Sentenza n. 109

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SENTENZA N. 109

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Francesco GUIZZI

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO

- Avv.    Massimo VARI

- Dott.   Cesare RUPERTO

- Dott.   Riccardo CHIEPPA

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof.    Valerio ONIDA

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE

- Avv.    Fernanda CONTRI

- Prof.    Guido NEPPI MODONA

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 67 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale)promosso con ordinanza emessa il 15 dicembre 1995 dal Tribunale per i minorenni di Genova nel procedimento penale a carico di B.D., iscritta al n. 396 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1996.

  Udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 1997 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

  1.- Nel corso di un procedimento instaurato a seguito di istanza di affidamento in prova al servizio sociale, avanzata da un condannato minorenne all'epoca della condanna, il Tribunale per i minorenni di Genova, in funzione di Tribunale di sorveglianza, con ordinanza emessa il 15 dicembre 1995, pervenuta a questa Corte il 5 aprile 1996, e iscritta al n. 396 del registro ordinanze del 1996, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 67 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), "nella parte in cui non consente (recte: in cui consente) di ritenere che l'affidamento in prova al servizio sociale e l'ammissione alla semilibertà siano esclusi anche per il condannato, minore di età al momento della sentenza di condanna, in espiazione di pena detentiva per conversione effettuata ai sensi del primo comma dell'art. 66 della citata legge".

Il giudice remittente rileva che l'instante deve scontare un residuo di pena di mesi 1 e giorni 8 di reclusione, derivante da conversione in pena detentiva della pena sostitutiva della libertà controllata, effettuata ai sensi dell'art. 66 della legge n. 689 del 1981, a seguito di inosservanza delle relative prescrizioni, e che il condannato si trova in condizioni che consentirebbero l'affidamento al servizio sociale, se non vi ostasse il divieto di cui all'art. 67 della stessa legge, a cui tenore "l'affidamento in prova al servizio sociale e l'ammissione al regime di semilibertà sono esclusi per il condannato in espiazione di pena detentiva per conversione effettuata" ai sensi del comma 1 dell'art. 66.

Osserva il giudice a quo che, benchè la legge n. 689 del 1981 abbia, almeno in parte, tenuto presente la specificità della condizione minorile, in particolare con l'art. 75 (concernente le modalità di esecuzione della libertà controllata nei confronti del condannato minorenne), l'art. 67 della stessa legge non consente di differenziare in alcun modo il condannato minorenne da quello adulto, con la conseguenza di un trattamento in fase esecutiva indifferenziato a fronte di situazioni soggettive totalmente diverse.

Il remittente sottolinea l'evoluzione giurisprudenziale verificatasi nella materia del diritto penale minorile grazie anche agli interventi della Corte costituzionale, ricordando in particolare la sentenza n. 46 del 1978 che aveva ritenuto, in via interpretativa, non applicabile ai minori il rigido divieto di concessione della libertà provvisoria previsto dall'art. 1 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e osservando che nella specie i termini della questione sono analoghi, trovandosi l'interprete di fronte ad un automatismo che impedisce valutazioni e prognosi individualizzate che tengano conto delle possibilità di recupero del "giovane adulto" il quale ha commesso in età minore il reato per cui é stato condannato.

Aggiunge poi che la legislazione internazionale é intervenuta più volte per mettere in evidenza la particolarità della condizione minorile in ambito penale: ricordando la dichiarazione dell'ONU del 29 novembre 1985 (c.d. regole di Pechino), che rimarca la necessità di un trattamento "efficace, equo ed umano" e l'esigenza di prevedere un potere discrezionale degli organi giudicanti anche nella fase esecutiva; e la convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176, il cui art. 40 afferma che al minore condannato deve essere assicurato un trattamento "che tenga conto della sua età nonchè della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest'ultima".

Tali principi, che ad avviso del remittente in certa misura possono rappresentare un'estrinsecazione in ambito penale minorile dei principi fondamentali enunciati nell'art. 3 della Costituzione, sarebbero anche a fondamento del nuovo processo penale minorile, disciplinato dal d.P.R. 29 settembre 1988, n. 448, che ha introdotto una nuova normativa incidente anche sul diritto sostanziale. E' rimasto invece irrisolto il problema di un ordinamento penitenziario minorile, sicchè é tuttora vigente l'art. 79 della legge n. 354 del 1975, ai cui sensi le norme dell'ordinamento penitenziario "si applicano anche nei confronti dei minori degli anni diciotto sottoposti a misure penali, fino a quando non sarà provveduto con apposita legge".

Nella materia delle sanzioni sostitutive il d.P.R. n. 448 del 1988 - rileva il remittente - ha apportato rilevanti novità, ma non ha preso in considerazione una modifica dell'art. 67 della legge n. 689. L'inerzia del legislatore nell'adottare una normativa che introduca nel settore penitenziario gli adattamenti e i correttivi richiesti dalla specificità della condizione minorile, inerzia perdurante nonostante i richiami della stessa Corte costituzionale (si ricorda in proposito la sentenza n. 125 del 1992), rende doveroso, ad avviso del giudice a quo, sollevare la questione di legittimità costituzionale di detto art. 67.

  2.- Non vi é stata costituzione di parti nè intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

  1.- La questione sollevata investe l'art. 67 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che esclude l'affidamento in prova al servizio sociale e l'ammissione alla semilibertà per i condannati la cui pena detentiva derivi da conversione di pena sostitutiva, effettuata ai sensi dell'art. 66 della stessa legge, per violazione delle relative prescrizioni. La disposizione é censurata limitatamente alla parte in cui si applica ai condannati di età minore al momento della sentenza di condanna.

Il parametro espressamente invocato é l'art. 3 della Costituzione, ritenendo il giudice a quo che il principio di eguaglianza sia violato per effetto della parificazione, ai fini della suddetta esclusione, del condannato minorenne al condannato di età maggiore. Ma l'argomentazione del remittente é fondata altresì sul rilievo che tale parificazione, dando luogo all'applicazione rigida e automatica del divieto di concessione delle misure alternative alla detenzione, non é in armonia con i principi, accolti anche a livello internazionale, che debbono ispirare la disciplina del trattamento penale del minore, in particolare nella fase della esecuzione: principi che dal punto di vista costituzionale, secondo la giurisprudenza di questa Corte ricordata ed invocata dallo stesso remittente, si riconducono, oltre che all'art. 3, agli artt. 27, terzo comma, 30 e 31 della Costituzione, richiedendo una "considerazione unitaria" (sentenza n. 125 del 1992; e cfr. anche sentenza n. 46 del 1978). Onde é da questo punto di vista più ampio, sostanzialmente fatto proprio dal remittente, che la Corte ritiene di dover esaminare anche la presente questione.

  2.- La ratio della disposizione di cui all'art. 67 della legge n. 689 del 1981 é pianamente individuabile. Poichè la conversione della pena sostitutiva (semidetenzione o libertà controllata) sanziona la violazione delle prescrizioni ad essa connesse, e dunque in certo modo una manifestazione di "immeritevolezza" del beneficio concesso con l'applicazione della pena sostitutiva medesima in luogo della pena detentiva, comportando il ripristino di quest'ultima, il legislatore ha ritenuto opportuno escludere che la pena detentiva, rimasta così da scontare, possa essere espiata con le modalità di esecuzione, totalmente o parzialmente extracarcerarie, proprie delle misure alternative il cui contenuto é sostanzialmente analogo a quello delle pene sostitutive "convertite", vale a dire con l'affidamento in prova al servizio sociale (di contenuto non dissimile dalla libertà controllata) o con la concessione della semilibertà (di contenuto analogo alla semidetenzione). Si é stabilita così una sorta di presunzione assoluta di inadeguatezza delle misure alternative alla detenzione rispetto alla situazione dei condannati che subiscono la conversione della pena sostitutiva, escludendo la stessa possibilità di effettuare quell'apprezzamento del caso concreto, in rapporto alla finalità di risocializzazione del condannato e alla prevenzione di nuovi reati, che sta alla base della ammissione a dette misure alternative. Si presume cioé, senza possibilità di valutazione contraria nel caso concreto, che la specifica finalità rieducativa propria della misura alternativa (il contributo alla rieducazione del reo, di cui é parola nell'art. 47, comma 1, dell'ordinamento penitenziario, in tema di affidamento in prova, o la possibilità di "graduale reinserimento del soggetto nella società", che condiziona l'ammissione alla semilibertà, ai sensi dell'art. 50, comma 4, della stessa legge) debba in questo caso cedere alle esigenze di applicazione della pena detentiva nelle forme ordinarie o di prevenzione di nuovi reati attraverso il mantenimento pieno dello stato di detenzione del condannato.

  3.- Siffatta presunzione, e la ratio che vi si ricollega, non appaiono di per sè senz'altro irrazionali. Ma l'applicazione indiscriminata della disposizione de qua anche ai condannati di età minore al momento del reato o al momento della condanna, per i quali valgono le speciali esigenze e regole proprie del diritto penale minorile, comportando anche in questo caso un rigido automatismo e impedendo una valutazione individualizzata e flessibile in ordine al trattamento del condannato e in rapporto alla finalità di risocializzazione, appare in irrimediabile contrasto con le predette speciali esigenze.

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte sottolineato il "peculiare interesse-dovere dello Stato al ricupero del minore", cui "é addirittura subordinata la realizzazione o meno della pretesa punitiva" (sentenza n. 49 del 1973), e il fatto che la funzione rieducativa della pena "per i soggetti minori di età é da considerarsi, se non esclusiva, certamente preminente" (sentenza n. 168 del 1994); così che "la giustizia minorile deve essere improntata all'essenziale finalità di recupero del minore deviante mediante la sua rieducazione ed il suo reinserimento sociale" (sentenza n. 125 del 1992, e v. ivi altri riferimenti). Tale finalità "caratterizza tutti i momenti e le fasi attraverso le quali la giurisdizione penale si esplica nei confronti dei minori", e in particolare connota "il trattamento del minore anche nella fase esecutiva", così che il ricorso all'istituzione carceraria deve essere considerato, per i minori, come "ultima ratio" (ancora sentenza n. 125 del 1992, nonchè sentenza n. 46 del 1978).

Così pure é costante nella giurisprudenza costituzionale l'affermazione della esigenza che il sistema di giustizia minorile sia caratterizzato fra l'altro dalla "necessità di valutazioni, da parte dello stesso giudice, fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante" (sentenze n. 143 del 1996, n. 182 del 1991, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983, n. 46 del 1978), anzi su "prognosi particolarmente individualizzate" (sentenza n. 78 del 1989), questo essendo "l'ambito di quella protezione della gioventù che trova fondamento nell'ultimo comma dell'art. 31 Cost." (sentenze n. 128 del 1987, e n. 222 del 1983): vale a dire della "esigenza di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l'evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono" (sentenza n. 125 del 1992).

Siffatte esigenze, come é noto, hanno trovato larga espressione, oltre che nella disciplina del nuovo processo penale minorile, dettata con il d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, anche a livello internazionale. Così le "regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile" (c.d. regole di Pechino) di cui alla dichiarazione di New York dell'ONU del 29 novembre 1985, al n. 8, prevedono "un potere discrezionale appropriato a diversi livelli dell'amministrazione della giustizia minorile", anche "nella fase esecutiva"; e la convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, e resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176, non solo riconosce al minore condannato "il diritto ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale" e che tenga conto fra l'altro "della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest'ultima" (art. 40, comma 1), ma prescrive che la detenzione o l'imprigionamento di un fanciullo devono "costituire un provvedimento di ultima risorsa ed avere la durata più breve possibile" (art. 37, lettera b).

  4.- Con le suddette esigenze costituzionalmente tutelate contrasta irrimediabilmente il rigido automatismo insito nella norma impugnata, che esclude, come si é detto, ogni valutazione discrezionale del caso concreto, e impedisce l'adozione di misure alternative alla detenzione in carcere per l'espiazione della pena convertita, anche quando esse in concreto appaiano appropriate rispetto alla preminente finalità di reinserimento sociale del giovane condannato, che può risultare in tal modo frustrata. E ciò, si badi, pur quando continuino a sussistere le condizioni generali alle quali la legge subordina l'adozione delle misure alternative, le quali possono proseguire anche se durante la loro esecuzione sopravvenga un titolo di esecuzione di altra pena detentiva, purchè, tenuto conto del cumulo delle pene, permangano le condizioni di entità della pena da scontare che la legge prevede per le diverse misure (art. 51-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354).

  5.- La Corte ha già avuto occasione di sottolineare che "le esigenze di recupero e di risocializzazione dei minori devianti e, quindi, di accentuazione della funzione rieducativa della pena e di differenziazione del loro trattamento rispetto a quello previsto per gli adulti" restano "tuttora non integralmente soddisfatte" con riferimento alla fase di esecuzione delle pene, data la perdurante applicabilità ai minori delle norme dell'ordinamento penitenziario generale, prevista dall'art. 79 della legge n. 354 del 1975 "fino a quando non sarà provveduto con apposita legge", finora non emanata; e che "l'assoluta parificazione tra adulti e minori" proprio nel campo delle misure alternative alla detenzione "non é, indubbiamente, in armonia" con i principi che debbono reggere questa materia, risultandone compressa l'esigenza "di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento" del condannato minorenne (sentenza n. 125 del 1992).

A maggior ragione risulta in contrasto con le esigenze riconducibili ai parametri costituzionali indicati una norma, come quella impugnata, che - parificando a sua volta i condannati minorenni a quelli adulti - introduce un ulteriore elemento di rigidità e di automatismo, tale da precludere al condannato l'accesso alle misure alternative pur in presenza delle condizioni generali per esse previste, in forza di una presunzione assoluta di "immeritevolezza" o di inadeguatezza della misura, che può avere certamente, come si é detto, una sua ratio, ma che nel caso dei minori contraddice la necessità di dare preminenza alla finalità di risocializzazione e di adattare il trattamento del condannato in relazione a valutazioni e prognosi individualizzate e ancorate alla concretezza del caso.

  6.- La disposizione denunciata deve dunque essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui si applica ai condannati di età minore al momento della condanna.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 67 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui si applica ai condannati minori di età al momento della condanna.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Valerio ONIDA

Depositata in cancelleria il 22 aprile 1997.