Sentenza n. 462 del 1993

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SENTENZA N. 462

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio promosso con ricorso della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, iscritto al n. 23 del registro conflitti 1993, notificato il 15 giugno 1993, depositato in cancelleria il successivo 3 luglio, per conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica, sorto in relazione alle deliberazioni dell'Assemblea nella seduta del 18 marzo 1993, con le quali l'autorizzazione a procedere nei confronti del Sen. Severino Citaristi è stata negata per i capi di imputazione concernenti le ipotesi di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (lettere a, c, e e g della domanda formulata il 6 novembre 1992 e trasmessa dal Ministro di grazia e giustizia al Senato della Repubblica il 18 novembre 1992; lettere a, c, e e f della domanda formulata il 16 dicembre 1992 e trasmessa dal Ministro di grazia e giustizia al Senato della Repubblica il 5 gennaio 1993) ed è stata concessa per i capi di imputazione concernenti le ipotesi di violazione delle norme sul finanziamento pubblico dei partiti (lettere b, d, f e h della richiesta in data 6 novembre 1992 e lettere b, d e g della richiesta in data 16 dicembre 1992).

 

Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica;

 

udito nell'udienza pubblica del 14 dicembre 1993 il Giudice relatore Antonio BALDASSARRE;

 

uditi l'Avv. Valerio Onida per la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e l'Avv. Stefano Grassi per il Senato della Repubblica.

 

Ritenuto in fatto

 

l.- Con ricorso depositato il 19 maggio 1993 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica, chiedendo a questa Corte di dichiarare, sulla base degli artt. 68, 101, 102, 104 e 112 della Costituzione, che spetta all'autorità giudiziaria e, nella specie, al pubblico ministero, in sede di indagini preliminari e di esercizio dell'azione penale, ricostruire il fatto e deciderne la qualificazione giuridica, mentre spetta all'Assemblea legislativa di appartenenza concedere o negare l'autorizzazione a procedere, di cui all'art. 68, secondo comma, della Costituzione, in relazione alle predette ricostruzione e qualificazione giuridica, senza possibilità di modificarle ovvero di apporre condizioni o termini alla concessa autorizzazione. Conseguentemente, lo stesso ricorrente chiede che siano annullate, per violazione dei predetti parametri costituzionali, le deliberazioni del Senato della Repubblica in data 18 marzo 1993 - con le quali l'autorizzazione a procedere nei confronti del Sen. Severino Citaristi è stata negata in relazione ai capi di imputazione concernenti le ipotesi di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio ed è stata, viceversa, concessa per i capi di imputazione concernenti i reati di violazione delle norme sul finanziamento pubblico dei partiti - e che la richiesta di autorizzazione sia pertanto rinviata al medesimo Senato per una nuova deliberazione.

 

2.- Sotto il profilo dell'ammissibilità del conflitto, il ricorrente osserva, riguardo alla propria legittimazione, che, ai sensi dell'art. 112 della Costituzione, titolare del potere- dovere di esercitare l'azione penale è il pubblico ministero, con l'unica eccezione, posta con legge costituzionale, del collegio inquirente per i reati ministeriali. Sicchè deve ritenersi che l'organo competente a dichiarare definitivamente la volontà dello Stato in ordine all'esercizio dell'azione penale sia l'ufficio del pubblico ministero procedente e, quindi, nella specie, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano.

 

Per quanto riguarda i requisiti oggettivi di ammissibilità del conflitto, il ricorrente osserva che, avendo il Senato della Repubblica svolto una attribuzione, l'esercizio di quest'ultima può esser sindacato dalla Corte costituzionale nell'ambito di un conflitto tra poteri allorquando quell'esercizio abbia comportato lesioni di attribuzioni costituzionali di altri poteri dello Stato a causa del suo svolgimento non conforme ai principi della Costituzione (sent. n. 1150 del 1988)

3.- Nel merito il ricorrente osserva che le indagini preliminari, le quali seguono all'atto genetico del procedimento penale, cioé alla notizia di reato, si svolgono in relazione a un fatto che appare essere penalmente rilevante. A tale fatto, prosegue il ricorrente, sarà data una compiuta qualificazione giuridica nel momento di esercizio dell'azione penale, attraverso la formulazione dell'imputazione, atto proprio del pubblico ministero. In relazione allo stesso fatto, che appare penalmente rilevante, la Camera delibera di concedere o di negare l'autorizzazione, senza poter ingerirsi nei profili della ricostruzione del medesimo fatto o della sua qualificazione giuridica, i quali in questa fase sono riservati dalla Costituzione al pubblico ministero.

 

Nel caso di specie, benchè ogni singolo episodio di versamento del denaro fosse idoneo a legittimare indagini sia in relazione al reato di corruzione sia in relazione alla violazione delle norme sul finanziamento pubblico dei partiti, si è in presenza, tuttavia, di un unico fatto riconducibile a diverse figure delittuose. Di fronte ad esso il Senato della Repubblica, nel concedere l'autorizzazione per una qualificazione e non per l'altra, attraverso una votazione avente ad oggetto, non già i singoli capi d'imputazione, ma blocchi di contestazioni individuati in relazione alla qualificazione giuridica ad essi attribuita nella richiesta di autorizzazione, ha esorbitato dalle proprie attribuzioni, poichè non ha potuto apprezzare la corrispondenza fra i singoli fatti e la relativa qualificazione giuridica, ma ha potuto solo esprimere interpretazioni di ordine generale in tema di diritto penale sulla applicazione della legge.

 

4.- Il ricorso per conflitto di attribuzioni è stato dichiarato ammissibile in via di prima e sommaria delibazione da questa Corte con ordinanza n. 264, depositata in data 1 giugno 1993. Nel termine a tal fine fissato, la ricorrente Procura della Repubblica ha provveduto alla notificazione del ricorso e dell'indicata ordinanza.

 

5.- Si è ritualmente costituito in giudizio il Senato della Repubblica, chiedendo a questa Corte, con riserva di ulteriori memorie, di accertare che le deliberazioni contestate sono immuni da vizi di procedimento e non svolgono erronee valutazioni sui presupposti richiesti per il valido esercizio del relativo potere.

 

6.- In prossimità dell'udienza del 5 ottobre 1993 hanno depositato memorie sia il ricorrente, sia il resistente.

 

Oltre a ribadire argomenti già svolti nel ricorso, la difesa della Procura di Milano sottolinea che, poichè il Senato della Repubblica non ha deliberato distintamente su ciascun episodio contestato al Sen. Citaristi, ma ha votato in blocco la richiesta articolandola artificiosamente in due parti, come se questa fosse duplice, deve ritenersi che il contenuto delle deliberazioni di diniego impugnate sia, non già quello di una semplice risposta negativa alla richiesta di autorizzazione, ma quello di una decisione mirante (e oggettivamente idonea) a condizionare indebitamente l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero richiedente.

 

Quanto ai profili di merito, la ricorrente Procura afferma che il potere attribuito alle sin gole Camere è un potere circoscritto e funzionalizzato, esercitabile legittimamente nei limiti, con i criteri e le modalità, che, sebbene non descritti esplicitamente dalla Costituzione, discendono dalla natura e dalla ratio proprie di tale istituto, vale a dire dall'esigenza di garantire, non le persone dei parlamentari, ma le Camere cui essi appartengono, dal rischio che iniziative improprie e persecutorie dell'autorità giudiziaria si traducano in una minaccia alla libertà e all'indipendenza della rappresentanza politica.

 

Spetta, quindi, alla Corte, in sede di conflitto di attribuzione, verificare se la decisione parlamentare sia collegata all'esistenza del presupposto costituzionale necessario per addivenire all'eventuale diniego, vale a dire il carattere improprio e persecutorio dell'azione giudiziaria, poichè solo in tal caso quest'ultima appare lesiva dell'indipendenza del Parlamento.

 

Nel caso di specie, ad avviso del ricorrente, il Senato avrebbe ecceduto dalle proprie attribuzioni, dal momento che, senza mai esprimere dubbi sulla fondatezza della richiesta, ha fatto propria una delle tesi avanzate in giurisprudenza circa la non configurabilità del reato di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio, in conseguenza della mancata individuazione del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio colpevole ovvero dell'ufficio o dell'ambito funzionale dove sarebbe intervenuto un qualche atto rispetto al quale operare la valutazione della conformità o della contrarietà ai doveri d'ufficio. Il Senato, peraltro, non ha tenuto conto del fatto che la richiesta di autorizzazione a procedere deve intervenire in un momento in cui l'attività di indagine è appena iniziata ed in cui, quindi, non è possibile formulare altro che ipotesi di reato meramente indicative e suscettibili di ulteriori approfondimenti.

 

7.- Nella sua memoria di udienza il Senato della Repubblica, con riferimento ai requisiti soggettivi di ammissibilità, osserva che, pur ammettendo che sulla base della precorsa giurisprudenza costituzionale è difficile negare in questo caso al pubblico ministero la natura di organo dotato di competenze costituzionali esercitabili in maniera autonoma e indipendente, è tuttavia possibile dubitare che la Procura della Repubblica sia l'organo dell'ufficio del pubblico ministero abilitato a esprimere definitivamente la volontà del potere attribuito dall'art. 112 della Costituzione. Infatti, oltre ai vincoli gerarchici che caratterizzano i rapporti tra i diversi uffici del pubblico ministero (con particolare riferimento ai poteri di "sorveglianza" e di avocazione del procuratore generale presso la Corte d'appello), occorre considerare che il giudice per le indagini preliminari, in sede di esame della richiesta di archiviazione, può ben lamentare la lesione del proprio potere giurisdizionale in relazione all'impossibilità di ordinare ex art. 409, quinto comma, la redazione coatta del capo d'imputazione.

 

Per quel che concerne i profili oggettivi di ammissibilità, il resistente osserva che, pur essendo indiscutibile la prospettazione di un conflitto per interferenza nel caso che il diniego di autorizzazione sia frutto di valutazioni erronee o comunque viziate nel procedimento (v. sent. n. 1150 del 1988), la sussistenza in concreto della materia del conflitto deve dipendere dall'esistenza di vizi di legittimità tali da incidere sulla titolarità e sul rispetto dei limiti esterni al potere. E ciò, secondo la stessa parte, non si verifica nel caso dell'esercizio del potere di cui all'art. 68, secondo comma, della Costituzione, in quanto ciascuna Camera, con valutazione del tutto discrezionale, si limita a porre in essere una "condizione di procedibilità" del giudizio penale, che ben difficilmente è in grado di menomare il potere del pubblico ministero previsto dall'art. 112 della Costituzione. Oltrechè per la sua natura di atto politico che non necessita di alcuna motivazione, la decisione delle Camere concorre, infatti, a definire la portata del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sicchè non può ipotizzarsi un conflitto quando, come nel caso, sorgano soltanto divergenze sulle valutazioni tecnico-giuridiche sottese all'esercizio di ciascuno dei poteri concorrenti e non si lamenta un impedimento all'esercizio del proprio potere.

 

Nel merito, il Senato rileva che la richiesta di autorizzazione a procedere formulata dal pubblico ministero non solo deve "enunciare" il fatto (inteso in senso naturalistico), ma deve anche "indicare" le norme di legge che si assumono violate e, quel che più conta in questa sede, gli "elementi" sui quali si fonda la richiesta (art. 111 disp. att. c.p.p.). La previsione dell'obbligo di indicare, oltre al fatto e alle norme di legge violate, gli "elementi", cioé le prove o gli indizi di reità che consentano una valutazione adeguata della richiesta, non avrebbe alcun senso se non fosse necessario precisare con esattezza il contenuto dell'ipotesi di reato per la quale si intende giungere a un'imputazione. In sostanza, osserva il Senato, se le indagini oggetto dell'autorizzazione si riferiscono, non al "fatto" cui poi sarà data compiuta qualificazione, ma, come sostiene la stessa Procura, al "fatto penalmente rilevante", ciò significa che il fatto dev'essere necessariamente connesso con una qualificazione giuridica al fine di consentire che su quest'ultima possa esprimersi consapevolmente la Camera di appartenenza.

 

Nel caso di specie, l'autorizzazione è stata richiesta per distinte "regiudicande" e, quindi, dev'esser concessa o negata per ciascuna di esse senza che possa in alcun modo considerarsi arbitrario o irragionevole che il Senato abbia votato le richieste (del resto, secondo una consolidata prassi) per blocchi separati riferiti alle distinte contestazioni. Affermare che il Senato, nell'agire in tal modo, ha evitato di apprezzare la corrispondenza tra i singoli fatti e le relative qualificazioni giuridiche attribuite dal richiedente significa operare una inammissibile censura sulle modalità con le quali il Senato si è determinato a votare in base al proprio regolamento (art. 102, quinto comma).

 

Allo stesso modo, continua il resistente, censurare la valutazione effettuata dal Senato come un tentativo di riqualificazione giuridica del fatto e di affermazione di un potere di interpretazione autentica, come fa la Procura ricorrente, significa dimenticare che l'attribuzione del potere di concedere o di negare l'autorizzazione a procedere e, quindi, del potere di verificare la qualificazione giuridica dei fatti formulata nella richiesta implica necessariamente l'esercizio del potere di interpretazione spettante a ogni operatore giuridico. In realtà, in conformità con la natura di atto politico dell'autorizzazione a procede re, il Senato ha fatto corretta applicazione dei criteri di valutazione ormai consolidati nella sua prassi e, in particolare, quello relativo al c.d. fumus persecutionis, ravvisabile quando, come nel caso, non vi sia corrispondenza tra i fatti per i quali si chiede di procedere e il reato ipotizzato.

 

In conclusione, il resistente chiede a questa Corte di dichiarare che, ai sensi dell'art. 68 della Costituzione, spetta al Senato deliberare la concessione o il diniego dell'autorizzazione a pro cedere riguardo a ciascuno dei capi di imputazione individuati dal pubblico ministero richiedente e, in quest'ambito, valutare i fatti e le correlative qualificazioni giuridiche, nonchè gli elementi addotti dallo stesso pubblico ministero al fine di formulare le ipotesi di imputazione.

 

8.- Nelle more del giudizio è stata approvata e pubblicata la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 (Modifica dell'art. 68 della Costituzione), la quale, per quel che rileva in questo giudizio, ha operato la revisione dell'art. 68, secondo comma, della Costituzione, nel senso che non è più richiesta l'autorizzazione a procedere per sottoporre un parlamentare a procedimento penale.

 

La Corte, con ordinanza n. 386 del 9 novembre 1993, ha quindi disposto il rinvio a nuovo ruolo del presente conflitto. Con successivo decreto presidenziale ne è stata disposta la trattazione all'udienza del 14 dicembre 1993.

 

9.- In prossimità dell'udienza, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano ha depositato, ma fuori termine, una memoria difensiva, nella quale afferma di ritenere che, a seguito dell'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 1993, non sussiste più spazio per una decisione di merito, essendo cessata la materia del contendere o, comunque, essendo venuto meno l'interesse delle parti alla decisione del ricorso.

 

10.- Il Senato della Repubblica, nella memoria ritualmente depositata, rileva a sua volta che l'ambito del conflitto di attribuzione sollevato dalla Procura della Repubblica di Milano è limitato esclusivamente alla competenza che la legge costituzionale n. 3 del 1993 ha abrogato e che, quindi, l'interesse della Procura della Repubblica di Milano alla decisione del presente conflitto, una volta abolito, per gli aspetti rilevanti in questa sede, l'istituto dell'autorizzazione a pro cedere, è venuto meno.

 

Del resto, poichè il ricorso della Procura di Milano si concludeva con la richiesta di annullamento delle deliberazioni parlamentari e di trasmissione degli atti al Senato stesso per una nuova decisione sulla domanda proposta, deve escludersi, ad avviso del Senato, che, a seguito di una eventuale sentenza di annullamento del diniego di autorizzazione a procedere, il Senato possa essere chiamato ora ad una decisione sulla originaria do manda di autorizzazione a procedere.

 

1l.- Nel corso dell'udienza la Procura della Repubblica di Milano ha precisato che la soppressione dell'istituto dell'autorizzazione a procedere ha comportato il venir meno di ogni impedimento alla ripresa del procedimento penale in ordine ai fatti-reato oggetto della deliberazione del Senato che ha dato luogo al presente conflitto di attribuzione. Pertanto, a seguito dello ius superveniens, dovrebbe ritenersi cessata la materia del contendere o, comunque, venuto meno ogni interesse a una decisione di merito. Una volta, infatti, che l'unico interesse su cui si basava il ricorso, cioè la rimozione dell'impedimento (illegittimamente) frapposto allo svolgimento delle indagini, non sia più sussistente, non residua alcun concreto e attuale interesse alla decisione stessa.

 

Nel corso della medesima udienza, il Senato della Repubblica, pur ribadendo di pervenire in sostanza alla stessa conclusione della controparte, afferma di ritenere più corretta una pronunzia di inammissibilità per sopravvenuto difetto di interesse rispetto a una di cessazione della materia del contendere, essendo quest'ultima una decisione di merito che può comportare un significato satisfattivo nei confronti della domanda del ricorrente (v. sent. n. 383 del 1993).

 

Considerato in diritto

 

l.- Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, con il ricorso indicato in epigrafe, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica, chiedendo a questa Corte di dichiarare, sulla base degli artt. 68, 101, 102, 104 e 112 della Costituzione, che non spetta al Senato, allorchè delibera sulla concessione o sul diniego dell'autorizzazione a procedere prevista dall'art. 68, secondo comma, della Costituzione, di modificare, anche mediante apposizione di termini o di condizioni, la ricostruzione del fatto penalmente rilevante e la qualificazione giuridica dello stesso fatto, come de terminate dal pubblico ministero nella richiesta di autorizzazione per lo svolgimento delle indagini finalizzate all'esercizio dell'azione penale, ai sensi dell'art. 112 della Costituzione. Conseguentemente, lo stesso ricorrente chiede che siano annullati, per illegittimità derivante dalla violazione dei predetti parametri costituzionali, i dinieghi di autorizzazione a procedere deliberati dal Senato della Repubblica in data 18 marzo 1993 in relazione ai reati di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio ipotizzati nei confronti del Sen. Severino Citaristi e chiede, inoltre, che le relative richieste di autorizzazione siano rinviate al medesimo Senato per una nuova deliberazione sulle stesse.

 

2.- Anche se nelle more del presente giudizio è intervenuta la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n.3, che ha modificato l'art. 68, secondo comma, della Costituzione, abolendo l'istituto dell'autorizzazione a procedere per i procedimenti penali nei confronti dei parlamentari, nondimeno occorre preliminarmente verificare in via definitiva l'ammissibilità del conflitto di attribuzione sotto il profilo della regolare instaurazione del processo di fronte a questa Corte, già delibata in un primo sommario giudizio concluso con l'ordinanza n. 264 del 1993.

 

Sotto il profilo oggettivo ricorrono indubbiamente i requisiti previsti dall'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte), in base al quale sono risolti dalla Corte costituzionale i conflitti tra i poteri dello Stato insorti "per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali".

 

Infatti, stando ai termini esposti nel ricorso, il conflitto in esame deriverebbe dal fatto che il Senato, nel deliberare il diniego parziale dell'autorizzazione a procedere richiesta dalla Procura della Repubblica di Milano in ordine a comportamenti storicamente unitari attribuiti al Sen.Citaristi e qualificati giuridicamente come corruzione e come violazione delle norme sul finanziamento dei partiti politici, avrebbe indebitamente interferito nei confronti del potere del pubblico ministero concernente la definizione e la qualificazione del fatto-reato ai fini dell'orientamento delle indagini ulteriori e dell'esercizio dell'azione penale. In altri termini, non v'è alcun dubbio che il conflitto riguardi attribuzioni - come quella relativa all'autorizzazione a procedere spettante a ciascuna Camera nei confronti dei propri membri e quella attinente all'esercizio obbligatorio dell'azione penale da parte del pubblico ministero - le quali sono direttamente determinate da norme costituzionali, rispettivamente dall'art. 68, secondo comma (nella sua originaria formulazione), e dall'art.112 della Costituzione.

 

Contro tale conclusione non valgono le argomentazioni addotte dalla difesa del Senato della Repubblica volte a sostenere l'inammissibilità del sollevato conflitto.

 

Innanzitutto, non può essere condivisa l'opinione che l'attribuzione concernente l'esercizio obbligatorio dell'azione penale non potrebbe in alcun modo essere menomato dallo svolgimento di un potere, come quello relativo all'autorizzazione a procedere, che, essendo configurato come condizione di procedibilità, concorrerebbe esso stesso a definire il principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale.

 

Infatti, pur assumendo per mera ipotesi che l'autorizzazione a procedere costituisca un potere concorrente allo svolgimento di una funzione unitaria (esercizio obbligatorio dell'azione penale), da ciò non può trarsi alcun argomento a favore dell'inammissibilità, poichè oggetto del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato è la definizione delle sfere di competenza costituzionalmente rilevanti spettanti a ciascuno dei poteri confliggenti sia con riferimento alle ipotesi in cui tali poteri svolgano distinte funzioni costituzionali, sia con riferimento alle ipotesi in cui quei poteri compartecipino all'esercizio di una medesima funzione costituzionale. Quest'ultima è, anzi, un'evenienza ricorrente nei conflitti da menomazione, qual'è quello in esame, in cui si lamenta che un potere dello Stato, nel concorrere con altro potere al perseguimento di un medesimo fine pubblico, abbia illegittimamente superato i limiti della propria competenza o abbia omesso di compiere un atto obbligatorio condizionante l'esercizio della competenza spettante ad altro potere, così da produrre rispetto a quest'ultimo un'indebita interferenza o un illegittimo impedimento.

 

Nè può condividersi l'ulteriore eccezione d'inammissibilità formulata dalla difesa del Senato, secondo la quale il potere di autorizzazione a procedere previsto dal testo originario dell'art. 68, secondo comma, della Costituzione, non essendo sottoposto ad alcun parametro di validità o ad alcun limite costituzionale, sarebbe assolutamente insindacabile da questa Corte e, comunque, sarebbe di per sè inidoneo a produrre lesioni di altrui attribuzioni. In realtà, come ha correttamente osservato la parte ricorrente, nell'ordinamento democratico stabilito dalla Costituzione i poteri dello Stato sono organizzati secondo un modello di pluralismo istituzionale, nel quale il principio della reciproca separazione è corretto con quello del reciproco "controllo e bilanciamento". Di modo che, anche nelle ipotesi in cui le norme costituzionali non fissano esplicitamente vincoli o limiti particolari, l'esercizio di un potere basato sulla Costituzione deve avvenire in conformità con la ratio inerente al relativo istituto ed entro i limiti derivanti dalla convivenza con gli altri poteri dello Stato. Da ciò discende che anche per l'autorizzazione a procedere prevista dall'art. 68, secondo comma, della Costituzione (nella sua originaria formulazione), vale quanto questa Corte ha affermato a proposito della prerogativa parlamentare disciplinata nel comma precedente dello stesso articolo costituzionale, vale a dire che "il potere valutativo delle Camere non è arbitrario o soggetto soltanto a una regola interna di self-restraint" (sent. n. 1150 del 1988, nonchè sent. n.443 del 1993). E questo è sufficiente per escludere l'inammissibilità del presente conflitto sotto il profilo considerato, poichè il principio ricordato, riferito all'autorizzazione a procedere, porta necessariamente ad escludere che quest'ultimo potere possa essere considerato come assolutamente insindacabile o di per sè inidoneo a produrre interferenze lesive nei confronti di altri poteri dello Stato.

 

3.- Parimenti ammissibile è il conflitto di attribuzione in esame sotto il profilo dei requisiti soggettivi.

 

Nessun dubbio può sussistere sul fatto che, in riferimento all'autorizzazione a procedere prevista dall'art. 68, secondo comma, della Costituzione, l'organo direttamente investito della titolarità del relativo potere sia ciascuna Camera di appartenenza. Di modo che, riguardo al proseguimento delle indagini nei confronti del Sen. Citaristi oggetto dell'autorizzazione a procedere di cui si controverte, il solo organo competente a esercitare quel potere in via definitiva, in posizione d'indipendenza e di totale autonomia da altri poteri dello Stato - ai sensi dell'art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953 - è certamente il Senato della Repubblica.

 

Allo stesso modo non può dubitarsi che il pubblico ministero, secondo l'art. 112 della Costituzione, sia il titolare diretto ed esclusivo delle attività d'indagine finalizzate all'esercizio (obbligatorio) dell'azione penale. Nè quest'affermazione può ritenersi contraddetta dall'ordinanza n.16 del 1979, con la quale questa Corte ha negato che il pubblico ministero potesse sollevare conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, motivando tuttavia tale esclusione con il fatto che in quel caso il predetto ufficio rivendicava per sè una funzione giurisdizionale in senso proprio e non agiva, come ora, a difesa dell'integrità di competenze inerenti all'esercizio dell'azione penale. Al contrario, al fine di corroborare la conclusione raggiunta, non è senza significato ricordare che questa Corte, se pure sotto l'impero del precedente codice di procedura penale, ha più volte riconosciuto al pretore, con riferimento a ipotesi di esercizio di poteri inquirenti, la qualità di soggetto passivo in giudizi per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato (v. sent. n. 150 del 1981, nonchè ordd. nn. 132 e 98 del 1981, 123 del 1979). Ed anzi, la stessa Corte, a proposito del pubblico ministero, ha affermato che esso, in base all'art.107 della Costituzione, è "fornito di istituzionale indipendenza rispetto a ogni altro potere" (v. sentt. nn.88 del 1991, 96 del 1975 e 190 del 1970) e ha precisato che la garanzia di tale posizione costituzionale è accentuata nel vigente codice di procedura penale a causa della eliminazione "di ogni contaminazione funzionale tra giudice e organo dell'accusa" e della concentrazione in capo a quest'ultimo della potestà investigativa, radicalmente sottratta al primo (v. sent. n.88 del 1991).

 

Posto che l'ufficio del pubblico ministero è il potere dello Stato che agisce nel presente conflitto di attribuzione, si deve ritenere che la legittimazione processuale nel giudizio in esame spetti all'organo di quell'ufficio le cui competenze costituzionali si suppongono lese dal diniego di autorizzazione a procedere oggetto di contestazione, vale a dire la Procura della Repubblica di Milano. Infatti, in relazione alle attribuzioni la cui lesione è dedotta nel presente conflitto, la Procura ricorrente si caratterizza come l'organo dell'ufficio del pubblico ministero, che, nell'ambito del principio di soggezione soltanto alla legge, è abilitato a decidere con pienezza di poteri e senza interferenze di sorta da parte di altre istanze della pubblica accusa in ordine allo svolgimento delle indagini finalizzate all'esercizio dell'azione penale per i fatti per i quali è stata negata dal Senato l'autorizzazione a procedere nei confronti del Sen.Citaristi. Pertanto, riguardo alle attribuzioni contestate nel conflitto in esame, la Procura della Repubblica di Milano è l'organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene, ai sensi dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, dal momento che nel caso concreto solo essa è in grado di impegnare l'intero potere del pubblico ministero.

 

Nè, in proposito, possono essere condivise le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa del Senato. In particolare, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte resistente, non può correttamente parlarsi di vincoli gerarchici tra i diversi uffici del pubblico ministero, che sarebbero evidenziati dai poteri di sorveglianza e di avocazione affidati al Procuratore generale presso la Corte d'appello. In via generale, questa Corte ha già affermato che poteri del genere non possono essere ricondotti a forme di "controllo gerarchico interno agli uffici del pubblico ministero affidato al procuratore generale", prevedendo piuttosto il sistema una serie di limiti e di interventi di carattere esterno, volti a garantire l'effettività e la completezza degli adempimenti connessi all'esercizio delle funzioni devolute all'organo inquirente (v. ancora sent. n. 88 del 1991).

 

Più precisamente, il potere di sorveglianza del Procuratore generale - previsto dall'art. 16 del Regio decreto legislativo 31 marzo 1946 n. 511, come modificato dall'art. 30 del decreto del Presi dente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 449, che lo ha ulteriormente attenuato - non ha alcuna incidenza diretta sull'esercizio delle attività inerenti alla funzione attribuita al pubblico ministero dall'art. 112 della Costituzione. Si tratta, invece, di un potere che, essendo strumentale all'attivazione della responsabilità disciplinare dei magistrati operanti come pubblico ministero, è del tutto esterno all'attribuzione che si suppone lesa nel presente conflitto, così come lo è l'ancor più indiretta forma di vigilanza affidata al Procuratore generale dall'art. 83 del Regio decreto legislativo 30 gennaio 1941, n. 12 (come modificato dall'art. 23 del ricordato d.P.R. n. 449 del 1988), sull'osservanza delle norme relative alla diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell'autorità giudiziaria.

 

Parimenti ininfluente, ai fini della pretesa esclusione della configurazione della Procura della Repubblica di Milano come organo che in questo caso è competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene, è la previsione del potere di avocazione delle indagini preliminari da parte del Procuratore generale, ai sensi degli artt. 412 e 413, primo comma, del codice di procedura penale. Tale potere, che è ben diverso dalla "sostituzione di un organo del pubblico ministero ad altro organo dello stesso pubblico ministero" configurata nel previgente codice di procedura penale (sulla quale v. sentt. nn. 32 del 1964 e 148 del 1963), è infatti rigidamente condizionato al presupposto che il pubblico ministero non eserciti l'azione penale o non richieda l'archiviazione nel termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice. In altre parole, l'avocazione delle indagini preliminari da parte del Procuratore generale è un potere, previsto come "strumento di garanzia contro l'inerzia del pubblico ministero" (v. sent. n. 88 del 1991), che proprio perciò non può avere un'incidenza attuale sulla legittimazione processuale in relazione alle attribuzioni oggetto del presente conflitto, cioé in relazione alla corretta prosecuzione da parte del pubblico ministero delle indagini ai fini dell'esercizio dell'azione penale, dal momento che quel potere potrà essere attivato dal Procuratore generale soltanto dopo che il pubblico ministero avrà consumato - sia per mancato esercizio dell'azione penale, sia per omessa richiesta di archiviazione nei termini prescritti - lo svolgimento del proprio potere d'indagine, vale a dire dell'attribuzione dedotta nel conflitto in esame.

 

A maggior ragione, infine, non può essere contestata la legittimazione processuale della Procura ricorrente sulla base dei poteri che il codice di procedura penale affida al giudice per le indagini preliminari in ordine alla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero. Quando, infatti, quel giudice dissente da quest'ultima richiesta, egli - tanto se indichi le ulteriori indagini che ritenga necessarie (art. 409, quarto comma, c.p.p.), quanto se ordini al pubblico ministero di formulare l'imputazione (artt. 409, quinto comma, e 554, secondo comma) - non si sostituisce, certo, al pubblico ministero nell'esercizio dei suoi poteri d'indagine o nelle sue determinazioni in relazione alle stesse, nè in ogni caso agisce per conto dell'organo di accusa, ma svolge un potere di controllo giurisdizionale esterno all'esercizio dell'azione penale, previsto a garanzia del principio costituzionale di obbligatorietà della medesima azione penale.

 

4.- Il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato in esame, sebbene ammissibile sotto il profilo della sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi per la legittima instaurazione del giudizio presso questa Corte, va tuttavia dichiarato improcedibile.

 

Successivamente all'entrata in vigore della legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 - la quale, nel revisionare l'art. 68, secondo comma, della Costituzione, ha eliminato l'autorizzazione della Camera di appartenenza perchè un membro del Parlamento potesse essere sottoposto a procedimento penale, conservando l'autorizzazione solo in ordine all'arresto, alla perquisizione personale o domiciliare, alle intercettazioni telefoniche, alla detenzione o a qualsiasi altra privazione della libertà personale - nel corso dell'udienza del 14 dicembre 1993 ambedue le parti del giudizio hanno modificato le conclusioni enunciate negli atti di costituzione e nelle prime memorie difensive. Infatti, tanto la Procura della Repubblica di Milano quanto il Senato della Repubblica hanno concorde mente affermato che, a seguito della modificazione della norma costituzionale, si è venuta a creare una situazione di piena procedibilità riguardo ai fatti- reato oggetto delle deliberazioni di diniego di autorizzazione a procedere, adottate nella seduta del Senato della Repubblica del 18 marzo 1993, in relazione alle quali è insorto il presente conflitto di attribuzione. In conseguenza di ciò, le stesse parti ritengono che sia cessata la materia del contendere o, in ogni caso, che esse non abbiano più alcun interesse a ottenere una decisione sul merito del conflitto medesimo.

 

Constatato che, successivamente all'inizio del presente giudizio, è intervenuta una revisione dell'art. 68, secondo comma, della Costituzione che ha abolito l'istituto dell'autorizzazione a procedere a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 1993 e ritenuto che, di conseguenza, è venuto meno l'interesse delle parti, pur originariamente sussistente, ad avere una pronunzia di merito, come riconoscono negli atti di causa le stesse parti del giudizio, va dichiarata l'improcedibilità del conflitto di attribuzione in esame per sopravvenuta carenza di interesse.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara improcedibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano nei confronti del Senato della Repubblica, con il ricorso indicato in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16/12/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Antonio BALDASSARRE, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 24/12/93.