Sentenza n. 376/2002

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SENTENZA N. 376

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

- Francesco AMIRANTE        

- Ugo DE SIERVO     

- Romano VACCARELLA    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1, 2, 3 e 4, lettera a, e 6 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), promossi con ricorsi della Regione Liguria e della Regione Emilia-Romagna, notificati il 22 e il 27 dicembre 2000, depositati in cancelleria il 29 dicembre 2000 e il 4 gennaio 2001 ed iscritti al n. 25 del registro ricorsi 2000 ed al n. 2 del registro ricorsi 2001.

  Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché l’atto di intervento del Comune di Genova;

  udito nell’udienza pubblica del 4 giugno 2002 il Giudice relatore Valerio Onida;

  uditi gli avvocati Barbara Baroli per la Regione Liguria, Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna e l’avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1.1.– Con ricorso notificato il 22 dicembre 2000 e depositato il successivo 29 dicembre (reg. ric. n. 25 del 2000), la Regione Liguria ha sollevato due questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto, rispettivamente, l’art. 1, commi 1, 2, 3 e 4, lettera a, e l’art. 6 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999).

La prima censura – concernente l’art. 1, commi 1, 2, 3 e 4, lettera a, nella parte in cui sostituisce il comma 2 dell'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) – viene sollevata in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione.

I commi 1, 2 e 3 dell’art. 1, che disciplinano la delegificazione e la semplificazione dei procedimenti e degli adempimenti amministrativi individuati negli allegati A e B alla legge, e la lettera a del comma 4, la quale dispone che "nelle materie di cui all'articolo 117, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino a quando la Regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima", intervengono – osserva la Regione – sul rapporto intercorrente tra regolamenti delegati di semplificazione e competenze normative regionali, riconosciute e garantite dell'articolo 117 della Costituzione, considerato che l'elenco dei procedimenti allegato alla legge n. 340 del 2000 comprende procedimenti riservati alla competenza legislativa delle Regioni. Secondo la ricorrente, la competenza del Governo all'emanazione dei regolamenti delegati di semplificazione dovrebbe necessariamente essere circoscritta alle materie di competenza statale; mentre i procedimenti relativi alle materie attribuite alla competenza regionale dovrebbero essere semplificati solo dal legislatore regionale sulla base di principi stabiliti dal legislatore statale.

Le disposizioni denunciate realizzerebbero pertanto una illegittima compressione della competenza legislativa regionale garantita dall'art. 117 della Costituzione: i regolamenti governativi non potrebbero disciplinare materie di competenza regionale e lo strumento della delegificazione non sarebbe abilitato ad operare per fonti tra le quali vi è un rapporto di competenza e non di gerarchia.

La seconda censura ha ad oggetto l’art. 6 della legge n. 340 del 2000, che introduce l’art. 27-bis del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59). Tale disposizione, nel porre, apparentemente, una norma di per sé ovvia ed implicita nella normativa vigente, si proporrebbe, secondo la ricorrente, lo scopo effettivo di qualificare espressamente come "atti istruttori" gli atti ed i provvedimenti propri dei diversi enti coinvolti (Stato nelle sue diverse articolazioni, Regioni, Province, enti parco, aziende sanitarie locali, e così via) al fine di attribuire al Comune la competenza sostanziale all'esercizio delle funzioni relative agli insediamenti produttivi.

In realtà, secondo la Regione, con tale "degradazione" ad atti istruttori, si tenderebbe a concentrare in un unico ente l'intera potestà autorizzativa, residuando in capo agli altri soggetti coinvolti (Stato, Regioni, Province) un potere istruttorio "non riservato" ed "eventuale".

Si delineerebbe, in tal modo, un quadro in cui il Comune sarebbe il titolare di tutte le funzioni autorizzative relative agli insediamenti produttivi, funzioni che potrebbe svolgere direttamente o avvalendosi di altri enti pubblici.

Questa linea normativa troverebbe completamento e conferma interpretativa in una correlata modificazione al d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, approvata dal Consiglio dei ministri nella seduta del 3 novembre 2000, che sopprimerebbe ogni riferimento ai termini "procedimentale", "provvedimento" e "procedimento", per sostituirli con le parole "atti istruttori".

La Regione ricorrente osserva che in sede di conferenza Stato-Regioni e di conferenza unificata la nuova previsione era stata oggetto di richiesta di specifica modifica per ragioni di costituzionalità e che la finalità sottesa all’art. 6 della legge n. 340 del 2000 non è stata adeguatamente evidenziata nella relazione al disegno di legge, rendendo così "occulta" la disposizione.

La norma censurata eluderebbe i principi di collaborazione tra Stato e Regioni e le procedure legislative come delineate dalla Costituzione, ledendo così, per un primo profilo, gli articoli 70, 71 e 72 della Costituzione (in connessione con gli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione), "per gli aspetti relativi alla formazione delle leggi", nonché gli articoli 5, 128 e 129 della Costituzione, siccome lesiva "sia dei principi dell'autonomia e del decentramento riconosciuti alle autonomie locali (art. 5), per i quali sono le leggi generali della Repubblica che determinano le funzioni dei Comuni e delle Province e non un insieme di disposizioni sparse, derivanti da fonti normative diverse, continuamente modificate (art. 128), sia dei principi sul decentramento (statale e regionale), per cui sono i Comuni e le Province le circoscrizioni di esercizio del medesimo (art. 129)".

Inoltre l'art. 6 sarebbe lesivo delle competenze legislative e amministrative delle Regioni di cui agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, nella parte in cui "riconforma, sostanzialmente, procedure e competenze in materie, quali sono quasi tutte quelle riconducibili allo sportello unico per le imprese, di competenza legislativa concorrente della Regione", e perché "altera la disciplina regionale vigente, per le numerose funzioni delegate alle Province o alle comunità montane, riconducibili allo sportello unico, ... incidendo gravemente sulla autonomia regionale".

L'art. 6 contrasterebbe poi con l'art. 81 della Costituzione, giacché "attribuisce competenze ai Comuni senza la correlativa copertura finanziaria e, nel contempo, altera la copertura già prevista nelle leggi e nei bilanci delle Regioni che hanno delegato numerose funzioni riconducibili allo sportello unico, prevedendone il relativo finanziamento".

La norma denunciata comporterebbe infine violazione tanto dei principi di certezza del diritto e di chiarezza della normativa quanto di quelli di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione sottesi agli articoli 70, 71, 72, 97, 101, 111 e 113 della Costituzione, perché, degradando a funzioni istruttorie le attività provvedimentali degli enti diversi dal Comune, introdurrebbe "situazioni normative non chiare sia per le pubbliche amministrazioni in oggi titolari delle funzioni", "sia per i cittadini e per le imprese che necessitano di norme chiare e certe al fine di poter legittimamente esercitare i propri diritti e concorrere allo sviluppo della comunità nazionale".

1.2.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la prima questione sia dichiarata non fondata e che il secondo motivo del ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque non fondato.

Premesso che la delegificazione, consistendo in una complessa operazione di riordino e di "bonifica" della normativa, sarebbe rivolta ad assicurare il miglior funzionamento del sistema-Paese, e che le leggi per la delegificazione di norme concernenti procedimenti amministrativi devono essere qualificate leggi di principio, anzi di riforma, vincolanti per i legislatori regionali, l’Avvocatura osserva che l’art. 1, comma 4, lettera a, della legge n. 340 del 2000 ha confermato il carattere "cedevole" dei regolamenti governativi di delegificazione rispetto alla legislazione regionale (ovviamente nelle materie di competenza delle Regioni) già in precedenza desumibile dal sistema normativo. Tale disposizione avrebbe così salvaguardato le autonomie regionali, razionalmente contemperando con esse le finalità di "interesse nazionale" perseguite dalle leggi per la delegificazione.

La produzione ad opera dell’esecutivo statale di regolamenti "cedevoli", oltre a non comprimere le autonomie delle Regioni (ad esse rimanendo la facoltà di normare diversamente le materie senza assillo di "tempi"), dovrebbe essere collocata nel novero delle modalità di leale cooperazione. Non sarebbe corretto raffigurare l’ambito delle competenze regionali concorrenti alla stregua di un "recinto chiuso" nel quale apporti normativi di provenienza statale (diversi dalla legislazione di principio) non possano trovare ingresso; e neppure sarebbe corretto negare rilevanza alle peculiari funzione e forza dei regolamenti "delegati" di delegificazione, sia perché l’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, reca solo una delle molteplici disposizioni legislative prevedenti l’effetto di delegificazione "condizionata e differita", sia perché soltanto per i regolamenti di cui al comma 1, lettera b, dello stesso art. 17 è prevista l’esclusione con riguardo a materie riservate alla competenza regionale.

Osserva inoltre l’Avvocatura che le disposizioni legislative statali di delegificazione per loro natura inciderebbero sulla, e sarebbero riconducibili alla, normativa di principio, sicché l’eventuale effetto di abrogazione di disposizioni regionali si configurerebbe come una normale abrogazione da modificazione della anzidetta normativa. Inoltre, la disposizione denunciata concernerebbe soltanto aspetti procedimentali, prevedendo un mero snellimento delle forme dell’agire amministrativo, e non toccherebbe gli aspetti sostanziali, disciplinati pur sempre dalla normativa statale o regionale di riferimento.

La doglianza della Regione, infine, sarebbe formulata in modo astratto, non essendo specificamente indicate le procedure elencate negli allegati A e B alle quali la Regione stessa intende riferirsi.

Il secondo motivo, riguardante lo "sportello unico" per le attività produttive, sarebbe inammissibile, in quanto sull’argomento la disciplina è stata posta dagli artt. 23, 24 e 25 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, avverso i quali il motivo sarebbe sostanzialmente rivolto. In ogni caso la censura, pur evocando molti parametri costituzionali, sarebbe formulata in modo allusivo e non esauriente. La denuncia sarebbe anche infondata nel merito.

1.3.– In data 15 marzo 2001 ha depositato atto di intervento il Comune di Genova, affermando di vantare un interesse – in quanto destinatario, ai sensi degli artt. 23 e ss. del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, delle funzioni in materia di rilascio dell’autorizzazione unica alle imprese – alla corretta applicazione del sistema normativo che presiede al procedimento dello sportello unico, e chiedendo che la questione avente ad oggetto l’art. 6 della legge n. 340 del 2000 sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

2.1.– Con ricorso notificato il 27 dicembre 2000 e depositato il successivo 4 gennaio 2001 (reg. ric. n. 2 del 2001) la Regione Emilia-Romagna ha sollevato, in relazione agli artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione, e ai principi costituzionali relativi all’esercizio del potere regolamentare, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, lettera a, della legge n. 340 del 2000, in quanto, nel sostituire il comma 2 dell’art. 20 della legge n. 59 del 1997, dispone che "nelle materie di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione", sia pure "solo fino a quando la regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima".

Secondo la ricorrente, sul tema della incompetenza dei regolamenti delegati di delegificazione a disciplinare procedimenti nelle materie di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, il disposto dell’art. 20 non era chiaro. Il testo originario del comma 2 prevedeva che il Governo, nel disegno di legge di semplificazione, avrebbe provveduto ad individuare "i procedimenti relativi a funzioni e servizi che, per le loro caratteristiche e per la loro pertinenza alle comunità territoriali, sono attribuiti alla potestà normativa delle regioni e degli enti locali", e ad indicare "i principi che restano regolati con legge della Repubblica, ai sensi degli articoli 117, primo e secondo comma, e 128 della Costituzione". Alle Regioni era ed è invece dedicato il comma 7 dello stesso art. 20, secondo cui esse "regolano le materie disciplinate dai commi da 1 a 6 nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essi contenute, che costituiscono principi generali dell’ordinamento giuridico. Tali disposizioni operano direttamente nei riguardi delle regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia".

La ricorrente ricorda poi come queste norme fossero state impugnate da parte di una Regione, e come la Corte avesse "fugato ogni dubbio" affermando, nella sentenza n. 408 del 1998, che, "fermo il valore di principio, legittimamente vincolante per i legislatori regionali, dei criteri indicati nell’art. 20, comma 4", all’espressione del comma 7 non è possibile attribuire "un significato che riguardi o comprenda l’attitudine di future norme regolamentari a disciplinare materie di competenza regionale". La sentenza della Corte, dunque, nell’escludere che la legislazione statale in vigore preveda l’ingresso dei regolamenti delegati nella disciplina delle materie regionali, indicherebbe che le Regioni hanno in proprio, nelle materie di loro competenza, la responsabilità di riordinare la propria normazione adeguandola agli stessi principi cui lo Stato dà attuazione, nei settori di propria competenza, mediante tali regolamenti. La disposizione ora impugnata avrebbe invece il significato inequivoco di estendere il potere regolamentare del Governo alla disciplina dei procedimenti regionali, e dunque essa recherebbe quel vulnus alla competenza regionale che la sentenza n. 408 aveva allora escluso.

La Regione ricorrente afferma che la disposizione andrebbe intesa nel senso che, secondo l’intenzione di essa, la disciplina stabilita con il regolamento di delegificazione vale ad abrogare, nelle parti incompatibili e potenzialmente in toto, la previgente legislazione regionale, sostituendosi ad essa nella disciplina della materia e rimanendo in vigore fino a quando non venga eventualmente sostituita da nuova autonoma disciplina regionale. Dunque, il regolamento statale di delegificazione prevarrebbe sulle precedenti leggi regionali, e sarebbe invece (in linea puramente teorica) cedevole rispetto a norme regionali successive.

L’altra interpretazione possibile, che comunque presenterebbe problemi di costituzionalità, secondo cui i regolamenti statali opererebbero nella Regione soltanto in quanto non sia attualmente operante una autonoma disciplina regionale, non corrisponderebbe al senso della modifica portata dalla legge n. 340 del 2000, la quale ha introdotto il meccanismo contestato al fine palese di realizzare rapidamente e coattivamente il processo di semplificazione, mediante l’introduzione automatica di una disciplina governativa, lasciando alle Regioni la cura di modificarla se lo ritenessero opportuno.

Una ulteriore interpretazione, che avrebbe il pregio di far venire meno l’irrazionalità intrinseca della disposizione impugnata (tenendo conto del fatto che a tre anni di distanza dalla legge n. 59 del 1997 le Regioni hanno già provveduto a disciplinare con proprie leggi molte materie di loro competenza), ma non la sua incostituzionalità, sarebbe quella secondo cui le disposizioni regolamentari statali si sovrappongono, abrogandola, alla disciplina legislativa regionale precedente alla legge n. 59 del 1997, e soltanto ove questa non abbia provveduto ad applicare i principi di semplificazione. Anche seguendo questa interpretazione, tuttavia, si avrebbe lesione della prerogativa costituzionale delle Regioni, per cui la legge regionale sarebbe in rapporto di parziale subordinazione rispetto alla sola legge statale e agli atti ad essa equiparati (con l’unica eccezione degli atti di indirizzo e coordinamento).

Che i regolamenti governativi non possano intervenire nella disciplina delle materie affidate alla potestà legislativa concorrente delle Regioni deriverebbe innanzitutto dall’art. 117, primo comma, della Costituzione, secondo cui la Regione emana norme legislative, nelle materie ivi elencate, "nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato". La garanzia costituzionale si riferirebbe in astratto alle fonti, ma includerebbe anche un aspetto per così dire soggettivo, nel senso che i limiti all’organo legislativo regionale possono derivare solo dall’organo legislativo statale, o da atti del Governo di rango legislativo.

Sarebbe invece escluso che una volontà normativa espressa dall’organo governativo possa incidere sull’autonomia legislativa regionale, salva l’eccezione (criticata da parte della dottrina) dei regolamenti per l’attuazione delle direttive comunitarie: eccezione fondata su cogenti ragioni di responsabilità internazionale dello Stato, e dunque di stretta interpretazione, e subordinata dalla stessa giurisprudenza costituzionale al limite del principio di legalità. Limite che, fra l’altro, se si volesse applicare al caso di specie, i regolamenti di delegificazione non rispetterebbero.

Al di fuori della necessità di dare attuazione alla normativa comunitaria, l’inammissibilità costituzionale di una disciplina regolamentare in materia regionale emergerebbe in modo esplicito anche dalla costante e consolidata giurisprudenza costituzionale.

L’eventuale "interesse nazionale" alla semplificazione dei procedimenti delle Regioni dovrebbe pur sempre trovare espressione nelle forme tipiche del rapporto tra la legge regionale e le fonti costituzionalmente idonee a vincolarla. La potestà legislativa concorrente concorrerebbe con la potestà legislativa statale, mai con quella regolamentare del Governo. Nel caso, poi, mancherebbero persino i nuovi principi della materia: non sarebbero tali, infatti, i principi e criteri di semplificazione, che hanno carattere metodologico e operano trasversalmente alle materie, esprimendo un indirizzo di riforma, ma non nuovi principi di materia.

2.2.– Anche in questo secondo giudizio si è costituito dinanzi alla Corte il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Dopo avere svolto osservazioni del tutto analoghe a quelle proposte in relazione alla prima censura del ricorso iscritto al reg. ric. n. 25 del 2000, di cui si è riferito al punto 1.2., l’Avvocatura rileva che nel ricorso la Regione Emilia-Romagna fa presente di avere già provveduto a disciplinare con proprie leggi molte delle procedure considerate dalla legge di semplificazione 1999, e osserva che, se ciò fosse accaduto, non vi sarebbe materia del contendere, "non sussistendo quella incompatibilità che costituisce presupposto di qualsiasi abrogazione non esplicitamente statuita".

3.1.– In relazione al ricorso iscritto al reg. ric. n. 25 del 2000, in prossimità dell’udienza hanno depositato memorie la Regione Liguria, il Presidente del Consiglio dei ministri e il Comune di Genova.

La Regione Liguria sottolinea, con riguardo alla censura concernente l’art. 1 della legge n. 340 del 2000, che permane l’interesse a veder eliminata l’impugnata disposizione, pur a seguito del radicale mutamento del quadro costituzionale intervenuto con la legge costituzionale n. 3 del 2001, in quanto il nuovo art. 117 della Costituzione, al sesto comma, limita esplicitamente l’ambito di operatività dei regolamenti governativi alle sole materie di competenza esclusiva statale, come enumerate tassativamente al secondo comma, ed attribuisce la potestà regolamentare alle Regioni in ogni altra materia.

Con riferimento al secondo motivo dell’impugnativa, la Regione ricorda di aver dato attuazione alla normativa statale in materia di sportello unico delle imprese con la legge regionale 24 marzo 1999, n. 9. Senonché, mentre le originarie previsioni contenute nel d.lgs. n. 112 del 1998 e la normativa regionale lasciavano inalterato il valore sostanziale degli atti imputabili alle varie amministrazioni intervenienti nel procedimento, limitandosi a concentrare tali atti in un modello procedimentale unico, gestito dal Comune in qualità di soggetto con funzioni di coordinamento procedimentale, tale quadro normativo sarebbe stato illegittimamente alterato con l’entrata in vigore dell’impugnato art. 6 della legge n. 340 del 2000. Esso avrebbe degradato ad "attività istruttorie" l’apporto delle varie amministrazioni intervenienti nel procedimento, mutando il valore sostanziale degli atti permissivi occorrenti per l’insediamento produttivo, che giungono a perdere il valore di "provvedimenti" per ridursi ad atti endoprocedimentali, con conseguente individuazione del Comune quale ente titolare esclusivo e responsabile dell’attività amministrativa in materia di insediamenti produttivi.

In altri termini, l’impiego della locuzione "atti istruttori" in luogo di "autorizzazioni" condurrebbe alla elisione delle competenze autorizzatorie sostanziali esistenti in capo ai vari enti pubblici coinvolti (tra cui la Regione) a beneficio della struttura "sportello unico", alla quale verrebbe attribuita non tanto la regia di tutte le fasi di cui il modello procedimentale si compone, ma addirittura la titolarità degli atti di consenso occorrenti al privato imprenditore.

Le norme denunciate, già contrastanti con le norme costituzionali vigenti all’epoca dell’introduzione del giudizio, sarebbero ancor più confliggenti con il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, ed in particolare con l’assetto di competenze introdotto dal nuovo art. 117.

3.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri chiede in via preliminare di dichiarare improcedibile o inammissibile il primo motivo del ricorso, in quanto formulato con riferimento a parametri costituzionali non più utilizzabili per la decisione della controversia, come dimostrerebbero le recenti pronunce della Corte costituzionale di improcedibilità dei ricorsi statali e di restituzione degli atti nei giudizi incidentali. La Regione – osserva l’Avvocatura – entro il termine decorrente dall’entrata in vigore della novella costituzionale avrebbe forse potuto riproporre – ma non lo ha fatto – la doglianza, riformulandola mediante un nuovo ricorso ed in relazione ai sopravvenuti parametri costituzionali; e non sarebbe dato sapere se la mancata riproposizione stia a significare abbandono di fatto della controversia in parte qua, od invece speranza nell’adozione di quel criterio di continuità normativa e di "conversione" delle doglianze che fino ad oggi è stato invece rifiutato.

La censura mossa all’art. 1, comma 3, e, in parte, al comma 1, sarebbe altresì inammissibile in quanto l’allegato B della legge avrebbe contenuti inidonei a ledere le autonomie regionali, ed entrambi gli allegati (A e B) elencherebbero soltanto fonti normative statali. Le disposizioni dell’art. 1, commi 1 e 3, della legge, dunque, che tali allegati richiamano, prospettando la sostituzione delle fonti legislative con regolamenti cedevoli, per loro natura più deboli e meno vincolanti per le autonomie regionali, comporterebbero un ampliamento delle autonomie regionali rispetto al tessuto normativo ancora vigente alla data della loro entrata in vigore, e non una maggiore compressione delle autonomie stesse. Il primo motivo sarebbe poi inammissibile perché troppo generico e privo delle indicazioni necessarie per valutare la sussistenza dell’interesse a ricorrere.

Quanto al secondo motivo del ricorso, l’Avvocatura fa proprie e riproduce le motivazioni a sostegno dell’inammissibilità e della non fondatezza della censura contenute nell’atto di intervento del Comune di Genova. La disposizione recata dall’art. 27-bis del d.lgs. n. 112 del 1998 (introdotto dall’art. 6 della legge n. 340 del 2000) si limiterebbe a porre una regola che garantisce il coordinamento dei tempi delle attività endoprocedimentali con il termine per la conclusione del procedimento e, nel qualificare "istruttorie" dette attività, ricalcherebbe puntualmente la dizione contenuta nel precedente art. 25.

Peraltro, secondo la difesa del Presidente del Consiglio, tutto il secondo motivo di ricorso sarebbe superato, nello spirito prima ancora che negli argomenti, dai parametri costituzionali introdotti dalla legge costituzionale di modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, i quali non soltanto avrebbero molto ampliato i compiti dei Comuni, ma avrebbero anche ad essi assegnato una più rilevante collocazione costituzionale.

3.3.– La memoria del Comune di Genova insiste nelle conclusioni già assunte nell’atto di costituzione.

4.1.– Nell’imminenza della medesima udienza pubblica, in relazione al ricorso iscritto al reg. ric. n. 2 del 2001 hanno depositato memoria sia la Regione Emilia-Romagna che il Presidente del Consiglio dei ministri.

La ricorrente chiede in via principale che, previa constatazione della avvenuta abrogazione della disposizione impugnata ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001 – la quale, riformulando l’art. 117 della Costituzione, ha previsto, al sesto comma di tale articolo, che "la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni", e che "la potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia" – la Corte accolga il ricorso, nei termini originariamente formulati ed in base ai parametri costituzionali precedenti la modifica costituzionale, in relazione al periodo per il quale la disposizione è stata in vigore; in subordine, ove ritenga la perdurante vigenza della disposizione impugnata, ne dichiari la illegittimità costituzionale per le ragioni formulate nel ricorso ed in base ai parametri costituzionali precedenti la modifica costituzionale; in ulteriore subordine, dichiari la illegittimità costituzionale della stessa disposizione sulla base del contrasto tra essa e il testo attuale dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione.

Nella sua memoria la Regione, replicando all’atto di costituzione dell’Avvocatura dello Stato, precisa che la questione non sta nella qualificazione della legge o delle leggi di semplificazione come "di principio" o "di riforma", ma nel fatto che alla semplificazione e al riordinamento della normativa regionale deve provvedere la Regione stessa e non lo Stato, neppure in via temporanea, tramite l’uso dei regolamenti di delegificazione. Per questo motivo non rileverebbe affatto che l’abrogazione delle leggi regionali sia fatta risalire alla legge di delegificazione piuttosto che al regolamento: l’utilizzo dei regolamenti statali di delegificazione nelle materie regionali sarebbe comunque illegittimo. Ancora, dovrebbe escludersi che costituisca "interesse nazionale", come afferma l’Avvocatura, la delegificazione della disciplina regionale dei procedimenti: la scelta della fonte, nei limiti in cui non è costituzionalmente vincolata, sarebbe rimessa alla Regione, e inoltre, se il legislatore ravvisasse un urgente interesse alla semplificazione procedurale di determinati procedimenti regionali, dovrebbe pur sempre provvedervi – sin dove consentito – direttamente con lo strumento legislativo. Non apparirebbe poi pertinente il richiamo al principio di leale collaborazione, né avrebbe pregio l’argomento fondato sul tenore letterale del comma 2 dell’art. 17 della legge n. 400 del 1998, che non esclude i regolamenti di delegificazione nelle materie di competenza delle Regione, al contrario di quanto disposto dal comma 1, lettera b: quest’ultimo, infatti, conferisce al Governo un potere regolamentare di attuazione esercitabile in generale, senza necessità di ulteriore base legislativa, per cui si rende opportuno chiarire direttamente i limiti del potere; mentre il comma 2 prelude ad una ulteriore legge, rispetto alla quale non sarebbe utile ribadire il divieto, già derivante dalla Costituzione, di incidere sulle materie regionali.

Quanto poi agli effetti della nuova disciplina costituzionale sulla legislazione preesistente, la Regione ritiene che, nella situazione di contrasto palese tra il nuovo sesto comma dell’art. 117 della Costituzione e le precedenti disposizioni attributive di poteri normativi secondari, il regime della diretta abrogazione si addica al caso in questione meglio del regime della illegittimità costituzionale sopravvenuta. Da un lato, infatti, si tratterebbe qui di pura e semplice cessazione di un potere, e non di sue limitazioni o trasformazioni; dall’altro, affermare che le norme che prevedono poteri regolamentari statali sono ancora operanti, benché costituzionalmente illegittime, comporterebbe che i titolari di tali poteri dovrebbero continuare ad esercitarli, dando origine a contenziosi nei quali le Regioni ed altri eventuali interessati dovrebbero far valere con i mezzi ad essi consentiti (cioè mediante il conflitto sugli atti secondari ovvero mediante il giudizio in via incidentale) la illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative attributive del potere.

L’abrogazione della disposizione oggetto del giudizio, tuttavia, non potrebbe determinare la cessazione della materia del contendere nel giudizio stesso, perché tale disposizione da un lato manterrebbe anche dopo l’abrogazione la propria operatività quale fonte legittimante gli atti normativi secondari emanati sulla sua base, dall’altro ne stabilirebbe il regime giuridico quali disposizioni in grado di abrogare le precedenti disposizioni legislative regionali dettate nella materia. Sussisterebbe dunque l’interesse della Regione a che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione per il periodo in cui essa ha operato o è stata suscettibile di operare.

4.2.– Anche nella memoria relativa a questo secondo ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto in via preliminare la dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità del ricorso regionale, sulla base di considerazioni analoghe a quelle già svolte in relazione alla prima censura del ricorso iscritto al reg. ric. n. 25 del 2000, di cui si è riferito al punto 3.2.

Considerato in diritto

 

1.– I due ricorsi, promossi rispettivamente dalla Regione Liguria (reg. ric. n. 25 del 2000) e dalla Regione Emilia-Romagna (reg. ric. n. 2 del 2001), sollevano questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni, parzialmente coincidenti, della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999). I giudizi possono dunque essere riuniti per essere decisi con unica pronunzia.

2.– Deve preliminarmente essere dichiarato inammissibile l’intervento spiegato dal Comune di Genova nel giudizio promosso con ricorso della Regione Liguria (reg. ric. n. 25 del 2000), per l’assorbente ragione che il relativo atto è stato depositato quando il termine di cui all’art. 23, terzo comma, delle norme integrative era scaduto, anche se dovesse computarsene la decorrenza dal giorno della pubblicazione del ricorso nella Gazzetta Ufficiale.

3.– Entrambe le Regioni ricorrenti impugnano l’art. 1 della legge n. 340 del 2000: la Regione Liguria censura i commi 1, 2, 3 e 4, lettera a; la Regione Emilia-Romagna censura il solo comma 4, lettera a. Ma la sostanza delle due impugnazioni non è diversa. Infatti i primi tre commi dell’art. 1 prevedono "la delegificazione e la semplificazione", ai sensi dell’art. 20, comma 1, della legge n. 59 del 1997, di una serie di procedimenti amministrativi e di adempimenti elencati nell’allegato A alla legge e la soppressione di quelli elencati nell’allegato B (comma 1); alla delegificazione e alla semplificazione si provvede mediante regolamenti emanati ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, nel rispetto dei principi, criteri e procedure di cui all’art. 20 della legge n. 59 del 1997 (comma 2); quanto ai procedimenti soppressi, le relative disposizioni sono abrogate a far tempo dall’entrata in vigore della stessa legge n. 340 del 2000 (comma 3). Il comma 4, lettera a, sostituisce il testo dell’art. 20, comma 2, della citata legge n. 59 del 1997, stabilendo che "nelle materie di cui all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino a quando la regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima" e che "resta fermo quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, della presente legge e dall’articolo 7 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267" (questi due ultimi rinvii normativi si riferiscono alla potestà riconosciuta alle Regioni e agli enti locali di disciplinare l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni rispettivamente conferite).

In entrambi i ricorsi si lamenta che la previsione della emanazione di regolamenti di delegificazione si estenda a materie e a procedimenti di competenza regionale, come risulterebbe, secondo il ricorso della Regione Liguria, dal fatto che l’elenco allegato alla legge comprenderebbe appunto anche procedimenti di spettanza regionale, e, secondo il ricorso della Regione Emilia-Romagna, dalla esplicita statuizione del nuovo testo dell’art. 20, comma 2, della legge n. 59 del 1997 (applicabile a tutti i regolamenti di delegificazione in tema di procedimenti amministrativi, emanati sia sulla base della stessa legge n. 59 del 1997, sia sulla base delle successive leggi annuali "di semplificazione", come la legge n. 340 del 2000), il quale, nel prevedere il carattere "cedevole" della disciplina regolamentare rispetto alla sopravveniente legislazione regionale, implicitamente disporrebbe l’efficacia dei regolamenti nelle materie regionali, e anzi la loro idoneità a prevalere, abrogandole, sulle leggi regionali preesistenti.

Le ricorrenti sostengono, richiamandosi alla giurisprudenza di questa Corte, che la disciplina dei procedimenti afferenti alle materie di competenza regionale spetta alle Regioni, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali che si traggono da leggi, e non da regolamenti, statali; che questi ultimi non possono dettare norme sui procedimenti regionali, e comunque norme che prevalgano sulle leggi regionali preesistenti, ancorché "cedevoli" rispetto alle leggi regionali sopravvenute; e che il meccanismo della delegificazione previsto da una legge dello Stato non può operare nei confronti di fonti regionali. Per queste ragioni le disposizioni impugnate violerebbero gli articoli 117 e 118 della Costituzione (nel testo in vigore prima della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).

4.– La questione deve essere decisa avendo riguardo esclusivamente alle disposizioni costituzionali nel testo anteriore alla riforma recata alla legge costituzionale n. 3 del 2001, trattandosi di ricorso proposto anteriormente all’entrata in vigore di quest’ultima, che invoca quindi come parametri dette disposizioni.

La Corte non ha invece motivo per porsi, in questa sede, in assenza di nuove impugnazioni, il diverso problema della compatibilità della legge impugnata con il sistema cui ha dato vita il nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione, che non solo ha posto su basi rinnovate il riparto delle competenze normative fra Stato e Regioni, ma ha stabilito che la potestà regolamentare spetta allo Stato solo "nelle materie di legislazione [statale] esclusiva", mentre "spetta alle Regioni in ogni altra materia" (art. 117, sesto comma, Cost., nel nuovo testo).

D’altronde, mentre la sorte dei regolamenti che fossero stati legittimamente emanati, prima della riforma, in base alla norma impugnata, discenderebbe dal principio di continuità, per cui restano in vigore le norme preesistenti, stabilite in conformità al passato quadro costituzionale, fino a quando non vengano sostituite da nuove norme dettate dall’autorità dotata di competenza nel nuovo sistema (cfr. sentenza n. 13 del 1974), le Regioni non mancherebbero di strumenti processuali per censurare eventuali nuove manifestazioni di potestà regolamentare statale, che fossero ritenute in contrasto con le attribuzioni ora ad esse spettanti, aprendo così anche la strada, ove necessario, ad una valutazione della ulteriore applicabilità e della compatibilità della norma di legge qui impugnata nel nuovo quadro costituzionale.

5.– La questione, così delimitata, è infondata nei termini di seguito specificati.

Nel sistema del vecchio art. 117 della Costituzione, costituivano punti fermi le seguenti affermazioni:

a.                      nelle materie di competenza propria delle Regioni, i principi fondamentali della disciplina, vincolanti nei confronti dei legislatori regionali, potevano trarsi solo da leggi o da atti aventi forza di legge dello Stato, con esclusione dunque degli atti regolamentari;

b.                      le leggi regionali potevano essere abrogate, oltre che da leggi regionali sopravvenute, solo per effetto del sopravvenire di nuove leggi statali recanti norme di principio, con le quali la legge regionale preesistente fosse incompatibile, secondo il meccanismo previsto dall’art. 10 della legge n. 62 del 1953.

Tali principi, che derivavano dalla configurazione del sistema costituzionale delle fonti e dei rapporti fra Stato e Regioni, devono essere qui ribaditi.

Essi comportavano, di conseguenza, che l’intervento di regolamenti statali fosse di norma precluso nelle materie attribuite alle Regioni, come risultava anche dal disposto dell’articolo 17, comma 1, lettera b, della legge n. 400 del 1988, che escludeva le materie di competenza regionale da quelle nelle quali potevano essere emanati regolamenti statali per disciplinare "l’attuazione e l’integrazione" dei principi recati da provvedimenti legislativi (cfr. ad es. sentenze n. 204 del 1991, n. 391 del 1991, n. 461 del 1992, n. 250 del 1996, n. 61 del 1997, n. 420 del 1999, n. 84 del 2001).

Non diversamente si poneva il problema dei regolamenti detti "di delegificazione", previsti dall’art. 17, comma 2, della stessa legge n. 400, destinati a sostituire, in materie non coperte da riserva "assoluta" di legge, preesistenti disposizioni legislative statali, in conformità a nuove "norme generali regolatrici della materia" stabilite con legge, e con effetto di abrogazione differita delle disposizioni legislative sostituite. Anche per tali regolamenti era di norma esclusa la possibilità di operare nelle materie spettanti alla potestà legislativa delle Regioni, quanto meno in assenza di ragioni giustificatrici particolari che abilitassero il legislatore statale a sostituirsi a quelli regionali nella disciplina di qualche aspetto delle materie medesime (cfr. ad es. sentenze n. 465 del 1991 e n. 482 del 1995).

Si deve tuttavia ricordare che in molte materie, pur attribuite alla competenza regionale, la mancanza di una compiuta disciplina dettata da leggi regionali ha fatto sì che continuassero a spiegare efficacia leggi statali previgenti, non solo come fonti da cui si desumevano i principi fondamentali vincolanti per le Regioni (secondo la previsione dell’art. 9, primo comma, della legge n. 62 del 1953, come modificato dall’art. 17 della legge n. 281 del 1970), ma anche come disciplina di dettaglio efficace in assenza dell’intervento del legislatore locale. Per di più la giurisprudenza di questa Corte, a partire dalla sentenza n. 214 del 1985, ha ammesso che la legge statale, allorquando interveniva a modificare i principi di disciplina di una materia di competenza regionale (con effetto eventualmente abrogativo delle leggi regionali preesistenti divenute incompatibili, ai sensi del citato art. 10 della legge n. 62 del 1953), potesse altresì, al fine di garantire l’attuazione immediata dei nuovi principi, recare una normativa di dettaglio, immediatamente operativa, idonea a disciplinare la materia fino a quando non venisse sostituita da una legislazione regionale conforme ai nuovi principi (anzi, talvolta si è ammesso espressamente che potessero anche essere dettate – in mancanza di legislazione regionale – norme regolamentari "cedevoli", per dare esecuzione a leggi statali o a norme comunitarie operanti in materie regionali: cfr. ad es. sentenze n. 226 del 1986, n. 165 del 1989, n. 378 del 1995, n. 425 del 1999, n. 507 del 2000, ordinanza n. 106 del 2001). Si aggiunga la circostanza che, non di rado, la legge statale continuava a disciplinare, sul piano sostanziale e procedurale, in base alle previsioni costituzionali degli articoli 118, primo comma, e 128 (vecchi testi) della Costituzione, l’esercizio di funzioni attribuite agli enti locali, pur in ambiti materiali spettanti in via di principio alla competenza regionale.

Tutto ciò spiega perché il legislatore statale, allorché si è posto, in anni recenti, il problema di interventi generalizzati volti a realizzare la "semplificazione" dei procedimenti amministrativi, in vista della riduzione dei tempi e degli oneri per i cittadini che chiedessero provvedimenti abilitativi o concessivi o prestazioni dovute dalla pubblica amministrazione, si sia trovato di fronte ad un corpo di norme statali in vigore di grado legislativo, talora assai risalenti, altre volte rinnovate in epoca più recente, ancora di fatto operanti, in taluni casi, in ambiti appartenenti, in tutto o in parte, alla sfera della competenza regionale.

L’art. 20 della legge n. 59 del 1997 ha previsto, all’uopo, l’emanazione di una legge annuale di semplificazione che operasse mediante meccanismi di delegificazione, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, nel quadro dell’indirizzo generale, seguito nella legislazione più recente, di favore per un consistente passaggio da una disciplina legislativa ad una regolamentare di molti aspetti dell’organizzazione e dell’attività amministrativa, salvo quelli coperti da riserva di legge secondo la Costituzione. La semplificazione era l’obiettivo, la delegificazione lo strumento: i nuovi regolamenti avrebbero dovuto da un lato realizzare l’obiettivo, prevedendo procedimenti "semplificati", dall’altro sostituire la disciplina legislativa in vigore con una modificabile, anche in seguito, mediante l’esercizio della potestà regolamentare.

La delegificazione – cioè la sostituzione di una disciplina di livello regolamentare ad una preesistente di livello legislativo – riguardava però (e poteva riguardare) solo la legislazione statale preesistente: ed infatti nell’elenco di provvedimenti legislativi elencati, nell’allegato alla legge n. 59 e negli allegati alle successive leggi annuali di semplificazione, come fonti di disciplina dei procedimenti destinati ad essere ridisegnati e "semplificati", compaiono solo leggi dello Stato.

Riguardo al problema dei procedimenti afferenti a materie di competenza regionale, il legislatore del 1997 indicava un modo di procedere conforme ai principi consolidati in tema di rapporto fra fonti statali e regionali. Il comma 2 dell’art. 20 della legge n. 59, nel testo originario, prevedeva che con la legge annuale di semplificazione fossero individuati altresì "i procedimenti relativi a funzioni e servizi che, per le loro caratteristiche e per la loro pertinenza alle comunità territoriali, sono attribuiti alla potestà normativa delle regioni e degli enti locali", e fossero contestualmente indicati "i principi che restano regolati con legge della Repubblica ai sensi degli articoli 117, primo e secondo comma, e 128 della Costituzione" (si consideravano dunque insieme sia le materie di competenza propria delle Regioni, che quelle di competenza "integrativa-delegata" delle Regioni stesse e quelle attribuite alla competenza amministrativa degli enti locali, nelle quali potesse dispiegarsi la potestà regolamentare di questi ultimi, riconosciuta in generale dall’art. 2, comma 2, della stessa legge n. 59 del 1997). Si indicavano poi, al comma 5 dell’art. 20, i "criteri e principi" di semplificazione cui avrebbero dovuto conformarsi i regolamenti di delegificazione. Il comma 7 prevedeva che le Regioni a statuto ordinario regolassero "le materie disciplinate dai commi da 1 a 6" – cioè, più propriamente, i procedimenti afferenti all’ambito delle materie di propria competenza, ai quali potessero riferirsi i principi della "semplificazione" – "nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essi [cioè nei commi da 1 a 6] contenute, che costituiscono principi generali dell’ordinamento giuridico". Si sanciva cioè il vincolo per le Regioni a rispettare, nella propria legislazione di semplificazione dei procedimenti, i "criteri e principi" indicati nel comma 5 (e ciò era conforme al sistema, trattandosi di principi espressi in disposizioni legislative). Si aggiungeva poi che "tali disposizioni [vale a dire, sembrerebbe, sempre quelle dei commi da 1 a 6] operano direttamente nei riguardi delle regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia": previsione invero di oscuro significato, dato che non era chiaro come principi quali quelli di semplificazione, riduzione di procedimenti e di termini, regolazione uniforme di procedimenti dello stesso tipo, accelerazione delle procedure contabili, sostituzione di organi collegiali con conferenze di servizi (cfr. il citato comma 5), potessero operare direttamente in assenza di una disciplina attuativa.

Comunque fosse, il comma 7 dell’art. 20, come ebbe a riconoscere questa Corte con la sentenza n. 408 del 1998, non conteneva alcuna previsione di possibile efficacia dei regolamenti statali di delegificazione, da emanarsi ai sensi del comma 1, per la disciplina di materie di competenza regionale.

Dopo una prima modifica, irrilevante in questa sede, apportata all’art. 20 con l’art. 1 della legge 16 giugno 1998, n. 191, il comma 2 venne sostituito dall’art. 2 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (legge di semplificazione per il 1998), che integrò anche l’indicazione dei criteri e principi da rispettare nell’emanazione dei regolamenti (comma 5). Il nuovo testo del comma 2 stabiliva che "in sede di attuazione della delegificazione, il Governo individua, con le modalità di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 241 [che riguarda la conferenza Stato-Regioni e la conferenza unificata Stato-Regioni-città], i procedimenti o gli aspetti del procedimento che possono essere autonomamente disciplinati dalle Regioni e dagli enti locali": dizione che sembrava alludere ad una disciplina in sede regolamentare, sia pure eventualmente in funzione solo ricognitiva, dell’ambito della competenza regionale.

La disposizione in esame è stata poi nuovamente sostituita dall’art. 1, comma 4, lettera a, della legge n. 340 del 2000, impugnato in questa sede. Il testo attuale non allude più ad una normativa regolamentare che riguardi la competenza regionale per la disciplina dei procedimenti, ma si limita a prevedere che nelle materie attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa delle Regioni i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino al sopravvenire di una autonoma disciplina regionale: sancendo dunque espressamente il carattere "cedevole" della disciplina regolamentare nei confronti della successiva normazione di fonte regionale, ma implicitamente confermando che i regolamenti possono riguardare procedimenti in materie regionali, anche se viene ribadita la competenza delle Regioni ad attuare i principi di semplificazione in tali materie, ai sensi dell’invariato comma 7 dello stesso art. 20.

6.– Se, come sostiene in particolare la ricorrente Regione Emilia-Romagna, ciò significasse che la legge attribuisce ai regolamenti di delegificazione l’efficacia di sostituire la preesistente disciplina delle leggi regionali (dettata o meno in attuazione dei nuovi criteri di semplificazione dei procedimenti amministrativi), causandone l’abrogazione, sarebbe giocoforza concludere che la disposizione impugnata altera il rapporto costituzionalmente dovuto tra fonti statali e fonti regionali. Ma le disposizioni impugnate consentono, e dunque richiedono, una diversa lettura, rispettosa invece di quel rapporto.

La premessa sta nei principi che si sono richiamati all’inizio, e che la legge impugnata non smentisce. La delegificazione è solo lo strumento adottato dal legislatore statale per realizzare l’obiettivo della semplificazione dei procedimenti nell’ambito di ciò che era già disciplinato dalle leggi statali precedentemente in vigore. La sostituzione, in parte qua, con norme regolamentari riguarda esclusivamente le preesistenti disposizioni di leggi statali, come confermano i riferimenti negli allegati delle leggi di semplificazione: e dunque, per ciò che rileva in questa sede, le disposizioni di leggi statali che già operavano nelle materie di competenza regionale.

Tali leggi (a parte i casi di interventi particolari che lo Stato avesse effettuato sulla base di specifici titoli costituzionalmente giustificati, e che però in quanto tali si collocavano, propriamente, al di fuori dell’ambito delle attribuzioni regionali) potevano spiegare efficacia ad un doppio titolo: in quanto recanti le disposizioni da cui si desumevano i principi fondamentali vincolanti per i legislatori regionali, o in quanto recanti disposizioni immediatamente operative (di dettaglio) applicabili a titolo suppletivo in mancanza di legislazione regionale.

L’operazione di delegificazione non riguarda e non può riguardare il primo tipo di disposizioni (e infatti l’originario testo dell’art. 20, comma 2, della legge impugnata prevedeva espressamente che i principi delle materie restassero "regolati con legge della Repubblica"), poiché la sostituzione di norme legislative con norme regolamentari esclude di per sé che da queste ultime possano trarsi principi vincolanti per le Regioni: come è testualmente confermato, del resto, dalla esplicita ammissione del carattere "cedevole" dei regolamenti.

La delegificazione riguarda dunque e può riguardare – oltre a disposizioni di leggi statali regolanti oggetti a qualsiasi titolo attribuiti alla competenza dello Stato – solo disposizioni di leggi statali che, nelle materie regionali, già avessero carattere di norme di dettaglio cedevoli la cui efficacia si esplicava nell’assenza di legislazione regionale. La delegificazione, anzi, è in grado di introdurre, da questo punto di vista, un elemento di chiarezza: mentre in presenza di norme tutte legislative, nel cui ambito non si faceva alcuna distinzione, poteva sussistere il dubbio circa la loro natura di principio o di dettaglio, vincolante o cedevole, in presenza invece di norme regolamentari non può sussistere dubbio alcuno sull’assenza di ogni loro carattere di norme di principio, come tali vincolanti per le Regioni, e dunque sulla loro inidoneità a prevalere sulle disposizioni di leggi regionali.

Quanto alle leggi regionali preesistenti, su di esse non può spiegare alcun effetto abrogativo l’entrata in vigore delle nuove norme regolamentari. Esse potrebbero ritenersi abrogate solo dall’entrata in vigore di nuove norme legislative statali di principio, con le quali risultino incompatibili. E’ vero che lo stesso art. 20 della legge n. 59 stabilisce "criteri e principi" di semplificazione dei procedimenti, affermandone espressamente il carattere vincolante anche per le Regioni (comma 7). Ma – a parte il fatto che si tratta di principi procedurali, di massima inidonei, per il loro contenuto, a causare l’abrogazione per incompatibilità delle leggi regionali anteriormente vigenti (tanto che lo stesso legislatore statale li qualifica alla stregua di "principi generali dell’ordinamento giuridico": comma 7 dell’art. 20) –, l’ipotetica abrogazione sarebbe effetto autonomo dell’entrata in vigore delle disposizioni legislative contenenti i principi (secondo quanto previsto dall’art. 10 della legge n. 62 del 1953), e non già dell’entrata in vigore dei regolamenti di delegificazione, che condiziona soltanto – secondo il meccanismo sancito dall’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, e ribadito dall’art. 20, comma 4, secondo periodo, della legge n. 59 del 1997 – l’abrogazione delle disposizioni di leggi statali delegificate.

Conclusivamente: fermo restando il consueto rapporto fra legislazione regionale e principi fondamentali desumibili dalle leggi statali, l’emanazione dei regolamenti statali di delegificazione, riguardanti eventualmente ambiti materiali di competenza regionale, non ha alcun effetto abrogativo né invalidante sulle leggi regionali in vigore, sia emanate in attuazione dei principi di semplificazione, sia semplicemente preesistenti, né produce effetti di vincolo per i legislatori regionali. Le norme regolamentari vanno semplicemente a sostituire, in parte qua, le norme legislative statali di dettaglio che già risultassero applicabili, a titolo suppletivo e cedevole, in assenza di corrispondente disciplina regionale.

E’ questa l’unica lettura della norma impugnata che si rivela coerente con il sistema e con i presupposti costituzionali. Così intesa, essa non incorre nelle censure di costituzionalità mosse dalle Regioni ricorrenti.

7.– La sola ricorrente Regione Liguria impugna altresì l’art. 6 della legge n. 340 del 2000, che introduce nel capo IV del d.lgs. n. 112 del 1998 (intitolato "Conferimenti ai Comuni e sportello unico per le attività produttive") un art. 27-bis (Misure organizzative per lo sportello unico delle imprese).

L’art. 23, comma 1, del decreto legislativo attribuisce ai Comuni "le funzioni amministrative concernenti la realizzazione, l’ampliamento, la cessazione, la riattivazione, la localizzazione e la rilocalizzazione di impianti produttivi, ivi incluso il rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie". L’art. 24, comma 1, stabilisce che "ogni Comune esercita, singolarmente o in forma associata, anche con altri enti locali, le funzioni di cui all’articolo 23, assicurando che un’unica struttura sia responsabile dell’intero procedimento" (comma 1), e che "presso la struttura è istituito uno sportello unico al fine di garantire a tutti gli interessati l’accesso, anche in via telematica, al proprio archivio informatico contenente i dati concernenti le domande di autorizzazione e il relativo iter procedurale, gli adempimenti necessari per le procedure autorizzatorie, nonché tutte le informazioni disponibili a livello regionale, ivi comprese quelle concernenti le attività promozionali, che dovranno essere fornite in modo coordinato". L’art. 25, a sua volta, prescrive che "il procedimento amministrativo in materia di autorizzazione all’insediamento di attività produttive è unico" e che "l’istruttoria ha per oggetto in particolare i profili urbanistici, sanitari, della tutela ambientale e della sicurezza"; e detta i principi cui si ispira tale procedimento, "disciplinato con uno o più regolamenti ai sensi dell’articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59".

L’art. 27-bis, aggiunto dalla disposizione impugnata in questa sede, stabilisce che "le amministrazioni, gli enti e le autorità competenti a svolgere, ai sensi degli articoli da 23 a 27, attività istruttorie nell’ambito del procedimento di cui al regolamento previsto dall’articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59, per la realizzazione, l’ampliamento, la ristrutturazione, la riconversione di impianti produttivi e per l’esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli investimenti produttivi, provvedono all’adozione delle misure organizzative necessarie allo snellimento delle predette attività istruttorie, al fine di assicurare il coordinamento dei termini di queste con i termini di cui al citato regolamento".

Secondo la Regione ricorrente, tale disposizione avrebbe lo scopo, ancorché "occultato" sotto l’apparenza di una previsione ovvia, di qualificare espressamente come "atti istruttori" gli atti e i provvedimenti propri dei diversi enti coinvolti nel procedimento, fra cui la Regione, e ciò al fine di spostare in capo al Comune la competenza sostanziale all’esercizio delle relative funzioni, lasciando agli altri enti solo un potere istruttorio "non riservato" ed "eventuale".

In questo modo, prosegue la Regione, omettendo di mettere in evidenza tale scopo concreto e di accedere alle richieste di modifica avanzate in proposito dalla Conferenza Stato-Regioni e dalla conferenza unificata, si sarebbero violati anzitutto i principi costituzionali sulla collaborazione fra Stato e Regioni e sulle procedure legislative (articoli 70, 71, 72, in connessione con gli artt.