Sentenza n. 203 del 1995

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SENTENZA N. 203

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, quinto comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 14 maggio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, sui ricorsi riuniti proposti da Macaluso Vincenzo contro il Ministero della pubblica istruzione ed altri, iscritta al n. 505 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1994. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 20 aprile 1995 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, adìto dal signor Vincenzo Macaluso per l'annullamento del decreto del Provveditore agli studi di Brescia che lo esclude dalla graduatoria per supplenza annuale, e per l'annullamento della decisione di rigetto di un successivo ricorso gerarchico, solleva, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, quinto comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui prevede l'automatica esclusione dall'accesso ai pubblici impieghi di quei soggetti privati dell'elettorato attivo a seguito della dichiarazione di fallimento. Dopo aver ricordato che il ricorrente, inserito in una graduatoria provinciale per supplenza annuale, è stato escluso dalla stessa perchè depennato dalle liste elettorali per effetto della dichiarazione di fallimento, il giudice a quo invoca la giurisprudenza di questa Corte che ha censurato la irrogazione automatica di sanzione disciplinare (sentenza n. 197 del 1993) e osserva che considerazioni analoghe varrebbero per l'esclusione dai pubblici impieghi, adottata in forma indifferenziata e per fattispecie disomogenee (art. 2 della legge 7 ottobre 1947, n. 1058, e successive modificazioni). Il sistema andrebbe perciò ricondotto a razionalità, contemplando una valutazione del caso singolo, che eviterebbe di equiparare fattispecie fra loro assai diverse, anche perchè nella coscienza comune il fallimento non è più evento indicativo di particolare allarme sociale e, comunque, ha importanza di gran lunga inferiore rispetto alle altre ipotesi contemplate dalla norma che disciplina l'esclusione dall'elettorato attivo.

2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo nel senso dell'inammissibilità o, quanto meno, dell'infondatezza della questione. La fissazione dei requisiti per l'accesso ai pubblici impieghi rientra nella discrezionalità del legislatore, e la norma denunziata rappresenta un corretto esercizio di tale potere, sia alla luce del principio di ragionevolezza, sia con riguardo al canone introdotto dall'art. 97 della Costituzione. Le norme che impediscono ai soggetti dichiarati falliti di accedere ai pubblici impieghi sono infatti le stesse che precludono il godimento dei diritti politici, tra le quali rientrano, oltre a quella in esame, ipotesi di pericolosità sociale risultanti da condanne penali. La limitazione del godimento dei diritti politici, per legge, è consentita dall'art. 48 della Costituzione, con riferimento al quale - ricorda l'Avvocatura - la Corte si è pronunziata, proprio in ordine alla situazione del fallito, con la sentenza di infondatezza n. 43 del 1970; mentre la disciplina della destituzione di diritto non sarebbe comparabile con il caso in esame, dove si tratta di accertare i requisiti soggettivi per l'accesso al pubblico impiego. La destituzione presuppone, invero, l'esistenza di un rapporto in atto, e richiede la valutazione del comportamento del dipendente, diversamente da quanto accade per l'ammissione a un concorso; e in tale fase, nessun apprezzamento discrezionale potrebbe essere effettuato, di norma, dalla pubblica amministrazione.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, quinto comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui esclude <automaticamente> dall'accesso al pubblico impiego quei soggetti privati dell'elettorato attivo in ragione della dichiarazione di fallimento, sospettando che tale norma sia in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione. In base al quinto comma dell'art. 2 in esame, non possono accedere agli impieghi civili dello Stato i soggetti esclusi dall'elettorato politico attivo e coloro i quali siano stati destituiti o dispensati dall'impiego presso una pubblica amministrazione. L'art. 2 rinvia, così, alla disciplina positiva sull'elettorato attivo, dove lo stato di fallimento è ricompreso, insieme con altre fattispecie, quale causa ostativa (v. dapprima l'art. 2 della legge n. 1058 del 1947, e successive modificazioni, e il testo unico approvato con d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, art. 2, a sua volta novellato dall'art. 1 della legge 16 gennaio 1992, n. 15; e, poi, il regolamento sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di cui al d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, art. 2, comma 3). Il giudice a quo insiste sulla sentenza di questa Corte n. 197 del 1993, ritenendo che il sistema andrebbe ricondotto a razionalità in base ai principi affermati da tale decisione, che avrebbero carattere generale e varrebbero, dunque, anche per l'accesso al pubblico impiego: dall'accoglimento della questione proposta seguirebbe la possibilità, per l'autorità competente, di valutare i singoli casi evitando l'equiparazione di fattispecie fra loro assai diverse.

Non potendosi reputare il fallimento - così conclude l'ordinanza - quale evento indicativo di grave allarme sociale, idoneo a determinare l'esclusione dal godimento dei diritti politici e, conseguentemente, dall'accesso ai pubblici impieghi.

2. - Quest'ultimo rilievo potrebbe essere meritevole di approfondimento, alla luce sia dell'esperienza di quest'ultimo decennio, che registra un notevole incremento delle dichiarazioni di fallimento, anche "incolpevole", sia della riflessione dottrinale che - nel superare la sistemazione tradizionale imperniata sull'"indegnità" del fallito - ha tenuto altresì conto delle eventuali conseguenze penali, produttive di ulteriori effetti giuridici. Ma il giudice rimettente non indirizza il sospetto d'incostituzionalità sulla norma che ricomprende la dichiarazione di fallimento fra le cause ostative al godimento dei diritti politici (e quindi sull'art. 2 del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, come novellato dalla legge 16 gennaio 1992, n. 15), bensì sull'art. 2, quinto comma, del d.P.R. n. 3 del 1957, nella parte in cui esclude automaticamente dall'accesso ai pubblici impieghi il fallito. È, questo, un campo per il quale non è evocabile il principio di gradualità e di articolazione del procedimento. E, infatti, mentre i provvedimenti che portano alla destituzione (o alla decadenza ex legge 18 gennaio 1992, n. 16) non possono avere carattere automatico, perchè è necessario ponderare ogni singolo caso, attraverso il procedimento disciplinare secondo il principio affermato da questa Corte, in particolare nella sentenza n. 197 del 1993 (ma v. anche le sentenze nn. 16 del 1991, 158 e 40 del 1990), nell'accesso al pubblico impiego occorre che i requisiti soggettivi siano definiti in termini univoci dal legislatore; e il riconoscimento, in ipotesi, di un'ampia discrezionalità alla pubblica amministrazione, in questo campo, rischierebbe di compromettere i principi di eguaglianza e di buon andamento, pervenendo così a esiti opposti a quelli perseguiti, in astratto, dall'ordinanza di rimessione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, quinto comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui prevede l'automatica esclusione dall'accesso agli impieghi pubblici dei soggetti privati dell'elettorato attivo a seguito della dichiarazione di fallimento, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/05/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 30/05/95.