una norma penale di favore, non è stata ritenuta “implausibile la motivazione con cui il giudice rimettente esclude di poter fare diretta applicazione delle direttive comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma censurata, in quanto ritenuta in conflitto con le prime”[16].

Sulla medesima scia la già citata sentenza 227/2010[17], in tema di mandato d’arresto europeo, dove ugualmente la Consulta premette al proprio ragionamento la constatazione dell’impossibilità per il giudice comune di espletare una delle due strade prospettate dal distico ablazione/conformazione: “Nel caso in esame, i rimettenti hanno correttamente valutato, in primo luogo, l’esistenza del contrasto tra la norma impugnata e la decisione quadro, esplicitando le ragioni che precludono l’interpretazione conforme. La motivazione sul punto è plausibile, in quanto numerose decisioni della stessa Corte di cassazione configurano un ‘diritto vivente’ in ordine all’applicabilità nella specie ed alla portata dell’art. 18, comma 1, lettera r) in particolare alla non riferibilità di questa norma allo straniero dimorante o residente in Italia. Peraltro, tale interpretazione risulta suffragata sia dalla lettera della disposizione, che dai lavori preparatori … Ne consegue, anzitutto,  che il contrasto tra la normativa di recepimento e la decisione quadro, insanabile in via interpretativa, non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, trattandosi di norma dell’Unione europea priva di efficacia diretta, ma doveva essere sottoposto alla verifica di costituzionalità di questa Corte”.

Ciò che interessa maggiormente ai fini del nostro discorso è che, in entrambi i casi, la Consulta esprime il proprio giudizio circa l’impossibilità di percorrere la via dell’interpretazione conforme nei riguardi della normativa impugnata, opponendosi nel primo caso (sent. n. 28/10) il tenore della disposizione e nel secondo caso (sent. n. 227/10) anche argomenti ulteriori, quali la formazione di un diritto vivente e il tenore dei lavori preparatori. Queste constatazioni sembrano dimostrare che la Corte possa farsi carico del problema e ricomprendere nell’ambito della propria cognizione il giudizio sulla possibilità e sulla correttezza dell’interpretazione conforme a diritto comunitario, mettendosi, dunque, nella posizione di suggerire al giudice comune un’interpretazione adeguatrice, ove quest’ultimo non l’avesse effettuata o non l’avesse effettuata correttamente.  

Un discorso parzialmente peculiare è rappresentato dai casi di ricorso in via principale, dove la Corte, da tempo, ha ammesso la propria competenza a dichiarare l’annullamento del diritto interno contrastante con quello europeo[18]. In tale giudizio il profilo comunitario ha probabilmente subito una sorta di ulteriore implementazione a seguito della modifica dell’art. 117 Cost. e di una serie di decisioni nelle quali la Consulta ha dichiarato che la normativa UE può fungere da norma interposta (e.g. sent. n. 7 e n. 166 del 2004, n. 406 del 2005, n. 129 del 2006[19]).

Anche in questo caso ci troveremmo di fronte ad un tipo di interpretazione conforme impropria e questo per due ordini di motivi: in primo luogo (similmente al caso delle norme direttamente applicabili) l’obiettivo è quello della conservazione dell’esistente giuridico più che il riempimento di una lacuna tramite la produzione di un effetto utile, in secondo luogo l’operazione interpretativa si fonda sì su una direttiva comunitaria ma su una direttiva che è stata attuata con normativa nazionale; esistendo perciò un doppio canone interpretativo (interno e comunitario) cui fare riferimento, non si assiste ad una effettiva traslazione di senso dall’ordinamento comunitario a quello nazionale. La natura spuria (e in fondo attenuata) di quest’operazione ermeneutica vale probabilmente a superare un’obiezione di principio che potrebbe muoversi; obiezione secondo la quale un simile utilizzo dell’interpretazione conforme sarebbe in contrasto con le caratteristiche teleologiche dello stesso vincolo ermeneutico del quale ci occupiamo, il cui scopo è finora stato quello di garantire l’efficacia orizzontale del diritto UE non autoapplicativo evitando ai singoli un vuoto di tutela[20]; eventualità questa che appare piuttosto rara in un giudizio come quello in via principale che (soprattutto dopo la riforma dell’art. 127 Cost.) si pone essenzialmente come un giudizio di vindicatio potestatis.

Un esempio di questo tipo di interpretazione conforme impropria può ricavarsi a nostro avviso dalla già citata sentenza n. 7 del 2004 in materia di produzione e di distribuzione dell’energia elettrica: dalla norma impugnata[21] “secondo la prospettazione del ricorrente, sarebbe desumibile la possibilità, per la Regione, di dettare linee guida per la realizzazione degli impianti, tali da pregiudicare la compatibilità, da un punto di vista tecnico, della rete regionale di distribuzione dell’energia elettrica, con la rete nazionale nonché con le altre reti europee”. La Corte afferma, invece, nel punto 2 del considerato in diritto, che tale interpretazione alla luce del quadro normativo di riferimento, sia comunitario che nazionale non può essere accolta; di seguito viene poi attuata una interpretazione adeguatrice della norma impugnata in riferimento sia alla disciplina comunitaria (la direttiva 96/92/CE) sia alla normativa interna che le dà attuazione (il d.lgs. n. 79 del 1999)[22]. Possiamo parlare in questo caso di interpretazione conforme a diritto comunitario? Probabilmente non in senso proprio: sicuramente c’è un’attività ermeneutica tesa a evitare una soluzione ablativa e c’è il riferimento al diritto comunitario; tuttavia si tratta di diritto comunitario attuato tramite diritto interno, e l’operazione ermeneutica si muove anche in relazione a tale normativa; manca, dunque la necessità vera e propria di produrre un effetto utile. Se, dunque, in omaggio alla presenza del citato parametro comunitario, non si volesse parlare di interpretazione adeguatrice tout court, dovremmo comunque intendere l’argomentazione sopra esposta come una forma, quantomeno, spuria di interpretazione conforme. 

Esiste poi un’ulteriore elemento di difficoltà, non teorico-ricostruttiva ma pratico-consequenzialista, che taglia trasversalmente, anche se non simmetricamente, i casi sopra enumerati e attiene al tasso di cogenza delle decisioni interpretative della Corte costituzionale in relazione al diritto comunitario. Nel nostro ordinamento alla Consulta viene, infatti, riconosciuta una capacità ermeneutica vincolante solo in relazione al dettato costituzionale; molto più discussa è invece la cogenza delle decisioni interpretative in relazione al diritto primario (con tutta una serie di problematiche che in passato ha causato la c.d. “Guerra fra le Corti”) e addirittura assolutamente preclusa è la sua possibilità di interpretare il diritto comunitario, potestà che appartiene unicamente alla Corte di Giustizia. Se il vincolo all’interpretazione conforme presuppone la possibilità di armonizzare scelte ermeneutiche alternative attraverso il confronto di norme appartenenti a piani (o a ordinamenti) diversi, allora, la capacità interpretativa del Giudice delle leggi si pone in un punto cieco della relazione tra sistemi ermeneutici distinti apparendo, addirittura, doppiamente limitata: limitata nei confronti della legge nazionale che egli dovrebbe interpretare solo (rectius prevalentemente) in relazione alla Costituzione e limitata nei confronti del diritto comunitario che egli non può interpretare affatto, ma che anzi può essere oggetto di richiamo solo laddove la sua interpretazione sia di per sé “di chiara evidenza”[23], dovendo, in caso contrario, promuovere la questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di giustizia dell'Unione europea[24].

Com’è di tutta evidenza e come accennato sopra, tale elemento problematico non si trova simmetricamente in tutti i tipi di giudizio. Nel ricorso in via principale il grado di problematicità è in certo senso attenuato dovendo la Consulta confrontarsi solo con il limite imposto dalla competenza della Corte di Giustizia. Nel ricorso in via incidentale, invece, tale problema si fa ancora più pregnante, soprattutto dinnanzi all’esistenza di un diritto vivente difforme dall’interpretazione prescelta dal giudice delle leggi. Con un certo amore di paradosso si potrebbe addirittura sostenere che l’estensione della possibilità ermeneutica della Corte costituzionale (o meglio la capacità vincolante di tale possibilità) rappresenta un minus quam anche rispetto a quella del giudice comune al quale è, invece, riconosciuta la facoltà (rectius l’obbligo) di interpretare la legge interna in relazione al diritto comunitario; facoltà che, soprattutto nel caso della Cassazione, ridonda in un effettivo vincolo ermeneutico o, quantomeno, in un vincolo ermeneutico effettivamente riconosciuto dai giudici comuni.

 

4. Il principio di equilibrio finanziario nella giurisprudenza dei giudici di Palazzo della Consulta

 

Assumiamo ora l’ultimo elemento del nostro studio: ossia il principio dell’equilibrio finanziario per come vive nella giurisprudenza della Corte.

Tale principio, com’è noto, possiede una doppia anima: una interna al nostro ordinamento e che trova il proprio referente normativo nell'art. 81 co. 4 della Costituzione ed una comunitaria che nasce nel ‘92 con il Patto di stabilità e crescita, in un momento in cui ci si rende conto che gli strumenti “negativi” di integrazione (cioè l’eliminazione dei dazi, l’eliminazione degli ostacoli alla circolazione di beni e persone) non sono sufficienti a conformare a pieno il sistema economico, ma sono oramai necessari degli strumenti “positivi”; si impone, allora, agli Stati membri il rispetto dei c.d. parametri di Maastricht in relazione ai propri bilanci[25]. È noto che, nel nostro paese, a quello europeo è seguito poi un Patto di stabilità interna con la L. 448/1998, art. 28 con il quale lo Stato impegna gli enti locali “a pianificare un programma di politica economica volta a contribuire alla realizzazione degli obiettivi generali di finanza pubblica” e quindi a ridurre i debiti, ad abbattere i costi di gestione ed a migliorare il flusso delle entrate[26].

È quasi pleonastico a questo punto sottolineare che il sorgere del PSC abbia determinato un deciso apprezzamento, una valorizzazione del principio interno di equilibrio finanziario, visibile anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale; visibile tanto rispetto alla c.d. Costituzione dei poteri (in relazione alla competenza delle regioni), tanto alla c.d. Costituzione dei diritti (nel bilanciamento dei diritti sociali). Una valorizzazione che, secondo parte della dottrina, sarebbe arrivata ad un punto tale da stravolgere l’originario disegno costituzionale.

La domanda, invece, che vogliamo porre in questa sede riguarda non tanto il senso (sistemico, ordinamentale) di questa valorizzazione, quanto, più semplicemente, il modo nel quale questa è avvenuta. Intendiamo cioè chiederci se e quanto il meccanismo dell’interpretazione conforme abbia pesato nelle decisioni della Consulta; ossia se e quanto la Corte costituzionale si sia rivolta al diritto comunitario per riempire di un nuovo significato il principio ex art. 81 co. 4, Cost.

 È chiaro che la risposta a questa domanda ridonda anche su un piano soggettivo di concreto esercizio del potere: infatti l’affermazione di un ruolo importante dell’interpretazione conforme (attraverso cui la Consulta si rivolge “fuori” dal proprio ordinamento per trovare il senso di un principio interno) dimostrerebbe che tale permutazione sarebbe avvenuta tramite una sorta corto-circuito tra la Corte costituzionale e gli organi comunitari, “bypassando” il Parlamento. In questo senso la valorizzazione del principio di equilibrio finanziario costituirebbe un’ulteriore declinazione di quel fenomeno di sterilizzazione della politica, di fuga della sovranità dagli organi rappresentativi statali a quelli tecnocratici dell’Unione, su cui parte della dottrina si è a lungo focalizzata.

È questa la rappresentazione più verosimile della realtà? Chi scrive non crede di poter essere di questo avviso, e ciò per almeno due ordini di motivi. Il primo attiene tanto alle caratteristiche del vincolo comunitario di interpretazione conforme, tanto ai, ben noti, rapporti tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia; il secondo inerisce alle caratteristiche della giurisprudenza costituzionale in materia di equilibrio finanziario.

Dunque per affermare che esista effettivamente un rilevante fenomeno di interpretazione conforme a diritto comunitario in tema di equilibrio finanziario, dovremmo verificare nelle singole decisioni la presenza di almeno due elementi:

1.              la presenza di una soluzione non ablativa che non annulli la disposizione ma ne modifichi il senso; non dovrebbero, dunque, verificare tale presupposto le decisioni di accoglimento ma solo quelle di rigetto e di inammissibilità;

2.              una traslazione di senso che proceda direttamente dalla norma comunitaria alla disposizione legislativa impugnata.

In realtà come vedremo tra poco non ci pare che le suddette caratteristiche siano verificate dalle decisioni che si occupano di equilibrio finanziario; anzi in, questi casi, la Consulta utilizza l’argomento del richiamo al diritto comunitario in una forma particolarmente debole: vale a dire come argomento ad adiuvandum[27].

In questo senso è piuttosto esplicito il tenore letterario degli enunciati utilizzati: evocando il canone dell’equilibrio finanziario la Corte costituzionale fa sempre riferimento agli obiettivi nazionali di contenimento della spesa considerati anche in relazione ai vincoli o agli obblighi, comunitari.

Questo tipo di espressione che prende in considerazione i vincoli comunitari solo tramite la mediazione degli obbiettivi nazionali è trasversale a tutta la giurisprudenza in materia di equilibrio finanziario e ciò non sembra affatto casuale; anzi si riallaccia ad un vecchio leit motiv della giurisprudenza costituzionale che già dalle prime pronunce in materia (ad esempio dalla 1 del 1966 che pure era una sentenza ampliativa del profilo giuridico del principio in esame, visto come limite alla discrezionalità del Parlamento) ha considerato il tema dell’equilibrio finanziario con estrema cautela, destinato in certo modo a sfuggire dalla pienezza del proprio sindacato, risolvendosi la scelta sull’allocazione delle risorse in parte in considerazioni prettamente tecniche e in parte in scelte squisitamente politiche[28].

Ad esempio in relazione ai conflitti legislativi tra Stato e Regione pare che la Corte sia, in certo modo, schiacciata dalla necessità di rispettare due forme di libertà politica: da un lato la discrezionalità del Parlamento, nell’imposizione di obblighi finanziari, dall’altra l’autonomia delle Regioni. Infatti, sul punto, il giudice delle leggi ha consolidato una serie di standard valutativi che, in certo modo, tentano di bilanciare e di rispettare entrambe queste forme di libertà politica.

Da un lato la Corte afferma che il legislatore statale può “con una disciplina di principio”, legittimamente “imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette dell’autonomia di spesa degli enti” [29]. Dall’altro lato tuttavia si sottolinea che affinché tali vincoli possano considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali, essi debbono riguardare l’entità di disavanzo di parte corrente oppure – ma solo “in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale” – la crescita della spesa corrente degli enti autonomi. In definitiva la legge statale può stabilire solo “un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa[30]. Allora la legge dello Stato, per essere costituzionalmente legittima, deve essere volta al riequilibrio della finanza pubblica attraverso un contenimento generale della spesa corrente; quindi, attraverso delle misure che non interferiscano nelle singole voci[31].

In realtà questo discorso lascia aperta, una falla, una zona di incertezza sulla distinzione tra cosa sia un intervento generale ed uno puntuale, e quindi un intervento legittimo ed uno illegittimo. Un’incertezza che ovviamente va risolta sul piano ermeneutico e che, dunque, può essere di qualche interesse per il nostro discorso. Ed in effetti, in alcune decisioni della Corte (ma qui la giurisprudenza è piuttosto ondivaga fino ad essere casistica), si può ravvisare una sorta di iato tra un livello più astratto, nel quale vengono affermati i principi di equilibrio tra controllo della finanza statale e rispetto dell’autonomia locale ed uno più concreto nel quale la singola questione viene risolta proprio tramite un atto interpretativo, un atto allocativo di significato[32].

La sentenza 169/2007 è un esempio archetipo di questo doppio livello: il profilo che qui interessa concerneva l’art. 1 n. 198 della l. 23/12/2005 (ossia la finanziaria per il 2006) riguardante un limite alla spesa del personale (con puntuale riferimento anche a quello assunto a tempo determinato), di Regioni, enti locali e servizio sanitario nazionale, per il triennio 2006-2008; ovviamente la Regione aveva opposto che tale intervento avesse carattere specifico e puntuale e, dunque, non potesse costituire un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica. La Corte, tuttavia, ha affermato che la spesa del personale rappresenta una delle maggiori cause del disavanzo pubblico, e pertanto il suo contenimento, pur non riguardando la generalità della spesa corrente è un obiettivo che ha una rilevanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interno, e concerne non una minima voce di spesa, bensì un rilevante aggregato della spesa corrente. Qui pare fuor di dubbio che la Corte parlando di rilevante aggregato della spesa corrente abbia posto in essere un vero e proprio slittamento di significato, legittimando quello che effettivamente sembrerebbe essere un intervento di limitazione puntuale dell’autonomia finanziaria locale.

L’operazione – sottolineando un “legame strategico” tra l’obiettivo puntuale perseguito dalla legge e l’attuazione del patto di stabilità nel suo complesso –  avviene attraverso una tecnica ermeneutica che in certo modo può ricordare l’interpretazione conforme ma che nondimeno se ne distacca. È simile per la presenza di un vincolo teleologico di natura non formale ma sostanziale (la prevalenza delle esigenze di equilibrio finanziario che si traducono in un accentramento delle competenze) e per la soluzione non ablativa ma conservativa attuata tramite una torsione di significato. È diversa perché il suddetto vincolo teleologico appare completamente introiettato nell’ordinamento politico italiano e non afferente ad una norma comunitaria. Questo dato ridonda sull’operazione interpretativa: in primo luogo essa non verifica quella traslazione di senso che dall’esterno dell’ordinamento conduce un significato al suo interno; in secondo luogo l’oggetto diretto della torsione ermeneutica non è una disposizione ma la precedente interpretazione data dalla Corte di quella disposizione, ossia il principio che il legislatore statale possa o meno limitare le singole voci della spesa corrente.

In definitiva, l’operazione ermeneutica ora esaminata pare atteggiarsi come un atto interpretativo teleologicamente legato al sostegno di una scelta del legislatore; nell’intera vicenda se gli obblighi comunitari acquisiscono certamente un peso rilevante dal punto di vista politico, tuttavia, dal punto di vista giuridico-argomentativo certamente rimangono sullo sfondo, ancora una volta, come argomento ad adiuvandum. In questo caso la soluzione pratica, ossia l’ablazione o la conservazione di una norma appaiono assolutamente secondari (addirittura accidentali) rispetto alla valorizzazione del principio ed alla conseguente implementazione delle competenze statali.

A conferma di questa tendenza possiamo citare la recentissima decisione n. 229 del 2011 nella quale la Consulta riassume alcuni termini della sua giurisprudenza in materia: la questione riguardava la legittimità costituzionale dell’articolo 6 della legge della Regione Sardegna 19 novembre 2010, n. 16 (Disposizioni relative al patto di stabilità territoriale), impugnata dallo Stato e dichiarata dalla Corte illegittima. La norma riguardava i termini temporali degli obblighi di comunicazione della Regione nei confronti dello Stato in relazione alla modificazione di alcuni obiettivi finanziari[33].

Come detto nel censurare la norma in questione la Consulta ha avuto modo di riassumere le linee della propria giurisprudenza in relazione al Patto di stabilità interno affermando, al punto 3 del Considerato in diritto: “Il punto da definire riguarda l’accertamento della denunciata violazione, da parte della disposizione impugnata, dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica. A tal fine, bisogna stabilire se le norme statali richiamate dal ricorrente contengano principi fondamentali idonei a vincolare il legislatore regionale, anche se trattasi di Regione ad autonomia speciale. Al riguardo, è utile richiamare la giurisprudenza di questa Corte, la quale, per un verso, ha elaborato una nozione ampia di principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, per altro verso, ha precisato come la piena attuazione del coordinamento della finanza pubblica possa far sì che la competenza statale non si esaurisca con l’esercizio del potere legislativo, ma implichi anche ‘l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo’ (sentenza n. 376 del 2003; in senso conforme, sentenze n. 112 del 2011, n. 57 del 2010, n. 190 e n. 159 del 2008). Questa Corte ha messo pure in rilievo il carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento e, quindi, l’esigenza che ‘a livello centrale’ si possano collocare anche ‘i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento’ venga ‘concretamente realizzata» (sentenza n. 376 del 2003, già citata). Si deve pure ricordare come questa Corte abbia ritenuto, con giurisprudenza costante, che i principi fondamentali fissati dalla legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica siano applicabili anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome (ex plurimis, sentenze n. 120 del 2008, n. 169 del 2007)”.

Appare evidente la grande valorizzazione del principio di equilibrio finanziario e la conseguente estensione delle competenze dello Stato centrale; fenomeno riassumibile nei tre principi sopra citati:

1.                          l’ampliamento delle competenze statali oltre il piano legislativo;

2.                          l’espletamento di poteri puntuali in ragione del carattere finalistico dell’azione di coordinamento;

3.                          l’applicabilità dei due precedenti principi anche alle Regioni a statuto speciale (ed alle Province autonome).

Ovviamente pur essendo questa decisione dal punto di vista contenutistico molto prossima a quella precedentemente esaminata (la n. 169/2007), non può minimamente parlarsi di interpretazione conforme, opponendosi l’evidenza di una soluzione ablativa e non conservativa (la sentenza era di accoglimento). Inoltre, i vincoli comunitari, pur essendo espressamente citati, rimangono ancora una volta (coerentemente con tutta la giurisprudenza in materia) sullo sfondo di un’argomentazione tesa ad implementare l’efficienza della finanza pubblica oltre a valorizzare i poteri di coordinamento del legislatore nazionale e del Governo[34].

Caratterizzata da questa forte attenzione per la discrezionalità politica del Parlamento è anche la giurisprudenza che si occupa dell’altra grande zona di frizione con il principio dell’equilibrio finanziario: vale a dire i diritti sociali. Diritti, com’è noto, avvinti, nella giurisprudenza costituzionale, da un apparente paradosso: da un lato considerati inviolabili e dall’altro, in quanto diritti ad una prestazione, fortemente condizionati all’attuazione legislativa, a sua volta condizionata dalla disponibilità delle risorse finanziarie.

Le caratteristiche di questa giurisprudenza sono da tempo note alla dottrina[35]: tra di esse spicca proprio il riconoscimento dell’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore, ad esempio nell’attuazione del necessario criterio di gradualità nella tutela dei diritti sociali e, in termini più generali, nel riconoscimento della sostanziale insindacabilità delle scelte allocative delle risorse; tale libertà incontra solo il limite della manifesta irragionevolezza, in realtà integrata prevalentemente dal rispetto del nucleo irriducibile dei diritti in questione, del loro contenuto minimo essenziale[36]. Eventualità che ricorre in maniera piuttosto evidente nella giurisprudenza costituzionale, concretizzandosi nella garanzia di una prestazione minima almeno alle categorie indigenti; quindi una situazione caratterizzata, ci pare, da un doppio profilo tipologico: la tutela nei confronti di un tipo di atto (un tipo di scelta legislativa) particolarmente compressivo di un diritto (fino ad essere annichilente), nei confronti di un determinato tipo di soggetto particolarmente svantaggiato.

Il rispetto della discrezionalità legislativa si evince anche dagli strumenti decisionali utilizzati nel caso in cui la Corte decida di intervenire e cassare la norma impugnata; basti pensare, in relazione alle c.d. sentenze di spesa, come si sia passati da un modello di additiva di prestazione secca ad uno di additiva di prestazione di principio[37].

In questo contesto il richiamo al diritto comunitario è quantitativamente piuttosto scarso (in una messe così vasta di sentenze, la maggior parte non ne fanno nemmeno menzione) e, qualitativamente, permane come argomento ad adiuvandum, mediato dal richiamo ai criteri sopra esposti (primo fra tutti la discrezionalità legislativa) e che a tali criteri non pare aggiungere nulla (o ben poco) dal punto dell’argomentazione o della cogenza.

Anche in quest’ambito sembra confermarsi che l’apprezzamento del principio di equilibrio finanziario nella giurisprudenza costituzionale non possa essere leggibile nei termini di interpretazione conforme propriamente detta, e forse nemmeno nel senso più debole di un adeguamento ermeneutico a canoni comunitari. Vi è probabilmente da parte della Corte il rispetto di un processo politico gigantesco e molto pervasivo che ha determinato l’introiezione di un nuovo modello di azione pubblica, tanto da considerare che la necessità del risanamento economico risponda, oramai, a fini e, forse, a valori consustanziali al nostro sistema costituzionale.

Questo ultimo profilo, vale a dire quello riguardante il “posto” dell’equilibrio finanziario nella tavola dei nostri valori costituzionali, è però piuttosto complesso e ricco di spunti problematici, tanto da richiedere una trattazione autonoma; trattazione che è lecito rinviare ad altra sede.

 

 

 



[1] Intendiamo qui, ovviamente, lo spirito oggettualizzato nelle norme non certo lo spirito originario del Costituente.

[2]     Usiamo qui in maniera impropria e, semplicemente, allusiva la distinzione proposta dalla dottrina tra termini, profili e argomenti del giudizio di costituzionalità. Per approfondimenti, si vedano A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 2004, 105 ss. e spec. 116; Id., Il profilo fra argomento e termine della questione di costituzionalità, in Giurisprudenza costituzionale, 1978; Id., Motivi, argomenti, profili della questione di costituzionalità, ivi, 1980; G.U. Rescigno, Per una distinzione fra questione di legittimità costituzionale e argomentazioni del giudice a quo, ivi, 1968. Questo al fine di sottolineare il diverso ruolo e il diverso peso che una ricostruzione o l’altra potrebbero attribuire agli obblighi comunitari all’interno delle argomentazioni della Consulta.

[3] Cfr. Corte cost., sent. 8 giugno 1984, n. 170, in Giurisprudenza costituzionale, 1984, I, 1098 ss., in cui la Corte ha affermato: «fra le possibili interpretazioni del testo normativo prodotto dagli organi nazionali va prescelta quella conforme alle prescrizioni della Comunità, e per ciò stesso al disposto costituzionale, che garantisce l’osservanza del Trattato di Roma e del diritto da esso derivato», nonché Corte cost., ord. 28 dicembre 2006, n. 454: il giudice nazionale «può investire questa Corte della questione di compatibilità comunitaria nel caso di norme dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi, nell’impossibilità di una interpretazione conforme, nonché qualora la non applicazione della disposizione interna determini un contrasto, sindacabile esclusivamente dalla Corte costituzionale, con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale ovvero con i diritti inalienabili della persona» (corsivi aggiunti) e, recentissimamente, Id., sent. 24 giugno 2010, n. 227, con commento di C. Amalfitano, Il mandato di arresto europeo nuovamente al vaglio della Consulta, in www.forumcostituzionale.it; R. Calvano, Una nuova (ed ottima) decisione in tema di mandato d’arresto europeo ed un vecchia obiezione, nota a sentenza n. 227 del 2010, in https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/rivista/2010/00/Calvano01.pdf, sulla quale dovremo tornare più avanti.

[4] La bibliografia sull’interpretazione conforme è talmente vasta che in questa sede ci si dovrà limitare a menzionare alcuni contributi essenziali, facendo rinvio, per un approfondimento dei singoli profili problematici ad esso connessi, alle indicazioni ivi rinvenibili. Si v., ad esempio, L. Elia, Modeste proposte di segnaletica giurisprudenziale, in Giurisprudenza costituzionale, 2002, 3688 ss.; E. Lamarque, Una sentenza «interpretativa di inammissibilità»?, ivi, 1996, 3096 ss.; A. Anzon, Il giudice a quo e la Corte costituzionale tra dottrina dell’interpretazione conforme a Costituzione e diritto vivente, ivi, 1998, 1090 ss.; I. Marcenò, Le ordinanze di manifesta inammissibilità per «insufficiente sforzo interpretativo». Una tecnica che può coesistere con le decisioni manipolative (di norme) e con la dottrina del diritto vivente?, ivi, 2005, 793 ss.; C. Mezzanotte, La Corte costituzionale: esperienze e prospettive, in Attualità e attuazione della Costituzione, Bari, 1979, 161 ss.; L. Carlassare, Le questioni inammissibili e la loro riproposizione, in Studi in onore di V. Crisafulli, I, Padova, 1985, 164 ss.; R. Bin, L’applicazione diretta della Costituzione, le sentenze interpretative, l’interpretazione conforme a Costituzione della legge, relazione al Convegno La circolazione dei modelli e delle tecniche di giudizio di costituzionalità in Europa, Roma, 27-28 ottobre 2006, in https://www.associazionedeicostituzionalisti/materiali/convegni/aic200610/bin.html; A. Rauti, L’interpretazione adeguatrice come metacriterio ermeneutico e l’inversione logica dei criteri di rilevanza e non manifesta infondatezza, in E. Malfatti, R. Romboli, E. Rossi (a cura di), Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”. Atti del seminario di Pisa svoltosi il 25-26 maggio 2001 in ricordo di Giustino D’Orazio, Torino, 2002, 520 ss.; M. Esposito, «In penetralibus pontificum erat»: brevi considerazioni sulla parabola discendente del diritto scritto, in Giurisprudenza costituzionale, 2004, 2995 ss.; T. Groppi, Verso una giustizia costituzionale «mite»? Recenti tendenze dei rapporti tra Corte costituzionale e giudici comuni, in Politica del diritto, 2002, 217 ss.; A. Anzon, “Diffusione” del controllo di costituzionalità o “diffusione” del potere di attuazione giudiziaria della Costituzione?, in E. Malfatti, R. Romboli, E. Rossi (a cura di), Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”, cit., 379 ss.; E. Lamarque, Gli effetti della pronuncia interpretativa di rigetto della Corte costituzionale nel giudizio a quo. (Un’indagine sul «seguito» delle pronunce costituzionali), in Giurisprudenza costituzionale, 2000, 685 ss.; Id., Il seguito delle decisioni interpretative e additive di principio della Corte costituzionale presso le autorità giurisdizionali (anni 2000-2005), Relazione illustrativa della ricerca condotta nell’ambito del Servizio Studi della Corte costituzionale, Roma, 2007, 2 ss.; G. Amoroso, L’interpretazione «adeguatrice» nella giurisprudenza costituzionale tra canone ermeneutico e tecnica di sindacato di costituzionalità, in Foro italiano, 1998, V, 101 ss.; E. Lamarque, Le sezioni unite penali della Cassazione «si adeguano»...all’interpretazione adeguatrice della Corte costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale, 1999, 1412 ss.; F. Modugno, Metodi ermeneutici e diritto costituzionale (Relazione presentata al 2° Convegno nazionale della Società italiana degli Studiosi del Diritto Civile “I rapporti civilistici nell’interpretazione della Corte costituzionale”, Capri 18-19-20 aprile 2006), in Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, 2008, 65 ss.; M. Ruotolo, L’interpretazione conforme a Costituzione nella più recente giurisprudenza costituzionale: una lettura alla luce di alcuni risalenti contributi apparsi nella rivista «Giurisprudenza costituzionale», in A. Pace (a cura di), Corte costituzionale e processo costituzionale nell’esperienza della rivista «Giurisprudenza costituzionale» per il cinquantesimo anniversario, 2006, 903 ss.; Id., Per una gerarchia degli argomenti dell’interpretazione, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, 3418 ss.; G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006; M. Luciani, Le funzioni sistemiche della Corte costituzionale, oggi, e l’interpretazione “conforme a”, in www.federalismi.it; F. Modugno, La “supplenza” della Corte costituzionale (Relazione presentata al convegno “Il ruolo del giudice: le magistrature supreme”, tenutosi nei giorni 18 e 19 maggio 2007 all’Università degli Studi Roma Tre, Facoltà di Giurisprudenza), in Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, 2009, 107 ss.; Id., Alcune riflessioni a margine della ricerca su “Il seguito delle decisioni interpretative e additive di principio della Corte costituzionale presso le autorità giurisdizionali – anni 2000-2005, in Scritti sull’interpretazione costituzionale, 2009, 275 ss.; Id., Sul problema dell’interpretazione conforme a Costituzione: un breve excursus, in Giurisprudenza italiana, 2010, 1961 ss.; R. Romboli, Qualcosa di nuovo...anzi d’antico: la contesa sull’interpretazione conforme della legge, in P. Carnevale, C. Colapietro (a cura di), La giustizia costituzionale tra memoria e prospettive. A cinquant’anni dalla pubblicazione della prima sentenza della Corte costituzionale, Torino, 2008, 89 ss.; M. D’Amico, B. Randazzo (a cura di), Interpretazione conforme e tecniche argomentative. Atti del convegno di Milano svoltosi il 6-7 giugno 2008, Torino, 2009; M. Ruotolo, L’incidenza della Costituzione repubblicana sulla lettura dell’art. 12 delle preleggi, in www.gruppodipisa.it; Id., Interpretazione conforme a Costituzione e tecniche decisorie della Corte costituzionale, in corso di pubblicazioni in Scritti in onore di Alessandro Pace, Napoli, 2009; M. Raveraira, Le critiche alla interpretazione conforme: dalla teoria alla prassi un’incidentalità “accidentata”?, ibidem, 1968 ss.; G. Serges, Interpretazione conforme e tecniche processuali, ibidem, 1973 ss.

[5] La dottrina ha già messo in luce come l’interpretazione conforme sia un mezzo di integrazione decisamente preferibile alla disapplicazione che determina una situazione normativa ambigua alla quale il legislatore è chiamato a porre rimedio. Cfr. A. Ruggeri, Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in www.giurcost.org/eventi/scrittistresa/ruggeri.pdf, 14 ss. del dattiloscritto; Id.,  Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, relazione al Convegno del Gruppo di Pisa su Corte costituzionale e sistema istituzionale, Pisa 4-5 giugno 2010, in www.gruppodipisa2010.it e www.associazionedeicostituzionalisti.it; T. Guarnier, Interpretazione costituzionale e integrazione europea. Prime riflessioni intorno al mutamento dell'interpretazione costituzionale in funzione dell'apertura verso le organizzazioni sopranazionali, Napoli, 2010, 201 ss.

[6] Per ulteriori approfondimenti circa la complessa tematica che potrà qui essere analizzata solo tangenzialmente e con esclusivo riferimento ai profili di nostro più specifico interesse, si fa rinvio a L. Ronchetti, Obiettivo applicazione uniforme: contraddizioni e discriminazioni nella giurisprudenza comunitaria sulle direttive non trasposte, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1998, 415 ss.; L. Daniele, Forme e conseguenze dell’impatto del diritto comunitario sul diritto processuale interno, in Il diritto dell'Unione europea, 2001, 71 ss.; A. Ruggeri, Prospettive metodiche di ricostruzione del sistema delle fonti e carte internazionali dei diritti, tra teoria delle fonti e teoria dell’interpretazione, in G. Ferrari  (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza. Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, 221, n. 6; C. Acocella, Interpretazione conforme al diritto comunitario ed efficienza economica, in M. D'Amico, B. Randazzo (a cura di), Interpretazione conforme e tecniche argomentative. Atti del convegno di Milano svoltosi il 6-7 giugno 2008, Torino, 2009, 96 ss.;  F. Teresi, Direttive comunitarie inattuate e interpretazione conforme: dalla «interpositio legislatoris» all’applicazione giudiziaria, in Nuove autonomie, 1994, 71 ss.;  O. Pallotta, Interpretazione conforme ed inadempimento dello Stato, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2004, 262 ss.; F.M. Di Maio, Efficacia diretta delle direttive inattuate: dall’interpretazione conforme del diritto interno alla responsabilità dello stato per la mancata attuazione delle direttive, in Rivista di diritto europeo, 1994, 501 ss.; R. Cafari Panico, Per un’interpretazione conforme, in Diritto pubblico comparato europeo, 1999, 392 ss.; M. Ruvolo, Il giudice nazionale a confronto con la nozione di interpretazione conforme e con la sua particolare applicazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Nuove autonomie, 2006, 221 ss.

[7] Corte giust. CE, sent. 13 novembre 1990, C-106/89.

[8] Orientamento esplicitamente confermato in CGUE, 3 maggio 2007, C-303/05, Advocaten voor de Wereld ed esplicitamente riconosciuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 227 del 2010.

[9] Con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre del 2009, la cooperazione giudiziaria in materia penale non è più oggetto di un ambito di competenze esercitate con metodo intergovernativo, ma è disciplinata dal capo 4, titolo V, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 82 e seguenti), quindi oggetto di competenze esercitate con il metodo comunitario; pertanto, a partire da quel momento, gli atti normativi comunitari chiamati a disciplinare la materia non sono più le decisioni quadro bensì le direttive. Si veda, sul tema, P. Salvatelli, La Corte di giustizia e la comunitarizzazione del terzo pilastro, in Quaderni Costituzionali, 2005, 887 ss.

[10] Cfr. V. Mitsilegas, The Constitutional Implications of Mutual Recognition in Criminal Matters in the EU, in Common Market Law Review, 2006, 1277 ss.; G. De Kerchove, L’Europe pénale: Bilan et perspectives, in A. Moore, Police and Judicial Co-operation in The European Union, Cambridge, 2004, 335 ss.; M. Fletcher, The European Court of Justice, Carving Itself an Influential Role in the EU’s Third Pillar, 2007, in www.unc.edu/euce/eusa2007/papers/fletcher-m-08i.pdf; S. Alegre, M. Leaf, Mutual Recognition in European Judicial Cooperation: A Step Too Far Too Soon? Case Study, the European Arrest Warrant, in European Law Review, 2004,  200 ss.; E. Spaventa, Opening Pandora’s Box: Some Reflections on the Constitutional Effect of the Decision in Pupino, in European Constitutional Law Review, 2007, 5 ss. Il tema dell'interpretazione conforme a diritto comunitario con specifico riferimento al mandato d'arresto europeo è stato oggetto di numerosi studi: cfr., inter alios, R. Belfiore, Interpretazione conforme e mandato d'arresto europeo: una conferma viene da oltremanica, in Cassazione penale, 2007, 3479 ss.; P. Balbo, I sistemi giurisdizionali nazionali di fronte all'interpretazione del mandato d'arresto europeo, in www.giurcost.org/studi/balbo.html; R. Calvano (a cura di), Legalità costituzionale e mandato d'arresto europeo, Napoli, 2007; J. Sawicki, Incostituzionale ma efficace: il mandato d’arresto europeo e la Costituzione polacca, in https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/estero/arresto_polonia; O. Pollicino, Incontri e Scontri tra Ordinamenti e Interazioni tra Giudici nella Nuova Stagione del Costituzionalismo Europeo: La Saga del Mandato d’arresto Europeo come Modello di Analisi, in https://www.ejls.eu/4/58IT.htm. In tema di interpretazione della lettera e della ratio della decisione quadro sul mandato di arresto europeo si vedano le decisioni della CGE, 17 luglio 2008, C-66/08, Kozlowsky; Id., 10 ottobre 2009, C-123/08, Wolzenburg. Per alcune riflessioni della Corte costituzionale in tema di obbligo di interpretazione conforme a diritto comunitario e mandato d'arresto europeo, si veda la sentenza n. 227/2010, della quale ci pare opportuno riportare qui un ampio stralcio, ove la Corte definisce il proprio ruolo nello snodo delle attività di componimento delle esegesi delle disposizioni interne e di quelle comunitarie, nonché il rapporto intercorrente tra disapplicazione ed interpretazione conforme di diritto comunitario non autoappliactivo: «Nel caso in esame, i rimettenti hanno correttamente valutato, in primo luogo, l’esistenza del contrasto tra la norma impugnata e la decisione quadro, esplicitando le ragioni che precludono l’interpretazione conforme. La motivazione sul punto è plausibile, in quanto numerose decisioni della stessa Corte di cassazione configurano un “diritto vivente” in ordine all’applicabilità nella specie ed alla portata dell’art. 18, comma 1, lettera r), in particolare alla non riferibilità di questa norma allo straniero dimorante o residente in Italia. Peraltro, tale interpretazione risulta suffragata sia dalla lettera della disposizione, che dai lavori preparatori, espressivi dell’intento specifico di escludere per il MAE in executivis il rifiuto di consegna dei cittadini di altri Paesi dell’UE, esclusione oggetto di uno specifico emendamento. Ne consegue, anzitutto,  che il contrasto tra la normativa di recepimento e la decisione quadro, insanabile in via interpretativa, non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, trattandosi di norma dell’Unione europea priva di efficacia diretta, ma doveva essere sottoposto alla verifica di costituzionalità di questa Corte. In secondo luogo, gli atti nazionali che danno attuazione ad una decisione quadro con base giuridica nel TUE, ed in particolare nell’ex Terzo pilastro relativo alla cooperazione giudiziaria in materia penale, non sono sottratti alla verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme del Trattato CE, ora Trattato FUE, che integrano a loro volta i parametri costituzionali – artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – che a quelle norme fanno rinvio. Nella specie rileva, infatti, oltre alla decisione quadro sul MAE, l’art. 12 del TCE, oggi art. 18 del TFUE, che vieta ogni discriminazione in base alla nazionalità nel campo di applicazione del Trattato. Anche sotto tale profilo è corretto il ricorso al giudice delle leggi, dal momento che il contrasto della norma con il principio di non discriminazione di cui all’art. 12 del Trattato CE, non è sempre di per sé sufficiente a consentire la “non applicazione” della confliggente norma interna da parte del giudice comune. Invero, il divieto in esame, come si evince anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, pur essendo in linea di principio di diretta applicazione ed efficacia, non è dotato di una portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti. Al legislatore dello Stato membro, infatti, è consentito di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata, come, ad esempio, in una fattispecie quale quella che ci occupa, la previsione di un ragionevole limite temporale al requisito della residenza del cittadino di uno Stato membro diverso da quello di esecuzione (Corte di giustizia, sentenza Wolzenburg). Non solo, ma a precludere al giudice comune la disapplicazione della norma interna in ipotesi incompatibile, vale anche la circostanza che nella specie si verte in materia penale e che un provvedimento straniero che dispone la privazione della libertà personale a fini di esecuzione della pena nello Stato italiano non potrebbe essere eseguito in forza di una norma dell’Unione alla quale non corrisponda una valida norma interna di attuazione (sentenza n. 28 del 2010, punto 5). L’ipotesi di illegittimità della norma nazionale per non corretta attuazione della decisione quadro è riconducibile, pertanto, ai casi nei quali, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non sussiste il potere del giudice comune di «non applicare» la prima, bensì il potere–dovere di sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., integrati dalla norma conferente dell’Unione, laddove, come nella specie, sia impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici consentiti dall’ordinamento».

[11] Così ad esempio, come abbiamo già avuto occasione di notare, la nostra Corte costituzionale ha iniziato a prefigurare l'obbligo in parola già a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, cit. Cfr. supra, nota 3. Quanto al cennato obbligo di interpretazione conforme al diritto internazionale (ed, in special modo, ai trattati internazionali non ratificati), si vedano P. Ivaldi, L'adattamento del diritto interno al diritto internazionale, in S.M. Carbone (a cura di), Istituzioni di diritto internazionale, Torino, 2003, 123 ss.; B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2002, 297; A. La Pergola, Costituzione e adattamento dell'ordinamento interno al diritto internazionale, Milano, 1961, 319 ss.; M. Ruotolo, La «funzione ermeneutica» delle convenzioni internazionali sui diritti umani nei confronti delle disposizioni costituzionali, in Diritto e Società, 2000, 291 ss.; nonché, in giurisprudenza, Corte cost., sent. 19 gennaio 1993, n. 10; Id., sent. 19 gennaio 1996, n. 15: «Per quanto all'origine vi sia una deliberazione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, consegnata a un testo che esprime un accordo internazionale che ha da tempo ricevuto numerose adesioni e che è perciò efficace come trattato multilaterale, e sebbene i principi ivi proclamati abbiano portata universale per la loro stessa intrinseca natura, l'adesione a quel Patto e la sua vigenza in Italia derivano pur sempre da un atto di volontà sovrana individuale dello Stato espresso in forma legislativa. E ciò, se non impedisce di attribuire a quelle norme grande importanza nella stessa interpretazione delle corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione – impedisce però di assumerle in quanto tali come parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi»; Id., 16 maggio 1994, n. 183; Id. 13 maggio 1993, n. 235; Id., 25 marzo 1992, n. 125; Id., 18 aprile 1994, n. 168; Id., 26 maggio 1995, n. 193: «l'art. 3 della Convenzione OIL n. 103 del 1952 concernente la protezione della maternità, non direttamente applicabile stante il duplice rinvio contenuto nel comma 3° a interventi complementari del legislatore nazionale, tuttavia vive nell'ordinamento interno col valore di criterio di interpretazione della norma generale dell'art. 2110 cod. civ. in ordine al termine di decorrenza del periodo di comporto in caso di gravidanza e puerperio»; Id., 22 aprile 1997, n. 109; Id., 30 giugno 1999, n. 270; Cass., sez. lav., 22 luglio 2009, n. 17036; Id., 17 aprile 2009, n. 9238; Id., 15 gennaio 2008, n. 649.

[12] Qualche attenuazione del vincolo è però rinvenibile nella stessa giurisprudenza comunitaria poco sopra evocata, che riconosce l’opponibilità di limiti al “dovere” di interpretazione conforme a diritto comunitario. Cfr., ad esempio, sent. Pupino, cit.: «il principio di interpretazione conforme non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale», o CGE, sent. 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler: «l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale». Già a partire dalla sentenza Von Colson, inoltre, si afferma che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare conformemente al diritto comunitario se e nella misura in cui l'ordinamento nazionale gli offra un margine di discrezionalità in tal senso; affermazione a più riprese ribadita nella successiva giurisprudenza comunitaria, con varie modulazioni. Si veda, ad esempio, CGCE, sent. 16 dicembre 1993, C-334/92, Wagner Miret: «Il principio dell'interpretazione conforme vale in modo del tutto particolare per il giudice nazionale allorché uno Stato membro ha ritenuto, come nel caso di specie, che le disposizioni preesistenti del suo diritto nazionale soddisfacessero le prescrizioni della direttiva considerata. Dall'ordinanza di rinvio sembra emergere che le norme nazionali non possono essere interpretate in senso conforme alla direttiva sull'insolvenza dei datori di lavoro e non consentono quindi di assicurare al personale direttivo le garanzie in essa previste. Se ciò corrisponde al vero, dalla citata sentenza Francovich e a. discende che lo Stato membro interessato è tenuto a risarcire i danni subiti dal personale direttivo a causa della mancata attuazione della direttiva per quel che lo riguarda»; mentre in Id., sent. 18 dicembre 2007, C-357/06, Frigerio Luigi & C. Snc, il margine di discrezionalità offerto dall'ordinamento acquisisce una connotazione maggiormente impositiva: il giudice nazionale è tenuto ad interpretare le disposizioni nazionali conformemente al diritto comunitario, «avvalendosi per intero del margine di discrezionalità consentitogli dal suo ordinamento nazionale». In quest'ultimo senso pare orientata la giurisprudenza comunitaria più recente, ove può rinvenirsi la previsione di un onere del giudice nazionale di fare “quanto più possibile” nel compimento dello sforzo interpretativo lui richiesto (così, CGE, 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a.). Il punto ci pare implicitamente riconosciuto anche dalla Corte costituzionale che, nella recente sentenza 28 gennaio 2010, n. 28 ha dichiarato incostituzionale una norma interna configgente con una norma comunitaria non direttamente applicabile sulla scorta dell'impossibilità di operarne la disapplicazione e di darne un'interpretazione conforme. A commento della pronuncia si veda A. Celotto, Venisti tandem! La Corte finalmente, ammette che le norme comunitarie sono «cogenti e sovraordinate», in Giurisprudenza costituzionale, 2010, 384 ss.; maggiormente problematico circa la portata e la effettiva innovatività di questa decisione R. Bin, Gli effetti del diritto dell’Unione nell’ordinamento italiano e il principio di entropia, in Studi in onore di Franco Modugno, Napoli 2011, 363 ss.

[13] Cfr. CGUE, sent. 29 giugno 1978, in causa C-154/77, Dechmann.

[14] Nello stesso senso, si veda anche CGUE, sent. 27 ottobre 1993, Steenhorst-Neerings, C-338/91. Per alcuni contributi sulla progressiva trasformazione del sindacato interpretativo della Corte di giustizia, si vedano F. Sorrentino, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Torino, 1996, 34 ss.; G. Tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2005, 296 s.; M. Cartabia, La Corte costituzionale e la Corte di giustizia: atto primo, in Giurisprudenza costituzionale, 2008, 1317; G. Martinico, Le sentenze interpretative della Corte di giustizia come forme di produzione normativa, in Rivista di diritto costituzionale, 2004, 249 ss.

[15] A. Celotto-G. Pistorio, Interpretazione comunitariamente e convenzionalmente conformi, in Giur.it, agosto-settembre 2010, Sezione dottrina e attualità giuridiche, § 2.1.

[16] Infatti, continua la Corte, “La prevalente giurisprudenza di legittimità nega, infatti, il carattere ‘autoapplicativo’ delle direttive de quibus, con la conseguenza che le disposizioni nazionali, ancorché ritenute in contrasto con le stesse, hanno efficacia vincolante per il giudice (ex plurimis, Corte di cassazione, ordinanza n. 1414 del 2006). Più in generale, l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa – secondo la giurisprudenza comunitaria e italiana – solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una responsabilità penale (ex plurimis, Corte di giustizia, ordinanza 24 ottobre 2002, in causa C-233/01, RAS; sentenza 29 aprile 2004, in causa C-102/02, Beuttenmüller; sentenza 3 maggio 2005, in cause C-387, 391, 403/02, Berlusconi e altri; Corte di cassazione, sentenza n. 41839 del 2008)”.

[17] Cfr. nota 9 del presente lavoro.

[18] Già dalla sent. 94 del 1995 dove leggiamo: “poiché nei giudizi di costituzionalità in via principale l'oggetto del giudizio stesso, non è una norma in quanto applicabile, ma una norma di per sé lesiva delle competenze costituzionalmente garantite alle regioni, non si rinviene, come invece nei giudizi in via incidentale, alcun ostacolo processuale in grado di precludere alla Corte la piena salvaguardia, con proprie decisioni, del valore costituzionale della certezza e della chiarezza normativa di fronte a ipotesi di contrasto di una norma interna con una comunitaria”. Posizione questa che va incontro all’aporia, più volte rilevata da attenta dottrina, della ricostruzione della medesima antinomia (tra norma interna e norma comunitaria) talora nei termini dell’annullamento (id est, in termini di vizio della norma interna contrastante con quella comunitaria e, dunque, secondo una prospettiva monista) e talaltra in termini di disapplicazione (rectius, in-applicazione per impossibilità di una norma “esterna” all'ordinamento di invalidare una norma ad esso interna; in prospettiva, dunque, dualista). Cfr. sul punto, oltre quanto già precisato supra, alla nota 23, M. Luciani, Il dissolvimento della retroattività. Una questione fondamentale del diritto intertemporale nella prospettiva delle vicende delle leggi di incentivazione economica, Parte II, in Giurisprudenza italiana, 2007, 2089 ss., spec. 2094. In tema già A. Ruggeri, Continuo e discontinuo nella giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sent. 170/84, in tema di rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento interno: dalla “teoria” della separazione alla “prassi” della integrazione intersistemica?, in Giurisprudenza costituzionale, 1991, 1583 ss.

[19] A commento di questa giurisprudenza, si vedano Calvano R.La Corte costituzionale "fa i conti" per la prima volta con il nuovo art. 117 comma 1 Cost. Una svista o una svolta monista della giurisprudenza costituzionale sulle "questioni comunitarie"?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; A. Celotto, La Corte costituzionale finalmente applica il primo comma dell’art. 117 Cost. (in margine alla sent. n. 406 del 2005), in Giurisprudenza italiana, 2006, 1123 ss.; C. Napoli, La Corte dinnanzi ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”: tra applicazione dell’art. 117, primo comma e rispetto dei poteri interpretativi della Corte di giustizia, in www.forumcostituzionale.it; A. Celotto, Diritto comunitario e giudizio di costituzionalità, in Giustizia amministrativa, 2006, 367 ss.; A. Venturi, Standard qualitativi e strumenti compensativi nella recente legge lombarda sul governo del territorio: incostituzionalità per “incompatibilità” comunitaria?, in www.forumcostituzionale.it; G. Zampetti, La Corte e i “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”: obbligo di procedure ad evidenza pubblica, in Rivista dell’Avvocatura dello Stato, 2006, 152 ss.; R. Conti, Il problema delle norme interne contrastanti con il diritto dell’Unione non immediatamente efficace fra rimedi interni ed eurounitari, in www.federalismi.it.

[20] Sul delicato problema dell'efficacia orizzontale delle direttive comunitarie si fa rinvio a A. Barone, L’efficacia diretta delle direttive Cee nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale, in Foro italiano, 1991, IV, 130 ss.; F. Capelli, Il problema dell’efficacia orizzontale delle direttive: un epilogo in tono minore, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1994, 361 ss.; R. Baratta, Norme contenute in direttive comunitarie inattuate e loro inopponibilità ai singoli, in Rivista di diritto internazionale, 1989, 253 ss.; W. Van Gerven, The Horizontal Effect of Directive Provisions Rivisited: The Reality of Catchwords, in Essays in Honour of H.G. Schermers, II, Dordrecht/Boston, 1994, 335 ss.; R. Baratta, Quali prospettive in tema di effetti c.d. orizzontali di norme di direttive inattuate?, in Rivista di diritto internazionale, 1994, 487 ss. In senso critico nei confronti della giurisprudenza che nega l’invocabilità delle direttive nei rapporti tra i singoli cfr. R. Mastroianni, Direttive non attuate, rimedi alternativi e principi di uguaglianza, in Diritto dell'Unione europea, 1998, 81 ss.

[21] L’art. 2, comma 2, lettera i), della legge regionale del Piemonte 7 ottobre 2002, n. 23 (Disposizioni in campo energetico. Procedure di formazione del piano regionale energetico-ambientale. Abrogazione delle leggi regionali 23 marzo 1984, n. 19, 17 luglio 1984, n. 31 e 28 dicembre 1989, n. 79).

[22] Sul punto la Consulta afferma: “Quanto alla normativa comunitaria, rileva la direttiva 96/92/CE, la quale stabilisce “norme comuni per la generazione, la trasmissione e la distribuzione dell’energia elettrica” (art. 1), al fine, come si evidenzia nel sesto “considerando”, di “favorire l’interconnessione e l’interoperabilità delle reti” (tale direttiva è stata peraltro abrogata, con decorrenza 1° luglio 2004, dalla direttiva 2003/54/CE del 26 giugno 2003 – del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica e che abroga la direttiva 96/92/CE, - che, peraltro, all’art. 29, mantiene fermi ‘gli obblighi degli Stati membri circa i termini del recepimento e dell'applicazione’ della direttiva 96/92/CE).A sua volta, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, il cui art. 29 riserva allo Stato, tra le altre, le funzioni amministrative concernenti ‘la determinazione dei criteri generali tecnico-costruttivi e le norme tecniche essenziali degli impianti di produzione, conservazione e distribuzione dell’energia’.In questo quadro, il d.lgs. n. 79 del 1999, in attuazione della direttiva 96/92/CE, ha affidato ‘le attività di trasmissione e dispacciamento dell’energia elettrica, ivi compresa la gestione unificata della rete di trasmissione nazionale’ ad un gestore unico nazionale, prevedendo altresì per quest’ultimo ‘l’obbligo di connettere alla rete di trasmissione nazionale tutti i soggetti che ne facciano richiesta, senza compromettere la continuità del servizio e purché siano rispettate le regole tecniche del presente articolo e le condizioni tecnico-economiche di accesso e di interconnessione fissate dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas’ (art. 3, comma primo). L’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 79 del 1999, inoltre, prevede che il gestore della rete di trasmissione nazionale adotti “regole tecniche, di carattere obiettivo e non discriminatorio, in materia di progettazione e funzionamento degli impianti di generazione, delle reti di distribuzione, delle apparecchiature direttamente connesse, dei circuiti di interconnessione e delle linee dirette, al fine di garantire la più idonea connessione alla rete di trasmissione nazionale nonché la sicurezza e la connessione operativa tra le reti’. Nell’art. 2 del d.lgs. n. 79 del 1999, peraltro, sono reperibili, in base a quanto già disposto dalla direttiva 96/92/CE (si veda l’art. 2 di quest’ultima), le definizioni normative dei termini ‘produzione’ e ‘distribuzione’ dell’energia elettrica, nonché dell’espressione ‘utente della rete’, rilevanti al fine di interpretare correttamente la disposizione regionale oggetto del presente giudizio.In particolare, perproduzione’ si intende ‘la generazione di energia elettrica, comunque prodotta’ (art. 2, comma 19); per ‘distribuzione’ si intende ‘il trasporto e la trasformazione di energia elettrica su reti di distribuzione a media e bassa tensione per le consegne ai clienti finali’ (art. 2, comma 14); per ‘utente della rete’ si intende ‘la persona fisica o giuridica che rifornisce o è rifornita da una rete di trasmissione o distribuzione’ (art. 2, comma 25)”.

[24] Così dispone il terzo comma dell'art. 267 TFUE, il quale prevede l'obbligo per le giurisdizioni di ultima od unica istanza di sollevare la questione pregiudiziale interpretativa, ove la normativa comunitaria non sia sufficientemente chiara. Quanto alla modulazione di quest'obbligo, si v. CGE, 6 ottobre 1982, 283/81, CILFIT; Id., 27 marzo 1963, 28-30/62, Da Costa en Schaake. Com’è noto a tale disciplina la Consulta ha dato concretamente corso solo con la recente sentenza 102 (e con l’ordinanza 103) del 2008.

[25] Come noto, il Patto di stabilità e crescita nasce nel giugno del 1997, con risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam, al fine di garantire l'equilibrio delle finanze pubbliche attraverso l'obiettivo del saldo di bilancio prossimo al pareggio o positivo e, per tale via, di protezione della moneta unica da situazioni d instabilità che caratterizzavano alcuni Stati membri che si apprestavano ad entrare nell'area euro. Per uno studio ex professo di tale strumento, si v. A. Brunila, M. Buti, D. Franco, The Stability and Growth Pact. The Architecture of Fiscal Policy in EMU, Palgrave, 2001.

[26] Sulle specifiche problematiche poste in essere dal PSI nelle relazioni tra Stato, Regioni ed enti periferici, sulle quali in questa sede sarebbe peregrino dilungarsi, si v. P.L. Geti, Le «zone franche» dell’interpretazione conforme al diritto comunitario: il patto di stabilità interno, in M. D’Amico, R. Randazzo (a cura di), Interpretazione conforme e tecniche argomentative. Atti del convegno di Milano svoltosi il 6-7 giugno 2008, Torino, 2009, 290 ss., nonché le numerose pronunce della Corte costituzionale: cfr. sent. n. 4 del 2004, con commenti di M. Barbero, Il patto di stabilità interno all’esame della Corte costituzionale, in Il Foro amministrativo C.d.S., 2004, 346 ss.; A. Benedetti, Competenza statale “di principi” e coordinamento della finanza pubblica, in Giornale di diritto amministrativo, 2004, 733 ss.; G. Della Cananea, Il coordinamento della finanza pubblica alla luce dell’Unione economica e monetaria, in Giurisprudenza costituzionale, 2004, 77 ss.; R. Salomone, Titolo V della Costituzione e lavoro pubblico privatizzato: i primi orientamenti della Consulta, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2004, 1147 ss.; sent. n. 36 del 2004, con commenti di R. Caranta, Appalti pubblici ed opere pubbliche tra competenza statale e competenza regionale, in Giurisprudenza italiana, 2004, 1056 ss.; C. Pinelli, Patto di stabilità interno e finanza regionale, in Giurisprudenza costituzionale, 2004, 514 ss.; sent. n. 390 del 2004, con commenti di M. Barbero, Blocco delle assunzioni: le ragoni di una bocciatura, in www.federalismi.it; S. Caliandro, Il blocco delle assunzioni tra coordinamento della finanza pubblica e autonomia degli enti territoriali, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2005, 787 ss.; G. Cosetti di Sturmeck, Prima censura della Corte al patto di stabilità interno, in Diritto regionale, 2004, 206 ss., nonché la sentenza n. 89 del 2007.

Per il momento, con riferimento alla giurisprudenza riportata, ci interessa solo sottolineare un dato sul quel dovremo di qui a breve soffermarci, ossia quello dell’utilizzo del riferimento all’interpretazione conforme a diritto comunitario a solo supporto di decisioni tutte orientate alla valutazione del rispetto di parametri interni.

[27] Cfr., in questo senso, P.L. Geti, Le «zone franche» dell’interpretazione conforme al diritto comunitario: il patto di stabilità interno, cit., 298: «nell’ambito esaminato, il riferimento ad una “interpretazione conforme al diritto comunitario”, nel senso di valutare la comparabilità delle scelte legislative anche con riferimento alle regole sovranazionali dei trattati istitutivi, appare essersi ridotto ad una mera clausola di stile, cui la Corte ricorre per dichiarare (temporaneamente) la legittimità di previsioni (più o meno) invasive delle attribuzioni proprie degli enti locali»; F. Salmoni, Equilibrio finanziario, vincoli comunitari e giurisprudenza costituzionale, ibid., 405 ss., spec. 442: «quando la Consulta ha utilizzato le ragioni dell’integrazione europea, richiamando in motivazione i vincoli comunitari, lo ha fatto non già perché abbia – alla fin fine – riconosciuto che le norme dell’ordinamento europeo hanno una valenza superiore rispetto a quelle costituzionali, ma al solo scopo di rendere più persuasive le proprie argomentazioni, conferendo loro, per così dire, un plusvalore comunitario utile ad attribuire la responsabilità delle scelte volte al contenimento della spesa pubblica agli organi comunitari invece che a quelli costituzionali»; nonché – ma con riferimento specialmente alla Carta di Nizza – A. Celotto, F. Donati, Interpretazione conforme a diritto comunitario ed efficienza economica, ibid., 478 ss.

[28] Si vedano, per approfondimenti sulla pronuncia che toccano aspetti sui quali dovrò di qui a breve soffermarmi, C. Anelli, La copertura della spesa pubblica, in Foro amministrativo, 1966, II, 3 ss.; S. Buscema, La copertura degli oneri a carico dei bilanci futuri, in Rivista di diritto finanziario, 1966, II, 208 ss.; C. Chimenti, I futuri esercizi e l’art. 81 della Costituzione, in Giurisprudenza italiana, I, 365 ss.; L. Jona-Celesia, Obbligo di copertura e spese pluriennali, ibid., 377 ss.; V. Onida, Portata e limiti dell’obbligo di indicazione della “copertura” finanziaria nelle leggi che importano nove e maggiori spese, in Giurisprudenza costituzionale, 1996, 1 ss.

[29] Si pensi, ad esempio, alle pronunce n. 36 del 2004 e 417 del 2005, su cui R. CarantaAppalti pubblici ed opere pubbliche tra competenza statale e competenza regionale, cit.; C. PinelliPatto di stabilità interno e finanza regionale, cit.; G. BelfioreFinanza locale fra autonomia e coordinamento nella recente sentenza Corte cost. n. 417 del 2005, in www.forumcostituzionale.it; A. BrancasiLa Corte costituzionale delimita l'ambito del coordinamento della finanza pubblica, in Giornale di diritto amministrativo, 2006, 4, 414 ss.; A. Celotto, Incostituzionali i tagli alle Regioni nel 2004, in Giustizia amministrativa, 2005, 6, 1255 ss.; L. Malizia, R. Rolli, L’autonomia finanziaria territoriale alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 417/2005, ibid., 1256 ss.; T. Groppi, La Regione è tutore (indiretto) dei Comuni, in Diritto e Giustizia, 2005, 44, 92 ss.; G. Marazzita, Il difficile equilibrio tra l’autonomia di spesa delle Regioni e il potere statale di “coordinamento”, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2005, 6, 1116 ss.; S. Musolino, Potestà legislativa statale di coordinamento della finanza pubblica e puntuali vincoli alla spesa delle Regioni: la Corte costituzionale boccia il legislatore statale, in Corriere giuridico, 2006, 2, 198 ss.; M. Pieroni, Le funzioni della Corte dei conti al vaglio della giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il foro amministrativo C.d.S., 2005, 11, 3196 ss.; G. Razzano, La sussidiarietà orizzontale fra programma e realtà, in www.astrid-online.it; E. Rinaldi, Illegittime le statuizioni del decreto “taglia-spese” impositive di vincoli puntuali a specifiche voci di spesa dei bilanci di Regioni ed enti locali, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[30] Così, oltre alle summenzionate sentenze, anche le pronunce n. 449 del 2005 e 88 del 2006.

[31] Per una prospettiva critica, con particolare riferimento al complesso tema dei rapporti tra principio di equilibrio finanziario e diritti sociali, sul quale di qui a breve torneremo, v. G. Ferrara, Federalismo contro stato sociale, in E. Pugliese (a cura di), Stato sociale e solidarietà nazionale. Quaderni demotrends, n. 7, Roma, 2007, il quale sottolinea l’iniquità intrinseca al federalismo fiscale ove subordina i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale alle diseguaglianze economiche ed alle capacità fiscali delle singole Regioni; E. Pugliese, Le prestazioni sociali, in M. Ruotolo (a cura di), La Costituzione ha sessant’anni. La qualità della vita sessant’anni dopo, Napoli, 2008, 163 ss.

[32] Cfr. A. BrancasiLa controversa, e soltanto parziale, continuità nella giurisprudenza costituzionale sul coordinamento finanziario, in Giurisprudenza costituzionale, 2007, 1648 ss.

[33] La norma impugnata stabiliva:

“1. Gli enti locali trasmettono le richieste di modifica di cui all’articolo 3, comma 2, all’Assessorato regionale degli enti locali, finanze ed urbanistica, entro il 30 settembre di ciascun anno.

2. In via transitoria, per l’anno 2010, in sede di prima applicazione gli enti locali trasmettono le richieste di modifica di cui al comma 1, entro sette giorni dall’entrata in vigore della presente legge”.

Secondo il ricorrente il censurato art. 6, recante «Norme attuative e transitorie» in tema di patto di stabilità territoriale, non era “conforme alle disposizioni statali che fissano le scadenze entro le quali devono essere effettuate la rimodulazione e la conseguente comunicazione degli obiettivi dei singoli enti locali al Ministero dell’economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato.

In particolare, la disciplina impugnata non” avrebbe consentito “il monitoraggio del patto di stabilità interno, posto a salvaguardia dell’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva. Infatti, l’individuazione del termine del 30 settembre di ciascun anno e, in via transitoria per l’anno 2010, del termine di sette giorni dall’entrata in vigore della legge regionale in esame, per la comunicazione anzidetta, risulterebbe in contrasto con quanto stabilito dall’art. 7-quater, comma 7, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 (Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, nonché disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore lattiero-caseario), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 aprile 2009, n. 33

Il citato art. 7-quater, comma 7, dispone che – ai fini dell’applicazione dell’art. 77-ter, comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133 – la Regione comunichi al Ministero dell’economia e delle finanze, entro il mese di maggio di ciascuno degli anni 2009/2011, con riferimento ad ogni ente locale, gli elementi informativi occorrenti per la verifica del mantenimento dell’equilibrio dei saldi di finanza pubblica.

Secondo la difesa statale, la comunicazione di cui sopra riguarda «le modifiche regionali degli obiettivi assegnati agli enti locali al fine di consentire al Ministero dell’economia e delle finanze di verificare, attraverso il monitoraggio semestrale, il mantenimento dei saldi di finanza pubblica nel corso dell’anno».

La disposizione regionale impugnata, invece, prevedendo termini successivi al 31 maggio per la suddetta comunicazione, non consentirebbe al Ministero dell’economia di effettuare, nel corso dell’anno 2010 e di quelli successivi, il monitoraggio, diretto non solo alla verifica degli adempimenti relativi al patto, ma anche all’acquisizione di elementi informativi utili per la finanza pubblica (ex art. 77-bis, comma 14, del d.l. n. 112 del 2008)”.

[34] Sul punto la Corte afferma, al punto 4 del Considerato in diritto: “In definitiva, la competenza statale a fissare una tempistica uniforme per tutte le Regioni, circa la trasmissione di dati attinenti alla verifica del mantenimento dei saldi di finanza pubblica, può logicamente dedursi dalle esigenze di coordinamento, specie in un ambito – come quello del patto di stabilità interno – strettamente connesso alle esigenze di rispetto dei vincoli comunitari”.

[35] Si vedano per tutti, G. Scaccia, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, 309 ss.; M. Luciani, Sui diritti sociali, in R. Romboli (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali davanti alle Corti costituzionali, Torino, 1994, 105 ss. e F. Modugno, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007.

[36] Così, tra le altre, le decisioni nn. 88, 184 e 243 del 1993 e n. 309 del 1999. Sul punto, si vedano altresì R. Alesse, La tutela assistenziale e il recupero sociale degli invalidi: un nuovo e puntuale intervento della Corte costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale, 1993, 2924 ss.; A. Anzon, Un’additiva di principio con termine per il legislatore, in Giurisprudenza costituzionale, 1993, 1785 ss.; G. Bognetti, La Costituzione economica italiana: interpretazione e proposte di riforme¸ Milano, 1993, 143 ss.; G. Cattarino, Natura retributiva dei diversi trattamenti di fine rapporto e comparabilità degli stessi, in Giurisprudenza costituzionale, 1993, 3137 ss.; M. D’Amico, Un nuovo modello di sentenza costituzionale?, in Giurisprudenza costituzionale, 1993, 1803 ss.; G. M. Failla, Considerazioni alla sentenza della Corte costituzionale n. 243/93, in Nuovo diritto, 1993, parte I, 669 ss.; L. Fassina, L’indennità integrativa speciale ed il trattamento di fine lavoro pubblico nei giochi della Corte costituzionale e del legislatore, in Rivista giuridica del lavoro, 1993, 365 ss.; G. Pera, Ancora una sentenza ultimatum, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1994, parte II, 11 ss.; C. Pinelli, Titano, l’eguaglianza e un nuovo tipo di “additiva di principio”, in Giurisprudenza costituzionale, 1993, 1792 ss.

[37] Sul punto si vedano, proprio con riferimento alle pronunce della Corte costituzionale in tema di equilibrio finanziario, C. Pinelli, Titano, l’eguaglianza e un nuovo tipo di “additiva di principio”, cit. e R. Romboli, Dichiarazione di incostituzionalità con delega al Parlamento, in Foro italiano, 1993, parte I, 1732 ss.