Sentenza n. 311 del 1996

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SENTENZA N. 311

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 138, punto 5 (recte: primo comma, n. 5), del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), promosso con ordinanza emessa il 10 maggio 1995 dal T.A.R. per la Lombardia sul ricorso proposto da De Martino Aniello contro Ministero degli interni, iscritta al n. 612 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 giugno 1996 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

1.-- Adito per l'annullamento di un provvedimento prefettizio di diniego della approvazione della nomina a guardia particolare giurata, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con ordinanza emessa il 10 maggio 1995, pervenuta a questa Corte il 2 settembre 1995, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 17, 18, 19, 20, 21 e 22 della Costituzione, dell'art. 138, punto 5 (recte: primo comma, n. 5), del r.d. 18 giugno 1931, n. 733 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), a norma del quale tra i requisiti previsti per le guardie particolari giurate è compreso quello di "essere persona di ottima condotta politica e morale".

Il Tribunale rileva che il provvedimento negativo impugnato era stato assunto dal prefetto per mancanza del requisito dell'ottima condotta politica e morale, e che i fatti impeditivi sarebbero consistiti nell'avere il ricorrente ospitato nella propria abitazione un terrorista agli arresti domiciliari, per alcuni mesi durante i quali quest'ultimo avrebbe più volte incontrato altra terrorista, e nell'avere il medesimo ricorrente presenziato ad una udienza a carico di "brigatisti appartenenti alla "colonna Walter Alasia"", pur non essendo egli mai stato imputato di alcun reato.

Ciò premesso, il remittente ritiene che la norma applicata, la quale consente al prefetto di valutare la moralità, anche politica, del cittadino secondo parametri soggettivi, senza alcuna garanzia per il cittadino medesimo e senza il rispetto delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione, ponga seri dubbi di costituzionalità.

Infatti, secondo il giudice a quo, ogni considerazione della condotta del cittadino, diversa da quella dei precedenti penali, potrebbe essere fonte di abuso e di aleatorietà. Ci si dovrebbe perciò muovere nella stessa logica che ha condotto all'abolizione della buona condotta quale requisito dell'assunzione nel pubblico impiego, eliminando dall'ordinamento i margini di discrezionalità della pubblica amministrazione, non sorretti da obbiettivi riscontri (quali procedimenti penali, condanne, ecc.), che potrebbero impedire al cittadino lo svolgimento di attività lecite.

Sarebbe perciò non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 138 del t.u.l.s. "in quanto in contrasto con gli artt. 2, 3, 17, 18, 19, 21 e 22 della Costituzione, i quali riconoscono le libertà fondamentali del cittadino, in primo luogo quella di pensiero, politica e religiosa" (all'art. 20 della Costituzione, indicato come parametro nel dispositivo dell'ordinanza, non vi è alcun riferimento nella motivazione).

La rilevanza della questione discenderebbe, ad avviso dell'autorità remittente, dalla circostanza che il ricorso non potrebbe essere accolto stante l'insindacabilità nel merito della decisione impugnata in ordine alla sussistenza di un requisito non verificabile oggettivamente, decisione che non apparirebbe affetta da illogicità macroscopica.

2.-- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri concludendo per l'infondatezza della questione, segnatamente nella parte in cui essa mirerebbe a sopprimere in radice il requisito della buona condotta.

Richiamata la sentenza n. 440 del 1993 di questa Corte, nonché la sentenza n. 108 del 1994, l'Avvocatura rileva che secondo tale giurisprudenza sarebbe ragionevole "il mantenimento in casi specifici del requisito della buona condotta allorché sussista una "specificazione finalistica" collegata a particolari esigenze o a provvedimenti abilitativi della pubblica amministrazione".

Alla luce di una lettura della norma attenta ai valori costituzionali, dovrebbe escludersi che nella nozione di "ottima condotta politica e morale" possano farsi rientrare le opinioni e gli atti di natura politica dell'interessato, e non soltanto una sua eventuale condotta che abbia fatto trasmodare quelle opinioni e quegli atti in comportamenti riprovevoli o illeciti, quali peraltro sarebbero l'aver dato ospitalità a terroristi o l'avere avuto frequentazione con i medesimi.

3.-- In prossimità della camera di consiglio, l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria nella quale si sviluppano gli argomenti già dedotti a sostegno dell'infondatezza della questione. Secondo l'Avvocatura, la norma impugnata non consentirebbe un sindacato sulle convinzioni personali dell'individuo, ma solo sul comportamento dello stesso, nelle manifestazioni da cui sia possibile dedurre la sua affidabilità.

La presenza o meno di condanne penali e di altri provvedimenti dell'autorità giudiziaria non esaurirebbe il novero degli elementi sintomatici della buona condotta.

Vengono citate in proposito varie disposizioni di legge, da cui si desumerebbe l'esistenza nell'ordinamento di "serie diversificate di elementi qualificativi dei requisiti soggettivi -- non tutti tassativamente predeterminati -- indicati in relazione alle specifiche esigenze valutative della "affidabilità" del soggetto, a seconda delle attività da svolgere".

Il requisito soggettivo in argomento costituirebbe, secondo l'interveniente, un vero e proprio cardine per la valutazione dell'affidabilità di personale i cui compiti sono caratterizzati da connotazioni pubblicistiche. Né sarebbe irragionevole che il legislatore richieda a coloro che intendono svolgere i compiti di guardia particolare giurata requisiti non dissimili da quelli richiesti per l'impiego in una forza di polizia.

Conclude l'Avvocatura che, tenuto conto delle molteplici forme in cui è ammesso il sindacato sull'eccesso di potere, non potrebbe essere considerata di pregiudizio l'"apparente ampiezza delle categorie di fatto apprezzabili", atteso che la discrezionalità sarebbe soggetta a verifica delle motivazioni in relazione al pubblico interesse di volta in volta perseguito.

Considerato in diritto

1.-- Il dubbio di costituzionalità investe la norma che prevede, fra i requisiti per la nomina a guardia particolare giurata, quello secondo cui l'aspirante deve "essere persona di ottima condotta politica e morale": essa viene denunciata alla luce di numerosi parametri, gli artt. 2, 3, 17, 18, 19, 20, 21 e 22 della Costituzione, e cioè in sostanza, oltre che del principio di eguaglianza, delle norme costituzionali che garantiscono i diritti di libera espressione, individuale e associata, della persona e i diritti della coscienza.

2.-- La questione è fondata nei limiti di seguito precisati.

E' opportuna una premessa di ordine generale sul contesto in cui la norma impugnata si inserisce.

Essa è simile a numerose altre, le quali, con espressioni varie e significati non sempre coincidenti, si riferiscono alla "condotta" dei soggetti interessati come elemento valutabile ai fini dell'ammissione a uffici o funzioni pubbliche o a professioni, o ai fini del rilascio di autorizzazioni amministrative.

Fino al 1984 la "buona condotta" costituiva per legge un requisito generale per l'accesso agli impieghi civili dello Stato (art. 2, primo comma, numero 3, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3). Molte altre disposizioni, sia anteriori che posteriori a quella ora richiamata, rinviavano a quest'ultima o ne estendevano il campo di applicazione (ad es. art. 10 del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, per il personale delle unità sanitarie locali; art. 8 del d.P.R. 31 maggio 1974, n. 417, per gli insegnanti nelle scuole statali), ovvero si riferivano a requisiti analoghi nel disciplinare l'accesso a particolari categorie di impieghi pubblici: così, a titolo esemplificativo, si possono ricordare le norme in tema di accesso alle forze armate (art. 1 della legge 18 dicembre 1964, n. 1414); alla magistratura ordinaria (artt. 8 e 124 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12); ai corpi di polizia (art. 6, numero 7, del r.d. 30 novembre 1930, n. 1629; art. 5 della legge 7 dicembre 1959, n. 1083; artt. 47, 52 e 55 della legge 1° aprile 1981, n. 121); agli impieghi nei Comuni e nelle Province (art. 7 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, ora abrogato dall'art. 64, lettera c), della legge 8 giugno 1990, n. 142; nonché art. 1 del d.P.R. 23 giugno 1972, n. 749, per i segretari comunali e provinciali).

Parimenti, norme analoghe prevedevano il requisito della buona condotta o requisiti similari per l'accesso a uffici onorari (ad es. artt. 9 e 10 della legge 10 aprile 1951, n. 287, per l'ufficio di giudice popolare nelle corti d'assise; art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, per i componenti delle commissioni tributarie: ma la norma non è ripresa dall'art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 545, contenente il nuovo ordinamento delle commissioni; art. 23 del d.P.R. 6 febbraio 1981, n. 66, per i volontari nei servizi di protezione civile; art. 3 del d.m. giustizia del 30 ottobre 1979, per i presidenti di uffici elettorali) o per l'accesso a professioni o ad albi professionali (cfr., in generale, art. 2 della legge 25 aprile 1938, n. 897, e inoltre, per esempio, art. 5 della legge 16 febbraio 1913, n. 89, per i notai; art. 17 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, per i procuratori legali; art. 31 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, per i giornalisti; art. 48 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, per gli spedizionieri doganali).

Infine era previsto che le autorizzazioni di polizia -- in generale, e in particolare quelle in materia di armi e di porto d'armi -- potessero essere negate a chi non fosse in grado di provare la propria buona condotta (artt. 11 e 43 del r.d. 18 giugno 1931, n. 733, su cui si veda però la sentenza di questa Corte n. 440 del 1993; art. 9 della legge 18 aprile 1975, n. 110).

Come si è accennato, molteplici sono le espressioni usate dal legislatore per indicare il requisito in questione. Così, talora si richiede semplicemente la "buona condotta", talaltra si richiede l'"essere" o l'"essere persona" di buona condotta, talaltra ancora "tenere" o l'"avere sempre tenuto" buona condotta. E ancora, ci si riferisce alla "condotta" non altrimenti qualificata, o alla condotta "morale" o "politica e morale", ovvero "civile, morale e politica", senza che in realtà sia dato di collegare tali varianti alla specificità delle funzioni o degli impieghi piuttosto che soltanto all'epoca cui risale la norma o ad una scelta del legislatore del momento. Parimenti, la condotta richiesta viene definita volta a volta "buona", "specchiata", "specchiatissima ed illibata", "incensurabile", o, come nel caso della norma denunciata in questa sede, "ottima", senza che, ancora una volta, sia dato di comprendere esattamente la ragione e la portata di tali differenti locuzioni, né se esse debbano intendersi come equivalenti.

Da tempo giurisprudenza e dottrina si sono misurate con le incertezze ed i problemi cui tali norme danno luogo, specie in rapporto al carattere indefinito del requisito e alla conseguente larghezza di apprezzamento discrezionale che ne deriva in capo all'amministrazione che decide sull'ammissione agli uffici o sul rilascio delle autorizzazioni.

3.-- Fu sostanzialmente per considerazioni legate all'eccessiva discrezionalità di apprezzamento che veniva consentita nell'accertamento e nella valutazione della buona condotta che il Parlamento si indusse a disporre, con l'articolo unico della legge 29 ottobre 1984, n. 732, che "ai fini dell'accesso agli impieghi pubblici non può essere richiesto o comunque accertato il possesso del requisito della 'buona condotta'", e ad abrogare "conseguentemente" l'art. 2, primo comma, numero 3, del testo unico sugli impiegati civili dello Stato (d.P.R. n. 3 del 1957), oltre ad "ogni altra disposizione incompatibile con quanto previsto" dalla stessa legge.

Tuttavia questa abolizione apparentemente generale del requisito della buona condotta non ha prodotto l'effetto di espungere dall'ordinamento tutte le previsioni che vi facevano riferimento, e di superare la relativa problematica. Non solo infatti la giurisprudenza ha chiarito che l'abolizione, riguardando l'accesso agli impieghi pubblici, non ha toccato le norme che richiedono la buona condotta come requisito per il rilascio di autorizzazioni amministrative (anzi, successive leggi hanno nuovamente imposto il requisito in questione: cfr. l'art. 19 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 304, in materia di stupefacenti; l'art. 123 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, per i titolari di autoscuole), né -- si deve ritenere -- le analoghe norme sull'accesso alle varie professioni; ma neppure si è ritenuto che l'abrogazione incidesse sulle norme che prevedono requisiti attinenti alla condotta ai fini dell'accesso a specifici impieghi, e anzitutto alla magistratura. Anzi, la relativa norma dell'ordinamento giudiziario (art. 124, quinto comma, del r.d. n. 12 del 1941) è stata assunta dallo stesso legislatore come paradigma per altri casi: così l'art. 26 della legge 1° febbraio 1989, n. 53, ha disposto che per l'accesso ai ruoli delle forze di polizia "è richiesto il possesso delle qualità morali e di condotta stabilite per l'ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria"; e, ancor più di recente, l'art. 41 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, ha esteso l'applicabilità del citato art. 26 -- e quindi, mediatamente, della norma dell'ordinamento giudiziario -- "ai fini delle assunzioni di personale [...] presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e le amministrazioni che esercitano competenze istituzionali in materia di difesa e sicurezza dello Stato, di polizia e di giustizia".

Così che può dirsi, da un lato, che la buona condotta, se non è più requisito generale di accesso agli impieghi pubblici, è tuttora richiesta per l'accesso a varie categorie di impieghi; dall'altro lato, che la misura abolitiva disposta dal legislatore del 1984 (sia pure senza completa considerazione dello stato dell'ordinamento, e con prevalente attenzione all'esigenza di incidere sulle modalità di certificazione della buona condotta) e le successive scelte legislative manifestano la tendenza dell'ordinamento a non rinunciare a valutazioni di questo tipo, ma a richiederle, piuttosto che in via generale, con riguardo a specifiche funzioni: il che dovrebbe comportare però anche una maggiore specificazione del contenuto del requisito, cioè del tipo di condotte che possono legittimamente essere prese in considerazione ai fini delle relative valutazioni.

4.-- La Corte ha avuto occasione più volte di intervenire nella materia in discussione, ma finora per lo più con riferimento ad aspetti collaterali rispetto a quello prospettato ora dal giudice remittente (cfr. sentenza n. 61 del 1965; ordinanza n. 272 del 1992; sentenza n. 107 del 1994; ordinanza n. 326 del 1995).

Più direttamente inerenti all'oggetto della questione in esame sono le decisioni assunte con le sentenze n. 440 del 1993 e n. 108 del 1994. Quest'ultima ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 26 della legge n. 53 del 1989, nonché l'illegittimità costituzionale conseguenziale dell'art. 124, terzo comma, dell'ordinamento giudiziario, limitatamente alla parte in cui, nel disciplinare i requisiti di ammissione rispettivamente alla polizia di Stato e alla magistratura ordinaria, prevedevano l'esclusione di coloro che non risultassero "appartenenti a famiglia di estimazione morale indiscussa". In quella occasione la Corte affermò che "non è irragionevole che la moralità e la condotta di un soggetto che aspiri ad entrare nella polizia di Stato sia accertata anche con riferimento all'atteggiamento e al comportamento dell'interessato nei suoi ambienti di vita associata, compresa la famiglia", sottolineando peraltro che, per rispettare i principî costituzionali, l'esclusione dall'accesso all'impiego deve basarsi "su valutazioni imparziali aventi ad oggetto fatti specifici e obiettivamente verificabili".

A sua volta la sentenza n. 440 del 1993 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme del testo unico di pubblica sicurezza che, ai fini del rilascio delle autorizzazioni di polizia, richiedevano che fosse l'interessato a dover provare la propria buona condotta.

Nel motivare tale decisione si osservò che "il requisito della buona condotta [...] rappresenta la base per vari giudizi di affidabilità devoluti all'autorità amministrativa e, come tale, non può essere giudicato in se stesso lesivo di quei principî di ragionevolezza ai quali ogni ordinamento è tenuto ad ispirarsi". E tuttavia la Corte aggiunse che "la latitudine di apprezzamento che a tale requisito è connessa esige, per non confliggere con inderogabili esigenze di determinatezza e perché sia scongiurato il pericolo di sconfinare nell'arbitrio, una specificazione finalistica, riferita cioè alle particolari esigenze che l'accertamento deve soddisfare per le finalità correlate con il tipo di abilitazione o di autorizzazione richiesta".

Ancora in quella occasione si osservò come fosse stata ritenuta la caducazione per desuetudine o per incompatibilità con i principî costituzionali di "riferimenti legislativi alla buona condotta contenuti in leggi anteriori alla Costituzione", come nei casi "nei quali si erano venuti aggiungendo al requisito stesso altri attributi specifici, o dati di qualificazione, dal dubbio contenuto: segnatamente quelli della 'buona condotta civile, morale e politica'", notando che tale legislazione "ha contribuito ad aumentare, nonostante l'apparente specificazione, il relativismo proprio della nozione (specie per quanto attiene alla buona condotta morale) o l'anticostituzionale discriminazione tra cittadini (per quanto attiene alla buona condotta politica)".

5.-- Il quadro sommariamente tracciato consente già di pervenire ad alcune conclusioni.

Deve riaffermarsi anzitutto che, sia in materia di accesso a impieghi o funzioni pubbliche, sia in materia di autorizzazioni incidenti -- come nella specie in esame -- sullo svolgimento di attività dei privati, può bensì ammettersi la previsione di requisiti attitudinali o di affidabilità, per il corretto svolgimento della funzione o dell'attività, desunti da condotte del soggetto interessato, anche diverse da quelle aventi rilievo penale e accertate in sede penale, ma significative in rapporto al tipo di funzione o di attività da svolgere, e che siano oggetto di imparziale accertamento e di ragionevole valutazione da parte dell'amministrazione, salvo il sindacato in sede giurisdizionale.

Tuttavia, perché siano rispettati i principî costituzionali, e in particolare il principio di eguaglianza e le libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione, è necessario che sussistano precise limitazioni in ordine sia al tipo di condotte cui può darsi legittimamente rilievo, sia alle modalità del loro accertamento. Quanto a quest'ultimo aspetto è sufficiente rinviare a quanto è stato chiarito circa l'onere della prova, la necessaria verificabilità oggettiva dei fatti, l'obbligo di motivazione specifica dei provvedimenti di diniego, nelle citate sentenze n. 440 del 1993, nn. 107 e 108 del 1994, nonché nella sentenza n. 203 del 1995.

Quanto al tipo di condotte rilevanti, a parte l'esigenza di riconducibilità delle condotte al soggetto, e di concreta verificabilità e di sindacabilità delle valutazioni effettuate, se non è praticabile una integrale tipizzazione delle fattispecie, debbono però tenersi fermi alcuni limiti soprattutto di ordine negativo.

In primo luogo, deve escludersi che fra le condotte valutabili della persona possano includersi atteggiamenti di carattere ideologico, religioso o politico, o scelte di adesione ad associazioni, movimenti, partiti lecitamente operanti nell'ordinamento e l'appartenenza ai quali non sia, in ipotesi determinate, ritenuta normativamente incompatibile con la funzione specifica.

Da questo punto di vista, non è ammissibile, sul piano costituzionale, che si preveda come requisito una buona condotta "politica". Il divieto di discriminazioni politiche o in base alle "opinioni politiche" è un principio fondamentale dell'ordinamento democratico, costituendo parte del nucleo essenziale dell'eguaglianza "davanti alla legge", e della garanzia di effettiva partecipazione di tutti all'organizzazione "politica" del Paese, sancito dall'art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione. Il divieto di discriminazione trae conferme e precisazione in altre norme e principî costituzionali. Così, il divieto di misure restrittive della capacità giuridica per "motivi politici" (art. 22), il diritto di associarsi liberamente per fini non vietati ai singoli dalla legge penale (art. 18), il diritto di associarsi liberamente in partiti operanti con metodo democratico (art. 49), con le sole restrizioni eventualmente previste dalla legge (art. 98, terzo comma), il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21), e più in generale l'ispirazione democratica e pluralistica della Costituzione, precludono certamente la possibilità di far discendere conseguenze discriminanti dalle scelte politiche del cittadino.

Né si potrebbe addurre in contrario il riferimento, nelle norme costituzionali, a doveri "politici" o di "solidarietà politica", poiché in un sistema democratico essi non possono che essere configurati dalla legge e assistiti dalle sole sanzioni legalmente stabilite, senza dunque che il modo o il grado del loro adempimento possa costituire oggetto di ulteriori valutazioni discrezionali.

In secondo luogo, per quanto riguarda condotte apprezzabili sotto il profilo "morale", deve operarsi una netta distinzione fra condotte aventi rilievo e incidenza rispetto alla affidabilità del soggetto per il corretto svolgimento delle funzioni o delle attività volta per volta considerate, e che dunque possono essere legittimamente oggetto di valutazione a questi effetti; e condotte riconducibili esclusivamente ad una dimensione "privata" o alla sfera della vita e della libertà individuale, in quanto tali non suscettibili di essere valutate ai fini di un requisito di accesso a funzioni o ad attività pubbliche o comunque soggette a controllo pubblico.

Sotto altro profilo, non potranno essere considerate né valutate condotte che, per la loro natura, o per la loro occasionalità o per la loro distanza nel tempo, o per altri motivi, non appaiano ragionevolmente suscettibili di incidere attualmente (cioè al momento in cui il requisito della condotta assume rilievo) sulla affidabilità del soggetto in ordine al corretto svolgimento della specifica funzione o attività considerata.

Non è infatti ammissibile che da episodici comportamenti tenuti da un soggetto finiscano per discendere conseguenze per lui negative diverse ed ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge e non suscettibili, secondo una valutazione ragionevole, di rivelare un'effettiva mancanza di requisiti o di qualità richieste per l'esercizio delle funzioni o delle attività di cui si tratta, traducendosi così in una sorta di indebita sanzione extralegale.

6.-- Alla luce di quanto si è detto, la norma denunciata non appare, per diversi aspetti, conforme ai parametri costituzionali invocati.

In primo luogo, eccede palesemente i limiti delle valutazioni costituzionalmente ammissibili il riferimento ad una condotta "politica".

In secondo luogo, anche il riferimento generico alla condotta "morale" si rivela in contrasto con l'esigenza di limitare la valutabilità agli aspetti della "moralità" della persona che possano avere concreta incidenza sulla sua attitudine ed affidabilità in vista della funzione di guardia particolare giurata.

In terzo luogo, la richiesta di una "ottima" condotta -- espressione cui la giurisprudenza non ha mancato di attribuire il significato di requisito diverso e ulteriore rispetto alla semplice "buona condotta" -- non appare giustificata in relazione alla funzione della guardia particolare giurata, specie se si considera che per l'accesso ai corpi di polizia la legge, per lungo tempo, ha prescritto il solo requisito della "buona condotta" (art. 6 del r.d. n. 1629 del 1930; art. 5 della legge n. 1083 del 1959; artt. 47, 52 e 55 della legge n. 121 del 1981: anche se di recente l'art. 26 della legge n. 53 del 1989, rinviando alla corrispondente norma dell'ordinamento giudiziario, ha posto il requisito, ancora una volta diversamente definito, della "moralità e condotta incensurabili"). L'attività di guardia particolare giurata, ancorché abbia "scopi convergenti con le finalità della funzione di polizia" (sentenza n. 61 del 1965), non presenta caratteristiche tali da giustificare requisiti di accesso più severi di quelli previsti per l'accesso ai corpi statali di polizia.

7.-- L'illegittimità costituzionale della norma denunciata non ne investe tuttavia l'intera portata, bensì solo la parte eccedente i limiti entro i quali, come si è detto, la condotta dell'aspirante può legittimamente essere valutata ai fini della approvazione della nomina da parte dell'autorità pubblica.

Una ridefinizione legislativa del requisito in esame, e più in generale degli analoghi requisiti di accesso alle funzioni pubbliche e alle attività soggette a controllo pubblico, dovrà ispirarsi ad un criterio di riordino che superi definitivamente l'attuale assetto normativo, in cui continuano ad operare (e anzi sono oggetto di nuovi rinvii ed estensioni) disposizioni anteriori alla Costituzione repubblicana e non adeguate ai principî di questa.

In mancanza di nuovi interventi legislativi, le autorità amministrative competenti, sotto il controllo degli organi della giurisdizione, applicheranno la disposizione denunciata col contenuto normativo che residua a seguito della presente pronuncia di illegittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 138, primo comma, numero 5, del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), nella parte in cui, stabilendo i requisiti che devono possedere le guardie particolari giurate: a) consente di valutare la condotta "politica" dell'aspirante; b) richiede una condotta morale "ottima" anziché "buona"; c) consente di valutare la condotta "morale" per aspetti non incidenti sull'attuale attitudine ed affidabilità dell'aspirante ad esercitare le relative funzioni.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 25 luglio 1996.