Sentenza n. 214 del 2016

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SENTENZA N. 214

ANNO 2016

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                       Presidente

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                Giudice

-           Giorgio                        LATTANZI                                          

-           Aldo                            CAROSI                                               

-           Marta                           CARTABIA                                         

-           Mario Rosario              MORELLI                                            

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                        

-           Giuliano                       AMATO                                               

-           Silvana                         SCIARRA                                            

-           Daria                            de PRETIS                                           

-           Nicolò                          ZANON                                               

-           Franco                         MODUGNO                                        

-           Augusto Antonio       BARBERA                                          

-           Giulio                          PROSPERETTI                                    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, promosso dal Consiglio di Stato nel procedimento vertente tra M.P. ed altri e la Presidenza del Consiglio dei ministri ed altri, con ordinanza del 16 aprile 2014, iscritta al n. 154 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti l’atto di costituzione di M.P. ed altri nonché gli atti di intervento di A.P. ed altri, di Dirpubblica (Federazione del pubblico impiego) e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2016 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Giovanni Pasquale Mosca per A.P. ed altri, Carmine Medici per Dirpubblica (Federazione del pubblico impiego), Flavio Maria Polito per M.P. ed altri e l’avvocato dello Stato Giulio Bacosi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 16 aprile 2014 (Reg. ord. n. 154 del 2014), il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135.

1.1.– In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di essere investito del ricorso in appello proposto contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, il Ministero dell’economia e delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e le riforme e il Capo pro tempore del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri, da numerosi funzionari, dipendenti dell’amministrazione della giustizia, per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio 9 novembre 2012, n. 9220, resa tra le stesse parti, concernente l’ottemperanza alla sentenza dello stesso Tribunale 10 maggio 2007, n. 4266 in tema di «silenzio serbato dall’amministrazione su procedure concorsuali».

Ciò precisato, il Consiglio di Stato rammenta preliminarmente che l’art. 7, comma 3, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), aveva aggiunto al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), l’art. 17-bis, che, al comma 1, primo periodo – come modificato dall’art. 14-octies, comma 1, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 17 agosto 2005, n. 168 – stabiliva che «La contrattazione collettiva del comparto Ministeri disciplina l’istituzione di un’apposita separata area della vicedirigenza nella quale è ricompreso il personale laureato appartenente alle posizioni C2 e C3, che abbia maturato complessivamente cinque anni di anzianità in dette posizioni o nelle corrispondenti qualifiche VIII e IX del precedente ordinamento»; e che l’art. 10, comma 3, della stessa legge n. 145 del 2002, prevedeva che «La disciplina relativa alle disposizioni di cui al comma 3 dell’articolo 7, che si applicano a decorrere dal periodo contrattuale successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, resta affidata alla contrattazione collettiva, sulla base di atti di indirizzo del Ministro per la funzione pubblica all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) anche per la parte relativa all’importo massimo delle risorse finanziarie da destinarvi».

Tanto premesso, il giudice rimettente ripercorre la vicenda processuale, esponendo, al riguardo, che, in difetto dell’adozione dei detti atti di indirizzo, il 20 luglio 2006, trecentosettantadue funzionari, dipendenti dell’amministrazione della giustizia, notificarono alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministero dell’economia e delle finanze e al Dipartimento della funzione pubblica un atto di diffida, con il quale «sollecitavano l’emanazione della direttiva contrattuale prevista dall’art. 10, III comma, della legge 15 luglio 2002, n. 145, per l’istituzione dell’area della vicedirigenza». A fronte dell’inerzia delle diffidate autorità, nel 2007, i detti funzionari dell’amministrazione della giustizia proposero ricorso, contro le stesse, al TAR Lazio, con il quale impugnarono, ai sensi dell’art. 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), il silenzio serbato dall’amministrazione sulla diffida. Il ricorso fu accolto con la sentenza del TAR Lazio 10 maggio 2007, n. 4266, che, conclusivamente, ordinò al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Ministri per la funzione pubblica e dell’economia e delle finanze, ciascuno per la parte di rispettiva competenza, «di esercitare le proprie attribuzioni per riscontrare in via definitiva l’istanza di parte ed il conseguente atto di messa in mora entro il termine di sei mesi decorrente dalla data di notifica ad esse della presente sentenza, che avverrà a cura della parte ricorrente». Tale sentenza – depositata, come si è detto, il 10 maggio 2007 – passò in giudicato. Poiché, tuttavia, non vi fu prestata osservanza, il 26 luglio 2011 gli interessati depositarono un’istanza al TAR Lazio per la nomina, ai sensi dell’art. 117, comma 3, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), di un commissario ad acta che provvedesse agli adempimenti discendenti dalla sentenza n. 4266 del 2007 in luogo delle amministrazioni rimaste inerti.

Dopo una fase interlocutoria, persistendo l’inerzia delle amministrazioni, il TAR Lazio emise la sentenza 16 maggio 2012, n. 4391, con la quale, dopo avere rilevato che, per dare attuazione alla sentenza n. 4266 del 2007, doveva essere esercitato – «con specifico riferimento al personale del Ministero della giustizia, questo essendo il limite soggettivo del giudicato» – il potere di indirizzo nei confronti dell’ARAN, e che tale potere apparteneva, come comitato di settore, ai sensi dell’art. 41, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, al Presidente del Consiglio dei ministri tramite il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, nominò commissario ad acta, «per dare pieno adempimento alle prescrizioni contenute nella sentenza 10 maggio 2007, n. 4266», il Capo pro tempore del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri. La sentenza n. 4391 del 2012 fu notificata all’amministrazione il 21 giugno 2012. A questo punto della vicenda processuale, fu emanato il d.l. n. 95 del 2012, il cui censurato art. 5, comma 13, dispose l’abrogazione dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001.

Successivamente a tale sopravvenienza normativa, il nominato commissario ad acta trasmise al TAR Lazio, giudice dell’esecuzione, la nota datata 12 settembre 2012, in cui faceva presente che fosse da ritenere «venuta meno ogni attività da espletare in ottemperanza alla predetta sentenza». Il TAR Lazio, con la citata sentenza n. 9220 del 2012, condividendo le conclusioni del commissario ad acta, dichiarò cessato l’incarico commissariale e improcedibile il giudizio di ottemperanza per sopravvenuta carenza di interesse, nonché la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, sollevate dai ricorrenti, con la motivazione che «la Corte ha giudicato incostituzionali […] le norme che travolgano provvedimenti giurisdizionali definitivi ed incidano sui regolamenti dei rapporti in essi consacrati (cfr. Corte costituzionale 7 novembre 2007, n. 364): ma […] la sentenza 4266/07 […] aveva soltanto stabilito l’obbligo di avviare la procedura per l’introduzione della vicedirigenza, che era però ben lungi dall’essere stata concretamente introdotta, e tanto meno attribuita ai ricorrenti quando è intervenuta la norma che ha abrogato tale qualifica; sicché tra questa e quella non si può ravvisare un effettivo conflitto». Quest’ultima sentenza del TAR Lazio fu appellata davanti al Consiglio di Stato, odierno rimettente, lamentandosi, da parte degli appellanti funzionari dell’amministrazione della giustizia, l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.

1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il Consiglio di Stato, dopo avere asserito che la disposizione impugnata «si inserisce nell’ottica della riduzione di spesa della pubblica amministrazione (c.d. spending review)», afferma anzitutto di non condividere le menzionate argomentazioni del TAR circa la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, sollevate dai ricorrenti.

Al riguardo, il Consiglio di Stato, dopo avere evidenziato che l’impugnata disposizione soppressiva della vicedirigenza è stata emanata a distanza di dieci anni dall’introduzione di tale istituto e di cinque anni dalla formazione del giudicato, nonché «solo dopo la notificazione della sentenza del T.a.r. del Lazio», afferma che in «Questo quadro temporale l’asserita urgente soppressione dell’istituto della vicedirigenza appare visibilmente connessa, con un legame eziologico tipo causa-effetto, alla nomina del commissario ad acta». Ciò renderebbe «evidente» – sempre ad avviso del giudice rimettente – «L’intento elusivo del giudicato» e «obiettivo» il dubbio che la disposizione impugnata sia stata dettata «con eccesso di potere legislativo e con violazione dell’art. 101 Cost., non per regolare astrattamente la materia, ma per incidere sulle sorti del procedimento giurisdizionale in corso».

Tanto precisato in ordine alle ragioni della mancata condivisione delle anzidette argomentazioni del TAR Lazio, il Consiglio di Stato passa a illustrare le ragioni che lo inducono a dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.

1.2.1.– Secondo il Consiglio rimettente, tale disposizione violerebbe, anzitutto, gli artt. 3, 111 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, comma 1, della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa.

Ad avviso del giudice rimettente, l’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, avrebbe vulnerato «il diritto di difesa» dei ricorrenti, «esercitato con la proposizione dell’azione e soddisfatto con le pronunce di accoglimento delle domande, nonché con l’inizio dell’esecuzione», e il principio di effettività della tutela giurisdizionale, «alterando la regolamentazione degli interessi stabilita da sentenze esecutive».

Sarebbe altresì violato, «Sotto un ulteriore profilo», l’art. 3 Cost., in quanto «la scelta operata dal legislatore appare irragionevole e arbitraria, dato che la legge-provvedimento ha finito per incidere su un numero determinato e limitato di persone».

Il rimettente rammenta poi come la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) abbia «ritenuto contrastanti con l’art. 6 della CEDU e con l’art. 1 del Protocollo aggiuntivo l’introduzione da parte dello Stato Italiano di norme interpretative retroattive incidenti in senso sfavorevole ai ricorrenti sui giudizi in corso» (è citata, in particolare, la sentenza 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia).

Secondo il Consiglio di Stato, nel caso di specie sarebbe incontestabile il contrasto dell’impugnato art. 5, comma 13, con l’art. 6 della CEDU e con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, atteso che detta disposizione, «nel sopprimere retroattivamente ogni effetto prodotto dal giudicato ha influenzato l’esito del giudizio, privando, nel corso dell’esecuzione, il commissario ad acta dei poteri assegnatigli dal giudice amministrativo e finalizzati all’attuazione dei precetti contenuti nel giudicato, venendo così a violare il diritto dei ricorrenti assicurato dall’art. 6 della CEDU a un processo equo, ispirato alla parità tra le parti e alla preminenza del diritto», considerato anche che «l’esecuzione completa del giudicato costituisce un diritto riconosciuto alla parte vittoriosa affinché non ottenga, dopo anni di battaglie giudiziarie, una soddisfazione inesistente e menomata».

Neppure si potrebbe dubitare – sempre ad avviso del giudice rimettente – che i funzionari ricorrenti nel giudizio a quo disponessero di un bene suscettibile di tutela ai sensi dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU (è citata la sentenza della Grande Camera, 6 ottobre 2005, Maurice contro Francia), il concetto di beni abbraccerebbe tanto i «beni attuali» quanto le «"legittime speranze”, posto che il riconoscimento abbia una base sufficiente nel diritto interno».

La disposizione impugnata avrebbe quindi «comportato un’ingerenza nell’esercizio dei diritti che i ricorrenti potevano far valere in virtù di una sentenza passata in giudicato e della quale era in corso l’esecuzione».

Secondo il Consiglio di Stato, infine, la rilevata violazione degli invocati parametri interposti offrirebbe «sicuro fondamento al sospetto di incostituzionalità […] per conflitto con il comma primo e secondo dell’art. 111 della Costituzione».

1.2.2.– Secondo il giudice rimettente, l’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, violerebbe poi gli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost.

Il Consiglio di Stato afferma che la disposizione impugnata costituisce un «tipico caso di legge-provvedimento», avendo «introdotto una specifica previsione a contenuto particolare e concreto, inequivocabilmente diretta ad interferire in termini ostativi sull’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza n. 4266/07».

Il giudice rimettente argomenta in proposito che, se è vero che la Corte costituzionale ha affermato l’insussistenza di un divieto di adozione di leggi con un contenuto particolare e concreto, la stessa Corte avrebbe tuttavia precisato che tali leggi «sono ammissibili entro limiti sia specifici, quale è quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alle cause in corso, sia generali, e cioè del principio della ragionevolezza e non arbitrarietà» (sono citate le sentenze n. 346 del 1991 e n. 143 del 1989, nonché l’ordinanza n. 495 del 1995). Lo stesso rimettente afferma ancora che la Corte costituzionale, «in un caso simile a quello in questione», con la sentenza n. 374 del 2000, avrebbe censurato le disposizioni «il cui intento non sia quello di stabilire una regola astratta, ma di incidere su di un giudicato».

Nel caso di specie, la «palese incidenza sulla res iudicata esclude che la disposizione operi soltanto sul piano normativo perché […] disvela in modo incontestabile la volontà di scavalcare il giudicato».

Il rimettente afferma ancora che, secondo la Corte costituzionale, ai fini dello scrutinio di costituzionalità, sarebbe decisiva la valutazione delle circostanze temporali in cui si inserisce un intervento legislativo (è citata la sentenza n. 267 del 2007).

 Secondo il Consiglio di Stato, da «quanto esposto e considerato», deriverebbe il contrasto dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, anche con l’art. 24 Cost., che garantisce la tutela dei diritti e degli interessi legittimi e che «fa divieto alla legge di incidere e/o modificare questioni coperte dal giudicato».

Sempre ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, «mirando ad evitare che sia data esecuzione ad una sentenza definitiva ed esecutiva», violerebbe inoltre i principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione, nonché il principio del legittimo affidamento del cittadino, di cui agli artt. 3 e 97 Cost.

1.2.3.– L’impugnato art. 5, comma 13, violerebbe infine gli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost., i quali attribuiscono l’esercizio della funzione giurisdizionale ai magistrati ordinari e amministrativi «per la tutela neutrale dei diritti e degli interessi legittimi», atteso che esso, «vanificando gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, ha invaso l’area riservata alla funzione giurisdizionale, vulnerando il principio della divisione dei poteri giurisdizionali e normativi».

1.3.– Quanto alla rilevanza delle sollevate questioni, il giudice rimettente afferma che, mentre nel caso di dichiarazione di non fondatezza delle stesse «la controversia dovrebbe essere decisa in maniera conforme a quanto stabilito dal giudice di prime cure», qualora il censurato art. 5, comma 13, fosse, invece, dichiarato incostituzionale «i ricorrenti risulterebbero soddisfatti dalla pronuncia di questo Consiglio».

Lo stesso rimettente asserisce inoltre non esservi dubbio in ordine alla titolarità, in capo agli appellanti, di un «interesse all’esatta ottemperanza alle statuizioni contenute nell’originario dictum giurisdizionale […], che comporterebbe evidenti riflessi sul patrimonio degli stessi», nonché al fatto che tale interesse sia «meritevole di tutela in sede giurisdizionale».

2.– Con atto depositato il 14 ottobre 2014, si sono costituiti nel giudizio centoventuno dei funzionari dipendenti del Ministero della giustizia ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo che l’impugnato art. 5, comma 13, sia dichiarato incostituzionale per violazione degli artt. 3, 24, primo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, 102, primo comma, 103, primo comma, 104, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa.

2.1.– I ricorrenti nel giudizio a quo deducono, anzitutto, la rilevanza delle questioni.

Come già ritenuto dal rimettente Consiglio di Stato, la decisione della Corte costituzionale sulle stesse inciderebbe infatti sull’esito del giudizio principale in quanto, poiché «la pronuncia di improcedibilità dell’esecuzione traeva illegittimo fondamento dal viziato art. 5, comma 13, del D.L. 95/2012 […], in ipotesi di dichiarazione dell’incostituzionalità [dello stesso] non potrebbe frapporsi alcuna preclusione all’esecuzione del giudicato formatosi sulle sentenze n. 4266/2007 e n. 4391/2012».

2.2.– Quanto al merito, le parti costituite espongono anzitutto le ragioni della violazione degli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa.

A tale riguardo, esse affermano che la «successione temporale» – alla quale fa riferimento, come si è visto, anche l’ordinanza di rimessione – dimostra che «lo scopo della prescrizione soppressiva era […] lo svuotamento del contenuto precettivo del giudicato formatosi sulla sentenza 4266/07 e, per di più, con effetto sostanzialmente retroattivo», sicché la stessa prescrizione sarebbe stata posta «non per regolare astrattamente la materia, ma per incidere sulle sorti del procedimento giurisdizionale in corso».

Da ciò – secondo le parti costituite – il contrasto con gli artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione ai menzionati parametri interposti, come interpretati dalla Corte EDU.

Ad avviso degli intervenienti, alla luce della giurisprudenza di tale Corte e della Corte costituzionale, sarebbe incontestabile il contrasto dell’impugnato art. 5, comma 13, con l’art. 6 della CEDU e con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa.

Quanto al primo dei detti parametri interposti, le parti costituite affermano, in particolare, che la disposizione censurata vìola, sia il diritto dei ricorrenti «a un processo equo osservante della preminenza del diritto», atteso che, «nel sopprimere con effetto sostanzialmente retroattivo, a mezzo dell’espediente dell’abrogazione dell’art. 17 bis D.Lgs. 165/01, ogni effetto prodotto dal giudicato formatosi sulla sentenza 4266/07 ha influenzato l’esito del giudizio con l’arbitrariamente deprivare, nel corso dell’esecuzione, il commissario "ad acta” dei poteri assegnatigli dal giudice per la concreta attuazione dei precetti contenuti nel giudicato», sia «l’obbligo della parità delle armi».

Quanto al parametro interposto dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, esso sarebbe, in specie, violato in quanto «il sacrificio imposto ai ricorrenti dalla perdita definitiva della vicedirigenza appare sproporzionato […] atteso che il giudicato formatosi sulla sentenza n. 4391/2012 aveva chiaramente circoscritto gli effetti della pronunzia esclusivamente nei confronti degli istanti, assommanti a 346 unità», sicché difetterebbe, nella specie, tenuto conto dell’esiguità del numero dei detti dipendenti, qualsiasi esigenza di «tutelare un prevalente interesse generale di carattere finanziario dello stato (motivo imperativo di carattere generale)». Nella stessa prospettiva, dovrebbe altresì considerarsi che la contrattazione collettiva avrebbe potuto limitarsi, in prima battuta, all’istituzione della separata area della vicedirigenza, graduandone, poi, nel tempo, i benefici economici, in armonia con le cadenze della contrattazione collettiva nazionale e tenendo conto delle esigenze finanziarie dello Stato. In assenza di un conflitto tra l’esecuzione del giudicato ed eventuali preminenti ragioni di interesse generale, non dimostrate né dimostrabili, ne conseguirebbe che l’ingerenza nel diritto al rispetto dei propri beni realizzata dall’impugnato art. 5, comma 13, non rispetta il giusto equilibrio – richiesto dalla Corte EDU con riguardo alle ingerenze di tale tipo – tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti dell’uomo.

Gli argomenti addotti a sostegno del contrasto con i menzionati parametri convenzionali interposti offrirebbero, poi, «sicuro fondamento» alla denunciata lesione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., tenuto conto che «la novella si è sovrapposta alla giurisdizione ed ha radicalmente eliminato la condizione di parità davanti a un giudice imparziale e terzo».

2.3.– Secondo le parti costituite, la disposizione impugnata contrasterebbe, inoltre, con gli artt. 3, 24, primo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, 102, primo comma, 103, primo comma, 104, primo comma, e 113, primo comma, Cost.

Al riguardo, i ricorrenti nel giudizio a quo, dopo avere ribadito che la «sequenza temporale» nella quale si colloca la disposizione impugnata dimostrerebbe come essa «sia chiaramente finalizzata ad impedire di dare esecuzione al giudicato formatosi sulla sentenza 4266/07 sez. I T.A.R. Lazio e di sopprimere e/o paralizzare gli effetti della successiva sentenza 4391/2012», affermano che tale «peculiare antigiuridica finalità […] conforma la norma come legge provvedimento».

La difesa delle parti costituite, nel richiamare la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di leggi-provvedimento (sono citate le sentenze n. 267 del 2007, n. 374 del 2000, n. 492 del 1995, n. 346 del 1991 e n. 143 del 1989), afferma ancora che, dato che l’impugnato art. 5, comma 13, ha alterato la regolamentazione di interessi stabilita da una sentenza definitiva e dalla consequenziale sentenza di ottemperanza, «l’intento del legislatore non può ritenersi diretto alla creazione di una regola astratta bensì […] ad incidere sul giudicato al fine di precluderne l’esecuzione», e che tale incidenza sul giudicato «esclude che la disposizione operi soltanto sul piano normativo perché […] disvela in modo incontestabile l’intento del legislatore di interferire su questioni coperte da giudicato».

Dalle riportate considerazioni, risulterebbe la violazione anche dell’art. 24, primo comma, Cost., che, assicurando «il diritto di chiunque ad ottenere una pronunzia giurisdizionale stabile e definitiva sul rapporto controverso», vieterebbe «alla legge (rectius legge-provvedimento) di incidere e/o modificare questioni coperte dal giudicato».

Per le medesime ragioni, l’impugnato art. 5, comma 13, contrasterebbe anche con l’art. 113, primo comma, Cost., atteso che la garanzia della tutela giurisdizionale assicurata da tale disposizione costituzionale è stata «radicalmente elisa dalla sopravvenuta novella abrogativa che ha inteso eliminare dalla realtà giuridica il giudicato in controversia». Sempre ad avviso degli intervenienti, «In tale prospettazione è leso anche l’affidamento dei ricorrenti fondato sull’ottenuto definitivo riconoscimento giurisdizionale dei propri diritti ed interessi».

La disposizione impugnata violerebbe anche gli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost., in quanto, vanificando arbitrariamente gli effetti di una pronuncia giurisdizionale definitiva, ha «invaso l’area riservata alla funzione giurisdizionale in manifesta effrazione del principio della divisione dei poteri giurisdizionali e normativi».

Sarebbe, altresì, leso, l’art. 104, primo comma, Cost., in quanto la disposizione impugnata «ha violato l’autonomia e l’indipendenza della magistratura per aver sovrapposto alla pronunzia giurisdizionale definitiva una prescrizione diretta ad eludere gli effetti del giudicato e l’esecuzione di esso».

Le parti costituite richiamano poi, in conclusione, le ragioni di censura prospettate dall’ordinanza di rimessione.

3.– Con atto depositato il 14 ottobre 2014, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate.

3.1.– Secondo la difesa statale, sussisterebbero, anzitutto, plurime ragioni di inammissibilità delle dette questioni.

3.1.1.– Queste sarebbero inammissibili, in primo luogo, per irrilevanza.

Il giudice rimettente, «lungi dallo specificare puntualmente i profili in virtù dei quali [la questione] inerirebbe al pertinente scandaglio, […] fumosamente individua tali aspetti». Inoltre sarebbe da escludere che l’eventuale pronuncia di incostituzionalità comporti l’attuazione sicura della vicedirigenza.

3.1.2.– Le questioni sollevate sarebbero inammissibili, in secondo luogo, «sotto il profilo della valutazione della […] non manifesta infondatezza».

La difesa dello Stato fonda tale eccezione sulla considerazione di come l’ordinanza di rimessione «in modo generico e impreciso si dilunghi […] senza, alla fine, lasciar affiorare dove realmente le norme denunciate sarebbero incostituzionali e quali sarebbero i parametri costituzionali in ordine ai quali concretamente affiorerebbe la frizione».

3.1.3.– Sempre ad avviso della difesa statale, l’inammissibilità delle questioni deriverebbe, in terzo luogo, dal «difetto di motivazione dell’ordinanza di rimessione».

A sostegno di tale eccezione, l’Avvocatura generale dello Stato asserisce che il rimettente «si è limitato ad evidenziare quelli che ritiene essere i vizi di costituzionalità della norma da applicare, esprimendo sic et simpliciter un positivo convincimento nel senso della fondatezza», senza, tuttavia, essersi «impegnato a dimostrare la ragionevolezza oggettiva di quello che si palesa come un dubbio meramente soggettivo».

Tali carenze dell’ordinanza di rimessione sarebbero esemplificate, in particolare, dalla motivazione delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost.

3.1.4.– Secondo la difesa statale, le questioni sarebbero inammissibili, infine, anche perché il rimettente avrebbe omesso di esplorare la possibilità di dare un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, tale da escludere la necessità di sollevarle.

3.2.– Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, le questioni sollevate sarebbero, comunque, infondate.

3.2.1.– La difesa dello Stato nega, in primo luogo, che l’impugnato art. 5, comma 13, contrasti con gli artt. 3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost.

Essa deduce al riguardo che la disposizione impugnata «è diretta, attraverso lo strumento dell’interpretazione autentica, non già ad incidere su concreti procedimenti giudiziari in corso al fine di determinarne gli esiti quanto a regolamentare, in via generale ed astratta, una materia, con la conseguente soppressione di una disposizione in materia di ordinamento del personale statale e sacrificio per tutto il settore del pubblico impiego». La ratio della norma in questione sarebbe da rintracciare nell’esigenza di contenere la spesa pubblica.

Dovrebbe quindi escludersi – sempre ad avviso della difesa statale – la sussistenza della denunciata lesione dell’art. 6 della CEDU (e, di conseguenza, dell’art. 117, primo comma, Cost.). Con specifico riguardo al detto parametro interposto, la difesa dello Stato asserisce che la Corte costituzionale avrebbe in diverse occasioni affermato che la CEDU non esclude radicalmente la possibilità che le leggi, operando retroattivamente, incidano sull’andamento dei giudizi in corso, quando ricorrano esigenze di ordine pubblico o motivi imperativi di interesse generale (sono citate le sentenze n. 264 e n. 15 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 93 del 2011, n. 317 e n. 311 del 2009, n. 362 e n. 172 del 2008). Ne seguirebbe che i «valori» della certezza del diritto e del legittimo affidamento potrebbero essere «ragionevolmente e proporzionalmente sacrificati», là dove gli interventi che tale sacrificio prevedono «risultino finalizzati a soddisfare imperiose ed indifferibili esigenze di bilancio». Non potrebbe allora revocarsi in dubbio che la «garanzia di tenuta dei conti pubblici» costituisca, nella specie, un motivo imperativo di interesse generale, ai sensi dell’art. 6 della CEDU, tale da giustificare la misura dell’impugnato art. 5, comma 13.

La stessa censurata disposizione corrisponderebbe, del resto – sempre secondo l’Avvocatura generale dello Stato – alla definizione di «interesse finanziario» dello Stato elaborata dalla Corte EDU (sono citate le sentenze 25 novembre 2010, Lilly contro Francia, e 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais e altri contro Francia).

Del pari insussistente sarebbe la denunciata lesione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, atteso che l’impugnato art. 5, comma 13, non avrebbe determinato «alcuna effettiva incidenza su statuizioni giuridiche entrate nel patrimonio dei ricorrenti sulla base delle norme abrogate». Secondo la difesa statale, infatti, queste ultime «regolamentavano unicamente la sequenza procedimentale (costituita da atti amministrativi generali e da disposizioni collettive) finalizzata soltanto all’istituzione dell’area della vicedirigenza e alla fissazione dei relativi criteri di accesso ma senza attribuire, di per sé, alcun diritto soggettivo in capo agli appartenenti alle qualifiche astrattamente idonee ad accedervi».

3.2.2.– Quanto al denunciato contrasto con gli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost., la difesa statale afferma che la disposizione impugnata non ha «alcuna valenza di tipo provvedimentale, essendo […] finalizzata a una riorganizzazione di tipo generale della struttura organizzativa del personale pubblico (mediante soppressione dell’area della vicedirigenza) e non incidendo la stessa su nessun atto amministrativo, attesa la mancata attuazione delle disposizioni abrogate».

3.2.3.– L’Avvocatura generale dello Stato esclude infine che una disposizione che – come quella impugnata – abroghi una norma applicabile in un giudizio in corso, possa ledere la sfera di attribuzione giurisdizionale costituzionalmente riservata alle magistrature ordinaria e amministrativa e violare, quindi, gli artt. 102 e 103 Cost., tenuto anche conto che «l’attribuzione per legge ad una norma di un determinato significato non lede la potestas iudicandi, ma definisce e delimita la fattispecie normativa che è oggetto della potestas medesima» (così sentenza n. 15 del 2012 e ordinanza n. 92 del 2014 della Corte costituzionale, già citate).

4.– Con atto depositato il 9 ottobre 2014, sono intervenuti nel giudizio duecentosettantatré «dipendenti dello Stato, inquadrati da oltre cinque anni come funzionari» dei Ministeri della giustizia, dell’interno, della difesa, dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, delle politiche agricole alimentari e forestali, dello sviluppo economico, dell’economia e delle finanze «ed altri» e «quindi pubblici dipendenti di Area III (ex qualifica C2 e superiori) destinatari della normativa a suo tempo prevista dall’art. 17/bis del D.lgs. 165/2001», i quali hanno chiesto che, previa declaratoria di ammissibilità del proprio intervento, le questioni sollevate siano dichiarate fondate.

5.– Con atto depositato il 14 ottobre 2014, è intervenuta nel giudizio la Dirpubblica (Federazione del pubblico impiego) chiedendo che le questioni siano dichiarate fondate. 

6.– In prossimità della pubblica udienza, i costituiti centoventuno funzionari dipendenti del Ministero della giustizia ricorrenti nel giudizio a quo hanno depositato una memoria.

6.1.– Dopo avere affermato l’infondatezza delle eccezioni di inammissibilità prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato nel proprio atto di intervento, la difesa delle dette parti passa a illustrare il merito delle questioni.

6.1.1.– Quanto a quelle sollevate in riferimento agli artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., la detta difesa premette che le circostanze temporali in cui è stato emanato l’impugnato art. 5, comma 13, dimostrerebbero che quest’ultimo costituisce una legge-provvedimento «con portata retroattiva, avente l’unico illegittimo scopo di eludere il giudicato ed evitare l’esecuzione di una sentenza passata in giudicato che avrebbe dovuto comportare l’istituzione della vicedirigenza» e non – come reputato dalla difesa dello Stato – una legge «generale ed astratta di mera interpretazione» autentica diretta a chiarire il significato di una precedente disposizione di legge.

6.1.2.– La difesa delle parti costituite compie poi un’ampia rassegna della giurisprudenza della Corte EDU relativa al contrasto con l’art. 6 CEDU, in relazione ai principi del giusto processo e della parità delle armi, delle leggi civili retroattive (talora, di interpretazione autentica) con le quali lo Stato interferisce su giudizi in corso dei quali è parte. 

La stessa difesa riconosce, peraltro, che, secondo la Corte EDU, l’ingerenza del legislatore nelle controversie pendenti in cui lo Stato è parte è ammessa quando sussistano imperativi motivi d’interesse generale. Anche in ordine a tale aspetto, sono citate numerose pronunce della detta Corte dalle quali risulterebbe, in sintesi, che «l’intervento del legislatore può essere giustificato in presenza di motivi imperativi di interesse generale, riconosciuti però esistenti solo laddove occorra garantire conformità all’intenzione originaria del legislatore, correggere un errore tecnico di formulazione della legge o in presenza di ragioni storiche epocali di portata generale (dunque solo in caso di L. di interpretazione autentica). Per contro, tali motivi non sussistono quando sono invocate mere esigenze di carattere economico finanziario dello Stato».

La difesa delle parti costituite menziona inoltre alcune pronunce nelle quali la Corte costituzionale «utilizza congiuntamente i parametri di giudizio che derivano dalla Costituzione nazionale e quelli di derivazione convenzionale nei […] giudizi riguardanti le leggi retroattive»; in particolare, le sentenze n. 191 del 2014, n. 170 del 2013, n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010.

Sulla base di tali orientamenti giurisprudenziali, la detta difesa afferma conclusivamente sul punto che l’impugnato art. 5, comma 13, «nel sopprimere con effetto sostanzialmente retroattivo, a mezzo dell’espediente dell’abrogazione dell’art. 17 bis D.Lgs. 165/01, il giudicato formatosi sulla sentenza 4266/07 ha influenzato l’esito del giudizio deprivando, nel corso dell’esecuzione, il commissario ad acta dei poteri assegnatigli dal giudice ai fini dell’attuazione dei precetti contenuti nel giudicato, finendo di violare in tal guisa il diritto dei ricorrenti assicurato dall’art. 6 CEDU a un processo equo osservante del principio di preminenza del diritto. Peraltro, la norma [impugnata] è intervenuta mentre era in corso l’esecuzione nei termini stabiliti dalla sentenza 4391/01 [recte: 4391/2012], violando manifestamente l’obbligo della parità delle armi sancito dall’art. 6 CEDU».

L’addotta motivazione del censurato intervento legislativo sarebbe, del resto, insufficiente a giustificarne la portata retroattiva, atteso che, alla luce della citata giurisprudenza della Corte EDU, la necessità del contenimento della spesa pubblica non costituisce un motivo di interesse generale suscettibile di legittimare l’ingerenza del legislatore nell’esecuzione di una sentenza passata in giudicato. Inoltre, nessuna valutazione sarebbe stata operata, né informazione sarebbe stata fornita, in ordine al costo dell’eventuale esecuzione del detto giudicato e a come la stessa potrebbe incidere sulla possibilità di rispettare i vincoli di bilancio imposti dall’Unione europea e il principio dell’equilibrio del bilancio previsto dal primo comma dell’art. 81 Cost., come sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale).

6.1.3.– La difesa delle parti costituite passa poi a illustrare il contrasto della disposizione impugnata con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, insistendo, anzitutto, sul fatto che, secondo la Corte EDU, i beni ai quali tale disposizione fa riferimento non devono essere intesi in senso solo materiale, ma comprendono un’aspettativa legittima (espérance legitime), purché il titolare della stessa dimostri che essa ha una base sufficientemente riconosciuta dal diritto interno (sono citate, al riguardo, le sentenze 12 luglio 2001, Principe Hans-Adam II del Liechtenstein contro Repubblica Ceca, paragrafi 82 e 83; 10 luglio 2002, Gratzinger e Gratzingerova contro Repubblica Ceca, paragrafo 69; 6 ottobre 2005, Maurice contro Francia, paragrafo 63), nonché un legittimo affidamento (è citata la sentenza 29 novembre 1991, Pine Valley Developments Ltd e altri contro Irlanda, paragrafo 51).

La stessa difesa sottolinea che la giurisprudenza della Corte EDU ha anche stabilito che non è necessario che il ricorrente sia in possesso di uno specifico atto giuridico che giustifichi la sua pretesa, essendo sufficiente, a tale fine, anche una giurisprudenza costante delle corti nazionali.

In particolare la sentenza Agrati è citata anche a proposito del requisito, pure richiesto dalla Corte EDU ai fini della legittimità dell’intervento legislativo statale, della proporzionalità del pregiudizio da questo recato alla proprietà (paragrafo 83).

La difesa delle parti costituite afferma quindi che sono tutelati dall’art. 1 del Protocollo aggiuntivo alla CEDU non solo i beni attuali ma anche le «legittime speranze», essendo sufficiente che queste abbiano una base nel diritto interno o siano confermate da una giurisprudenza «espressa» degli organi giudicanti.

Nel caso di specie, si sarebbe «ben al di là del concetto di "legittime speranze”», atteso che «gli odierni ricorrenti sono titolari del diritto alla totale esecuzione della sentenza passata da […] anni in giudicato».. La sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007 avrebbe, in effetti, «irrevocabilmente riconosciuto agli istanti la pretesa ad ottenere la qualifica di vicedirigente, la pretesa ad ottenere l’emanazione dell’atto di indirizzo all’ARAN, nonché la pretesa di ottenere la definizione contrattuale del trattamento […] economico corrispondente alla qualifica acquisita di vicedirigente».

Risulterebbe, in definitiva, evidente, da quanto precede, che, con la retroattiva disposizione impugnata, «i ricorrenti sono stati illegittimamente espropriati di una loro pretesa legittima, ovverosia di ottenere la qualifica di vicedirigente e conseguentemente di vedersi contrattualmente riconosciuto il corrispondente trattamento economico nel quadro delle disponibilità finanziarie destinate a sostegno dei costi della negoziazione collettiva pubblica».

6.1.4.– La difesa delle parti costituite osserva ancora che la Corte EDU asserisce che, pur quando venga individuato un interesse generale che potrebbe legittimare l’interferenza dello Stato nei giudizi in corso, «l’amministrazione deve procedere, in seconda battuta, ad un ‘test di proporzionalità’, il quale impone che venga individuato un congruo equilibrio tra "l’interesse generale della comunità e le condizioni di protezione dei diritti fondamentali dell’individuo”» (così la sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 93).

Nella specie, anche a voler prescindere dall’assenza o insufficienza di un interesse pubblico idoneo a giustificare il censurato intervento retroattivo «elusivo del giudicato», la disposizione impugnata sarebbe comunque sproporzionata rispetto al «presunto» fine del contenimento della spesa pubblica, come risulterebbe evidente dal fatto che la sentenza del TAR Lazio n. 4391 del 2012 aveva chiaramente circoscritto i propri effetti agli «istanti», cioè a soli trecentoquarantasei funzionari, con la conseguente impossibilità, data l’esiguità di tale numero, che fosse inficiato «l’equilibrio finanziario della spesa complessiva che affronta lo Stato per i dipendenti ministeriali».

Da quanto precede discenderebbe che l’impugnato art. 5, comma 13, deve considerarsi «"sproporzionato” rispetto al fine di rispettare i vincoli di bilancio interni e dunque incompatibile con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 6, CEDU e art. 1 protocollo 1, CEDU».

6.1.5.– La difesa delle parti costituite procede di seguito a illustrare i profili di censura che si appuntano sulla natura di legge-provvedimento dell’impugnato art. 5, comma 13.

Dopo avere richiamato la giurisprudenza della Corte costituzionale relativa ai criteri da seguire ai fini della qualificazione di una disposizione come legge-provvedimento (sono citate, al riguardo, le sentenze n. 20 del 2012, n. 48 e n. 270 del 2010, n. 94 e n. 137 del 2009, n. 288 del 2008, n. 2 e n. 267 del 2007, n. 429 del 2002, n. 185 del 1998, n. 248 del 1995, n. 346 del 1991, n. 143 del 1989, n. 60 del 1957), la detta difesa afferma che, essendo evidente, alla luce della più volte sottolineata successione temporale, che l’abrogazione dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 era «finalizzata ad impedire l’esecuzione al giudicato formatosi sulla sentenza 4266/07 […] e a sopprimere gli effetti della successiva sentenza 4391/2012», ne discenderebbe che «L’illegittima e concreta finalità perseguita dal comma 13 conforma la norma come legge-provvedimento. Infatti, il comma 13 dell’art. 5 D.L. n. 95/2012 ha chiaramente introdotto una specifica prescrizione a contenuto particolare e concreto, inequivocabilmente diretta ad interferire in termini ostativi sull’esecuzione del giudicato».

Precisata la natura di legge-provvedimento della disposizione impugnata, la difesa delle parti afferma anzitutto che, ancorché le leggi retroattive, anche di interpretazione autentica, non siano sempre leggi-provvedimento, alcuni dei principi espressi dalla Corte EDU con riguardo alle prime «sembrano adattarsi perfettamente anche alle leggi provvedimento, ed in particolare alle leggi sostitutive di provvedimento giurisdizionale» (la Corte costituzionale, nella sentenza n. 374 del 2000, avrebbe chiarito che, in alcune circostanze, una legge interpretativa può avere un contenuto provvedimentale). Nella specie, poiché la disposizione impugnata «ha finito […] per influenzare l’esito giudiziario di controversie pendenti», sarebbe possibile – sempre secondo la difesa degli intervenienti – invocare la citata giurisprudenza della Corte EDU «per ottenere una pronuncia di incostituzionalità per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 6, CEDU e all’art. 1, Protocollo 1, CEDU».

Oltre a violare gli anzidetti parametri convenzionali, l’impugnata legge-provvedimento contrasterebbe anche con «ulteriori parametri costituzionali interni».

Posta la preclusione che «il contenuto di una legge si sostituisca e si sovrapponga ad un atto giurisdizionale divenuto definitivo», sicché, «all’interno del genus "leggi dettate in sostituzione del provvedimento giudiziario” paiono rientrare certamente quegli atti normativi in grado di ledere la cosiddetta "riserva di sentenza”», la difesa delle parti afferma che, tra le leggi che incidono su tale riserva, «si possono far rientrare certamente quelle leggi che, pur modificando la normativa sostanziale, incidono retroattivamente e in modo diretto su una o più questioni passate in giudicato (come successo esattamente nel caso di specie […])».

Tali leggi sarebbero lesive della «riserva di funzione giudiziaria prevista dalla Costituzione», come sarebbe confermato dalle sentenze della Corte costituzionale n. 354 del 2010, n. 374 del 2000 e n. 123 del 1987, ciascuna declaratoria dell’illegittimità costituzionale di una «legge sostitutiva di provvedimento giurisdizionale».

La difesa delle parti afferma ancora che, dalle sentenze della Corte costituzionale n. 123 del 1987 e n. 70 del 1983, si trae, tra gli altri principi (poi tutti costantemente ribaditi dalla giurisprudenza successiva; sono citate, al riguardo, le sentenze n. 277 del 2012, n. 303 del 2011, n. 354 e n. 209 del 2010, n. 94 del 2009, n. 170 del 2008, n. 364 del 2007, n. 352 del 2006, n. 26 del 2003, n. 525 del 2000, n. 211 e n. 185 del 1998, n. 492 e n. 15 del 1995, n. 263 e n. 6 del 1994, n. 480 e n. 455 del 1992 e n. 91 del 1988), quello – posto in evidenza dalla stessa difesa – secondo cui «Solo la violazione di un giudicato operata da una legge che ponga nel nulla gli effetti di una sentenza definitiva può incidere sulla "riserva di giurisdizione”». È, infine, nuovamente citata la sentenza n. 267 del 2007, con la quale la Corte costituzionale «ha ritenuto, non essendo ancora decorso il termine per la formazione del giudicato formale, di dover dichiarare l’incostituzionalità della norma per violazione del canone di ragionevolezza».

Sulla scorta di tali considerazioni, la difesa delle parti ribadisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, «per aver vanificato i diritti ad una effettiva tutela giurisdizionale dei ricorrenti e per aver invaso una sfera di attribuzioni […] conferita dalla Costituzione alla magistratura» e, in particolare, la violazione, da parte di detta impugnata disposizione, degli artt. 24 e 113, primo comma, Cost., e degli artt. 102, primo comma, 103, primo comma, e 104, primo comma, Cost.

6.2.– La difesa delle parti costituite conclude chiedendo alla Corte costituzionale di dichiarare ammissibili e fondate le questioni sollevate.

7.– In prossimità della pubblica udienza, anche la Dirpubblica ha depositato una memoria con la quale ha ribadito gli argomenti a favore dell’ammissibilità del proprio intervento.

Considerato in diritto

1.– Il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU) e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135.

1.1.– Il citato art. 5, comma 13, ha disposto l’abrogazione dell’art. 17-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – aggiunto a tale decreto dall’art. 7, comma 3, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato) e successivamente modificato dall’art. 14-octies, comma 1, del d.l. 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 17 agosto 2005, n. 168 – il quale prevedeva che la contrattazione collettiva del comparto Ministeri disciplinasse l’istituzione di un’apposita separata area della vicedirigenza nella quale sarebbe stato ricompreso il personale laureato appartenente alle posizioni C2 e C3 che avesse maturato complessivamente cinque anni di anzianità in tali posizioni o nelle corrispondenti qualifiche VIII e IX del precedente ordinamento  (comma 1, primo periodo).

Secondo la norma di attuazione dettata dall’art. 10, comma 3, della legge n. 145 del 2002, la disciplina dell’istituzione dell’area della vicedirigenza restava «affidata» alla contrattazione collettiva, da svolgersi «sulla base di atti di indirizzo del Ministro per la funzione pubblica all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) anche per la parte relativa all’importo massimo delle risorse finanziarie da destinarvi».

1.2.– Per comprendere le ragioni delle doglianze del rimettente, è necessario preliminarmente ripercorrere, sulla base di quanto risulta dall’ordinanza di rimessione, i tratti salienti della vicenda processuale nel cui ambito le questioni sono state sollevate.

In specie, divenuta applicabile la disposizione dell’art. 17-bis, in difetto dell’adozione dei menzionati atti di indirizzo all’ARAN, il 20 luglio 2006 trecentosettantadue funzionari, dipendenti dell’amministrazione della giustizia, notificavano alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministero dell’economia e delle finanze e al Dipartimento della funzione pubblica un atto di diffida, con il quale «sollecitavano l’emanazione della direttiva contrattuale prevista dall’art. 10, III comma, della legge 15 luglio 2002, n. 145, per l’istituzione dell’area della vicedirigenza».

Nel 2007, a fronte dell’inerzia delle diffidate autorità, i detti funzionari dell’amministrazione della giustizia proponevano ricorso, contro le stesse, al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con il quale impugnavano, ai sensi dell’art. 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), il silenzio serbato dall’amministrazione sulla diffida.

Tale ricorso fu accolto con la sentenza del TAR Lazio 10 maggio 2007, n. 4266, che, conclusivamente, ordinò al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Ministri per la funzione pubblica e dell’economia e delle finanze, ciascuno per la parte di rispettiva competenza, «di esercitare le proprie attribuzioni per riscontrare in via definitiva l’istanza di parte ed il conseguente atto di messa in mora entro il termine di sei mesi decorrente dalla data di notifica ad esse della presente sentenza, che avverrà a cura della parte ricorrente». Tale sentenza passò in giudicato.

Poiché non vi fu prestata osservanza, il 26 luglio 2011 gli interessati depositarono un’istanza al TAR Lazio per la nomina, ai sensi dell’art. 117, comma 3, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), di un commissario ad acta che provvedesse agli adempimenti discendenti dalla sentenza n. 4266 del 2007 in luogo delle amministrazioni rimaste inerti.

Dopo una fase interlocutoria, persistendo l’inerzia delle amministrazioni, il TAR Lazio emetteva la sentenza 16 maggio 2012, n. 4391, con la quale, dopo avere rilevato che, per dare attuazione alla sentenza n. 4266 del 2007, doveva essere esercitato – «con specifico riferimento al personale del Ministero della giustizia, questo essendo il limite soggettivo del giudicato» – il potere di indirizzo nei confronti dell’ARAN, nominava commissario ad acta, «per dare pieno adempimento alle prescrizioni contenute nella sentenza 10 maggio 2007, n. 4266», il Capo pro tempore del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri. Tale sentenza n. 4391 del 2012 veniva notificata all’amministrazione il 21 giugno 2012.

A questo punto della vicenda processuale, sopravveniva il censurato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, che – come si è detto – ha disposto l’abrogazione dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001. Il nominato commissario ad acta trasmetteva dunque al TAR Lazio, giudice dell’esecuzione, la nota datata 12 settembre 2012 in cui faceva presente che riteneva «venuta meno ogni attività da espletare in ottemperanza alla predetta sentenza».

Il TAR Lazio, con la sentenza 9 novembre 2012, n. 9220, condividendo tale conclusione del commissario ad acta, dichiarava cessato l’incarico commissariale e  improcedibile il giudizio di ottemperanza per sopravvenuta carenza di interesse.

Quest’ultima sentenza del TAR Lazio era appellata davanti al rimettente Consiglio di Stato, lamentandosi, da parte degli appellanti funzionari dell’amministrazione della giustizia, l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.

1.3.– Il Consiglio rimettente muove dalla premessa che l’esposta successione cronologica dei fatti e, in particolare, la circostanza che l’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, sia stato emanato a distanza di circa dieci anni dall’entrata in vigore dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 e di circa cinque anni dal passaggio in giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007, solo dopo la notificazione della sentenza dello stesso TAR n. 4391 del 2012 con la quale era stato nominato un commissario ad acta «per dare pieno adempimento alle prescrizioni contenute nella sentenza 10 maggio 2007, n. 4266», renderebbe palese che lo scopo realmente perseguito dalla disposizione impugnata era quello di impedire l’attuazione del giudicato di tale sentenza, favorevole ai ricorrenti funzionari del Ministero della giustizia.

Ciò premesso, con un primo gruppo di censure, il rimettente deduce che l’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, lede i diritti a un giusto processo e al rispetto dei propri beni. In particolare, sarebbe violato l’art. 6 della CEDU, perché, «nel sopprimere retroattivamente ogni effetto prodotto dal giudicato ha influenzato l’esito del giudizio, privando, nel corso dell’esecuzione, il commissario ad acta dei poteri assegnatigli dal giudice amministrativo e finalizzati all’attuazione dei precetti contenuti nel giudicato». Sarebbero anche violati l’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa Convenzione, perché «ha comportato un’ingerenza nell’esercizio dei diritti che i ricorrenti  potevano far valere in virtù di una sentenza passata in giudicato e della quale era in corso l’esecuzione»; l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in quanto sarebbe stata eliminata «la condizione di parità davanti al giudice imparziale e terzo». Nella stessa prospettiva, l’impugnato art. 5, comma 13, contrasterebbe anche con «il diritto di difesa dei ricorrenti», perché ha alterato «la regolamentazione degli interessi stabilita da sentenze esecutive», e con «il principio di effettività della tutela giurisdizionale».

Con un secondo gruppo di censure, il giudice a quo lamenta che lo stesso art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, costituisce una legge-provvedimento diretta allo scopo – evidenziato dalle circostanze temporali della sua emanazione – di impedire l’attuazione del giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007. Da tale punto di vista, la disposizione impugnata violerebbe gli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost. (in particolare, l’art. 24 Cost. sarebbe leso là dove «garantisce la tutela dei diritti e degli interessi», mentre gli artt. 3 e 97 Cost. sono invocati sotto i profili del contrasto con i princìpi del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione e dell’affidamento).

Sarebbero, infine, violati, anche gli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost., in quanto la disposizione impugnata, «vanificando gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, ha invaso l’area riservata alla funzione giurisdizionale, vulnerando il principio della divisione dei poteri giurisdizionali e normativi».

2.– In via preliminare, deve essere confermata la dichiarazione di inammissibilità degli interventi spiegati da duecentosettantatré «dipendenti dello Stato» che affermano di essere «inquadrati da oltre cinque anni come funzionari» di vari Ministeri e «quindi pubblici dipendenti di Area III (ex qualifica C2 e superiori) destinatari della normativa a suo tempo prevista dall’art. 17/bis del D.lgs. 165/2001» e dalla Dirpubblica (Federazione del pubblico impiego), per le ragioni esposte nell’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e allegata alla presente sentenza.

3.– Sempre in via preliminare, devono essere, altresì, esaminati alcuni profili che attengono all’ammissibilità delle questioni sollevate, in particolare le quattro eccezioni di inammissibilità delle stesse prospettate dal Presidente del Consiglio dei ministri.

3.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, innanzitutto, che le questioni sollevate sarebbero irrilevanti perché «lungi dallo specificare puntualmente i profili in virtù dei quali [la questione] inerirebbe al pertinente scandaglio, il giudice di seconde cure fumosamente individua tali aspetti». Inoltre, l’eventuale pronuncia di incostituzionalità non comporterebbe l’attuazione sicura della vicedirigenza.

L’eccezione non è fondata in ragione dei seguenti due rilievi.

In primo luogo, alla luce di quanto riferito dall’ordinanza di rimessione, la sentenza del TAR Lazio n. 9220 del 2012, oggetto di appello davanti al rimettente Consiglio di Stato, ha dichiarato l’improcedibilità del giudizio per l’ottemperanza della sentenza dello stesso TAR n. 4266 del 2007 motivando esclusivamente sulla base della sopravvenuta abrogazione dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 a opera dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012. Gli appellanti hanno impugnato tale sentenza lamentando l’incostituzionalità della disposizione censurata, non lasciando sussistere alcun dubbio che il giudice a quo, al fine di decidere sul gravame, debba fare applicazione della stessa.

In secondo luogo, poiché la disposizione dell’impugnato art. 5, comma 13, è meramente abrogativa di una previgente disposizione (l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001), l’accoglimento (di una) delle sollevate questioni di legittimità costituzionale comporterebbe la "reviviscenza” del detto art. 17-bis (sentenze n. 218 del 2015 e n. 13 del 2012) e, quindi, la possibilità, per il giudice a quo, di accogliere, anziché rigettare, l’appello davanti a sé pendente, con la conseguente prosecuzione del procedimento di ottemperanza (secondo le parole dell’ordinanza di rimessione, in caso di accoglimento della questione, «allora i ricorrenti risulterebbero soddisfatti dalla pronuncia di questo Consiglio»).   

Tanto è sufficiente a comprovare l’infondatezza dell’eccezione.

3.2.– Con la seconda eccezione, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ha dedotto l’inammissibilità delle questioni «sotto il profilo della valutazione della […] non manifesta infondatezza», in base alla considerazione di come l’ordinanza di rimessione «in modo generico e impreciso si dilunghi […] senza, alla fine, lasciar affiorare dove realmente le norme denunciate sarebbero incostituzionali e quali sarebbero i parametri costituzionali in ordine ai quali concretamente affiorerebbe la frizione».

Secondo la terza eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato, l’inammissibilità delle questioni deriverebbe invece dal «difetto di motivazione dell’ordinanza di rimessione». A sostegno di tale eccezione, la difesa statale asserisce che il rimettente «si è limitato ad evidenziare quelli che ritiene essere i vizi di costituzionalità della norma da applicare, esprimendo sic et simpliciter un positivo convincimento nel senso della fondatezza», senza, tuttavia, essersi «impegnato a dimostrare la ragionevolezza oggettiva di quello che si palesa come un dubbio meramente soggettivo». Le carenze dell’ordinanza di rimessione emergerebbero, in particolare, dalla motivazione delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost. 

In tale modo il Presidente del Consiglio dei ministri ha contestato la valutazione di non manifesta infondatezza delle questioni compiuta dal giudice rimettente e la sufficienza della motivazione fornita dall’ordinanza di rimessione al riguardo. Le due eccezioni possono, perciò, essere esaminate congiuntamente.

Esse sono, peraltro, infondate.

Nell’ordinanza di rimessione, il rimettente Consiglio di Stato, oltre a indicare la disposizione censurata e le disposizioni costituzionali e interposte violate, ha altresì esposto in modo adeguato, nei termini riassunti al punto 1.3. e più diffusamente riportati nel Ritenuto in fatto, le ragioni del reputato contrasto della prima con le seconde, fornendo un’argomentazione sufficiente con riguardo alla violazione di ciascuna di queste.

La stessa ordinanza di rimessione contiene inoltre una completa e precisa ricostruzione della fattispecie oggetto del giudizio a quo, «necessaria al fine di valutare tanto la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, quanto la sua non manifesta infondatezza (ex plurimis, da ultimo, sentenza n. 128 del 2014)» (sentenza n. 56 del 2015). Nella specie, si tratta di una necessità evidente, ove si consideri il rilievo attribuito, nell’ambito dell’impianto argomentativo delle questioni, alla successione temporale degli eventi.

Si deve quindi concludere per il rigetto delle due eccezioni della difesa statale.

3.3.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, infine, le sollevate questioni sarebbero inammissibili anche perché il rimettente avrebbe omesso di esplorare la possibilità di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.

Anche tale eccezione deve essere disattesa.

Sollevata in modo del tutto generico, essa non indica quale avrebbe dovuto essere l’interpretazione costituzionalmente orientata che il rimettente avrebbe omesso di fornire (in tale senso, sentenze n. 250 e n. 200 del 2014), specialmente in considerazione del fatto che la disposizione impugnata è una norma di mera abrogazione.

3.4.– Deve invece essere rilevata, d’ufficio, l’inammissibilità delle deduzioni svolte dai costituiti dipendenti del Ministero della giustizia ricorrenti nel giudizio a quo dirette ad estendere il thema decidendum – quale definito nell’ordinanza di rimessione – anche alla violazione del parametro di cui all’art. 104, primo comma, Cost. In base alla costante giurisprudenza di questa Corte, «"l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze” (ex plurimis, sentenza n. 83 del 2015)» (sentenza n. 231 del 2015; nello stesso senso, tra le più recenti, oltre alla citata sentenza n. 83 del 2015, sentenze n. 96 del 2016, n. 56, n. 37 e n. 34 del 2015, ordinanze n. 122 e n. 24 del 2015).

4.– Venendo al merito, il primo gruppo di questioni da esaminare attiene alla violazione dei diritti a un giusto processo e al rispetto dei propri beni.

4.1.– Con la prima di tali questioni, il rimettente lamenta che l’impugnato art. 5, comma 13, vìola il diritto a un equo processo garantito dall’art. 6 della CEDU – invocato a integrazione del parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. – perché avrebbe soppresso «retroattivamente ogni effetto prodotto dal giudicato» e influenzato l’esito del giudizio di ottemperanza proposto per conseguirne l’attuazione.

La questione non è fondata.

4.1.1.– Al fine di procedere all’accertamento della sussistenza della denunciata violazione, occorre preliminarmente verificare se l’invocato art. 6 della CEDU sia applicabile alla presente fattispecie, avuto riguardo, in particolare, alla possibilità di ravvisare, nella stessa, una controversia su un «diritto civile» ai sensi del paragrafo 1 del detto articolo.

L’esito di tale preliminare verifica è positivo.

Da un lato, infatti, con riguardo all’esistenza di un «diritto», la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) ha già avuto occasione di chiarire che, dato il carattere autonomo di tale concetto ai fini della Convenzione, è irrilevante che il diritto italiano qualifichi una posizione soggettiva in termini di interesse legittimo o di diritto soggettivo, essendo sufficiente che essa abbia formato oggetto di una controversia (Grande Camera, sentenza 5 ottobre 2000, Mennitto contro Italia,). Nessun rilievo ostativo all’applicabilità dell’art. 6 della CEDU può quindi assumere il fatto che la sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007 abbia definito la posizione soggettiva dei ricorrenti in termini di «interesse qualificato […] ad aspirare all’accesso alla vicedirigenza».

D’altro lato, quanto alla natura «civile» del diritto, la giurisprudenza della Corte EDU è ormai costante nell’affermare che, nella discussa materia delle controversie concernenti il lavoro pubblico, esiste una presunzione di applicazione dell’art. 6 della CEDU, per vincere la quale lo Stato convenuto deve dimostrare la sussistenza di due cumulative condizioni: in primo luogo, che il lavoratore non ha diritto di accedere a un giudice in base al proprio ordinamento; in secondo luogo, che l’esclusione di tale diritto è giustificata da ragioni obiettive legate all’interesse dello Stato (Grande Camera, sentenza 19 aprile 2007, Vilho Eskelinen e altri contro Finlandia,; in senso conforme, tra le tante, quarta sezione, sentenza 17 dicembre 2013, Nikolova e Vandova contro Bulgaria, quarta sezione, sentenza 16 aprile 2013, Fazliyski contro Bulgaria). Dato il carattere cumulativo di tali condizioni, la stessa Corte EDU ha ritenuto che, in caso di insussistenza della prima, non sia necessario verificare l’esistenza della seconda (tra le tante, sezione prima, sentenza 11 dicembre 2012, Gassner contro Austria).

Nel caso di specie, poiché i funzionari pubblici che aspiravano alla vicedirigenza hanno potuto avere accesso a un giudice – come è dimostrato dalla vicenda processuale che è culminata nel giudizio a quo – la prima condizione, evidentemente, non ricorre. Ne consegue, in base alla menzionata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che l’art. 6 della CEDU deve ritenersi applicabile alla controversia in materia di lavoro pubblico che viene qui in considerazione.

4.1.2.– Passando, quindi, ad accertare se l’impugnato art. 5, comma 13, víoli tale parametro interposto, va rilevato che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il diritto a un processo equo garantito dall’art. 6 della CEDU, interpretato in conformità al principio della preminenza del diritto, include il diritto all’esecuzione delle decisioni giurisdizionali definitive e vincolanti (sentenza 19 marzo 1997, Hornsby contro Grecia). Tale affermazione, sempre secondo la Corte EDU, riveste una particolare importanza proprio nel contesto del contenzioso amministrativo, atteso che, con l’azione di annullamento, il ricorrente mira a ottenere non solo l’eliminazione dell’atto o dell’omissione impugnati ma anche, e soprattutto, la rimozione dei loro effetti (sentenza 19 marzo 1997, Hornsby contro Grecia).

La stessa Corte di Strasburgo ha peraltro dato atto che esistono circostanze che possono  giustificare la mancata esecuzione «in natura» degli obblighi imposti da un giudicato, a condizione che lo Stato convenuto abbia informato il ricorrente, a mezzo di un provvedimento giudiziario o amministrativo, delle vicende di fatto o degli ostacoli giuridici che l’hanno resa impossibile (tra le tante, sezione seconda, sentenza 9 giugno 2009, Nicola Silvestri contro Italia; sezione terza, sentenza 12 luglio 2007, SC Ruxandra Trading s.r.l. contro Romania; sezione terza, sentenza 26 maggio 2005, Costin contro Romania).

4.1.3.– Nel caso di specie, questa Corte ritiene che la mancata esecuzione dell’obbligo imposto dal giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007, determinata dall’abrogazione, a opera dall’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, sia giustificata e non leda, perciò, il diritto a un equo processo garantito dall’art. 6 della CEDU.

Tale avviso si fonda sul raffronto tra la portata del giudicato amministrativo della sentenza n. 4266 del 2007 e il contenuto precettivo dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.

Come si è visto al punto 1.2., la sentenza anzidetta, riconosciuta la fondatezza della pretesa azionata dai ricorrenti con l’impugnazione del silenzio sull’atto di diffida con il quale era stata «sollecita[ta] l’emanazione della direttiva contrattuale prevista dall’art. 10, III comma, della legge 15 luglio 2002, n. 145, per l’istituzione dell’area della vicedirigenza», ordinò al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Ministri per la funzione pubblica e dell’economia e delle finanze «di esercitare le proprie attribuzioni per riscontrare in via definitiva l’istanza di parte ed il conseguente atto di messa in mora».

Risulta quindi evidente che la stessa sentenza, passata in giudicato formale, non aveva riconosciuto ai ricorrenti la qualifica di vicedirigenti, ma aveva soltanto affermato che essi avevano un interesse giuridicamente tutelato a che fosse adottato l’atto di indirizzo all’ARAN di cui all’art. 10, comma 3, della legge n. 145 del 2002, cioè il provvedimento amministrativo che doveva precedere la fase della contrattazione collettiva alla quale l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 demandava l’istituzione dell’area della vicedirigenza.

Il riconoscimento della titolarità del detto interesse (di natura "strumentale” e non "finale”) all’adozione dell’atto di indirizzo dell’attività negoziale della citata parte pubblica non escludeva dunque affatto, come reputano invece il rimettente e i funzionari intervenienti, che la previsione dell’istituzione dell’area della vicedirigenza – questione lasciata del tutto impregiudicata dalla sentenza – restasse nella piena disponibilità del legislatore. Quest’ultimo, perciò, in virtù del generale principio della modificabilità della legge anteriore a opera di quella posteriore, ben poteva – come ha fatto – modificare l’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche nel senso di non prevedere più l’istituzione della detta area, abrogando la disposizione che l’aveva stabilita (ciò che, del resto, per quanto detto, ben avrebbe potuto fare anche dopo che l’atto di indirizzo all’ARAN fosse stato adottato).

In altre parole, non sussiste alcuna sovrapposizione né, tanto meno, conflitto, tra l’accertamento sostanziale, contenuto nel giudicato, della pretesa all’adozione dell’atto di indirizzo all’ARAN (e del correlativo obbligo dell’amministrazione) e l’abrogazione, a opera dell’impugnato art. 5, comma 13, della disposizione istitutiva dell’area della vicedirigenza, atteso che il vincolo originato dall’anzidetta "regola giudiziale” concerneva specificamente ed esclusivamente l’indicato tratto iniziale della complessiva procedura prevista ai fini dell’istituzione della detta area e lasciava, perciò, del tutto libero lo spazio a un successivo intervento legislativo abrogativo della disposizione istitutiva della medesima.

Tale assenza di un’effettiva sovrapposizione al giudicato della sentenza n. 4266 del 2007 esclude altresì che, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente e dai funzionari intervenienti, l’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, abbia efficacia retroattiva, avendo, invece, il suo effetto abrogativo, efficacia solo ex nunc.

Tenuto conto di quanto precede, il fatto che l’impugnato art. 5, comma 13, abrogando l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 che prevedeva l’istituzione della vicedirigenza – e ponendo, così, un ostacolo giuridico all’esecuzione degli obblighi imposti dal giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007 – sia intervenuto in un àmbito non coperto da tale giudicato (oggettivamente limitato all’accertamento della pretesa all’adozione dell’indirizzo all’ARAN) costituisce una circostanza idonea a giustificare la mancata esecuzione degli obblighi da esso imposti. Il detto ostacolo, d’altro canto, oltre che noto ai ricorrenti, in quanto derivante da una norma di legge, era stato a essi debitamente opposto dalla sentenza del TAR Lazio n. 9220 del 2012.

4.1.4.– La giustificazione della mancata esecuzione del giudicato della sentenza n. 4266 del 2007, determinata dall’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, comporta che debba ritenersi, parimenti, giustificata la lamentata influenza di tale disposizione sul giudizio di ottemperanza – che l’abrogazione della previsione istitutiva della vicedirigenza ha reso, come si è visto, improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse – attesa la preordinazione di tale giudizio all’attuazione del detto giudicato.

4.1.5.– Con riguardo a tale specifico profilo della censura, sia il rimettente (che cita, in particolare, la sentenza della seconda sezione 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia) che i funzionari costituti hanno invocato il costante orientamento della Corte EDU secondo cui se, in linea di principio, non è precluso al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 della CEDU ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia; con il complemento che l’esigenza della parità fra le parti implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte.

Ad avviso del rimettente (come si è detto al punto 1.3.) nonché dei predetti intervenienti, tale fine di influenzare l’esito di una controversia giudiziaria – in particolare, il giudizio di ottemperanza promosso da questi ultimi per conseguire il soddisfacimento della propria pretesa all’adozione dell’atto di indirizzo all’ARAN – sarebbe proprio anche dell’impugnato art. 5, comma 13, come emergerebbe dal contesto temporale della sua emanazione.

A proposito di tale argomentazione, va anzitutto ribadito che l’impugnato art. 5, comma 13, non ha, per le ragioni che si sono esposte al punto 4.1.3., portata retroattiva. Tale rilievo, rendendo inconferente l’invocata giurisprudenza della Corte EDU – tutta relativa a casi in cui venivano in considerazione disposizioni di legge retroattive (per lo più, come nel citato caso Agrati contro Italia, di interpretazione autentica) – esclude in radice la validità dell’argomentazione.

Inoltre, e in ogni caso, la tesi della strumentalità della disposizione impugnata all’intento di determinare l’esito della specifica controversia giudiziaria in corso non è condivisibile, dovendosi, piuttosto, ritenere che lo scopo dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, era quello di ridurre, nel contesto di necessità e urgenza determinato dalla grave crisi finanziaria che aveva colpito l’Italia tra la fine del 2011 e la prima metà del 2012, le spese delle amministrazioni pubbliche.

Tale conclusione si fonda, anzitutto, sulla coerenza dell’impugnato comma 13 rispetto al menzionato scopo – manifestato anche dalla rubrica dell’art. 5 nel quale la disposizione è contenuta – della «Riduzione di spese delle pubbliche amministrazioni», considerato che, come indicato nella Relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 95 del 2012, detto comma comportava una «riduzione di spesa pari a 12 milioni a regime dal 2012». In tale modo, l’impugnato comma 13 si inseriva anche nell’àmbito del più ampio intervento, attuato con lo stesso d.l. n. 95 del 2012, diretto, tra l’altro, a «garantire il contenimento e la stabilizzazione della finanza pubblica, anche attraverso misure volte a garantire la razionalizzazione, l’efficienza e l’economicità dell’organizzazione degli enti e degli apparati pubblici» (così il preambolo del decreto).

In secondo luogo, deve osservarsi che, con il censurato comma 13, il legislatore ha eliminato l’istituto della vicedirigenza con riguardo, sia a tutto il comparto Ministeri, sia a tutte le altre amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 (al cui personale la disposizione del comma 1 dell’art. 17-bis sull’istituzione della vicedirigenza si applicava, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, «ove compatibile»). L’indicata generale portata dell’intervento abrogativo, tale da trascendere enormemente l’àmbito soggettivo del giudizio in corso – instaurato da un circoscritto numero di funzionari del solo Ministero della giustizia e diretto a ottenere l’attuazione di un giudicato soggettivamente limitato al personale di tale Ministero –  costituisce un’ulteriore decisiva conferma di come la disposizione denunciata mirasse non a risolvere a favore dello Stato detto giudizio di ottemperanza ma a conseguire una riduzione della spesa delle amministrazioni pubbliche.

 4.1.6.– Deve, perciò, conclusivamente ritenersi che l’impugnato art. 5, comma 13, nel porre un ostacolo giuridico all’esecuzione del giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007, è intervenuto in un àmbito non coperto da questo – e lasciato quindi aperto a un successivo intervento del legislatore – e che tale circostanza giustifica la mancata esecuzione degli obblighi imposti dallo stesso giudicato e la (conseguente) improcedibilità del giudizio di ottemperanza promosso per conseguirla, senza che l’anzidetta mancata esecuzione integri una violazione dell’art. 6 della CEDU.

4.2.– Con la seconda questione del primo gruppo di censure in esame, il giudice a quo lamenta che l’impugnato art. 5, comma 13, víola la norma interposta dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU – che protegge la proprietà, riconoscendo a ciascuno il diritto al rispetto dei propri beni – perché «ha comportato un’ingerenza nell’esercizio dei diritti che i ricorrenti  potevano far valere in virtù di una sentenza passata in giudicato e della quale era in corso l’esecuzione».

La questione non è fondata.

L’esame della stessa impone, anche in questo caso, di accertare previamente se l’invocato parametro interposto sia applicabile alla presente fattispecie; il che richiede di verificare, in particolare, se la sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007, passata in giudicato e della quale era stata chiesta l’ottemperanza, avesse effettivamente attribuito ai ricorrenti nel giudizio a quo la titolarità di un «bene», ai sensi del detto parametro.

L’esito di tale preliminare verifica è, in questo caso, negativo.

A proposito della nozione di «bene», ai sensi dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, la giurisprudenza della Corte EDU – alla quale hanno fatto riferimento anche il rimettente e gli intervenienti funzionari del Ministero della giustizia – è costante nell’affermare che essa può comprendere sia «beni attuali» sia valori patrimoniali in virtù dei quali il ricorrente può pretendere di avere almeno una «aspettativa legittima» («ésperance légitime» in francese e «legitimate expectation» in inglese) di ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà (Grande Camera, sentenza 7 febbraio 2013, Fabris contro Francia, e sentenza 28 settembre 2004, Kopecky contro Slovacchia; in senso conforme, tra le tante, sezione seconda, sentenza 23 settembre 2014, Valle Pierimpiè Società agricola s.p.a. contro Italia, e sentenza 18 maggio 2010, Plalam s.p.a. contro Italia). Non può, all’opposto, essere considerata un «bene» la mera «speranza» («espoir» in francese e «hope» in inglese) di vedersi riconosciuto un diritto di proprietà che si è nell’impossibilità di esercitare effettivamente (Grande Camera, decisione 2 marzo 2005, Von Maltzan e altri contro Germania e sentenza 28 settembre 2004, Kopecky contro Slovacchia; in senso conforme, sezione seconda, sentenza 23 settembre 2014, Valle Pierimpiè Società agricola s.p.a. contro Italia).

Alla luce di tale orientamento della Corte di Strasburgo e considerata la portata del giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007, questa Corte ritiene di dover escludere che tale sentenza avesse effettivamente attribuito ai ricorrenti la titolarità di un «bene» suscettibile di essere protetto dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.

Come si è visto al punto 4.1.3., la stessa sentenza, lungi dal riconoscere ai ricorrenti la qualifica di vicedirigenti e il presumibile maggiore trattamento economico, aveva soltanto affermato che essi avevano una pretesa giuridicamente tutelata a che fosse adottato l’indirizzo all’ARAN di cui all’art. 10, comma 3, della legge n. 145 del 2002, cioè il provvedimento amministrativo che doveva precedere la fase della contrattazione collettiva cui l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 demandava l’istituzione dell’area della vicedirigenza.

Tale estensione del giudicato esclude che la pretesa all’adozione dell’indirizzo all’ARAN possa costituire un «bene attuale», atteso che essa non assicurava, di per sé, alcuna utilità patrimoniale ai ricorrenti nel giudizio a quo.

Deve anche ritenersi, per le ragioni esposte, che la sentenza n. 4266 del 2007 non abbia attribuito agli stessi ricorrenti un’aspettativa legittima, economicamente rilevante, a ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà alla stregua della menzionata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in particolare un’aspettativa legittima a ottenere la qualifica di vicedirigente e il conseguente maggiore trattamento economico.

Escluso dunque che tale sentenza abbia attribuito la titolarità di un «bene» protetto ai sensi dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, ne deriva l’infondatezza della questione sollevata in relazione alla norma interposta.

4.3.– Le considerazioni che si sono svolte al punto 4.1.3. – con riguardo al fatto che l’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, è intervenuto in un àmbito lasciato "libero” dal giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007, sicché nessuna sovrapposizione sussiste tra quest’ultimo e l’abrogazione, a opera dello stesso art. 5, comma 13, della previsione che demandava alla contrattazione collettiva l’istituzione dell’area della vicedirigenza – portano a escludere che tale impugnata disposizione abbia «eliminato la condizione di parità delle parti», in violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., o leso «il diritto di difesa dei ricorrenti», alterando «la regolazione di interessi stabilita da sentenze esecutive», o il «principio di effettività della tutela giurisdizionale».

5.– Con il secondo gruppo di questioni, il rimettente lamenta che l’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, vìola gli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost. in quanto legge-provvedimento diretta allo scopo di impedire l’attuazione del giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007.

Le questioni non sono fondate.

5.1.– Lo scrutinio delle stesse presuppone di verificare se la disposizione censurata sia effettivamente ascrivibile alla categoria delle leggi-provvedimento.

Nella giurisprudenza di questa Corte, sono state reputate tali le leggi che mostrano «un contenuto particolare e concreto (ex plurimis, sentenze n. 20 del 2012 e n. 270 del 2010) […], perciò […] producendo direttamente effetti nei confronti di destinatari determinati o di numero limitato (ex multis, sentenze n. 275 e n. 154 del 2013 e n. 94 del 2009)» (così, da ultimo, l’ordinanza n. 72 del 2015). Più diffusamente, la sentenza n. 275 del 2013 ha affermato che, nella giurisprudenza costituzionale, «sono state […] definite [leggi-provvedimento] quelle che "contengono disposizioni dirette a destinatari determinati” (sentenze n. 154 del 2013, n. 137 del 2009 e n. 2 del 1997), ovvero "incidono su un numero determinato e limitato di destinatari” (sentenza n. 94 del 2009), che hanno "contenuto particolare e concreto” (sentenze n. 20 del 2012, n. 270 del 2010, n. 137 del 2009, n. 241 del 2008, n. 267 del 2007 e n. 2 del 1997), "anche in quanto ispirate da particolari esigenze” (sentenze n. 270 del 2010 e n. 429 del 2009), e che comportano l’attrazione alla sfera legislativa "della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa” (sentenze n. 94 del 2009 e n. 241 del 2008)».

Facendo applicazione di tali criteri, elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, l’assunto del giudice a quo circa la natura provvedimentale dell’impugnato art. 5, comma 13, deve ritenersi infondato.

Da un lato, infatti, sul piano soggettivo, i destinatari di tale disposizione non sono affatto «determinati o di numero limitato». Invero, abrogando l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, che aveva previsto l’istituzione dell’area della vicedirigenza, essa mostra di avere una platea di destinatari coincidente con quella indicata dal medesimo articolo. Tali destinatari comprendono, perciò, il personale di tutto il comparto Ministeri, nonché delle altre amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 – ai cui dipendenti il comma 1 del citato art. 17-bis si applicava «ove compatibile» (comma 2 dello stesso art. 17-bis) – in possesso dei requisiti previsti per l’accesso all’area della vicedirigenza e non soltanto il personale del Ministero della giustizia né, tanto, meno, i soli ricorrenti nel giudizio a quo. L’esistenza di una lite in corso che coinvolgeva specificamente questi ultimi e il rilievo della disposizione impugnata nella definizione di tale lite costituiscono, perciò, evenienze di mero fatto, non influenti per circoscrivere la produzione di effetti esclusivamente nei confronti dei ricorrenti nel giudizio a quo.

D’altro canto, sul piano oggettivo, risulta palese, sulla base di quanto ora detto, che l’impugnato art. 5, comma 13, non ha affatto un «contenuto particolare e concreto» ma, al contrario, detta la regola, di carattere astratto, secondo cui la vicedirigenza non è (più) prevista nell’organizzazione del lavoro pubblico.

Il descritto inquadramento della disposizione impugnata, escludendo la natura di legge-provvedimento della stessa, rende ultroneo il vaglio di costituzionalità imposto dalla giurisprudenza di questa Corte sugli atti aventi tale natura – relativo alla verifica dell’osservanza di «limiti non solo specifici, qual è quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso, ma anche generali, e cioè quello del rispetto del principio di ragionevolezza e non arbitrarietà» (così, ex plurimis, la sentenza n. 137 del 2009) – e comporta l’infondatezza di tutte le censure in esame, essendo esse basate sull’opposto erroneo assunto della natura provvedimentale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.

5.2.– Non sono infine rilevanti, a sostegno delle tesi del rimettente, le sentenze di accoglimento di questa Corte n. 267 del 2007 e n. 374 del 2000, invocate dallo stesso giudice a quo nonché dai funzionari del Ministero della giustizia nel proprio atto di intervento.

È, infatti, agevole riscontrare che dette pronunce avevano a oggetto disposizioni di portata ben diversa da quella dell’impugnato art. 5, comma 13.

Quanto alla sentenza n. 267 del 2007, è sufficiente rammentare che essa concerneva una disposizione (l’art. 11-quinquies, comma 7, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, recante «Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248) che individuava specificamente alcuni immobili siti in Roma, già inseriti in procedure di vendita, per escluderli  da queste. Questa Corte, limitandosi a riportare il contenuto testuale della disposizione, ha individuato in essa una legge-provvedimento, risultando evidente che «incide su un numero determinato e molto limitato di destinatari ed ha contenuto particolare e concreto».

Quanto alla sentenza n. 374 del 2000, essa aveva a oggetto una disposizione (l’art. 41, comma 5, terzo periodo, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica») secondo cui «Per il personale cui non si applicano le disposizioni di cui al comma 4, al quale, a seguito di sentenza passata in giudicato, sia stato attribuito il trattamento economico di cui al citato articolo 4-bis del d.l. n. 356 del 1987, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 436 del 1987, non si fa luogo alla corresponsione del relativo trattamento». Considerato tale tenore della disposizione impugnata, questa Corte aveva evidenziato che con essa il legislatore aveva preso «espressamente in considerazione [….] le sentenze passate in giudicato che attribuiscono un determinato trattamento economico al personale», con la conseguenza che «Proprio questa incidenza, diretta ed esplicita, sul giudicato esclude che la disposizione […] operi soltanto sul piano normativo, poiché rivela in modo incontestabile il preciso intento legislativo di interferire […] su questioni coperte da giudicato». Orbene, con riguardo all’impugnato art. 5, comma 13, alla luce del suo tenore e di quanto sin qui detto, si deve chiaramente escludere che il legislatore abbia preso «espressamente in considerazione [….] le sentenze passate in giudicato» e determinato una «incidenza, diretta ed esplicita, sul giudicato» della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007.

6.– Sono, infine, infondate anche le questioni sollevate in riferimento agli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost., secondo le quali la disposizione censurata, «vanificando gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, ha invaso l’area riservata alla funzione giurisdizionale, vulnerando il principio della divisione dei poteri giurisdizionali e normativi».

Da quanto sin qui detto emerge chiaramente che l’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, dettando la regola – che non incide direttamente sul giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007 – secondo cui la vicedirigenza non è (più) prevista nell’organizzazione del lavoro pubblico, ha operato sul solo piano delle fonti generali e astratte, costruendo il  modello normativo cui la decisione del giudice deve riferirsi (sentenza n. 303 del 2011 e ordinanza n. 158 del 2014), senza quindi vulnerare le attribuzioni riservate alla funzione giurisdizionale dagli invocati artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 –  dal Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2016.

Allegato:

Ordinanza letta all’udienza del 5 luglio 2016