SENTENZA N. 143
ANNO 2013
Commenti alla decisione
I. Vittorio Manes e Valerio Napoleoni, Incostituzionali
le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di “carcere duro”:
nuovi tracciati della corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali,
nella Rivista telematica Diritto
penale contemporaneo
II. Marco Ruotolo, Le irragionevoli restrizioni
al diritto di difesa dei detenuti in regime di 41-bis, in questa Rivista,
nella Sezione Studi 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’articolo 41-bis,
comma 2-quater, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative
e limitative della libertà), come modificato dall’articolo 2, comma 25, lettera
f), numero 2), della legge 15 luglio
2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal
Magistrato di sorveglianza di Viterbo sul reclamo proposto da G.D. con
ordinanza del 7 giugno 2012, iscritta al n. 241 del registro ordinanze 2012 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie
speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 aprile
2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in
fatto
1.– Con ordinanza depositata il 7 giugno
2012, il Magistrato di sorveglianza di Viterbo ha sollevato, in riferimento
agli articoli 3, 24 e 111, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 41-bis,
comma 2-quater, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative
e limitative della libertà), come modificato dall’articolo 2, comma 25, lettera
f), numero 2), della legge 15 luglio
2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), «nella parte in
cui introduce limitazioni al diritto di espletamento dei colloqui con i
difensori nei confronti dei detenuti sottoposti alla sospensione delle regole
di trattamento ai sensi del medesimo art. 41-bis».
Il giudice a quo riferisce di essere investito del reclamo proposto da un
detenuto, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 354 del 1975, avverso il
provvedimento dell’8 settembre 2011, con cui il direttore della casa
circondariale di Viterbo aveva respinto la richiesta del reclamante volta ad
ottenere un colloquio visivo con un avvocato, designato come suo difensore di
fiducia in un procedimento penale pendente davanti al Tribunale di Palmi.
Il diniego si basava sul disposto
dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 354 del 1975, in forza del quale
i detenuti sottoposti al regime penitenziario speciale previsto dal comma 2 del
medesimo articolo sono ammessi ad effettuare con i difensori, «fino ad un
massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa
durata di quelli previsti con i familiari», pari rispettivamente a dieci minuti
e a un’ora.
Con circolari del 3 settembre 2009, del
3 dicembre 2009 e del 1° aprile 2010 – esse pure poste a fondamento del
provvedimento impugnato – il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria
del Ministero della giustizia ha precisato che le limitazioni sopra indicate
operano a prescindere dal numero dei procedimenti per i quali il detenuto
risulta imputato o condannato e, quindi, dal numero dei legali patrocinanti, e
ha inoltre riconosciuto al detenuto la facoltà di effettuare un unico colloquio
visivo o telefonico prolungato, della durata rispettivamente di tre ore o di
trenta minuti, in luogo dei tre distinti colloqui settimanali di un’ora o di
dieci minuti ciascuno.
Nella specie, il reclamante – nei cui
confronti era stata disposta la sospensione delle regole di trattamento con
decreto del Ministro della giustizia del 5 agosto 2010, per un periodo di
quattro anni – non aveva potuto effettuare il richiesto colloquio con il
difensore il giorno 8 settembre 2011, avendo già fruito il precedente 5
settembre – e, dunque, nell’ambito della stessa settimana – di tre ore
consecutive di colloquio con un altro difensore, designato nel procedimento di
sorveglianza originato dall’impugnazione del decreto di sottoposizione al
regime penitenziario speciale.
Con il reclamo, l’interessato aveva
lamentato l’avvenuta lesione del proprio diritto di difesa, eccependo
l’illegittimità costituzionale della norma posta a base della decisione del
direttore.
Ciò premesso, il rimettente rileva –
quanto alla non manifesta infondatezza della questione – che la Corte costituzionale,
con la sentenza
n. 212 del 1997, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18
della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che il condannato
in via definitiva ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio
dell’esecuzione della pena. A seguito di tale pronuncia, i detenuti in regime
ordinario possono effettuare colloqui con i difensori senza limiti di frequenza
e di durata.
Ad avviso del giudice a quo, la diversa disciplina, di segno
restrittivo, introdotta dalla norma censurata per i detenuti sottoposti al
regime speciale si rivelerebbe lesiva di plurimi parametri costituzionali. Essa
troverebbe, infatti, fondamento non in una sostanziale diversità delle esigenze
difensive, ma nel differente grado di pericolosità sociale del detenuto:
elemento che non potrebbe, peraltro, incidere in senso limitativo
sull’esercizio del diritto di difesa.
Sarebbe violato, per questo verso,
anzitutto l’art. 3 Cost., in quanto i detenuti soggetti al regime speciale
hanno, di regola, esigenze difensive maggiori rispetto ai detenuti cosiddetti
comuni, collegate al numero più elevato e alla maggiore complessità dei
procedimenti penali pendenti a loro carico: esigenze che risulterebbero,
peraltro, già penalizzate dalla distanza, spesso notevole, del luogo di
detenzione da quello di svolgimento del processo, necessaria al fine di ridurre
al minimo i rischi di mantenimento dei collegamenti con le organizzazioni
criminali. Identiche posizioni processuali – magari anche contrapposte –
riceverebbero, in tal modo, una tutela irragionevolmente differenziata.
Risulterebbe leso anche l’art. 24 Cost., posto che l’evidente compressione del diritto di
difesa, derivante dalla norma denunciata, non troverebbe giustificazione nella
necessità di proteggere un altro interesse costituzionalmente garantito.
L’esigenza di impedire contatti del detenuto con i membri dell’organizzazione
di appartenenza in stato di libertà, che è alla base di tutte le restrizioni
imposte dall’art. 41-bis della legge
n. 354 del 1975, tra cui la consistente limitazione dei rapporti con i
familiari – con i quali può essere effettuato un solo colloquio mensile – non
potrebbe essere, infatti, invocata con riguardo ai rapporti con i difensori,
trattandosi di «categoria di operatori del diritto che non può essere
formalmente destinataria del sospetto di porsi come illecito canale di
comunicazione».
La disposizione censurata si porrebbe,
infine, in contrasto con l’art. 111, terzo comma, Cost.,
il quale, nello stabilire le condizioni del «giusto processo penale», prevede
che la legge debba assicurare alla persona accusata di un reato il tempo e le
condizioni necessarie per preparare la sua difesa. I limiti prefigurati dalla
norma sottoposta a scrutinio non consentirebbero, di contro, al reclamante,
coinvolto in diversi procedimenti penali, di disporre del tempo occorrente per
predisporre la propria difesa, tenuto conto anche del fatto che i difensori non
sarebbero in grado di assicurare una presenza assidua presso il luogo di
detenzione, notevolmente distante da quello di svolgimento della maggior parte
dei processi (pendenti presso uffici giudiziari della Calabria).
Quanto, poi, alla rilevanza della
questione, il rimettente osserva che il reclamante è detenuto in esecuzione di
tre diverse sentenze ed è sottoposto a custodia cautelare in carcere in forza
di due provvedimenti restrittivi; pendono, inoltre, a suo carico alcuni
procedimenti penali per i quali sono decorsi i termini di custodia cautelare.
Egli, pertanto – al pari della quasi totalità dei detenuti sottoposti al regime
previsto dall’art. 41-bis della legge
n. 354 del 1975 – avrebbe un evidente interesse ad esercitare il diritto di
difesa in una molteplicità di procedimenti distinti, riguardanti sia la fase
della cognizione che quella dell’esecuzione. La declaratoria di illegittimità
costituzionale invocata comporterebbe l’accoglimento del reclamo e la
conseguente imposizione alla direzione dell’istituto penitenziario dell’obbligo
di consentire il libero espletamento di colloqui visivi con i difensori
nominati in tutti i procedimenti nei quali il reclamante è coinvolto.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
La difesa dello Stato rileva come,
secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, le esigenze cui
risponde il regime detentivo previsto dall’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975 legittimino un trattamento
penitenziario diverso da quello al quale è sottoposta la generalità dei
detenuti. Le restrizioni connesse al regime speciale, comprese quelle
concernenti i colloqui, sono giustificate, infatti, dall’esigenza di contenere
la pericolosità di determinati soggetti, individuati non in astratto, sulla
base del titolo del reato per i quali sono imputati o hanno riportato condanna,
ma all’esito di una valutazione individuale e specifica. Di conseguenza, le
limitazioni dei colloqui con i difensori previste dalla norma censurata,
essendo preordinate a ridurre le occasioni di contatto tra i detenuti di
accertata pericolosità e il mondo esterno, lungi dal determinare una
ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai detenuti sottoposti al
trattamento ordinario, costituirebbero il risultato di un corretto
bilanciamento tra l’esigenza di tutelare adeguatamente il diritto di difesa e
quella, di pari rilevanza costituzionale, di proteggere l’ordine giuridico e la
sicurezza dei cittadini.
La questione sarebbe infondata anche nella parte in
cui prospetta il contrasto tra la norma denunciata e l’art. 111, terzo comma, Cost., giacché il precetto costituzionale evocato non
atterrebbe ai rapporti tra la persona accusata e il suo difensore, ma
esclusivamente all’organizzazione del processo e ai rapporti tra l’imputato e
il giudice, garantendo le condizioni indispensabili per una efficace azione
difensiva.
Considerato
in diritto
1.– Il Magistrato di sorveglianza di
Viterbo dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera b), della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e
sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come
modificato dall’articolo 2, comma 25, lettera f), numero 2), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui pone limitazioni al diritto
ai colloqui con i difensori nei confronti dei detenuti sottoposti alla
sospensione delle regole di trattamento ai sensi del comma 2 del medesimo art.
41-bis, in particolare prevedendo che
detti detenuti possono avere con i difensori, «fino a un massimo di tre volte
alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti
con i familiari» (pari, rispettivamente, a dieci minuti e a un’ora).
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe
l’art. 3 Cost., riservando ai detenuti in regime speciale un trattamento
deteriore rispetto a quello accordato alla generalità degli altri detenuti, non
giustificabile né con la loro maggiore pericolosità, la quale non potrebbe
incidere in senso limitativo sull’esercizio del diritto di difesa; né con un
minore livello delle esigenze difensive, avendo, al contrario, i detenuti in
regime speciale esigenze difensive solitamente maggiori rispetto ai detenuti
“comuni”, in correlazione al più elevato numero e alla maggiore complessità dei
procedimenti penali pendenti a loro carico.
La norma denunciata si porrebbe,
altresì, in contrasto con l’art. 24 Cost.,
determinando una evidente compressione del diritto di difesa del detenuto, a
fondamento della quale non potrebbe essere invocata l’esigenza di impedire
contatti con i membri dell’organizzazione criminale di appartenenza, non essendo
tale esigenza riferibile ai rapporti con i difensori, i quali non potrebbero
essere normativamente gravati «del sospetto di porsi come illecito canale di
comunicazione».
Sarebbe violato, infine, l’art. 111,
terzo comma, Cost., giacché le limitazioni censurate
impedirebbero ai detenuti in questione – spesso contemporaneamente coinvolti in
una pluralità di procedimenti penali – di disporre del tempo necessario per
preparare efficacemente la propria difesa.
2.– In riferimento all’art. 24 Cost., la questione è
fondata.
È acquisito, nella giurisprudenza di
questa Corte, che la garanzia costituzionale del diritto di difesa comprende la
difesa tecnica (sentenze n. 80 del 1984
e n. 125 del
1979) e, dunque, anche il diritto – ad essa strumentale – di conferire con
il difensore (sentenza
n. 216 del 1996): ciò, al fine di definire e predisporre le strategie
difensive e, ancor prima, di conoscere i propri diritti e le possibilità
offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze
pregiudizievoli cui si è esposti (sentenza n. 212 del
1997). Sostanzialmente sintonica con dette affermazioni è quella della
Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il diritto dell’accusato
a comunicare in modo riservato con il proprio difensore rientra tra i requisiti
basilari del processo equo in una società democratica, alla luce del disposto
dell’art. 6, paragrafo 3, lettera c),
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (tra le molte, Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 gennaio
2009, Rybacki contro Polonia; 9 ottobre 2008, Moiseyev contro Russia; 27 novembre 2007, Asciutto contro
Italia; 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia).
È evidente, per altro verso, come il
diritto in questione assuma una valenza tutta particolare nei confronti delle
persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di
limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l’esterno, vengono
a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all’esercizio
delle facoltà difensive. In questa prospettiva, il diritto del detenuto a
conferire con il difensore forma oggetto di esplicito e puntuale riconoscimento
in atti sovranazionali, tra i quali la raccomandazione R (2006)2 del Consiglio
d’Europa sulle «Regole penitenziarie europee», adottata dal Comitato dei
Ministri l’11 gennaio 2006, che riferisce distintamente il diritto stesso tanto
al condannato (regola numero 23) che all’imputato (regola numero 98).
Sul versante interno, il codice di
procedura penale del 1988 – innovando al regime meno favorevole prefigurato dal
codice anteriore – ha sancito il diritto dell’imputato in custodia cautelare a
conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura; diritto
il cui esercizio può essere dilazionato dal giudice, su richiesta del pubblico
ministero, solo in presenza di «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela»
ed entro limiti temporali ristrettissimi: non più di sette giorni, ridotti poi
a cinque (art. 104 del codice di procedura penale).
Il nuovo
codice di rito non si è occupato, per converso, dell’omologo diritto dei
detenuti in forza di condanna definitiva. In assenza di una norma specifica,
anche nella legge di ordinamento penitenziario, si era quindi ritenuto che i
colloqui del condannato con il difensore soggiacessero alla generale disciplina
relativa ai colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi,
rimanendo in tal modo subordinati ad un’autorizzazione discrezionale del
direttore dell’istituto, basata sulla verifica dell’esistenza di «ragionevoli
motivi» (art. 18, primo comma, della legge n. 354 del 1975 e art. 35, comma 1,
dell’allora vigente d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431,
recante «Approvazione del regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975,
n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e
limitative della libertà»).
Con la sentenza n. 212 del
1997, questa Corte ha ritenuto che un simile regime fosse incompatibile con
il principio di inviolabilità del diritto di difesa, dichiarando, di
conseguenza, costituzionalmente illegittimo il citato art. 18 della legge n.
354 del 1975, nella parte in cui non prevedeva il diritto del condannato a
conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena: e ciò,
non soltanto in riferimento a procedimenti giudiziari già promossi, ma anche in
relazione a qualsiasi procedimento contenzioso suscettibile di essere
instaurato. Nell’occasione, la Corte ha rilevato che «il diritto di conferire
con il proprio difensore non può essere compresso o condizionato dallo stato di
detenzione, se non nei limiti eventualmente disposti dalla legge a tutela di
altri interessi costituzionalmente garantiti (ad esempio attraverso temporanee,
limitate sospensioni dell’esercizio del diritto, come quella prevista dall’art.
104, comma 3, cod. proc. pen. […]), e salva
evidentemente la disciplina delle modalità di esercizio del diritto, disposte
in funzione delle altre esigenze connesse allo stato di detenzione medesimo:
modalità che, peraltro, non possono in alcun caso trasformare il diritto in una
situazione rimessa all’apprezzamento dell’autorità amministrativa, e quindi
soggetta ad una vera e propria autorizzazione discrezionale».
Per effetto
della pronuncia ora ricordata, tutti i detenuti, anche in forza di condanna
definitiva, possono quindi conferire con i difensori senza sottostare né ad
autorizzazioni, né a limiti di ordine “quantitativo” (numero e durata dei
colloqui). All’autorità penitenziaria resta affidata, in correlazione alle
esigenze organizzative e di sicurezza connesse allo stato di detenzione, solo
la determinazione delle modalità pratiche di svolgimento dei colloqui
(individuazione degli orari, dei locali, dei modi di identificazione del
difensore e simili), senza alcun possibile sindacato in ordine all’effettiva
necessità e ai motivi dei colloqui stessi.
3.– Quanto ora rilevato, riguardo all’assenza di restrizioni numeriche e di
durata, vale, tuttavia, per i detenuti “comuni”: non più, attualmente, per i
detenuti soggetti allo speciale regime di sospensione delle regole del
trattamento, disposto dal Ministro della giustizia ai sensi dall’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975.
Tale regime
mira precipuamente a contenere la pericolosità di singoli detenuti proiettata
verso l’esterno del carcere, in particolare impedendo «i collegamenti dei
detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di
queste che si trovino in libertà»: collegamenti che potrebbero realizzarsi
«attraverso i contatti con il mondo esterno», che lo stesso ordinamento
penitenziario ordinariamente favorisce quali strumenti di reinserimento sociale
(sentenza n. 376
del 1997; ordinanze n. 417 del 2004
e n. 192 del 1998).
Si intende soprattutto evitare che gli esponenti dell’organizzazione in stato
di detenzione, sfruttando il normale regime penitenziario, possano continuare
ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere,
anche dal carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione
stessa.
A fronte di tale obiettivo, le
restrizioni costitutive del regime detentivo speciale – precisate per la prima
volta a livello normativo dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli
articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354,
in materia di ordinamento penitenziario) – non potevano non investire anche, e
prima di tutto, la disciplina dei colloqui, i quali rappresentano il veicolo
più diretto e immediato di comunicazione del detenuto con l’esterno. Al
riguardo, il comma 2-quater, lettera b), dell’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975, come modificato dalla citata legge
n. 279 del 2002, prevedeva limitazioni relative alla frequenza (diritto del
detenuto a non meno di uno e non più di due colloqui visivi al mese, con
possibilità di un colloquio telefonico aggiuntivo solo dopo i primi sei mesi di
applicazione del regime), alla qualità degli interlocutori (divieto di colloqui
con persone diverse dai familiari e conviventi, salvo casi eccezionali) e al
luogo di svolgimento (locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di
oggetti), nonché possibili forme di controllo sui contenuti delle conversazioni
(controllo auditivo e registrazione). L’ultimo periodo della citata lettera b) soggiungeva, tuttavia – in chiave di
salvaguardia del diritto di difesa – che le disposizioni da essa dettate «non
si applicano ai colloqui con i difensori». Di conseguenza, anche per i detenuti
soggetti al regime speciale restava fermo il diritto incondizionato a conferire
in modo riservato con il proprio difensore.
4.– La situazione è mutata a seguito della legge n. 94
del 2009, il cui art. 2, comma 25, ha apportato una nutrita serie di modifiche
all’art. 41-bis della legge n. 354
del 1975, dichiaratamente volte – secondo le univoche risultanze dei lavori
parlamentari – ad irrigidire il regime speciale, in ragione della riscontrata
insufficienza delle misure precedenti a contrastare efficacemente il fenomeno
temuto.
A tale operazione di irrigidimento non è
sfuggita la disciplina dei colloqui. La novella ha, infatti, ridotto il numero
dei colloqui personali mensili ad un solo; ha reso obbligatori (anziché
discrezionali) il controllo auditivo e la videoregistrazione; ha stabilito che
i colloqui telefonici possono essere concessi solo se non siano stati
effettuati colloqui personali (e non già in aggiunta ad essi). Ma soprattutto –
per quanto qui interessa – ha modificato l’ultimo periodo della citata lettera b) del comma 2-quater, aggiungendo alla immutata statuizione per cui «le
disposizioni della presente lettera non si applicano ai colloqui con i
difensori» le parole «con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre
volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli
previsti con i familiari»: ossia della durata massima di un’ora, quanto ai
colloqui visivi (art. 37, comma 10, del d.P.R. 30
giugno 2000, n. 230, «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario
e sulle misure privative e limitative della libertà»), e di dieci minuti,
quanto ai colloqui telefonici (terzo periodo della stessa lettera b dell’art. 41-bis, comma 2-quater,
della legge n. 354 del 1975, che replica, in
parte qua, l’art. 39, comma 6, del d.P.R. n. 230
del 2000).
Pur nella singolare articolazione
logico-sintattica del precetto che ne risulta, il senso della norma rimodulata
è chiaro. Ferma restando l’inapplicabilità ai colloqui difensivi delle
disposizioni (valevoli invece per i colloqui con i familiari) che prescrivono
il vetro divisorio, il controllo auditivo e la videoregistrazione, vengono
introdotti per la prima volta dei limiti legislativi di tipo “quantitativo” al
diritto dei detenuti in questione a conferire con i propri difensori: limiti
che appaiono ispirati al sospetto che questi ultimi possano prestarsi a fungere
da intermediari per illeciti scambi di comunicazioni tra i detenuti stessi e
gli altri membri dell’organizzazione criminale di appartenenza.
5.– Le restrizioni in questione, per il modo in cui sono
congegnate, si traducono in un vulnus
del diritto di difesa incompatibile con la garanzia di inviolabilità sancita
dall’art. 24, secondo comma, Cost.
Al riguardo, occorre considerare come si
sia di fronte a restrizioni rigide, indefettibili e di lunga durata: ben
diverse, dunque, da quella resa possibile, in termini generali, dal citato art.
104, comma 3, cod. proc. pen. nei
confronti dell’imputato in custodia cautelare.
A fronte della modifica apportata al
secondo periodo del comma 2-quater
dell’art. 41-bis (in specie, la
sostituzione della locuzione «può comportare» con l’indicativo presente
«prevede»), la compressione del diritto ai colloqui difensivi consegue – al
pari delle altre restrizioni normativamente prefigurate – in modo automatico e
indefettibile all’applicazione del regime detentivo speciale (al riguardo, sentenza n. 190 del
2010) e lo accompagna per tutta la sua durata, fissata ora in quattro anni,
con possibilità di proroga per successivi periodi, ciascuno pari a due anni
(comma 2-bis).
I limiti in questione operano d’altro
canto invariabilmente, a prescindere non solo dalla natura e dalla complessità
dei procedimenti giudiziari (o, amplius, contenziosi) nei quali il detenuto è (o
potrebbe essere) coinvolto e dal grado di urgenza degli interventi difensivi
richiesti, ma anche dal loro numero e, quindi, dal numero dei legali
patrocinanti con i quali il detenuto si debba consultare. L’interpretazione in
tali sensi della norma censurata, prontamente adottata dall’amministrazione
penitenziaria (circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria
del Ministero della giustizia n. 297600-2009 del 3 settembre 2009), risponde,
in effetti, tanto al dato testuale (la norma menziona i «difensori» al plurale
e non fa alcun accenno a un incremento dei limiti in funzione della pluralità
dei procedimenti cui il detenuto sia interessato), quanto alla ratio della novella legislativa del
2009, dianzi evidenziata.
6.– Contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura
dello Stato, la soluzione normativa adottata non può essere giustificata in una
prospettiva di bilanciamento tra il diritto di difesa e interessi contrapposti
di pari rilevanza costituzionale, legati segnatamente alla protezione
dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini nei confronti della
criminalità organizzata.
Questa Corte ha riconosciuto che il
diritto di difesa è suscettibile di bilanciamento con altre esigenze di rango
costituzionale, così che il suo esercizio può essere variamente modulato o
limitato dal legislatore (tra le altre, sentenze n. 173 del 2009,
n. 297 del 2008
e n. 341 del
2006, nonché, con specifico riferimento alla materia dei colloqui dei
detenuti, sentenza
n. 212 del 1997): ciò, tuttavia, a condizione che non ne risulti
compromessa l’effettività, costituente il limite invalicabile ad operazioni del
genere considerato (sentenza n. 317 del
2009), e ferma restando, altresì, l’esigenza di verificare la
ragionevolezza delle restrizioni concretamente apportate (sentenza n. 407 del
1993).
Detti principi valgono in modo
particolare quando si discuta di restrizioni che incidono sul diritto alla
difesa tecnica delle persone ristrette in ambito penitenziario, rese più
vulnerabili, quanto alle potenzialità di esercizio delle facoltà difensive –
come già rimarcato – dalle limitazioni alle libertà fondamentali insite, in via
generale, nello stato di detenzione. Giova, anche a questo riguardo, il
riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale –
nell’ammettere che, in circostanze eccezionali, lo Stato possa limitare i
contatti confidenziali tra una persona detenuta e il suo avvocato – rimarca,
tuttavia, come ogni misura limitativa di tal fatta debba risultare
assolutamente necessaria (tra le altre, Corte europea dei diritti dell’uomo, 27
novembre 2007, Asciutto contro Italia; 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia)
e non debba comunque frustrare l’effettività dell’assistenza legale alla quale
il difensore è abilitato. Tale, infatti, è l’importanza annessa ai diritti
della difesa in una società democratica, che il diritto ad una assistenza
legale effettiva deve essere garantito in tutte le circostanze (Corte europea
dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 2 novembre 2010, Sakhnovskiy
contro Russia).
Nella specie, il contingentamento,
rigido e prolungato nel tempo, dei momenti di contatto tra il detenuto e i suoi
difensori intacca l’anzidetto nucleo essenziale, non essendo possibile
presumere, in termini assoluti, che tre colloqui visivi settimanali di un’ora,
o telefonici di dieci minuti, consentano in qualunque circostanza una adeguata
ed efficace predisposizione delle attività difensive. Nel frangente, si
discute, tra l’altro, di soggetti condannati o imputati per delitti di
particolare gravità e spesso contemporaneamente coinvolti – proprio in ragione
dei ritenuti collegamenti «con un’associazione criminale, terroristica o
eversiva», cui è condizionata la sottoposizione al regime speciale (art. 41-bis, comma 2, primo periodo) – in una
pluralità di altri procedimenti, di cognizione ed esecutivi, particolarmente
complessi. È questo il caso del reclamante nel giudizio a quo, il quale – secondo quanto riferisce il giudice rimettente –
è detenuto in esecuzione di tre diverse sentenze ed è sottoposto a custodia
cautelare in carcere in forza di due provvedimenti restrittivi; pendono,
inoltre, a suo carico altri procedimenti penali per i quali sono decorsi i
termini di custodia cautelare, nonché il procedimento di sorveglianza originato
dall’avvenuta impugnazione del decreto ministeriale di sottoposizione al regime
detentivo speciale. L’eventualità che le tre ore o i trenta minuti settimanali
complessivi di colloquio – pur tenendo conto della concorrente possibilità di
libera corrispondenza epistolare (surrogato con evidenti limiti di
funzionalità) – risultino in concreto insufficienti a soddisfare le esigenze
difensive non può, dunque, considerarsi remota o puramente congetturale.
Significativo, al riguardo, è che la
Corte di Strasburgo – tenuto conto della complessità della singola vicenda
giudiziaria nella quale il ricorrente era coinvolto – abbia reputato lesiva del
diritto all’equo processo una limitazione che presenta significative assonanze
con quella in esame (sentenza
12 marzo 2003, Öcalan contro Turchia, relativa a
fattispecie nella quale erano stati consentiti all’imputato, durante il corso
del processo, solo due colloqui a settimana con i propri difensori, della
durata di un’ora l’uno).
7.– Quanto, poi, al secondo versante – quello della
ragionevolezza delle restrizioni – vale osservare come i colloqui difensivi
abbiano, per definizione, quali interlocutori “esterni” del detenuto, persone
appartenenti ad un ordine professionale (quello degli avvocati), tenute al
rispetto di un codice deontologico nello specifico campo dei rapporti con la
giustizia e sottoposte alla vigilanza disciplinare dell’ordine di appartenenza.
L’eventualità che dette persone, legate
al detenuto da un rapporto di prestazione d’opera professionale, si prestino a
fungere da tramite fra il medesimo e gli altri membri dell’organizzazione
criminale, se non può essere certamente esclusa a priori, neppure può essere assunta ad una regola di esperienza,
tradotta in enunciato normativo: apparendo, sotto questo profilo, la situazione
significativamente diversa da quella riscontrabile in rapporto ai colloqui con
persone legate al detenuto da vincoli parentali o affettivi, ovvero con terzi
non qualificati.
Dirimente è, peraltro, il rilievo che,
quando pure l’eventualità temuta si materializzi, le restrizioni oggetto di
scrutinio non appaiono comunque in grado di neutralizzarne o di comprimerne in
modo apprezzabile gli effetti. Posto, infatti, che i colloqui con i difensori –
diversamente da quelli con i familiari e conviventi o con terze persone –
restano sottratti all’ascolto e alla videoregistrazione, i limiti di cadenza e
di durata normativamente stabiliti sono suscettibili, bensì, di penalizzare la
difesa, ma non valgono ad impedire, nemmeno parzialmente, il temuto passaggio
di direttive e di informazioni tra il carcere e l’esterno, né a circoscrivere
in modo realmente significativo la quantità e la natura dei messaggi che si
paventano scambiabili, per il tramite dei difensori, nell’ambito dei sodalizi
criminosi.
L’operazione normativa considerata
viene, di conseguenza, a confliggere con il principio per cui, nelle operazioni
di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto
fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela
di altro interesse di pari rango. Nel caso in esame, per converso, alla
compressione – indiscutibile – del diritto di difesa indotta dalla norma
censurata non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento della tutela del
contrapposto interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza
dei cittadini.
8.– Va dichiarata, pertanto, l’illegittimità
costituzionale dell’art. 41-bis,
comma 2-quater, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 354
del 1975, limitatamente alle parole «con i quali potrà effettuarsi, fino ad un
massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa
durata di quelli previsti con i familiari».
Le censure riferite agli artt. 3 e 111,
terzo comma, Cost. restano assorbite.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera b),
ultimo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della
libertà), come modificato dall’articolo 2, comma 25, lettera f), numero 2), della legge 15 luglio
2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle
parole «con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla
settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti
con i familiari».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno
2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2013.