Sentenza n. 223 del 1983

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SENTENZA N. 223

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge 29 luglio 1980, n. 385 (Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457 e 15 febbraio 1980, n. 25) e dell'articolo unico del d.l. 28 luglio 1981, n. 396, conv. in legge 25 settembre 1981, n. 535 (Differimento del termine di cui all'art. 1 della legge 29 luglio 1980, n. 385, in materia di indennità di espropriazione), promossi con le ordinanze emesse il 21 novembre 1980 dalla Corte d'appello di Bologna, il 24 ottobre 1980 dalla Corte d'appello di Roma (due ordinanze), il 12 dicembre 1980 dalla Corte d'appello di Bologna, il 12 dicembre 1980 dalla Corte d'appello di Cagliari, il 3 novembre 1980 dalla Corte d'appello di Genova, il 3 aprile (due ordinanze) e il 12 giugno 1981 (tre ordinanze) dalla Corte d'appello di Firenze, il 19 giugno 1981 dalla Corte d'appello di Torino, il 4 maggio 1981 dalla Corte d'appello di Lecce, il 9 ottobre 1981 dalla Corte d'appello di Firenze (due ordinanze), 1'11 novembre 1981 dalla Corte d'appello di Potenza, il 3 novembre 1981 dalla Corte d'appello di Milano, il 30 ottobre 1981 e il 15 gennaio 1982 dalla Corte d'appello di Firenze, il 12 maggio e il 29 aprile 1982 dalla Corte d'appello di Campobasso, il 9 giugno 1982 dalla Corte d'appello di Potenza (due ordinanze), il 17 marzo 1982 dal Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d'appello di Milano, il 7 maggio 1982 dalla Corte d'appello di Napoli e il 30 marzo 1982 dalla Corte di Cassazione - Sez. I civile, rispettivamente iscritte ai nn. 27, 106, 107, 118, 134, 200, 444, 445, 541, 542, 543, 609, 665, 781 e 782 del registro ordinanze 1981 ed ai nn. 73, 145, 198, 199, 483, 484, 601, 602, 657, 683 e 686 del registro ordinanze 1982 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 77, 117, 137, 172, 290, e 318 del 1981 e nn. 19, 75, 171, 220, 255, 344 e 357 del 1982. Visti gli atti di costituzione del Banco di Santo Spirito, di Massimo Lancellotti Teresa, della S.p.A. Cave Reno, di Arcangeli Anna Maria, di Mastronardi Enrichetta, di Russo Giovanni e Settembre Pasqualina, della soc. Immobiliare Olonella, del Comune di Bologna, del Comune di Roma, del Comune di Bagno a Ripoli e del Comune di Napoli;

visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella pubblica udienza dell'8 marzo 1983 il Giudice relatore Livio Paladin;

uditi l'avv. Antonio Stoppani per Russo Giovanni e Settembre Pasqualina e - per delega dell'avv. Edda Menzani - per la S.p.A. Cave Reno e per Arcangeli Anna Maria, l'avv. Adriano Pallottino per il Banco di Santo Spirito e per Massimo Lancellotti Teresa, l'avv. Giorgio Stella Richter per il Comune di Bologna, l'avv. Tommaso Peccerillo per il Comune di Napoli, l'avv. Giulio Marchetti per il Comune di Roma e l'avvocato dello Stato Renato Carafa per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1. - Con due ordinanze emesse il 24 ottobre 1980, la Corte d'appello di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge 29 luglio 1980, n. 385 (contenente "Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457 e 15 febbraio 1980, n. 25"), in riferimento agli artt. 3 e 42 Cost..

In entrambi i casi, il giudice a quo premette che la disciplina dettata dalla legge n. 385 "deve sicuramente trovare applicazione nella attuale controversia", in quanto emanata "al preciso scopo di colmare il vuoto legislativo" creatosi per effetto della sentenza n. 5/1980 di questa Corte: come risulta espressamente dall'art. 1, primo comma, e come é confermato dall'art. 3 della legge medesima, che eccettua dall'applicazione di essa i soli "procedimenti in corso" per i quali "la liquidazione della indennità di espropriazione o di occupazione sia divenuta definitiva, ovvero non impugnabile ovvero sia stata definita con sentenza passata in giudicato" alla data di pubblicazione della sentenza predetta.

Per altro, dopo aver negato che tale disciplina violi l'articolo 136 Cost., le due ordinanze rilevano, da un lato, che essa non garantirebbe - stante il citato disposto dell'art. 3 - "un eguale trattamento tra soggetti colpiti da identici provvedimenti ablatori emessi in epoche diverse"; e, d'altro lato, aggiungono che "la liquidazione delle indennità definitive dovute agli espropriati in forza del disposto di cui al secondo comma dell'art. 1 ed al primo comma dell'art. 2 della legge n. 385 non può non apparire futura e incerta", in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, "essendo condizionata alla emanazione di un successivo testo legislativo del quale non si conoscono neppure le linee ispiratrici".

2. - Nel primo dei due giudizi si sono costituiti il Banco di Santo Spirito ed il Comune di Roma: l'uno per chiedere che la Corte annulli le norme impugnate, l'altro per sostenere la manifesta infondatezza dell'impugnativa. Secondo il Comune di Roma, che ha nuovamente svolto le proprie tesi con una memoria depositata in vista della pubblica udienza, il fatto che il legislatore abbia per ora previsto un indennizzo a titolo di acconto non potrebbe collidere con una giurisprudenza costituzionale riguardante gli indennizzi stabiliti in via definitiva, per i quali soltanto si porrebbe un problema di "serio ristoro": tanto più che il "termine ravvicinato", fissato dalla legge n. 385 "per l'emanazione dei criteri in base ai quali liquidare il conguaglio", escluderebbe "che sussista illimitata dissociazione temporale fra espropriazione ed indennità"; e gioverebbero comunque il rimedio della "corresponsione degli interessi sulla differenza tra l'indennità provvisoria e quella definitiva", nonché la facoltà "di convenire con l'Ente Espropriante la cessione volontaria dei beni con la maggiorazione dell'indennità offerta in misura pari al 50 per cento. Né sarebbe ipotizzabile alcuna violazione del principio d'eguaglianza, là dove si tratti - come nel caso in esame - d'una legge che riguardi "tutti i procedimenti ancora aperti", limitandosi a non incidere sulle "situazioni già esaurite".

Identiche deduzioni sono state esposte dal Comune di Roma nel secondo dei due giudizi instaurati dalla Corte d'appello di Roma; mentre per l'accoglimento ha concluso la costituita parte attrice, Teresa Massimo Lancellotti

In entrambi i giudizi é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, sostenendo l'infondatezza dell'impugnativa. Negli atti di intervento, l'Avvocatura dello Stato afferma anzitutto che la censurata determinazione dell'indennità "in via provvisoria" si sarebbe resa indispensabile "per colmare il vuoto legislativo" prodotto dalla sentenza n. 5 del 1980. Sgombrato così il campo "dalla tesi che la legge denunciata avrebbe riprodotto norme già dichiarate costituzionalmente illegittime", altro essendo l'acconto ed altro l'indennizzo definitivo, l'Avvocatura dello Stato aggiunge - ricordando la sentenza di questa Corte n. 16 del 1968 - che proroghe del genere di quella in esame non sarebbero illegittime, allorché il loro termine finale risulti "approssimativamente e ragionevolmente determinabile nel quando", come appunto si ricaverebbe dalla legge stessa. Del resto, il "serio ristoro", prescritto dall'art. 42 Cost., non imporrebbe affatto "che la legge regolatrice dell'indennizzo debba essere unica e non plurima"; "o che non possa da tale legge essere preveduto un indennizzo provvisorio, da conguagliare... secondo criteri di successiva emanazione". E sarebbe fuor di luogo invocare il principio d'eguaglianza, di fronte ad una legge che "ha fatto buon governo" - con il già citato art. 3 - "del principio generale dell'irretroattività della legge, nonché dei principi relativi ai limiti di retroattività delle sentenze di annullamento della Corte costituzionale".

3. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 385, in riferimento all'art. 42 Cost., é stata riproposta dalla Corte d'appello di Bologna, con due ordinanze pressoché identiche nelle loro motivazioni, rispettivamente emesse il 21 novembre ed il 12 dicembre 1980. Entrambe le ordinanze rilevano, in particolar modo, che la norma impugnata, dissociando l'esproprio dalla determinazione dell'integrale corrispettivo, verrebbe a privare i provvedimenti ablativi di un loro "elemento connaturale" e costituzionalmente necessario.

In entrambi i giudizi si sono costituite le parti attrici, società Cave Reno e sigg. Arcangeli, aderendo alla conclusione del giudice a quo, anche in vista del "notevole pregiudizio" di ordine economico, che la troppo ritardata integrazione dell'indennità sta determinando a carico degli espropriati. Per contro, si é costituito anche il Comune di Bologna, convenuto nel primo dei giudizi stessi, negando che l'art. 42 Cost. sorregga la proposta impugnativa: la quale incorrerebbe nell'equivoco di ritenere che "l'esproprio sia caratterizzato dal sinallagma", senza tener conto che l'indennizzo rappresenta unicamente "il massimo di contributo e riparazione che l'Amministrazione può garantire all'interesse privato".

É altresì intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, svolgendo le stesse tesi di cui si é fatto cenno relativamente alle ordinanze della Corte d'appello di Roma, nella parte concernente l'art. 42 Cost.

4. - L'art. 1 della legge n. 385 é stato anche impugnato dalla Corte d'appello di Genova, con ordinanza del 3 novembre 1980: ma in riferimento all'art. 24, primo comma, oltre che all'art. 42, terzo comma, della Costituzione. In quest'ultimo senso, il giudice a quo ritiene che la "pratica riproduzione" di norme annullate da questa Corte "ponga già di per sé una non manifestamente infondata questione di illegittimità costituzionale"; tanto più che l'indennizzo costituzionalmente garantito dovrebbe essere "attuale e completo, e non già proiettato, nella sua determinazione definitiva, a criteri da fissare con una legge ancora da venire". Nel primo senso, d'altronde, la disciplina censurata determinerebbe "pregiudizievoli implicazioni", quanto alla "libera ed incondizionata azionabilità in giudizio dei propri diritti da parte dell'espropriato": infatti, le opposizioni pendenti rischierebbero di risultare inammissibili, per difetto del loro necessario presupposto, ossia della loro "perdurante riferibilità

... ad una liquidazione definitivamente già attuata in sede amministrativa", con la conseguenza - forse irrimediabile - del "vano esaurimento di un giudizio a suo tempo legittimamente e tempestivamente promosso dall'espropriato" (e comunque di un "vano dispendio di attività processuale").

L'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri ha per altro obiettato, oltre ai già noti assunti concernenti l'art. 42 Cost., che "la determinazione effettuata dalle Commissioni" non sarebbe "incisa, per quanto riguarda la sua impugnabilità, dalla normativa denunciata". Dovrebbe dunque escludersi - secondo l'Avvocatura dello Stato - "che si siano creati degli ostacoli al diritto di difesa in materia"; e quelli denunciati, in vista dell'art. 24 Cost., sarebbero solo "ipotetici inconvenienti di fatto", involgenti profili di merito legislativo e non di legittimità costituzionale.

5. - A sua volta, con ordinanza del 12 dicembre 1980, la Corte d'appello di Cagliari ha impugnato tanto l'art. 1 quanto gli artt. 2 e 3 della legge n. 385, facendo riferimento ad una vasta serie di parametri costituzionali. Oltre agli artt. 3, primo comma, e 42, terzo comma, già posti da questa Corte a base della sentenza n. 5 del 1980, il giudice a quo richiama infatti l'art. 53, primo comma, sostenendo che la disciplina censurata determinerebbe "una sorta di imposizione straordinaria" non ragguagliata alla capacità contributiva del soggetto; l'art. 81, quarto comma, dal momento che l'acconto in questione istituzionalizzerebbe "il difetto di copertura della spesa in tutte le leggi che disciplinano la realizzazione di opere pubbliche"; e l'art. 136 Cost., là dove si dispone che le norme dichiarate incostituzionali cessano di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

Ma il presidente del Consiglio dei ministri é qui pure intervenuto, per contestare ognuna di tali censure. In primo luogo - osserva l'Avvocatura dello Stato - la legge impugnata non avrebbe affatto previsto che "le norme demolite sul piano costituzionale conservassero la loro efficacia"; in secondo luogo, non sarebbe pertinente il richiamo del giudice a quo alla "capacità contributiva"; in terzo luogo, quella in esame non avrebbe nulla a che vedere con le leggi di bilancio né con le leggi implicanti una nuova o maggiore spesa.

6. - La legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 385 é stata inoltre messa in dubbio dalla Corte d'appello di Firenze, con nove ordinanze rispettivamente emesse il 3 aprile, il 12 giugno, il 9 ottobre, il 30 ottobre 1981 ed il 15 gennaio 1982. Nei primi cinque giudizi (R.O. 444, 445, 541, 542 e 543/1981) il giudice a quo ha circoscritto le sue censure al primo ed al secondo comma dell'articolo predetto; nei quattro giudizi successivi (R.O. 781, 782 del 1981, 198 e 199 del 1982) ha invece coinvolto il quarto comma dell'articolo stesso. Ma, in tutti i casi, le nove ordinanze hanno fatto riferimento - con identiche od analoghe motivazioni - agli artt. 42, terzo comma, e 136, primo comma, della Costituzione, sostenendo che il vizio cui questa Corte aveva posto riparo, mediante la sentenza n. 5 del 1980, si sarebbe in realtà perpetuato (anche per effetto della proroga operata dal decreto-legge 28 luglio 1981, n. 396, convertito nella legge 25 settembre 1981, n. 535).

Nel giudizio instaurato con l'ordinanza del 9 ottobre 1980 si é costituito il Comune di Bagno a Ripoli, che ha eccepito l'inammissibilità dell'impugnativa, dal momento che essa avrebbe dovuto rivolgersi contro il sopravvenuto decreto-legge n. 396 del 1981, anziché riguardare la sola legge n. 385 del 1980. Nel merito, comunque, la difesa del Comune ha concluso nel senso dell'infondatezza, notando che l'indennizzo non potrebbe considerarsi iniquo, "solo perché corrisposto in due momenti distinti".

Nel medesimo senso si é poi pronunciato, relativamente a tutti i giudizi instaurati dalla Corte d'appello di Firenze, l'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri.

7. - Ancora, con ordinanza del 19 giugno 1981, la Corte d'appello di Torino - premesso che "nessuna norma prevede la sospensione di un giudizio in attesa di una legge futura" -, ha impugnato l'art. 1 della legge n. 385 in riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sostenendo che l'indennizzo in questione sarebbe "incerto ed aleatorio".

Similmente, la Corte d'appello di Lecce, con ordinanza del 4 maggio 1981, ha ritenuto che gli artt. 1, 2 e 3 della legge n. 385 contrastino con gli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione.

Del pari, la Corte d'appello di Potenza, con tre ordinanze datate 11 novembre 1981 e 9 giugno 1982, ha ipotizzato l'esistenza di un contrasto fra gli artt. 1 e 2 della legge n. 385 e l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, lamentando - in particolar modo - che la legge medesima non preannunci nemmeno i criteri per la fissazione dell'indennizzo definitivo.

Tanto l'art. 1 della legge n. 385, quanto l'articolo unico del decreto-legge n. 396 del 1981 (convertito nella legge n. 535 del medesimo anno) sono stati invece impugnati dalla Corte d'appello di Milano, con ordinanza del 3 novembre 1981, e dal Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte stessa, con analoga ordinanza del 17 marzo 1982; e ciò in riferimento agli artt. 136, 42 e 24 Cost., per la parte in cui dette norme "dispongono in via transitoria, fino all'emanazione di apposita legge sostitutiva, l'adozione di criteri provvisori di determinazione dell'indennità dovuta per le espropriazioni comunque preordinate alla realizzazione di opere o interventi da parte o per conto dello Stato, delle regioni, delle provincie, dei comuni e degli altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali".

Infine, con ordinanza del 30 marzo 1982, anche la Corte di cassazione ha impugnato l'art. 1 della legge n. 385, per asserito contrasto con l'art. 42, terzo comma (il quale escluderebbe che possa darsi - per di più sulla base di norme già dichiarate incostituzionali - "soluzione di continuità fra perdita della proprietà e acquisto dell'indennità"), nonché con l'art. 24 Cost. (data la "difesa puramente ipotetica" cui l'espropriato sarebbe in tal senso costretto).

In tutti i giudizi in questione é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo nel senso dell'infondatezza. Nel giudizio instaurato dal Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d'appello di Milano si é costituita la Società immobiliare Olonella, censurando la riproduzione di norme già dichiarate illegittime da questa Corte. Così pure, nel giudizio instaurato dalla Corte di cassazione, si sono costituiti Giovanni Russo e Pasqualina Settembre, concludendo per l'accoglimento, anche con riguardo alle leggi di proroga successive a quella specificamente denunciata dal giudice a quo.

8. - La legittimità degli artt. 1, 2 e 3 della legge n. 385 é stata altresì contestata dalla Corte d'appello di Campobasso, in riferimento agli artt. 3 e 42 Cost., con due ordinanze - identicamente motivate - del 29 aprile e del 12 maggio 1982.

Nel primo di tali giudizi si sono costituite Enrichetta e Maria Mastronardi, aderendo alle tesi del giudice a quo sulla base della considerazione, svolta nell'atto di costituzione e in una successiva memoria, che l'espropriato abbia diritto "ad un indennizzo che non sia irrisorio, apparente o aleatorio", come invece si verificherebbe nella specie.

Per contro, l'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri ha rinviato agli atti di intervento depositati nei precedenti giudizi.

9. - Da ultimo, con ordinanza emessa il 7 maggio 1982, la Corte d'appello di Napoli ha concluso la serie delle impugnative in esame, ipotizzando che l'intera legge n. 385 del 1980 abbia violato gli artt. 42, terzo comma, e 24 della Costituzione.

L'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto, ancora una volta, che la Corte dichiari l'infondatezza di tali censure.

Più ampie considerazioni sono state esposte, nel medesimo senso, dal costituito Comune di Napoli: il quale ha rilevato, in primo luogo, che "tutte le leggi emanate in tema di espropriazione", a partire dall'art. 51 della legge n. 2359 del 1865, "hanno sempre prescritto che alla fase di determinazione temporanea da parte degli organi amministrativi, segue una seconda fase in cui viene determinata, in un giudizio contenzioso ordinario..., l'indennità definitiva ad istanza dell'interessato". In effetti - si aggiunge in una memoria depositata in vista della pubblica udienza - la Costituzione farebbe salvo l'indennizzo, ma senza esigere che esso "sia determinato, liquidato e depositato prima della emanazione del decreto di espropriazione". Né si potrebbe trarre argomento dalla mancata approvazione della prevista legge di determinazione dell'indennizzo definitivo, dato che "la legittimità costituzionale di una legge non va valutata a posteriori sulla base di un comportamento successivo del legislatore ma esclusivamente con riguardo alle norme poste in essere dallo stesso con la legge di cui si discute".

Considerato in diritto

 

1. - I 26 giudizi si prestano ad essere riuniti e decisi con unica sentenza, poiché hanno tutti per tema la legittimità costituzionale dell'indennità di espropriazione (o della rispettiva indennità di occupazione), nelle forme e nelle misure provvisoriamente stabilite, quanto alle aree edificabili, dalla legge 29 luglio 1980, n. 385: legge conseguente, in questa parte, alla sentenza 25 gennaio 1980, n. 5, con cui la Corte ha annullato una serie di norme già dettate in materia dalla legge 28 gennaio 1977, n. 10, nonché dalla legge 27 giugno 1974, n. 247.

Vero é che tutte le ordinanze impugnano l'art. 1 della legge n. 385, con particolare riguardo al primo ed al secondo comma dell'articolo stesso: l'uno rivolto ad ancorare la predetta indennità provvisoria al "valore agricolo medio... corrispondente al tipo di coltura in atto nell'area da espropriare" ovvero, "per le aree comprese nei centri edificati", alla "coltura più redditizia" tra quelle interessanti oltre il 5 per cento della superficie coltivata nella regione agraria in questione (previa moltiplicazione di quest'ultimo dato per un coefficiente da 4 a 10 o da 2 a 5, secondo che si tratti di comuni con popolazione superiore o meno ai 100.000 abitanti); l'altro recante il preannuncio di un "conguaglio" da definire entro un anno dall'entrata in vigore della legge in esame, mediante un'ulteriore "apposita legge sostitutiva delle norme dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale con sentenza n. 5 del 1980". Né i termini essenziali del problema si modificano, per effetto di quelle ordinanze che involgono nelle loro impugnazioni - come si é specificato in narrativa - l'articolo 1, quarto comma (concernente gli "interessi legali", cui l'espropriato potrà avere diritto, "sulla differenza eventualmente risultante tra l'indennità determinata ai sensi del primo comma e quella definitiva"), l'articolo 2 (relativo ai criteri per determinare l'indennità di occupazione) o l'articolo 3 della legge n. 385 (per cui le disposizioni precedenti "non si applicano ai procedimenti in corso, se la liquidazione dell'indennità di espropriazione o di occupazione sia divenuta definitiva, ovvero non impugnabile ovvero sia stata definita con sentenza passata in giudicato alla data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1980"); od anche per effetto delle due ordinanze della Corte d'appello di Milano e del Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte medesima, che hanno formalmente sollevato questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo unico della legge 25 settembre 1981, n. 535 (per il differimento al 31 maggio 1982 del termine di emanazione della legge destinata a disciplinare la "definitiva" indennità di espropriazione).

D'altronde, in parte comuni sono anche le censure che i giudici a quibus rivolgono alle norme impugnate. Tutte le ordinanze richiamano, infatti, l'art. 42 Cost., facendo sempre riferimento al terzo comma, là dove si richiede la corresponsione di un "indennizzo" a favore dei soggetti espropriati. Ma giova ricordare che un tale richiamo assume, fondamentalmente, due significati diversi: poiché alcune ordinanze - come quelle emesse dalle Corti d'appello di Roma, di Bologna, di Torino, di Lecce, di Potenza e di Campobasso - mettono in dubbio la sola legittimità costituzionale della dissociazione temporale fra l'esproprio e la determinazione del definitivo indennizzo, tanto più se questo rimane "incerto ed aleatorio"; mentre altre ordinanze - come quelle delle Corti d'appello di Genova e di Napoli, nonché della Corte di cassazione - sottolineano che l'indennità provvisoria stabilita dalla legge n. 385, oltre ad introdurre una "soluzione di continuità fra perdita della proprietà e acquisto dell'indennità" definitiva, é stata puntualmente fondata sui criteri già ritenuti illegittimi dalla più volte citata sentenza n. 5 del 1980. Nel secondo senso, affiora un implicito richiamo al primo comma dell'art. 136 Cost., per cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte "cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". Ed é appunto all'art. 136, in collegamento al terzo comma dell'art. 42 Cost., che coerentemente operano un espresso riferimento le ordinanze delle Corti d'appello di Cagliari, di Firenze e di Milano, nonché del ricordato Tribunale regionale delle acque.

Per completare il quadro delle impugnative, va però aggiunto che alcune ordinanze (n. 106,107,134,665 del 1981, 483 e 484 del 1982) deducono inoltre la violazione dell'art. 3 Cost., date le disparità di trattamento che la disciplina impugnata verrebbe a creare tra i vari soggetti espropriati, secondo le date di emissione o secondo le specie dei rispettivi provvedimenti ablatori; che altre ordinanze (n. 200 del 1981, 145, 657, 683 e 686 del 1982) fanno altresì riferimento al primo comma dell'art. 24 Cost., assumendo che il carattere provvisorio dell'indennità in esame pregiudicherebbe il diritto di agire in giudizio, spettante all'espropriato per far valere le proprie ragioni nei confronti dell'autorità espropriante; che in altri casi ancora (ord. n. 134 e 665 del 1981) si considera leso lo stesso principio di capacità contributiva, sancito dal primo comma dell'art. 53 Cost.; e che una di tali ordinanze (n. 134 del 1981) fa infine richiamo al quarto comma dell'art. 81 Cost., poiché il previsto "conguaglio" dell'"acconto" in questione potrebbe risolversi in una maggiore spesa pubblica, cui non corrisponderebbero i mezzi per farvi fronte.

2. - Nel motivare la rilevanza delle proposte impugnative, quasi tutte le ordinanze di rimessione osservano esattamente che la disciplina da esse contestata dovrebbe applicarsi per risolvere le rispettive controversie: in quanto riguardante gli stessi procedimenti in corso nei quali non si sia determinato l'esaurimento del rapporto, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 385 del 1980. E l'influenza che una decisione di accoglimento verrebbe ad esplicare nei giudizi a quibus non può essere comunque messa in dubbio: poiché, una volta annullate le "norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree fabbricabili", potrebbe riespandersi e ridivenire applicabile - come ha già fatto intendere questa Corte, nella sentenza n. 13 del 1980, e come ha precisato la Corte di cassazione - la precedente disciplina delle espropriazioni per causa di utilità pubblica.

Ciò non toglie, però, che non tutte le questioni sollevate dalle ordinanze in esame siano rilevanti ai fini dei relativi processi. In particolar modo, non viene impugnato a proposito il quarto comma dell'art. 1 della legge n. 385, il quale si limita a disporre - come già si é ricordato - che "sulla differenza eventualmente risultante tra l'indennità determinata ai sensi del primo comma e quella definitiva... l'espropriato ha diritto agli interessi legali per il periodo intercorrente tra la corresponsione dell'acconto e quella dell'indennità definitiva": donde una previsione che almeno nell'attuale fase transitoria, in mancanza dell'"apposita legge sostitutiva delle norme dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale", non concreta alcuna pretesa che le parti attrici possano avanzare fin da ora (ed abbiano effettivamente avanzato nei procedimenti dei quali si tratta). Così pure, difetta la rilevanza quanto all'impugnazione dell'art. 3 della legge n. 385, poiché la premessa da cui muovono - espressamente od implicitamente - gli stessi giudici che ne mettono in dubbio la legittimità costituzionale, é che nei rispettivi giudizi la liquidazione dell'indennità di esproprio (o di occupazione) non sia divenuta definitiva, ma formi ancora oggetto di controversia.

Conclusivamente, dunque, questa Corte é tenuta a pronunciarsi sul primo e sul secondo comma dell'art. 1 (nonché sul connesso articolo unico della legge n. 535 del 1981) e sull'art. 2 della legge n. 385 del 1980. Ed anzi, circa lo stesso art. 2 della legge n. 385, va notato che esso risulta impropriamente denunciato dalle ordinanze n. 106,107,665 del 1981, 73,483 e 484 del 1982, le quali attengono - dichiaratamente - a giudizi concernenti l'indennità di espropriazione e non l'indennità da corrispondere nei casi di occupazione di urgenza; mentre le sole ordinanze che correttamente contestano la legittimità costituzionale di quest'ultimo disposto sono quelle recanti i numeri 134 del 1981, 601 e 602 del 1982.

3. - Va esaminata in via preliminare l'eccezione l'inammissibilità proposta dalla difesa del Comune di Bagno a Ripoli, relativamente alla prima delle due ordinanze emesse il 9 ottobre 1981 dalla Corte d'appello di Firenze (R.O. 781/1981): eccezione che logicamente coinvolge la totalità delle ordinanze in esame. Nella memoria di costituzione di quel Comune si assume, infatti, che la questione sarebbe inammissibile, avendo l'ordinanza di rimessione omesso di estendere l'impugnativa all'articolo unico della legge 25 settembre 1981, n. 535, sul differimento del termine per l'emanazione di una nuova disciplina dell'"indennità definitiva"; e ciò, sebbene la legge di proroga fosse già stata pubblicata, alla data dell'ordinanza stessa, ed anzi risulti espressamente citata nella motivazione di tale provvedimento. Ma la prima proroga, cui fa riferimento l'amministrazione locale interessata, é stata seguita da altre due leggi di differimento della prevista riforma - ignote per ragioni cronologiche a tutti i giudici rimettenti - che rispettivamente hanno spostato il termine al 31 dicembre 1982 (cfr. l'art. 1 del decreto-legge 29 maggio 1982, n. 298, convertito nella legge 29 luglio 1982, n. 481) e al 31 dicembre 1983 (secondo l'articolo unico della legge 23 dicembre 1982, n. 943). Se dunque l'eccezione dovesse dirsi fondata, essa verrebbe a ripercuotersi su tutte le ordinanze che hanno dato luogo al presente giudizio: sia pure nel senso di imporre la restituzione degli atti, affinché i giudici a quibus riconsiderino la rilevanza delle loro impugnative in vista della legislazione così sopravvenuta, piuttosto che determinare un'immediata dichiarazione d'inammissibilità.

Senonché l'eccezione va respinta. Le censure configurate dalle ordinanze di rimessione sono rivolte non tanto alla lunghezza del termine originariamente previsto (e ripetutamente differito) per la sostituzione delle impugnate "norme provvisorie" con una disciplina permanente delle indennità in esame, quanto ai criteri sui quali si fonda l'art. 1, primo comma, della legge n. 385 ed alla radicale incertezza delle prospettive che il legislatore ha aperto con il secondo comma dell'articolo stesso. Ne offre la riprova il fatto che, ove si annullasse il solo termine, non sarebbe escluso che le "norme provvisorie" di cui al primo comma continuassero ad applicarsi sine die, per lo meno quanto ai procedimenti in corso, nei quali i soggetti espropriati non potrebbero pretendere nulla più dell'"acconto" attualmente stabilito; mentre, all'opposto, ove fosse dichiarata l'illegittimità costituzionale delle "norme provvisorie", le pretese dei proprietari interessati potrebbero venire egualmente soddisfatte, pur senza far cadere il preannuncio dell'"indennità definitiva". Ed é intuitivo, del resto, che la ricordata catena di proroghe, ormai protratte fino al 31 dicembre 1983, non ha certo sanato ma anzi ha aggravato - in ipotesi - i vizi denunciati dai giudici a quibus.

4. - Nel merito, la questione é fondata.

Per giungere a tale conclusione, non é indispensabile verificare se la determinazione della definitiva indennità di esproprio (o di occupazione) possa mai venire dissociata, differendola nel tempo, dall'emanazione del provvedimento ablativo della proprietà privata. Quale che sia la risposta da dare a questo problema generale (ed anche ammesso che la soluzione debba essere unitaria ed univoca), l'illegittimità dell'espediente al quale ha fatto ricorso la legge n. 385 discende dalla peculiare configurazione delle impugnate "norme provvisorie": le quali risultano comunque divergenti dal modello costituzionale di "indennizzo", previsto nel terzo comma dell'art. 42, ed in pari tempo violano il primo comma dell'art. 136 della Costituzione.

Anzitutto, non può essere trascurata o sottovalutata la testuale corrispondenza riscontrabile fra l'art. 16, quinto, sesto e settimo comma, della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (nel testo modificato dall'art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10), e l'art. 1, primo comma, della legge 29 luglio 1980, n. 385. Così disponendo, la legge n. 385 ha infatti restaurato gli stessi criteri di commisurazione dell'indennità di esproprio che questa Corte aveva dichiarato costituzionalmente illegittimi, mediante la sentenza n. 5 del 1980: il che, peraltro, era noto al Parlamento, come risulta dai lavori preparatori e, prima ancora, dalla relazione al disegno governativo n. 732, comunicato alla Presidenza del Senato il 13 febbraio 1980.

Ora, é ben vero che tale riproduzione é stata operata sulla base di un titolo formalmente diverso da quello che la Corte aveva preso in considerazione, dato il carattere provvisorio e non definitivo dell'indennità che attualmente é in esame; ma chi guardi alla sostanza della disciplina denunciata, non può essere soddisfatto da questo tipo di giustificazione. Al di là delle denominazioni utilizzate dalla legge n. 385, resta cioé che il cosiddetto "acconto" rappresenta per adesso l'unico indennizzo cui abbiano diritto i soggetti espropriati; mentre del "conguaglio", del quale si ragiona nel secondo comma dell'art. 1, nulla é dato sapere, né in vista delle pretese che i proprietari espropriati potrebbero promuovere in tal senso, né in vista del sindacato che la Corte é chiamata ad effettuare.

In ciò risiede un'ulteriore peculiarità delle disposizioni impugnate, che integra e qualifica il dato consistente nell'aver fatto rivivere norme già divenute inefficaci, in conseguenza del loro annullamento da parte della Corte stessa. Effettivamente, il secondo comma dell'art. 1 non si limita a differire l'operatività del "conguaglio", ma non ne definisce in modo contestuale neppure le caratteristiche essenziali, in quanto trascura di prefigurarne gli stessi criteri informatori. Di più: dall'art. 1 della legge n. 385 non si riesce neanche a desumere, con la necessaria sicurezza, se ai soggetti espropriati sia stata comunque garantita una "indennità definitiva" più elevata di quella provvisoria, o almeno equivalente ad essa (come farebbe pensare, a prima vista, la lettera del quarto comma) o se il "conguaglio" non possa addirittura risultare negativo (come é stato ipotizzato già nel corso dell'approvazione della legge medesima). D'altra parte, a tutto questo si aggiunge la mancata previsione d'un qualsiasi effetto conseguente all'inutile scadenza del termine indicato per l'emanazione dell'"apposita legge sostitutiva delle norme dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale": poiché non é certo ed anzi parrebbe smentito dalle parole introduttive dell'art. 1, primo comma, che alle "norme provvisorie" debbano in tal caso subentrare altre norme vigenti, come quelle dettate dalla legge n. 2359 del 1865. E, nel mentre il problema dell'"indennità definitiva" resta aperto, il termine é stato più volte prorogato: con la già ricordata conseguenza che, a tre anni e mezzo dalla sentenza n. 5 del 1980, le Camere non hanno ancora adottato - "nelle forme costituzionali" - i provvedimenti di loro competenza, previsti dall'art. 136 cpv. della Costituzione.

5. - Così stando le cose, é fuor di luogo appellarsi - come fa l'Avvocatura dello Stato - alla passata giurisprudenza della Corte, per argomentarne che resterebbe "sempre affidato all'insindacabile apprezzamento del legislatore" stabilire in che momento debbano scadere le discipline del tipo in esame, soprattutto ove il termine finale di efficacia risulti "approssimativamente e ragionevolmente determinabile nel quando (secondo le indicazioni della sentenza n. 16 del 1968). A parte ogni altra considerazione, citazioni del genere non sono affatto appropriate: sia perché la proroga allora sindacata dalla Corte non era preceduta da alcuna decisione di accoglimento, che avesse dichiarato illegittime le norme successivamente prorogate; sia perché, in ogni caso, la stessa Avvocatura ha ritenuto ragionevole - nella specie - una normativa transitoria destinata a scadere entro un anno, ma non si é pronunciata sui differimenti disposti nel 1981 e nel 1982.

Ben più pertinente é invece il richiamo ad altre decisioni di questa Corte, come quelle che hanno chiarito il senso del primo comma dell'art. 136 Cost.. In particolar modo, va fatto cioé riferimento alla sentenza n. 73 del 1963, in cui si é precisato che il rigore del citato precetto costituzionale impone al legislatore di "accettare la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della norma illegittima", anziché "prolungarne la vita" sino all'entrata in vigore di una nuova disciplina del settore; e, nel medesimo senso, va ricordata la sentenza n. 88 del 1966, là dove la Corte ha riaffermato che le decisioni di accoglimento hanno per destinatario il legislatore stesso, al quale é quindi precluso non solo il disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e raggiungere, "anche se indirettamente", esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione.

É appunto questo il vizio nel quale incorre, specialmente per ciò che riguarda i rapporti pregressi di cui si controverte nei giudizi a quibus, l'art. 1 della legge n. 385 del 1980. La riproduzione delle norme già dichiarate illegittime mediante la sentenza n. 5 del 1980, sebbene operata in via nominalmente provvisoria, non é stata infatti compensata - come già si é notato - da alcuna predeterminazione dell'"indennità definitiva", che garantisse il serio ristoro dei soggetti espropriati; mentre il quadro normativo in cui si é inserito e tuttora s'inserisce l'articolo stesso non é per nulla mutato, rispetto a quello in cui si collocava (e dal quale traeva argomento) la pronuncia della Corte che ha inciso sulla disciplina espropriativa, dettata dalle leggi n. 865 del 1971 e n. 10 del 1977.

Per questo concorrente insieme di ragioni dev'essere dunque dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, primo e secondo comma, e dell'art. 2 della legge n. 385 del 1980 (nonché dell'articolo unico della legge 25 settembre 1981, n. 535). E restano, in conseguenza, assorbiti gli altri motivi di denuncia, variamente prospettati ad opera di alcune fra le ordinanze in esame.

Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la predetta pronuncia di accoglimento comporta, inoltre, la dichiarazione dell'illegittimità costituzionale derivata delle residue norme della legge n. 385 (e degli ulteriori provvedimenti legislativi ad essa collegati), che hanno inteso fornire una prima risposta alla sentenza n. 5 del 1980: vale a dire, dell'art. 1, terzo, quarto e quinto comma, e dell'art. 3 della legge medesima, nonché degli articoli unici della legge 29 luglio 1982, n. 481, e della legge 23 dicembre 1982, n. 943 (sul differimento del "termine di cui all'articolo 1 della legge 29 luglio 1980, n. 385, in materia di indennità di espropriazione e di occupazione di urgenza").

6. - All'atto di prendere tali decisioni, la Corte é consapevole delle gravi difficoltà, di ordine politico, giuridico e finanziario, che hanno finora ostacolato il Parlamento nell'approvazione di una nuova e permanente disciplina delle indennità per l'espropriazione di aree edificabili. Ma le difficoltà non vengono certo attenuate, ritardando a dismisura la necessaria soluzione del problema e lasciando intanto le pubbliche amministrazioni in una situazione di radicale incertezza, quanto ai costi da preventivare e da sopportare in materia.

Né vale replicare che, a questo punto, i costi sarebbero comunque insostenibili. La Corte, infatti, non ha mai affermato che l'indennizzo richiesto dal terzo comma dell'art. 42 Cost. sia necessariamente pari al "giusto prezzo che... avrebbe avuto l'immobile in una libera contrattazione di compravendita" (secondo il criterio fissato dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865); ma ha costantemente ripetuto (come si legge nella sentenza n. 5 del 1980) che basta allo scopo un ristoro serio e tale da non ledere il principio costituzionale di eguaglianza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, primo e secondo comma, e dell'art. 2 della legge 29 luglio 1980, n. 385, nonché dell'articolo unico della legge 25 settembre 1981, n.535;

b) dichiara - in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, terzo, quarto e quinto comma, e dell'art. 3 della legge n. 385 del 1980, nonché dell'articolo unico della legge 29 luglio 1982, n. 481, e dell'articolo unico della legge 23 dicembre 1982, n. 943.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 luglio 1983.

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI -  Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 15 luglio 1983.